Magistratura democratica

Obiettivo carcere: guardando al futuro (con un occhio al passato)

di Marco Ruotolo

La trama della riforma penitenziaria del 1975 è andata logorandosi. Le ragioni vanno rinvenute in resistenze amministrative, normative penali securitarie e demagogiche, politiche sociali deficitarie.  Il coraggio di parte della giurisprudenza (di merito, costituzionale, europea) non è stato assecondato dalla politica. Questo “passato” è la migliore lente per guardare al futuro, nella speranza che il  legislatore sappia ritrovare un pensiero lungo sul tempo e sullo spazio della pena e sappia traghettare il carcere verso il modello costituzionale.

1. La ricorrenza dei quarant’anni dall’approvazione della riforma penitenziaria (legge 26 luglio 1975, n. 354) costituisce senz’altro una buona occasione per riflettere su ciò che è stato fatto per attuare i principi costituzionali in tema di esecuzione della pena e ancor più per riflettere su cosa si può e si deve fare per sintonizzare le lancette del diritto penitenziario alle esigenze e ai bisogni dell’oggi.

L’importanza della grande riforma del 1975 è stata tante volte sottolineata, giustamente rimarcando la distanza dei suoi precetti rispetto a quelli contenuti nel Regolamento penitenziario del 1931 (Rd 18 giugno 1931), a partire dalla disposizione di apertura: «il trattamento penitenziario deve essere conforme a umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona» (art. 1, comma 1, Op). Al centro non è più la dimensione organizzativa dell’amministrazione penitenziaria, ma la persona del detenuto e i suoi diritti, esercitabili entro i limiti consentiti dalle esigenze di ordine e sicurezza connesse allo stato di reclusione. Ciò è immediata conseguenza della pretesa a un trattamento conforme al senso di umanità, che implica, appunto, il necessario rispetto della personalità, della dignità del detenuto. Queste non sono vuote formule, ma statuizioni che implicano l’imprescindibile rispetto e la concreta possibilità di esercizio di tutti i diritti riconducibili al cd “residuo” di libertà del detenuto: «chi si trova in stato di detenzione, pur privato della sua libertà, ne conserva sempre un residuo, che è tanto più prezioso in quanto costituisce l’ultimo ambito nel quale può espandersi la sua personalità individuale» (Corte cost., sent. n. 349 del 1993). E «al riconoscimento della titolarità dei diritto non può non accompagnarsi il riconoscimento della possibilità di farli valere innanzi a un giudice in un procedimento di natura giurisdizionale» (Corte cost., sent. n. 26 del 1999).

Su questi punti fondamentali – che discendono dalla centralità riconosciuta alla persona nell’esecuzione penale – si articola l’intera trama della legge del 1975 e si diramano le molte evoluzioni della giurisprudenza (specie costituzionale) che hanno finito per dare diversa concretezza allo stesso principio della rieducazione del condannato scolpito nell’art. 27 Cost.

Basti pensare che prima della riforma del 1975 il finalismo rieducativo era stato considerato nella giurisprudenza costituzionale come elemento quasi accessorio della pena (sent. n. 12 del 1966), finendo solo nel 1990 per esserne ritenuto aspetto qualificante della sua legittimazione e della sua stessa funzione (sent. n. 313 del 1990). La “tendenza” a rieducare è «una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e l’accompagnano da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue»; «il precetto di cui al terzo comma dell’art. 27 della Costituzione vale tanto per il legislatore quanto per i giudici della cognizione, oltre che per quelli dell’esecuzione e della sorveglianza, nonché per le stesse autorità penitenziarie» (sent. n. 313 del 1990). Il ripensamento della Corte costituzionale sul punto è radicale e per comprenderlo non si può sottovalutare il diverso clima culturale che era venuto maturando a seguito dell’attuazione della riforma. Un clima non facile da realizzare in un contesto nel quale occorreva superare le resistenze alle novità dovute alla stratificazione di pratiche amministrative consolidatesi nel tempo e ispirate ad un modello normativo ben diverso. Tant’è vero che in sede di commento alla riforma, uno dei nostri più grandi penalisti ammoniva circa i rischi dell’effettività rinnegante della normativa penitenziaria, essendo questo «uno dei settori più esposti alle varie pratiche nelle quali, nello Stato di diritto, si realizza l’illegalità ufficiale attraverso la non applicazione e la manipolazione amministrativa delle norme» (Bricola).

Con il contributo di molti illuminati esponenti dell’amministrazione penitenziaria e con lo stimolo decisivo di alcuni arresti giurisprudenziali (questa volta anche europei) si è andato senz’altro formando quel diverso clima culturale che l’orizzonte disegnato dalla Costituzione repubblicana imponeva si realizzasse. Assai minore è stato, invece, il contributo dato dal legislatore, salvo alcuni interventi sulla disciplina dei «benefici penitenziari» (in particolare, leggi n. 663 del 1986 e 165 del 1998) o, più di recente, sul piano della tutela dei diritti (leggi n. 9 e n. 117 del 2014, entrambe di conversione di decreti-legge). Più spesso il legislatore, per rispondere a “emergenze” del momento, quasi sempre alimentate da “singoli” fatti di cronaca, ha optato per inasprimenti sanzionatori o per la creazione di nuove fattispecie penali (abbiamo superato quota 35.000!), contribuendo così a determinare una cronica situazione di sovraffollamento carcerario, per la quale, come è noto, l’Italia ha subito importanti condanne dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (sent. Sulejmanovic c. Italia del 16 luglio 2009, ric. n. 22635/03 e, soprattutto, sent. Torreggiani e altri c. Italia dell’8 gennaio 2013, divenuta definitiva il 28 maggio 2013, ric. n. 43517/09). Ben lontano dall’orizzonte culturale disegnato dalla Costituzione e ispirato al principio del «minor sacrificio necessario della libertà personale», il nostro legislatore si è orientato in misura crescente verso l’uso del carcere come strumento ordinario di repressione penale, da utilizzare anche, in misura massiccia, nella fase precedente la condanna (abuso della custodia cautelare, inteso sia come uso distorto sia come uso eccessivo). Sì è così realizzato il tradimento dei principi del garantismo penale (i quali, come insegna Beccaria, impongono di orientare l’azione politica nella direzione della minimizzazione della risposta carceraria) e il travisamento delle relative traduzioni costituzionali, dimenticando per molto tempo che il famoso terzo comma dell’art. 27 Cost. declina il termine “pena” al plurale, potendo dunque ben essere preferite misure diverse dal carcere per perseguire il fine della rieducazione del condannato, con strumenti senz’altro più consoni a garantire un trattamento conforme al senso di umanità. 

 

 

2. Politiche penali spesso demagogiche, accompagnate da politiche sociali deficitarie hanno determinato non solo un incremento dell’impiego della pena carceraria, ma anche una precisa individuazione dei suoi principali destinatari. Si è parlato, non a caso, del carcere come “discarica sociale”, per riassumere, con due parole, le possibili risposte alle seguenti fondamentali domande: chi, come e perché punire?  In modo più esteso – ovviamente radicalizzando la risposta –: punire gli emarginati della società, con la pena carceraria, perché non si è in grado di includerli!

Sono rilievi, questi, ormai ricorrenti sui quali in molti si sono soffermati. Eviterei di riproporli anche qui, richiamando, per l’ennesima volta, i pronunciamenti europei e le tante volte lamentate violazioni del diritto ad un’esecuzione della pena non disumana. Basti rilevare che a essere messa in discussione, prima ancora che la finalità rieducativa della pena carceraria, è stata l’umanità della stessa. E una pena disumana non può mai essere rieducativa, non può consentire lo sviluppo della personalità se mette in dubbio il presupposto del percorso ossia la considerazione del detenuto come persona.

L’assunzione di questa consapevolezza può essere il vero ponte per il futuro, al quale vorrei ora volgere lo sguardo. Una pena umana, che metta davvero al centro la persona, è una pena che effettivamente può puntare alla rieducazione. Occorre crederci, cercando di dare risposte diverse alle domande prima poste: chi, come e perché punire? Per evitare di fare solo filosofia o meglio di esplicitare quelli che sono gli auspici di un modesto cultore del diritto costituzionale, vorrei provare a riflettere molto rapidamente sulle possibili direzioni politiche del nostro discorso, guardando al recente disegno di legge presentato dal Governo alla Camera dei Deputati il 23 dicembre 2014, che si propone, peraltro, di riformare l’ordinamento penitenziario («Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale per il rafforzamento delle garanzie difensive e la durata ragionevole dei processi e per un maggiore contrasto del fenomeno corruttivo, oltre che all’ordinamento penitenziario per l’effettività rieducativa della pena»).

 

 

3. Le linee per la riforma dell’Op sono delineate negli artt. 24 e 26 del ddl che recano una specifica delega al Governo ad adottare uno o più decreti legislativi entro un anno dall’entrata in vigore della legge.

Tuttavia anche nella prima parte del ddl ci sono disposizioni che ci interessano in quanto propongono risposte alle domande: chi punire? perché punire?

Mi riferisco, in particolare, agli strumenti di deflazione penale – che vanno ad aggiungersi alla cd messa alla prova introdotta dalla legge n. 67 del 2014 – di cui agli artt. 1 e 2 del ddl ove si considerano le condotte riparatorie quali autonome cause di estinzione del reato, sia per delitti lesivi di interessi nella disponibilità del titolare (perseguibili a querela di parte) sia per taluni delitti perseguibili d’ufficio ma in prevalenza lesivi di interessi individuali. L’ambito di applicazione delle predette previsioni potrebbe ampliarsi per effetto dell’art. 6 del ddl, che delega tra l’altro il Governo a estendere il regime di procedibilità a querela per i reati conto la persona e contro il patrimonio che arrechino offese di modesta entità all’interesse protetto (salvo che la persona offesa sia incapace per età o per infermità).

Per quanto riguarda, specificamente, la riforma dell’ordinamento penitenziario, nella relazione di accompagnamento al ddl si sottolinea l’esigenza di una “rivisitazione complessiva” a seguito dei molteplici interventi che hanno in una certa misura compromesso la coerenza e l’organicità dell’intero impianto.

Ai sensi dell’art. 26 del ddl, la riforma dovrà orientarsi sui seguenti criteri direttivi:

a) «semplificazione delle procedure, anche con la previsione del contraddittorio differito ed eventuale, per le decisioni di competenza del magistrato e del tribunale di sorveglianza, fatta eccezione per quelle relative alla revoca delle misure alternative alla detenzione». Si pone qui il problema dell’esigenza di una risposta tempestiva ai “reclami” dei detenuti, nella consapevolezza che, in questo ambito più che mai, una giustizia “ritardata” finisce per essere spesso una giustizia “negata”;

b) «revisione dei presupposti di accesso alle misure alternative, sia con riferimento ai presupposti soggettivi sia con riferimento ai limiti di pena, al fine di facilitare il ricorso alle stesse». L’obiettivo sembra essere quello di spezzare finalmente l’equazione pena=carcere, proseguendo un percorso normativo già avviato e volto a favorire nella misura più ampia possibile il ricorso a sanzioni alternative;

c) «eliminazione di automatismi e di preclusioni che impediscono o rendono molto difficile, sia per i recidivi sia per gli autori di determinate categorie di reati, l’individualizzazione del trattamento rieducativo e revisione della disciplina di preclusione dei benefìci penitenziari per i condannati alla pena dell’ergastolo». Si pone qui, tra l’altro, il tema del superamento del cd ergastolo ostativo, che preclude al condannato anche l’accesso alla liberazione condizionale in caso di mancata collaborazione con la giustizia;

d) «previsione di attività di giustizia riparativa e delle relative procedure, quali momenti qualificanti del percorso di recupero sociale sia in ambito intramurario sia nell’esecuzione delle misure alternative». Il momento “riparativo” viene pertanto ritenuto essenziale anche in vista della restaurazione e ricostruzione del legame sociale interrotto con la commissione del fatto-reato e dunque nella prospettiva del reinserimento sociale del reo;

e) «maggiore valorizzazione del lavoro, in ogni sua forma intramuraria ed esterna, quale strumento di responsabilizzazione individuale e di reinserimento sociale dei condannati». Il lavoro del detenuto viene riguardato in prevalenza come strumento di reinserimento sociale, con possibili implicazioni sulla sua natura giuridica, che potrebbero preludere a un’attenuazione delle garanzie, in funzione dell’ampliamento dell’offerta lavorativa. Qui occorre aver ben presente la tendenza della nostra giurisprudenza costituzionale verso la più completa assimilazione con il lavoro libero (sentt. nn. 158 del 2001 e 341 del 2006), cui potrebbe, in parte, contrapporsi la giurisprudenza della Corte EDU, la quale sembra, invece, attribuire rilievo preminente al suo ruolo in funzione del reinserimento sociale (sent. 7 luglio 2011, Stummer c. Austria);

f) «previsione di un più ampio ricorso al volontariato sia all’interno del carcere, sia in collaborazione con gli uffici di esecuzione penale esterna». Si valorizza finalmente, anche nell’ambito dell’esecuzione penale, il cd principio di sussidiarietà orizzontale (art. 118 Cost.), che d’altra parte ha nei fatti già prodotto i suoi effetti per l’impegno costante del cd terzo settore a favore di detenuti ed ex detenuti;

g) «disciplina dell’utilizzo dei collegamenti audiovisivi sia a fini processuali, nel rispetto del diritto di difesa, sia per favorire le relazioni familiari». C’è da sperare che finalmente si dia corso all’uso di Skype per consentire al detenuto di tenere rapporti più costanti con la famiglia oltre che con il difensore;

h) «riconoscimento del diritto all’affettività delle persone detenute e delle condizioni generali per il suo esercizio». Pur non comprendendosi testualmente il riferimento alla sessualità, c’è da sperare che si colga l’occasione per rimuovere l’ostacolo normativo (art. 18, comma 2, Op, ove si prescrive che i colloqui con i familiari siano soggetti a controllo visivo obbligatorio del personale di polizia penitenziaria), che nel passato ha impedito di introdurre in via regolamentare una disciplina che consentisse rapporti intimi con il coniuge o il convivente del detenuto. Ovviamente si tratterebbe anche di realizzare appositi e idonei spazi ove i predetti rapporti possano tenersi;

i) «adeguamento delle norme dell’ordinamento penitenziario alle esigenze rieducative dei detenuti minori di età». Si tratta di riformare il settore dell’esecuzione penale minorile, per rispondere agli specifici bisogni di questa particolare popolazione detentiva. Un’esigenza che si avverte anche per i cd giovani adulti, ossia per i condannati che, pur avendo compiuto i 18 anni d’età, si trovano in una fase ancora particolarmente delicata della propria crescita.

 

 

4. Di là dai singoli punti fugacemente ripercorsi supra, il ddl non sembra esplicitare una progettualità forte. Questa può desumersi dalla lettura delle singole disposizioni di delega, ma dovrebbe essere più chiaramente accompagnata dalla definizione di principi idonei ad indirizzare l’attività del Governo, con conseguente più puntuale determinazione dei criteri direttivi. E poi: se l’obiettivo vuole essere la riforma dell’ordinamento penitenziario – considerando comunque le previsioni ivi contenute come conquiste non retrocedibili – perché non adottare una delega ad hoc?

Nel contesto di un modello normativo che guardi al carcere come extrema ratio, la disciplina della vita detentiva dovrebbe essere più chiaramente scandita entro le coordinate di una rinnovata idea di spazio e di tempo della pena. Più prosaicamente, sul presupposto che, nel modello detentivo ordinario, le celle sono mere camere di pernottamento (come d’altra parte prevede l’art. 6 della legge n. 354 del 1975, sviluppato dal dPR. n. 230 del 2000, recante il regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario), la quotidianità della vita penitenziaria dovrebbe svolgersi il più possibile fuori dalle sezioni, in luoghi ove si possano esercitare le attività di lavoro e formazione e tenere le c.d. attività di socialità. In uno spazio definito dal muro di cinta (che solo precise e puntuali esigenze di sicurezza può fare “indietreggiare” fino alla camera di pernottamento), il tempo della pena dovrebbe essere scandito da attività (lavoro, formazione, cultura, svago) che permettano al detenuto di responsabilmente “riappropriarsi della vita”, esprimendo la sua personalità, in un processo di autorealizzazione la cui espressione può essere agevolata (mai imposta) dall’istituzione. È questa la cornice entro la quale potrebbe effettivamente garantirsi quel diritto a un’esecuzione della pena non disumana, i cui contorni si sono andati progressivamente definendo con il contributo della giuriprudenza europea e interna (specie costituzionale) e che ormai meriterebbero di essere marcati da precise scelte legislative. È un diritto il cui rispetto impone una riflessione più ampia di quella relativa al cd spazio vitale nella cella per ciascun detenuto, la cui mancata assicurazione ha deteminato la condanna dell’Italia per trattamenti inumani e degradanti in violazione dell’art. 3 CEDU che ne sancisce il divieto. D’altra parte la stessa Corte europea dei diritti dell’uomo, pur rilevando che si ha trattamento inumano e degradante quando tale spazio vitale sia al di sotto della soglia dei 3 mq, ha pure precisato che ove il predetto presupposto sia invece rispettato occorre comunque verificare le più generali condizioni di detenzione (situazione igienico sanitaria, cubatura d’aria, illuminazione, riscaldamento, areazione, ore d’aria e di socialità, ecc.) per poter escludere nel caso concreto la lesione (si veda, ad es., la decisione della Corte EDU del 18 marzo 2010, Kouzmin c. Russia,ric. n. 58939/00).

Anche rispetto a questo fondamentale diritto del detenuto si pone un problema di tutela, alla ricerca della cui soluzione un progetto di riforma dell’ordinamento penitenziario non dovrebbe sottrarsi. Sul punto il discorso non sembra potersi limitare ai pur necessari (e già introdotti) rimedi compensativi, dovendo estendersi alla predispozione di strumenti idonei a porre rapidamente termine a una carcerazione contraria al senso di umanità. La stessa Corte costituzionale, pur dichiarando inammissibile una questione di legittimità costituzionale volta ad inserire tra le ipotesi di rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena (con “addizione” all’art. 147 cp) quella della detenzione destinata a svolgersi in condizioni contrarie al senso di umanità, ha sottolineato che il vulnus sussite ma che spetta al legislatore rimediarvi, essendo diverse le possibili soluzioni normative (sent. n. 279 del 2013). Ma la Corte ha anche precisato che non sarebbe «tollerabile il protarsi dell’inerzia legislativa in ordine al grave problema individuato nella presente pronuncia» e che, ove investita in eventuale successivo procedimento di questioni analoghe, non potrebbe che «adottare le necessarie decisioni dirette a far cessare l’esecuzione della pena in condizioni contrarie al senso di umanità». Come a dire che la discrezionalità del legislatore non può essere rivendicata sul piano dell’an ma solo su quello del quomodo, venendo meno pure quest’ultimo in caso di protrazione dell’inerzia. Perché, allora, non pensare ad un rimedio “estremo” – residuale e di chiusura del sistema – quale quello della cd lista di attesa? Escludendo i reati di particolare gravità, tra i quali quelli contro la persona, il predetto sistema – che dovrebbe seguire l’ordine cronologico dell’emissione delle condanne – implicherebbe, ove la detenzione sia destinata, con riferimento allo specifico caso, a svolgersi in condizioni contrarie al senso di umanità, la conversione dell’ordine di esecuzione della pena carceraria in obbligo di permanenza presso il domicilio (o altro luogo indicato dal condannato) con relative eventuali prescrizioni stabilite dal giudice dell’esecuzione. In alternativa, si potrebbe intervenire su una delle disposizioni che disciplinano le misure alternative alla detenzione o, perfino, sullo stesso art. 147 cp, al dichiarato fine di affermare – sulla scia di soluzioni praticate (Corte suprema degli Stati Uniti, Brown v. Plata, 23 maggio 2011) o indicate come possibili (Tribunale costituzionale tedesco, ord. 22 febbraio 2011, 1 BvR 409/11) da alte Corti di altri Paesi – la necessità della rinuncia alla (o del rinvio della) esecuzione della pena quando nelle condizioni date di sovraffollamento questo si tradurrà in trattamento inumano.

Il disegno di legge di delega non apre alcuno spiraglio in questa direzione, così come non sembra permettere (limitandosi a consentire la “semplificazione delle procedure” per le decisioni della magistratura di sorveglianza) interventi correttivi dei tanti problemi applicativi posti dai recenti interventi normativi riguardanti la tutela dei diritti dei detenuti (interpretazioni dell’art. 35 ter Op; liberazione anticipata speciale e questioni di diritto intertemporale; “risarcimenti” per detenzione contraria al senso di umanità).

 

 

5. Definito in modo più chiaro l’asse attorno al quale dovrebbe ruotare la riforma (ovviamente non necessariamente nei termini sopra indicati), la pretesa di rispondere ai bisogni dell’oggi avrebbe dovuto estendersi ad altri ambiti, non lambiti, invece, dalla legge di delega, tra i quali quello, delicatissimo, che riguarda la particolare posizione dello straniero detenuto. Sorprende il mancato richiamo alle Regole penitenziarie europee del Consiglio d’Europa (versione del 2006) e alla Raccomandazione del 2012 riguardante gli stranieri, nonostante l’implementazione dei principi contenuti in questi documenti sia spesso annunciata come priorità per il nostro Paese, anche al fine di evitare l’esposizione a condanne da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo.

Solo in parte si tiene conto di quelli che sono i tre punti fondamentali per l’avvio o il consolidamento di un processo di cambiamento che intenda realmente promuovere una migliore qualità della vita negli istituti penitenziari: lavoro e formazione; salute (introduzione della cartella medica digitale, tra l’altro); partecipazione dei detenuti nell’ottica della loro responsabilizzazione. Solo sul primo di questi temi vi è, in astratto, possibilità di intervento. Ma i principi e i criteri direttivi appaiono evanescenti, salvo la precisazione contenuta nel documento del Governo recante l’analisi tecnico-normativa ove si legge che l’incentivazione della potenzialità rieducativa del lavoro durante il periodo di detenzione avverrà «anche con il ricorso a prestazioni d’opera al di fuori del rapporto di lavoro classicamente inteso, collegate a forme di volontariato». Nulla in ordine all’esigenza di una diversa disciplina dell’assegnazione al lavoro (che limiti il ricorso alla “rotazione” dei detenuti, oggettivamente proponibile solo per alcune attività, quali quelle di pulizia), nulla circa l’avvertita necessità di una valorizzazione della Commissione di cui all’art. 20 Op competente per le decisioni circa l’inserimento del detenuto in attività lavorativa, punti che si spera possano comunque trovare spazio nella fase di attuazione della delega.

Probabilmente proprio dalla disciplina del lavoro potrà emergere l’idea di pena che ispira il Governo. Un’idea che non si riesce a trarre in modo chiaro dalla pur apprezzabile delega per le modifiche all’ordinamento penitenziario. In cosa possa consistere «l’effettività rieducativa della pena», cui rimanda il titolo del ddl, ce lo diranno, insomma, i decreti delegati, sempre che in sede parlamentare, come sperabile, non si riescano a meglio definire i contorni della delega stessa.

La riforma deve guardare al futuro con un occhio rivolto al passato, per non ripetere gli errori fatti e per cercare soprattutto di rispondere ai bisogni della popolazione detentiva, talora emersi in via giurisprudenziale ma ancora privi di una precisa risposta normativa. Ad avvantangiarsene potranno essere non soltanto i detenuti, ma anche l’intera collettività, essendo comprovato da diversi studi il sensibile calo della recidiva per quei soggetti che, pure in vinculis, abbiano avuto la possibilità di svolgere la propria personalità attraverso attività “responsabilizzanti” (di lavoro, di studio, di formazione, artistiche o culturali in genere) in un contesto davvero rispettoso del loro diritto a un’esecuzione della pena non disumana.