Se giudicherai da buon borghese, li condannerai a cinquemila anni più le spese
Questo sarebbe il destino di “ladri e assassini”, per dirla con Fabrizio De Andrè, se qualcuno, e primo fra tutti il volontariato in carcere, non facesse un paziente lavoro di informazione per accorciare la distanza fra la società e le sue galere.
«La finalità del reinserimento sociale dei condannati e degli internati deve essere perseguita anche sollecitando ed organizzando la partecipazione di privati e di istituzioni o associazioni pubbliche o private all’azione rieducativa» (Art.17 Op.)[1].
Sono una volontaria “ex articolo 17”, che poi è quell’articolo dell’Ordinamento penitenziario che parla di «Partecipazione della comunità esterna all’azione rieducativa».
Parto allora da questo articolo, e dal verbo DEVE: l’Amministrazione penitenziaria DEVE coinvolgere nell’azione rieducativa il mondo esterno, «privati, istituzioni o associazioni pubbliche o private». E questo è un buon punto di partenza, che il legislatore attento di quarant’anni fa aveva voluto sottolineare con forza: non ci può essere rieducazione se non si coinvolge la società, se non le si aprono le porte del carcere.
1. Il Volontariato e il valore del confronto (ovvero, Riprendiamoci la rieducazione)
Da quando faccio volontariato in carcere, ho sentito tanti operatori prendere le distanze dal termine “rieducazione”, preferendogli parole come risocializzazione e reinserimento, e per un lungo periodo ho sostenuto anch’io che “rieducazione” è una parola superata, ma poi ho cominciato ad apprezzarla e a darle un senso. Qualche anno fa, nella Casa di reclusione di Padova, la redazione di Ristretti Orizzonti, il giornale realizzato da detenuti e volontari che dirigo, ha organizzato un convegno dal titolo «Il senso della rieducazione in un Paese poco educato»: ecco, il punto è proprio questo, per poter pensare di “rieducare” le persone detenute bisogna prima che lo Stato, le istituzioni, la società abbiano la capacità di capire che lo strumento educativo più efficace è l’esempio, e che è difficile, e in fondo paradossalmente contraddittorio pensare di reinserire una persona nella società, di insegnarle a ricostruire il patto sociale violato, tenendola però fuori da quella stessa società. Ricordo che un detenuto della mia redazione, Elton K., per spiegare il senso di spaesamento che si prova quando si esce dal carcere dopo una lunga pena, aveva detto «sono stato via dal mondo per quindici anni». Noi, e con noi intendo quelle associazioni di volontariato che si pongono il problema di ripensare in modo critico alla rieducazione, lavoriamo allora per “ridurre il danno del carcere”, che vuol dire pensare a un carcere (là dove non si possa proprio sostituirlo con pene alternative) il più aperto e trasparente possibile, dove la società possa entrare, confrontarsi, insegnare e imparare, un carcere che almeno “assomigli un po’” al mondo, perché le persone quando ne escono non si sentano del tutto inadeguate.
2. Il Volontariato e la sconfitta delle passioni “tristi”
Una persona che deve essere “rieducata”, o meglio accompagnata a una riflessione sulla responsabilità, difficilmente riuscirà a mettere in discussione le sue scelte passate se si trova a vivere in un carcere che non fa altro che riprodurre l’ambiente in cui è vissuta quando era in libertà. Se parliamo infatti di persone finite in carcere per una sorta di scelta, per aver trascorso anni nell’illegalità (in un incontro con le scuole un detenuto di 39 anni confessava agli studenti di aver lavorato in tutto, nella sua vita, per due settimane), è difficile pensare che queste persone abbiano avuto a lungo nella loro esistenza degli esempi positivi, degli stimoli a cambiare. E difficile è anche pensare che li possano trovare in carcere, per lo meno in tutte quelle carceri dove nelle sezioni dominano il vuoto culturale, i discorsi “da bar e da galera”, la fuga da qualsiasi tema doloroso, l’illusione di poter uscire presto e riprendersi tutto quello che si è perduto. La sfida è allora sfruttare tutti gli spazi possibile per aprire il carcere e “contaminarlo” con la forza dell’esempio: esempio di persone che entrano e oppongono a tante “passioni tristi” come i soldi, la “bella vita”, le macchine, le COSE, la forza di altre passioni, quelle che possono riempirti la vita come il volontariato e l’impegno sociale. Ma anche le passioni come la scrittura, nella quale Lorenzo S., detenuto con fine pena 2037, sta ritrovando la forza di rovesciare la sua vita: «Continuo a scrivere perché ho scoperto una passione per la riflessione, l’idea che ci si può fermare a pensare, la scrittura, e questo straordinario mezzo mi sta aiutando a proseguire nella mia detenzione, anche se non so se ci sarà qualcuno che saprà riconoscermi di essere un uomo diverso da quel ragazzo che ero una volta».
3. Il Volontariato CON e PER
L’Ordinamento Penitenziario dedica l’articolo 17 alla «Partecipazione della comunità esterna all’azione rieducativa» e l’articolo 78 agli «Assistenti volontari»[2], che hanno come compito principale di «partecipare all’opera rivolta al sostegno morale dei detenuti e degli internati». L’articolo 78 prevede una attività più individuale, e si presta molto a una idea di volontariato più tradizionale, quella che io definisco “fare delle azioni PER”, quindi sostenere soggetti svantaggiati come possono essere quelli a cui il volontariato tradizionalmente dedica il suo impegno. È vero che la persona detenuta si trova in una condizione di svantaggio, ma è però altrettanto vero che è un soggetto svantaggiato più complesso, che a volte (non sempre) ha delle pesanti responsabilità nel trovarsi in quella condizione. A questo si aggiunge il fatto che il carcere strutturalmente tende a trasformare in vittime gli autori di reato: è naturale, è umano infatti che una persona che entra in galera per aver commesso un reato, e si vede garantire sempre più raramente condizioni di detenzione decenti, finisce per pensare sempre meno al suo reato e sempre di più ai suoi diritti negati. Assistere queste persone cercando di dare risposte ai loro bisogni è una cosa importante, e vi sono in Italia migliaia di volontari che lo fanno; io ho scelto l’altra strada, quella di essere parte della comunità esterna che entra in carcere e che sceglie di fare un percorso CON le persone detenute. Questa scelta ha degli aspetti particolarmente interessanti: il primo, forse il più importante, è che costringe le persone detenute a prendersi in mano il proprio destino, e a capire che un percorso di cambiamento è possibile solo se le persone si abituano da subito, durante la carcerazione, a mettere in discussione le scelte passate e a occuparsi in prima persona di dare un indirizzo nuovo alla propria vita. Il secondo aspetto da prendere in considerazione è, anche qui, la forza dell’esempio: vedere infatti delle persone come i volontari dedicare il loro tempo, la loro energia e la loro intelligenza ad aiutare altri esseri umani è interessante, perché fa capire che l’impegno sociale può rendere ricca di relazioni e di interessi la vita delle persone ben più di tutto quello che si può realizzare con i soldi raccolti commettendo reati «contro il patrimonio».
Non sono certo esempi facili, quelli dei volontari, perché la gratuità della loro attività suscita meraviglia e a volte scarsa considerazione: chi ha scelto infatti la strada dei soldi “veloci” (non parlo naturalmente di chi ruba per necessità, o perché ha bisogno della droga) fatica a capire che si possono mettere a disposizione degli altri il proprio tempo e le proprie capacità senza un vantaggio economico. “L’altro” spesso non fa parte dell’orizzonte di chi cerca scorciatoie per fare soldi in fretta: racconta Erion C., che sta trascorrendo in carcere gli anni più significativi della sua giovinezza, che quando andava a fare reati «la testa non la voltavo mai indietro per osservare ciò che provocavo agli altri e a quelli che mi amavano».Ecco, fare volontariato in carcere e “trascinare” anche chi è detenuto a rendersi utile ai suoi compagni GRATUITAMENTE è un’altra bella sfida.
4. Il Volontariato per costruire una società più sensibile
Scriveva Fabrizio De Andrè in una sua canzone, a proposito di ladri e assassini «Se tu penserai, se giudicherai da buon borghese, li condannerai a cinquemila anni più le spese». In fondo, non è purtroppo una frase “esagerata”, anzi è esattamente il contrario, se si pensa che lo Stato scrive per il fine pena degli ergastolani l’anno 9999. È facile augurarsi pene sempre più severe finché restiamo tutti convinti che i reati li commettono esclusivamente “gli altri”, i cattivi. Ma se cominciamo a non essere così sicuri di appartenere per definizione alla categoria dei buoni, se ci viene il dubbio che potremmo anche noi trovarci dall’altra parte, dalla parte appunto dei cattivi, allora può davvero iniziare una riflessione profonda sulle pene, e sul senso che dovrebbero avere. Il volontariato deve darsi seriamente il compito di sensibilizzare la società su questi temi, e deve farlo a partire dalle scuole, perché con gli studenti può raggiungere un duplice obiettivo: da una parte, smontare i loro pregiudizi facendogli capire che dietro i reati ci sono comunque persone con storie complesse e non riducibili all’atto che hanno commesso, dall’altra lavorare sulla prevenzione. Nella nostra esperienza infatti, i ragazzi partono spesso dall’idea del «perché non ci hai pensato prima? », nella assoluta convinzione che a loro non capiterà mai di avere certi comportamenti perché sono persone educate al bene e capaci di sceglierlo sempre. Poi ascoltano le testimonianze delle persone detenute e si accorgono che il reato non è sempre la conseguenza di una scelta, e che a volte ci si arriva per un lento SCIVOLAMENTO in comportamenti sempre più a rischio. E cominciano a mettere in crisi le loro certezze.
Da parte loro le persone detenute di fronte agli studenti si sentono come se avessero davanti i loro figli, e provano a raccontarsi con sincerità, e la loro esperienza negativa traggono la forza di metterla al servizio dei ragazzi dandole così un senso, come racconta Carmelo M., ergastolano «In questo ultimo anno e mezzo, tramite il progetto “Scuola e Carcere”, davanti a questi ragazzi per la prima volta incredibilmente mi sono sentito colpevole delle scelte sbagliate che ho fatto in passato, cosa che non mi è mai accaduta davanti ai giudici, davanti ai politici, davanti a un carcere spesso disumano. Invece quando rispondo alle domande degli studenti mi sembra di avere davanti i miei figli e di dover rispondere a cuore aperto: non ho alibi davanti a loro».
5. Il Volontariato e l’informazione
Il volontariato non deve sottovalutare il peso che ha l’informazione nel creare nella società un clima di paura e nel formare un’opinione pubblica sempre più propensa a vedere la pena come vendetta sociale. Succede invece spesso che le associazioni di volontariato ritengano prioritaria l’attività di sostegno alle persone detenute e releghino in secondo piano il compito di informare sulla realtà delle pene e del carcere. O, se lo fanno, scelgono spesso la strada dei ”santini”, del racconto delle belle iniziative che spesso rischiano di dare un’idea parzialissima di una realtà complessa come quella del carcere, che è fatta di esperienze anche di eccellenza (chiamate spesso “isole felici”, definizione davvero sbagliata, non esistono galere con qualcosa di “felice”) a fianco di zone grigie di miseria e negazione dei diritti. E invece non può che essere il volontariato stesso a lavorare per “smontare” le notizie, per rendere le carceri più trasparenti e per far emergere la complessità delle narrazioni delle persone detenute da contrapporre alle semplificazioni che portano tanto facilmente alla creazione del “mostro”.
La redazione di Ristretti Orizzonti, così come fanno altre esperienze di giornali dalle carceri, mette al centro del suo lavoro le testimonianze, proprio per proporre all’attenzione dei suoi lettori le diverse facce di una realtà complicata come quella del reato. E queste testimonianze le mette al centro anche di seminari di formazione, organizzati in carcere per giornalisti con l’idea di “educarli” a una conoscenza meno superficiale dell’esecuzione della pena. All’ultimo, dal titolo, tratto da Luigi Pirandello, «Prima di giudicare la mia vita metti le mie scarpe», hanno partecipato 130 giornalisti, per spiegarne l’importanza proponiamo parte di una riflessione che ci è arrivata da un “cronista di nera pentito”: «È stato un incontro che mi ha aperto gli occhi su molti miei pregiudizi, sono andato a rivedermi alcuni articoli di nera da me scritti in questi anni e ho scoperto di aver spesso trattato l’argomento da un unico punto di vista, quello delle vittime. Disinteressarsi completamente dell’aggressore, del condannato, paragonandolo al diavolo, a un tumore di cui la società deve disfarsi seppellendolo in un carcere da dove non uscirà mai, è facile e accontenta il lettore. Ma non da quell’informazione giusta e al di sopra delle parti che sono tenuto a dare».
6. Il volontariato e le vittime
Se la pena ha un senso in quanto dovrebbe indurre le persone che hanno commesso un reato ad assumersene la responsabilità, e a ricostruire quel percorso, che ha portato le loro vite a deragliare, allora dobbiamo anche ragionare se davvero il carcere aiuta a diventare persone più responsabili. Certo ancora non riusciamo, almeno per i reati più gravi, di effettivo pericolo sociale, a rinunciare al carcere, cerchiamo però almeno di non dimenticarci che un carcere “cattivo” rovescia i destini e fa sentire vittime i “carnefici”. Per evitare questo confondersi assurdo di ruoli l’impegno del volontariato deve essere teso ad aprire per quanto possibile il carcere e a renderlo luogo “comunicante” con il mondo, come ci ha scritto con grande lucidità un nostro lettore, Alberto V., “pluriderubato”: «Quello che mi ha spinto a mettermi in contatto con voi è stata la presa di coscienza che questi due mondi non devono essere completamente separati, ma in qualche modo comunicanti, altrimenti voi rimarrete sempre ladri e noi sempre derubati».
Nella storia di Ristretti Orizzonti, la sfida più importante è stata quando, nel 2008, nella giornata di studi «Sto imparando a non odiare» si è deciso di far parlare SOLO le vittime. Quanto sia stata sconvolgente per le persone detenute questa esperienza lo racconta uno di loro, Milan G. «Ero seduto in prima fila, emozionato, e con un po’ di vergogna aspettavo l’inizio delle testimonianze che sarebbero state fatte dalle vittime. Credo che sia stata importante la decisione di dare a loro e solo a loro la parola, mentre noi siamo stati per tutto il tempo in silenzio ad ascoltarle. Così, quando hanno iniziato a raccontarci le loro storie, sembrava che per la prima volta tutto il carcere si fosse fermato in un reverente silenzio (…) Mi aspettavo persone arrabbiate o accecate dall’odio, ero preparato a vederle scagliarsi contro di noi, aggredendoci verbalmente e persino insultandoci. Invece ci hanno sorpresi dandoci un grande esempio di civiltà». Da allora, la consapevolezza che nella testa e nel cuore di chi è detenuto incide di più un incontro con persone che hanno subito un reato che non anni di “carcere cattivo”, ha contribuito a costruire un percorso di “verità e riconciliazione” che ha avuto le tappe più significative nel confronto serrato con tante vittime del terrorismo. Ma non meno importanti sono state le testimonianze di studenti o insegnanti che hanno raccontato di aver subito furti o scippi o altri «reati contro il patrimonio»: perché gli autori di questi reati tendono sempre a minimizzare la loro responsabilità, e a non vedere se non il danno materiale provocato. E invece, chi ti racconta di aver trovato i ladri in casa ti spiega anche che la PAURA non dura quanto dura il reato, ma distrugge la sicurezza e la serenità di chi l’ha subita, che da quel giorno non potrà più essere la stessa persona.
Ho sentito per anni parlare di “revisione critica del passato deviante”, ho visto detenuti scrivere ai magistrati lettere sincere e altre del tutto strumentali, però ho visto anche un giorno un’insegnante che ha raccontato la sua esperienza come vittima di una rapina in banca, e nella riflessione che ha fatto Sandro C., rapinatore più volte recidivo, ho trovato finalmente traccia di una revisione critica vera: «Quell’insegnante ha descritto il suo stato d’animo quando era in ostaggio del rapinatore, i pensieri che le passavano per la testa e il timore di morire… per una volta mi sono trovato dall’altra parte di un’arma e sono stato davvero male».
7. Il volontariato e un’idea diversa di pena
È la società che entra dentro il carcere che può stimolare a ragionare su un’idea diversa di giustizia e di pene. E lo può fare perché ha la libertà di uscire dagli schemi, di confrontarsi, di sperimentare percorsi nuovi, che in qualche modo portino allo scoperto due “modelli” di detenzione radicalmente diversi: quello, tante volte evocato da un’informazione che parla alla pancia dei suoi lettori, del “marcire in galera fino all’ultimo giorno”, la “pena rabbiosa” di chi passa la sua carcerazione ad “ammazzare il tempo” in sezione, parlando dell’avvocato che non viene mai e del giudice che ti ha massacrato con una condanna mostruosa. Una pena a cui bisognerebbe contrapporre la “pena riflessiva”che ti porta per mano a ragionare sul male fatto, a smontare i tuoi alibi e metterti spietatamente di fronte alla nuda verità del tuo reato, come emerge dalla testimonianza di un giovane detenuto, finito in carcere per un omicidio in una rissa, Qamar A.: «Quando sono entrato in carcere, ho visto l’ambiente, la desolazione, e il cambiamento è arrivato subito in me, ma un cambiamento in peggio, perché cercavo solo di sopravvivere in queste condizioni, e questo tipo di carcerazione non fa capire mai perché sei qui e cosa hai fatto, diventi tu la vittima. E cominci a provare solo cattiveria nei confronti di chi rappresenta l’istituzione, in particolare gli agenti che ti chiudono e ti trattano come un bambino irresponsabile. Quindi io non pensavo mai al mio reato, non volevo pensare che avevo causato la morte di una persona, ragionavo in questo modo, che io “mi ero difeso” da una aggressione, era normale».
Oggi poi la sfida a riflettere su una idea di pena diversa può trovare spazi nuovi in questi primi “timidi” percorsi di pene alternative, come quelle previste per i reati del Codice della strada. Per le persone, condannate perché sorprese a guidare in stato di ebbrezza, la pena detentiva può essere infatti sostituita con quella del lavoro di pubblica utilità. La nostra associazione dà la possibilità alle persone che hanno commesso questi reati di svolgere il lavoro di pubblica utilità facendo volontariato in carcere, quindi “assaggiando il carcere” da volontari dopo aver rischiato di farlo da detenuti. Ed è interessante perché spesso questo volontariato un po’ “forzato” si è trasformato in una esperienza di vita di grande spessore e valore formativo, come ha raccontato Claudio T. «Dovevano essere lavori in cui io mi rendevo utile alla società, ma ho incontrato persone e fatto esperienze che hanno dato sicuramente di più a me di quello che ho dato io.Mi hanno aiutato a riflettere e a cambiare prospettiva su un mondo a volte dimenticato come quello del carcere».
8. Il volontariato, per i diritti e la dignità
Tutto il sistema dell’esecuzione delle pene è basato sui “benefici”, ma il concetto di beneficio è veramente lontano da una idea seria di responsabilità. Battersi perché si parli invece finalmente di diritti, e del fatto che tutte le restrizioni all’esercizio dei diritti, che non siano puntualmente giustificate da esigenze di ordine e sicurezza, devono ritenersi contrarie a quanto previsto dall’art. 27 della Costituzione, è compito di quella società civile che intenda dimostrare “concreto interesse per l’opera di risocializzazione dei detenuti” (art. 17 Op.).
Bisogna però davvero entrare in carcere non con l’idea di essere volontari per una cortese “concessione” dell’Amministrazione penitenziaria, ma con la voglia di mettere al centro delle proprie iniziative una battaglia culturale per il riconoscimento dei diritti e della dignità delle persone detenute. Diritti e dignità che passano per un allargamento delle maglie strette della legge penitenziaria su temi come quello degli affetti, che oggi sono compressi in maniera inaccettabile, come emerge dalla testimonianza di Clirim B.: «Con queste restrizioni ho passato circa sei anni, mi manca poco per diventare un uomo libero ma oggi sono un uomo solo, perché questi tempi così miseri delle telefonate e dei colloqui hanno impedito ai miei famigliari di farmi partecipe dei loro problemi, e anche di dirmi quanto li avevo fatti soffrire con i miei comportamenti». E proprio per questo desolante quadro, di un carcere che, invece di sostenere le famiglie e gli affetti, spesso indebolisce i legami affettivi e distrugge le relazioni, è altrettanto desolante che il volontariato non sappia spesso andare al di là di un importante e paziente lavoro per rendere un po’ meno squallide le condizioni in cui le persone detenute incontrano i loro cari. Perché è davvero imperdonabile non mettere insieme le risorse, che sono realmente tante, parliamo di circa ottomila volontari in ambito penitenziario, per impegnarsi in una grande campagna di informazione e di sensibilizzazione, e anche di pressione per cambiare l’Ordinamento penitenziario alla voce «Rapporti con la famiglia».
Una voce davvero misera che dice «Particolare cura é dedicata a mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti e degli internati con le famiglie» e poi traduce quella “particolare cura” in sei ore al mese di colloquio e dieci minuti a settimana di telefonata. Un modo non per costruire, ma per distruggere anche quello che dovrebbe essere il legame più importante in assoluto, l’amore tra una madre e un figlio, come racconta Doina M., detenuta: «Mio figlio piccolo mi ha detto direttamente che lui non mi conosce, non sa come sono, cosa penso, perché non posso parlare di più con lui».
9. Il volontariato e il coraggio delle battaglie impossibili
Ergastolo ostativo e regime del 41 bis: sono temi che quasi nessuno si azzarda a toccare, perché la prima accusa che si sente fare chi esprime anche solo dei dubbi sulla loro legittimità costituzionale è di non combattere con sufficiente determinazione la mafia.
Impegnarsi a dar voce alle testimonianze che arrivano dai gironi infernali del 41 bis è allora una tappa importante di una attività di volontariato che non deve avere timidezze e paure. Noi l’abbiamo sperimentato con gli studenti, che anche le esperienze più dure e più estreme, se hanno la forza della verità, se non si perdono a cercare alibi ma affrontano senza timidezze il tema della responsabilità, riescono ad arrivare alla testa e al cuore dei ragazzi. Come è successo con la storia di Biagio C., e dei suoi terribili dieci anni di 41 bis: «Ho passati dieci lunghi anni in quel regime di tortura del 41bis area riservata, le mie giornate erano sempre quelle, tristi, buie, nei primi tempi pensavo ai ricordi dei momenti che avevo passato con la famiglia, nel tempo però questo mi portava depressione, panico, ansia, e infatti, con tutti gli psicofarmaci assunti per cercare di sconfiggerla o attenuarla, sono arrivato a pesare 140 chili. Non capivo che mi chiudevo sempre più in me stesso, anche quando i miei figli venivano al colloquio, non volevo più parlare, anzi speravo che finisse subito, per scappare in cella, mi ero creato il mio mondo. Mi ricordo che costruivo delle palline di carta per giocare a terra tipo carambola, ero arrivato al punto che non chiedevo più niente, facevo solo dei gesti se volevo qualcosa, non mi ero accorto che avevo perso la parola, il dialogo».
[1] Art. 17 Op: Partecipazione della comunità esterna all’azione rieducativa. La finalità del reinserimento sociale dei condannati e degli internati deve essere perseguita anche sollecitando ed organizzando la partecipazione di privati e di istituzioni o associazioni pubbliche o private all’azione rieducativa.
Sono ammessi a frequentare gli istituti penitenziari con l’autorizzazione e secondo le direttive del magistrato di Sorveglianza, su parere favorevole del direttore, tutti coloro che avendo concreto interesse per l’opera di risocializzazione dei detenuti dimostrino di potere utilmente promuovere lo sviluppo dei contatti tra la comunità carceraria e la società libera.
Le persone indicate nel comma precedente operano sotto il controllo del direttore.
[2] Art. 78 Op: Assistenti volontari. L’amministrazione penitenziaria può, su proposta del magistrato di sorveglianza, autorizzare persone idonee all’assistenza e all’educazione a frequentare gli istituti penitenziari allo scopo di partecipare all’opera rivolta al sostegno morale dei detenuti e degli internati, e al futuro reinserimento nella vita sociale.
Gli assistenti volontari possono cooperare nelle attività culturali e ricreative dell’istituto sotto la guida del direttore, il quale ne coordina l’azione con quella di tutto il personale addetto al trattamento.
L’attività prevista nei commi precedenti non può essere retribuita.
Gli assistenti volontari possono collaborare coi centri di servizio sociale per l’affidamento in prova, per il regime di semilibertà e per l’assistenza ai dimessi e alle loro famiglie.