Ripensare il carcere, dall’ottica della differenza femminile
Uno sguardo nuovo su “tutto†il carcere dall’ottica della soggettività femminile, per uscire dalle ambiguità di un trattamento penitenziario sempre in bilico tra approcci retributivi e prospettiva correzionale. Può essere la via per sperimentare un sistema penitenziario che trasformi i corpi da custodire e la anime da salvare in soggetti responsabili e che alla logica dei premi sostituisca quelli dei diritti.
Le donne in carcere sono dimenticate, si dice, più di quanto non lo sia l’universo maschile che affolla i penitenziari. É certamente vero che l’attenzione delle amministrazioni è da sempre rivolta ai detenuti, di gran lunga preponderanti per numero e “spessore criminale”, come si usa dire. Ed è noto che la ricerca contemporanea sul diritto penale e sul carcere ha largamente ignorato le donne. Eppure, il carcere femminile ha avuto un ruolo importante nell’evoluzione storica della carcerazione (per donne e per uomini): la questione di quale punizione sia adatta alle donne e quale agli uomini è stata oggetto di confronto sin dagli inizi dell’ottocento e ha influenzato la dialettica fra diversi modelli di pena, più di quanto sia emerso nella ricerca e nel dibattito criminologici.
1. Donne e giustizia criminale: un approccio “radicalmente differente”
Il documento più approfondito in merito alla questione criminale femminile, è il recente Corston Report, pubblicato nel 2007 e oggetto di revisione nel luglio 2013 dal Comitato Giustizia della Camera dei Comuni[1]. Si tratta del rapporto che la baronessa Corston, a capo di una speciale commissione, ha presentato al Parlamento del Regno Unito su incarico del segretario di Stato.
Da notare il contesto in cui l’iniziativa si colloca: la commissione fu insediata dopo che sei donne si erano uccise nello stesso penitenziario di Styal, nel breve arco di tredici mesi. Il Coroner che conduceva le inchieste sui suicidi scrisse “di aver visto un gruppo di individue malandate, che hanno perlopiù compiuto reati di poco conto e per le quali il carcere rappresenta una pena sproporzionata”.
Questa citazione introduce al quesito circa l’oggetto stesso della commissione Corston. Si tratta di indagare sulle donne come soggetto debole e particolarmente vulnerabile? Oppure su uno specifico gruppo di donne affette da particolari problemi e vulnerabilità? In altri termini, il rapporto vuole approfondire la differenza di genere in carcere? Oppure si occupa di quelle donne “malandate” che hanno compiuto reati minori e per le quali il carcere non sarebbe la risposta giusta?
Non è questione da poco. Se si sceglie la prima ipotesi, accomunare la differenza femminile alla vulnerabilità presenta non pochi problemi, come si vedrà. Se si opta per la seconda ipotesi, occorre meglio chiarire in quali termini la differenza femminile possa entrare in gioco, visto che in genere il problema delle donne “malandate” e autrici di reati minori è affrontato in maniera non dissimile che per i tanti detenuti “malandati”. In parole povere, saremmo di fronte al famoso “carcere dei poveracci”, o per maggiore precisione, al “carcere dei poveracci e delle poveracce”, che – per inciso – non ha sinora trovato soluzione né in Gran Bretagna né altrove, nonostante le molte denunce.
Il rapporto Corston sembra oscillare fra diverse ipotesi. Non è utile – spiega la Baronessa – continuare a vedere le donne come «vulnerabili» o «con scarse risorse», per non correre il rischio di etichettarle come «cittadine di serie B». Meglio parlare di donne «con particolari vulnerabilità». E il rapporto non rinuncia all’ottica di genere, raccomandando un «distinto, radicalmente differente approccio centrato sulla donna». L’obiettivo esplicito è di eliminare «la discriminazione di genere» e promuovere l’uguaglianza tramite la differenza, secondo lo Equality Act (la legge per promuovere le cosiddette azioni positive in tutti i campi della società e della vita istituzionale)[2]. La ratio della nuova uguaglianza di genere è enunciata con chiarezza: ci sono fondamentali differenze fra uomini e donne che hanno compiuto reati e che sono a rischio di compierli, «tali da suggerire differenti servizi e differenti politiche per uomini e donne»[3].
L’ambiguità fra le donne «come soggetto vulnerabile» e le donne «con particolari vulnerabilità» ricompare nell’identificazione del target. Le particolari vulnerabilità enumerate coprono un arco davvero vasto dell’esperienza umana: si spazia dalle circostanze domestiche (violenza domestica, cura dei bambini, essere madri single), alle circostanze personali (malattia mentale, scarsa autostima, disordini alimentari, uso di sostanze psicoattive), ai fattori socioeconomici ( povertà, isolamento e disoccupazione).
Perciò alla fine, nonostante la proclamata cautela nel non volere etichettare le donne come “soggetto debole”, proprio di questo si parla. Peraltro, l’accento esclusivo sulla debolezza e vulnerabilità è inevitabile, se l’ottica prescelta è quella del superamento delle discriminazioni. In altre parole, i “punti forza” della differenza femminile difficilmente possono rientrare nell’ambito della strategia istituzionale di azioni positive per superare il gap di uguaglianza. A riprova della lente “deficitaria” con cui si guarda alla differenza femminile, testimoniano alcune delle “vulnerabilità” citate, che potrebbero anche non essere tali: così è per la cura dei figli, ma anche per la maternità da single. Si può certo soffrire di più per la lontananza dai figli, ma quegli affetti possono anche costituire una risorsa per meglio affrontare la detenzione.
Con ciò non si vuole certo ignorare che le prigioni siano piene di donne (e di uomini) con molte problematiche personali, sociali e di salute; né si vuole negare che molte donne ne abbiano di più gravi degli uomini; e neppure si vuole dimenticare le discriminazioni sofferte dalle donne: gli scarsi numeri delle donne detenute si traducono in minore attenzione da parte delle istituzioni competenti, così come la scarsità di istituti e sezioni femminili spesso confina le detenute in luoghi lontani da casa, rendendo più difficili i contatti familiari. Su questo, la denuncia del Corston Report è del tutto appropriata.
Ma – vale la pena ripeterlo – è pericoloso identificare la differenza femminile in «deficit di uguaglianza» che le istituzioni dovrebbero colmare. In tal modo, si perde l’approccio della soggettività femminile, che permette di illuminare la complessità dei vissuti, con gli aspetti di capacità e risorse personali oltre che di impedimenti e fragilità. Con la conseguenza di smarrire una delle chiavi per cambiare il carcere: dare spazio ai soggetti femminili in carne e ossa che il carcere lo vivono, alle loro idee e al loro sentire.
2. Vulnerabilità e “prevenzione” della devianza
Il paradigma della vulnerabilità reca con sé insidie anche di altra natura. Spiega il rapporto che quando le donne sperimentano una combinazione di fattori in ognuno dei tre tipi di vulnerabilità citati, è probabile che si raggiunga un punto di crisi «che in ultimo può portare al carcere». Dunque, si tratta di intervenire in senso preventivo su queste vulnerabilità per aiutare le donne a sviluppare «resilienza, life skills e un’alfabetizzazione emotiva».
Siamo in presenza del ben noto meccanismo di patologizzazione della devianza, rivisitato nel moderno linguaggio medico/psicopatologico della “prevenzione” sulla base dei “fattori di rischio”. La medicalizzazione opera anche per gli uomini, ma per le donne è rafforzata dalla lettura della differenza femminile come debolezza, che si traduce in un “di più” psicopatologico.
La scelta del paradigma del rischio e della combinazione di fattori di rischio, predittivi del comportamento criminale, conduce dritta all’individuazione e selezione degli “individui/e a rischio”, su cui intervenire in maniera cosiddetta “preventiva”[4]. Non c’è bisogno di insistere sugli evidenti pericoli di etichettamento per gli individui/e selezionate come “a rischio di criminalità”. Alcune indicazioni operative del rapporto rafforzano i dubbi. Si suggerisce infatti di istituire un organo speciale, un «gruppo ministeriale interdipartimentale per le donne che commettono reati o sono a rischio di commettere reati[5]»; di aprire centri residenziali per donne, dove dovrebbero convergere donne in attesa di giudizio per reati minori o medi, donne condannate a pene minori di un anno, donne senza fissa dimora, donne inviate per sentenza in trattamento residenziale per droga o malattia mentale. Questi centri sarebbero destinati anche alle donne con particolari vulnerabilità o che possono essere “a rischio di reato”[6].
L’approccio psicopatologico a problemi in larga parte di natura sociale non è nuovo. A suo tempo, è stato definito l’arte di «biasimare le vittime»: invece di intervenire a livello ambientale/comunitario per combattere povertà e disuguaglianze, si preferisce concentrarsi sui singoli individui e individue “malandate”, per rimediare alla meglio ai loro malanni e “prevenire” i reati. E ciò avviene nonostante le ineguaglianze sociali siano largamente riconosciute dalla ricerca come fattori correlati a una serie molteplice di danni (dalla salute mentale, alla salute in generale, alle relazioni genitori-figli etc.) [7].
Ciononostante, il Corston Report contiene spunti importanti. L’indicazione chiave, di prevedere l’esecuzione delle pene sul territorio per le donne autrici di reati minori è valida, nonostante le riserve che abbiamo avanzato sulla tipologia di utenza prefigurata. E nonostante non sia chiarito il collegamento fra questi centri territoriali di giustizia penale e la rete “universale” di servizi e offerte dello Stato sociale. Eppure chiarire questo rapporto è importante, in tempi di tagli selvaggi al sociale: quanto più si indebolisce il sistema di welfare generale volto a prevenire (stavolta il termine è corretto) le ineguaglianze, quanto più i centri penali/sociali acquisteranno carattere di controllo più che di sostegno.
Ciò detto, l’obiettivo del Corston Report di limitare gli ingressi in carcere, è condivisibile, per donne e uomini. Ma è bene non confondere due approcci, assolutamente dissimili, alla differenza di genere: un conto è centrare sulla soggettività femminile; altro conto è cristallizzare la differenza in termini di “diversità”, sottolineando la fragilità, fisica ed emotiva delle donne, financo a rimarcare la dipendenza psicologica delle donne (dagli uomini)[8]. Non solo è difficile delineare una diversità femminile senza ricadere nell’eredità scomoda del ruolo tradizionale; nel caso specifico del rapporto fra le donne e la giustizia criminale si rischia di ripercorrere il paradigma della “responsabilità limitata”, con gli inconvenienti che ne conseguono[9]. La storia della carcerazione femminile ci parla eloquentemente di questo pericolo.
3. Detenute, fra carcere e riformatorio
Nicole Rafter ricostruisce i due modelli di detenzione per le donne adottati in America, fino dal XIX secolo[10]: il primo è costituito dalle prigioni per donne, sviluppatesi sull’esempio dei penitenziari per gli uomini; il secondo è rappresentato dai riformatori femminili, costruiti in ambienti rurali, sotto forma di tanti piccoli edifici, a prefigurare comunità di tipo domestico, più adatte alla “natura” femminile – si pensava. Dunque, le donne hanno storicamente subito sia la punizione dura secondo il modello di prigione maschile, sia la punizione al femminile, differente da quella maschile: apparentemente più lieve, ma rigidamente correzionale per piegare le donne al ruolo sessuale tradizionale.
I riformatori femminili erano sostenuti dal movimento progressista che aveva condotto la battaglia abolizionista. Vinta la quale, esso si dedicò ad altri obiettivi sociali: dalle crociate contro la “degenerazione” indotta dall’alcol, all’attivismo per il suffragio femminile, alle battaglie contro l’immoralità sessuale e la prostituzione, a favore del “riscatto” delle donne. In questo quadro si inserivano i riformatori, con finalità riabilitative, per i quali si battevano soprattutto le donne. Le attiviste volgevano la loro attenzione non solo e non tanto alle donne che avevano commesso reati, quanto alle donne “a rischio di perdizione”: vagabonde, prostitute, donne-madri non sposate. Proprio l’enfasi sul riscatto sociale condusse a un ampliamento dei comportamenti femminili meritevoli di correzione. Perciò, conclude Rafter, in forza dell’ideale salvifico, le sostenitrici dei riformatori istituzionalizzarono un doppio standard di sesso: le donne venivano rinchiuse anche per piccole infrazioni, per le quali gli uomini affrontavano punizioni più brevi.
L’ideologia sottesa ai riformatori poggiava sulla diversità femminile, identificata nella vulnerabilità, fragilità, dipendenza. Nella famiglia, la donna è dipendente dall’uomo che è responsabile per lei, garantisce per la sua moralità e in tal modo la protegge dal crimine. Ma una volta che abbia abbandonato la “onestà e virtù” femminili, è facile che si dia ai reati più turpi, proprio per la carenza di responsabilità [11]che la contraddistingue: questa in sintesi la teorizzazione comune ai criminologi degli inizi del secondo scorso[12]. Vulnerabilità, dipendenza, irresponsabilità tratteggiano soggetti a metà fra l’adulto e il minore e non a caso le donne sono accomunate ai minori, così come ad altri soggetti “deboli” e/o bisognosi di protezione e controllo: i riformatori femminili hanno molti punti di contatto coi riformatori minorili, con le comunità di recupero per varie problematiche di salute (dalla dipendenza ai disturbi psichiatrici), ma anche con i centri per le donne vittime di violenza. Se la norma/normalità è maschile, la deviazione femminile (dalla norma) si colora giocoforza di patologia.
4. Donna criminale e madre inadeguata
Questa antica rappresentazione del rapporto delle donne col reato e con la pena, così strettamente legata al ruolo tradizionale femminile, opera in qualche modo anche nel presente, più di quanto non si creda. Guardando al nodo cruciale della maternità e alle madri autrici di reati, come giustamente nota lo stesso Corston Report, aleggia ancora la convinzione che una donna che commette un crimine sia per definizione una cattiva madre[13]. In una recente ricerca qualitativa basata su interviste a donne detenute in alcuni carceri della Toscana, il fantasma della madre inadeguata risalta come una delle maggiori fonti di sofferenza, insieme alla paura delle assistenti sociali «che portano via i bambini». Tanto è forte questo timore delle detenute, che alcune educatrici denunciano come la confusione fra il loro ruolo e quello delle assistenti sociali sia un ostacolo serio alla costruzione di una relazione fiduciaria con l’utenza[14]. Dalle parole delle donne intervistate, risalta la doppia faccia del loro vissuto. Da un lato, il fatto che le donne patiscano in maniera così acuta il giudizio, più o meno esplicito, di madre inadeguata lascia trasparire quanto questo sia interiorizzato; dall’altro, molte si ribellano al pre-giudizio. «Sebbene sia colpevole dei reati ascritti …i miei bambini li ho sempre curati, mandati a scuola, tenuti bene», dice una di loro. Non è solo una difesa di se stesse; bensì la rivendicazione di rappresentare il “bene” dei figli, in virtù della relazione intima, di condivisione della quotidianità coi bambini. «Che ne sanno loro.. (le assistenti sociali)… », protesta un’altra.
Dietro quest’ultima frase, si delinea un conflitto cruciale fra una concezione (assai diffusa) del bambino e della bambina come individui portatori di “diritti”, potenzialmente contrapposti a quelli della madre e del padre; e un’altra, radicata nell’esperienza femminile, che centra sulla relazione «di mente e corpo» col figlio e con la figlia, sul suo costruirsi e dispiegarsi nel tempo giorno per giorno. Non solo è opinabile contrapporre il “bene” del bambino al “bene” della madre, proprio per l’intreccio affettivo che li lega; ancora più arduo è stabilire chi e come possa far valere i “diritti” del bambino e della bambina in loro vece, assumendosene la (enorme) responsabilità ed esercitando (l’enorme) potere sulla vita dei tanti soggetti coinvolti. Il moderno stato sociale ha a disposizione istituzioni e servizi a ciò preposti. Ma ciò non è sufficiente a sciogliere il nodo. Come risolvono gli operatori (della giustizia e del sociale) – anzi le operatrici, perlopiù – le difficoltà e le contraddizioni del loro mandato nel concreto delle pratiche? Le voci delle detenute (non solo quelle della ricerca citata) ci parlano di un aspro conflitto fra donne, assolutamente irrisolto, fra donne madri e donne operatrici. Prenderne atto, comprenderlo nei suoi veri termini, farne oggetto di riflessione e confronto pubblico, tradurlo in patrimonio di professionalità delle operatrici stesse: se si facesse tutto ciò, sarebbe già un buon passo avanti.
Con ciò non si vogliono certo negare i casi in cui provvedimenti estremi di allontanamento dei bambini dalla famiglia d’origine debbano essere adottati; né si vogliono mettere in dubbio i benefici dello stato sociale. Si vuole invece sollecitare la riflessione sui concetti e sulle pratiche di relazione e di cura dall’ottica della differenza femminile, per ripensare uno stato sociale più equo, per donne e per uomini[15].
5. Restituire soggettività e diritti
Torniamo alla dialettica maschile/femminile nei modelli di carcere, fra un approccio afflittivo e retributivo per soggetti maschi “responsabili” e un approccio riabilitativo/correzionale per soggetti femmine “non pienamente responsabili”: a metà fra l’adulto e minore, si potrebbe dire, e più bisognose di cura e rieducazione che di punizione. Come a suo tempo ha osservato Tamar Pitch, il modello di carcere attuale in Italia inclina più al Care Model femminile, centrato com’è, almeno negli intenti, sulla riabilitazione e il reinserimento del condannato e della condannata[16].
Non v’è dubbio che in alcuni aspetti dell’attuale carcere “trattamentale” operi ancora l’approccio correzionale, che particolarmente si fa sentire sulle detenute donne, per le ragioni storiche suddette. Si pensi al processo di “infantilizzazione” e “minorazione”, in collegamento al paradigma della “responsabilità limitata”. Nella ricerca toscana citata, la percezione di minorità si traduce in vissuto di impotenza legato alla dimensione dell’attesa e alla totale dipendenza da altri/altre, sia per le questioni più importanti (decisioni del giudice, problemi di gestione familiare, colloqui coi figli etc.), sia per i piccoli bisogni del vivere quotidiano. Non solo le donne colgono acutamente il dispositivo afflittivo sotteso alla “minorazione”; non solo intravedono gli effetti passivizzanti della totale perdita di autonomia; in più, colgono quanto “l’impotenza appresa” del carcere entri in conflitto con i proclamati intenti di riabilitazione e risocializzazione. Alcune testimonianze sono particolarmente illuminanti: «La struttura del carcere ti porta a toglierti una tua autonomia … in fondo alla fine è facile affidarsi agli altri, fanno tutto gli altri e te ne freghi … il carcere ti toglie l’autonomia, ti toglie la personalità, ti disumanizza proprio[17]». E ancora: «Io, finché ci sono delle imposizioni e delle regole giuste, che ci danno una spiegazione … come ai bambini dell’asilo, non è che gli dici “devi fare così punto e basta”… se c’è una nuova regola uno ti spiega perché è stata messa questa regola. »
Lucida è la denuncia della burocrazia insensata: «Tutta la partita amministrativa … perché non puoi far aspettare una persona quaranta giorni per un vaglia … poi domandine per tutto: ma quei soldi sono miei, al momento che arrivano dammeli!»[18]
Anche le donne incontrate dalla baronessa Corston nel corso della sua indagine denunciavano di «essere trattate come bambine»[19].
Lo stesso apparato trattamentale, di permessi di uscita e di accesso alle alternative, mostra i suoi limiti quando si voglia prestare ascolto a chi il carcere lo vive in prima persona. Non è in discussione la valenza risocializzante delle varie misure previste, quanto la modalità premiale/discrezionale con cui vengono decise. Stando dentro le mura, i procedimenti appaiono lenti e indecifrabili, fuori da qualsiasi forma di controllo delle persone. Le detenute vivono la prospettiva di uscita dalla prigione come un percorso a ostacoli che le sottomette ad un “giudizio permanente” da parte dei tanti attori coinvolti (magistrati, educatori, assistenti sociali etc.), oltre al giudizio che hanno affrontato o che dovranno affrontare per il reato commesso. Anche il meccanismo del premio (il linguaggio stesso rimanda all’apparato educativo per minori) tende ad accentuare la dipendenza della persona. In più, l’approccio discrezionale risucchia il terreno dei diritti “certi”, volgendoli in concessioni. É il caso delle visite e dei rapporti con i familiari e con altre persone care, avvertiti giustamente come un diritto “naturale” dalle detenute. Eppure, la procedura stessa della “domandina” alla magistratura o alla direzione del carcere parla da sé di un diritto che tale non è nella pratica. Per tacere dei permessi di visita per chi ha legami affettivi con la reclusa pur non essendo un familiare: non sono scontati, a parte l’intrusione subita nella sfera più intima degli affetti, passata all’altrui vaglio. Precisa un’educatrice: «nove volte su dieci quando un tribunale si esprime dà un colloquio, due al mese … difficilmente un tribunale concede la misura massima dei colloqui (prevista dal regolamento, n.d.r.)».
Con ciò, si evidenzia una contraddizione del carcere trattamentale: da un lato, il mantenimento e il rafforzamento delle relazioni è un punto forza dell’azione risocializzante, dunque i contatti con l’esterno – specie coi familiari – non solo dovrebbero essere un diritto, ma andrebbero incentivati il più possibile. Dal lato opposto, il pilastro relazionale rischia di essere nella pratica depotenziato dal meccanismo premiale.
Più alla radice, si coglie il paradosso del carcere riabilitativo, che già individuava Mary Belle Harris, una delle più importanti sostenitrici dei riformatori femminili dell’inizio del secolo scorso: come si può insegnare a esseri umani in cattività a vivere una vita da liberi e da libere?[20].
É questo paradosso che va esplicitato e ri-declinato nelle condizioni della detenzione moderna. Dall’ottica della differenza femminile, si può intravedere una via di riforma: restituire alle autrici (e agli autori) di reato la piena responsabilità, nella prospettiva del reinserimento sociale; togliere gli strumenti di socializzazione dalla sfera della discrezionalità e declinarli più come diritti che come concessioni.
[1] Home Office, The Corston Report – A report by Baroness Jean Corston of a review of women with particular vulnerabilities in the Criminal Justice System, March 2007; House of Commons, Justice Committee, Women offenders: after the Corston Report, Second Report of Session 2013-2014, July 2013.
[2] Corston Report, cit., pp. 3 e 15.
[3] Corston Report, cit., p.3, corsivo mio.
[4] É la prevenzione selettiva, che tante riserve ha suscitato e suscita in ambito di psicologia di comunità.
[5] Corsivo mio.
[6] Corston Report, cit., p. 85.
[7] Oltre al testo classico di William Ryan, Blaming the Victim, Pantheon Books, 1971, cui si deve la critica radicale della “prevenzione selettiva”, cfr. fra gli altri Alex Stevens, Drugs, Crime and Public Health, Routledge, Oxon, 2011.
[8] Si noti ad esempio la trattazione della diversità biologica fra uomini e donne, le quali «sono governate dagli ormoni e dal ciclo mensile, che influisce sul loro stato d’animo e sulle loro emozioni» (Corston Report, p.17). In altro passaggio, si delinea la dipendenza femminile come fattore di vulnerabilità. Le donne –recita il rapporto, sarebbero «vulnerabili allo sfruttamento da parte degli uomini» (p.19).
[9] Cfr. Pitch Tamar, Responsabilità limitate. Attori, conflitti, giustizia penale, Feltrinelli, Milano,
[10] Rafter Nicole Hanh (2004), Partial Justice. Women, Prisons and Social Control, Transaction Publishers, Brunswick and London, second edition.
[11] Corsivo mio.
[12] Lo riporta Esther Heffernan E. (2003), Gendered perceptions of dangerous and dependent women: ‘gun molls’ and ‘fallen women, in H. Zaitzow and J. Thomas (eds), Women in prison, Lynne Rienner Publishers, Boulder, London.
[13] Corston Report, ivi, p.20.
[14] Ronconi Susanna e Zuffa Grazia (2014), Recluse. Lo sguardo della differenza femminile sul carcere, Ediesse, Roma, pp. 177/8; p. 224.
[15] Fra la ricca bibliografia femminista in tema di cura fino dagli anni ottanta e novanta del secolo scorso, si veda il recente documento La cura del vivere, a cura del Gruppo del mercoledì (F. Bandoli, M. L. Boccia, E. Deiana, L. Gallucci, L. Paolozzi, B. Pomeranzi, B. Sarasini, R. Stella, S. Vulterini , Legendaria, n. 89, settembre 2011.
[16] Pitch Tamar (1992), Quale giustizia per le donne: appunti per un dibattito, in Campelli e altri, Donne in carcere, Milano, Feltrinelli, pp.175-185. In particolare, cfr. l’analisi di Pitch circa i modelli di giustizia individuati da Kathleen Daly: il Justice Model, come modello “maschile” orientato in senso retributivo, in una logica formalista/garantista, e il Care Model, come modello “femminile” orientato alla presa in carico in una logica relazionale, che si colloca nell’ambito dell’etica della responsabilità (versus l’etica dei diritti del Justice Model).
[17] Ronconi e Zuffa, ivi, p. 45.
[18] Ronconi e Zuffa, ibidem, p. 46.
[19] Corston Report, ivi, p. 30.
[20] Mary Belle Harris fu la sovrintendente del riformatorio federale modello di Alderson, nel West Virginia, aperto nel 1928. Cfr. Esther Effernan, ivi.