Note sul lavoro in carcere fra vecchie certezze e nuove provocazioni
Una ricognizione del ruolo del lavoro nell’ambito della detenzione carceraria sino ai giorni d’oggi, con uno sguardo (preoccupato) sul futuro. Così, se Rasphuis, Gand e Gloucester rappresentano i luoghi di un passato in cui il lavoro penitenziario assurgeva a strumento principe della redenzione, l’art. 27 della Costituzione e la legge del 1975 sono i simboli di un lavoro inteso come fattore di risocializzazione ed emancipazione. Spirano venti gelidi, tuttavia, e per i detenuti tornano pericolosamente a suonare le sirene di un lavoro forzato e non remunerato.
1. Risulta ormai noto che l’istituzione carceraria[1] precede nel tempo la sua utilizzazione come pena e che le sue origini vanno ricercate nelle «case di lavoro» destinate, nei primi secoli dell’età moderna, a reprimere il vagabondaggio e a combattere il pauperismo provocati dalla disgregazione della società feudale. Anticamente la pena era quasi sempre consistita in qualcosa di essenzialmente diverso dalla sola privazione della libertà: una somma di danaro, una sofferenza corporale, l’esilio, la gogna, la morte. L’uso del carcere come luogo di esecuzione della pena è infatti un’eccezione nella storia ed è un portato della modernità: è con i riformatori illuministi che la privazione della libertà assume il ruolo di sanzione penale, quando il bene della libertà viene pensato in generale come qualcosa che possa essere di tutti e quando tutte le forme di ricchezza sociale si riducono alla forma più semplice e astratta: il lavoro umano misurato dal tempo.
Le origini dell’internamento coatto risalgono alla seconda metà del XVI secolo con il Rasphuis di Amsterdam, aperto nel 1596, in teoria destinato a mendicanti, oziosi, vagabondi o giovani malfattori e autori di reati di minore importanza, ma in realtà diretto alla trasformazione pedagogica e spirituale degli individui attraverso un sistema di divieti e di obblighi, una sorveglianza continua, esortazioni e letture spirituali. Un ruolo fondamentale vi aveva il lavoro che era obbligatorio e si faceva in comune (la cella individuale non era autorizzata che a titolo di punizione supplementare). Per il lavoro svolto i prigionieri ricevevano un salario e la durata delle pene poteva essere determinata dalla stessa amministrazione secondo la condotta del prigioniero potendo essere essa ridotta se il suo comportamento fosse stato soddisfacente. Anche la «casa di forza» di Gand organizzava il lavoro penale sulla ragione che l’ozio è la causa generale della maggior parte dei crimini: la casa avrebbe assicurato la pedagogia universale del lavoro a coloro che vi si mostrassero refrattari, con il vantaggio di diminuire il numero delle costose istruttorie penali, di formare gruppi di nuovi lavoratori contribuendo a diminuire la manodopera, riducendo la concorrenza, e permettendo infine ai veri poveri di beneficiare della necessaria carità. Obbligo di lavoro certo, ma remunerato in modo tale da permettere al detenuto di migliorare la sua sorte durante e dopo la detenzione.
Al principio del lavoro il modello inglese del 1775 (casa di Gloucester) aggiunge come condizione essenziale della correzione l’isolamento: la cella, tecnica del monachesimo cristiano esistente solo nei paesi cattolici, diviene nella società protestante lo strumento con cui si può ricostruire l’uomo attraverso un apparato che viene chiamato «riformatorio».
Ma il modello più celebre è senz’altro quello americano di Filadelfia: la prigione di Walnut Street, aperta nel 1790, prevedeva il lavoro obbligatorio in laboratori, la costante occupazione dei detenuti, il finanziamento della prigione per mezzo di questo lavoro ma anche la retribuzione individuale per assicurare ai prigionieri il reinserimento morale e materiale nel mondo dell’economia. In questo modello i condannati sono costantemente impiegati in lavori produttivi per sopperire alle spese della prigione, per non lasciarli nell’inazione e per preparare loro qualche risorsa per il momento in cui la loro cattività dovrà cessare: ogni istante della giornata ha una sua destinazione, prescrive un tipo di attività e porta con sé i suoi obblighi e i suoi divieti. La vita è inquadrata secondo un impiego del tempo assolutamente rigoroso e sotto una sorveglianza ininterrotta.
Il lavoro, dunque, nel regime penitenziario delle origini nasce in funzione correzionale e punitiva: si aggiunge alla privazione della libertà e, quando non ne è un aggravamento in senso propriamente afflittivo, ne è tutt’al più una mera modalità di espiazione.
2. Tale caratteristica il lavoro manteneva anche in Italia allorché, nel regolamento penitenziario del 1931, era previsto come mera modalità di espiazione della pena detentiva.
È soltanto con l’ordinamento del 1975, di cui oggi celebriamo il quarantennale, che il lavoro carcerario assume una diversa connotazione diventando un elemento del trattamento penitenziario. Esso rientra nel sistema dell’esecuzione penale non più come fattore di ulteriore afflittività, di pena aggiuntiva alla privazione della libertà personale, né come terapia in senso correzionale, ma come elemento del trattamento e dunque come fattore di rieducazione, nella moderna accezione di reinserimento sociale discendente dal finalismo assegnato alla pena dall’art. 27 Cost.
L’articolo 15 della legge 26 luglio 1975 n. 354 (Ord. penit.) ricomprende il lavoro tra gli elementi del trattamento assieme agli altri due «vecchi» strumenti, istruzione e religione, che nel precedente sistema compendiavano ed esaurivano l’attività trattamentale. Benché mantenuti in posizione di grande rilevanza, la scelta del legislatore del 1975 fu quella di sussumerli in una visione più estesa che ricomprende anche le «attività culturali, ricreative e sportive», gli «opportuni contatti con il mondo esterno» ed i «rapporti con la famiglia», superando l’artificiosità di un trattamento che, quando è condotto in istituto, si svolge su uno schema di vita innaturale in cui manca il tratto unificante tra l’uomo e il normale ambiente sociale. Accanto agli arnesi del passato ( religione e istruzione ) si aggiungono allora nuovi strumenti ( lavoro, attività culturali e ricreative ) e, soprattutto, una diversa concezione del trattamento che supera l’equivoco insito nell’approccio eziologico fondato sulla sola deprivazione delle opportunità e delle risorse: le medicine tradizionali, insomma, non bastavano più. Ciononostante il lavoro ha continuato a svolgere un ruolo prevalente anche nel comune sentire intorno al mondo carcerario.
Ma la valenza rieducativa di tale strumento, obsoleto o no, sottolinea in primo luogo che esso non ha carattere afflittivo ed è remunerato (art. 20 co 2°, Ord. penit.).
É proprio la non afflittività a rimarcare la decisa rottura con il passato (lavoro quale necessario complemento della pena tendenzialmente indifferente a finalità rieducative) mentre il riferimento alla remunerazione, oltre a riaffermare un elementare principio di giustizia riconoscendo il diritto a venir compensati per l’attività prestata, esplica un’efficacia positiva a livello psicologico: chi effettua un lavoro retribuito percepisce l’utilità di tale impegno che gli consente di soddisfare autonomamente i propri bisogni.
La cornice entro cui si colloca il tema del lavoro penitenziario è pertanto oggi quella più ampia del trattamento.
L’art. 15 Ord. penit. stabilisce anche che «ai fini del trattamento rieducativo, salvo casi di impossibilità, al condannato e all’internato è assicurato il lavoro». Per gli imputati, il lavoro può essere svolto nei modi e termini tali da risultare compatibili con le esigenze giudiziarie connesse alla loro posizione giuridica.
Elemento comune alle due categorie di ristretti (condannati e imputati) è sempre la volontarietà della prestazione, non essendo concepibile, in un’ottica trattamentale e rieducativa (che, per essere genuina, deve fondarsi sulla libera e consapevole adesione degli interessati) alcuna ipotesi di lavoro coattivo o forzato.
Tale carattere non è contraddetto dalla «obbligatorietà» prevista, per condannati e sottoposti alle misure di sicurezza della colonia agricola e della casa di lavoro, dallo stesso art. 20 (comma 3°) e dall’art. 50 DpR 30 giugno 2000 n. 230 (reg.). L’obbligo del lavoro, sanzionato sotto il profilo disciplinare ai sensi dell’art. 77 reg., va infatti letto in chiave oggettiva o «de-ideologizzata» (la parola è di Fassone) quale capacità di promozione del soggetto che ne fa il cardine insopprimibile di qualsiasi tecnica di reinserimento sociale. L’obbligatorietà inoltre si giustifica in quanto imparzialmente diretta sia verso il detenuto sia verso l’amministrazione. Infine all’obbligatorietà del lavoro carcerario corrispondono una serie di diritti per il detenuto lavoratore tra i quali il più importante è rappresentato dal diritto ad una giusta retribuzione: lavoro obbligatorio non potrebbe mai dunque significare lavoro gratuito. Solo così l’obbligo del lavoro, e l’eventuale insorgere di un corrispondente diritto al lavoro da parte del detenuto, non si pone in contrasto con il principio di non afflittività dell’art. 20 cit. perchè il concetto di obbligatorietà discende dalla speciale importanza che il lavoro assume nel quadro delle finalità di rieducazione assegnate alla pena.
Del resto anche l’ «organizzazione e i metodi del lavoro penitenziario devono riflettere quelli del lavoro nella società libera al fine di far acquisire ai soggetti una preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative per agevolarne il reinserimento sociale» (art. 20 co 5°, Ord. penit.), principio nettamente in contrasto sia con il carattere di afflizione del lavoro sia con la presunta finalità di “combattere l’ozio”. Il lavoro penitenziario non può avere pertanto lo scopo di tenere occupati i detenuti per la durata di una giornata ma quello di fornire loro un’idonea preparazione in vista del rientro nella società.
3. Recentemente, anche su media di vasta diffusione, si è sviluppata una pubblica discussione a causa del disvelamento del tabù del “lavoro forzato” grazie ad alcune improvvide dichiarazioni del magistrato Gratteri, a capo della commissione istituita presso la presidenza del Consiglio allo scopo di «rendere più efficiente la macchina della giustizia e per contrastare il crimine organizzato». Si è parlato in quella sede di «lavoro come terapia», «senza remunerazione», quale cardine di una vera e propria «rivoluzione» all’interno dell’universo carcerario. Si pensi, nota il Presidente di quella commissione: «a quei tanti detenuti che hanno ormai 50, 55 anni e che non hanno mai lavorato in vita loro. Oltretutto, in questo modo potremmo impiegare una quantità di persone in lavori socialmente utili, facendo pulire loro tutte le spiagge, le fiumare, i fiumi e le montagne del Paese, che diventerebbe a quel punto il Paese più pulito del mondo. Allo stesso tempo, si tratterebbe di qualcosa che, per il detenuto, ha una valenza terapeutica». Lavoro obbligatorio e gratuito dunque, in carcere e fuori, e per di più a valenza “terapeutica”.
Ma il lavoro così inteso, oltre a degradare il detenuto kantianamente a cosa, si pone in contrasto con le norme internazionali prima ancora che con la Costituzione. Basterebbe ricordare tra tutte l’art. 8 del Patto sui diritti civili e politici delle Nazioni Unite del 1966, entrato in vigore in Italia nel 1976, il quale sancisce che: «a nessuno può essere richiesto di svolgere lavoro forzato» pur ammettendo, nelle legislazioni dei Paesi aderenti che li prevedono «per certi delitti», i lavori obbligatori come sanzione aggiuntiva irrogata da un giudice o da un giudice “normalmente” imposti nel corso della detenzione.
Le disposizioni dell’ordinamento penitenziario italiano del 1975 non rappresentano dunque una novità ma sostanzialmente ricalcano quanto già previsto in sede sovranazionale dalle regole minime per il trattamento dei detenuti adottate sia dall’Onu che dal Consiglio d’Europa. Le regole penitenziarie stabiliscono che il lavoro, quantunque obbligatorio, non deve avere carattere afflittivo (art. 71 reg. min. Onu e 26.1 reg. penit. eur.) di talché quand’anche costituisca modalità di esecuzione della pena non potrà comportare un aggravamento della stessa e, in ogni caso, deve essere remunerato (art. 76 reg. min. Onu e 77 reg. penit. eur.); infine l’organizzazione e i metodi del lavoro penitenziario devono avvicinarsi il più possibile a quelli attuati per un lavoro analogo fuori dallo stabilimento allo scopo di preparare i detenuti alle normali condizioni del lavoro libero (artt. 72 reg. min. Onu e 73 reg. min. eur.). Il tutto viene ribadito nelle regole penitenziarie europee adottate con la raccomandazione R(2006)2 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa dove è sottolineato come il lavoro in carcere deve essere considerato come elemento positivo di trattamento. É la sostanziale coincidenza di quanto disposto dall’articolo 20 Ord. penit.
Lo dice l’Europa dunque che il lavoro non può che essere retribuito e lo dicono secoli di storia di sfruttamento del lavoro umano.
Il lavoro gratuito e terapeutico in carcere non è altro in definitiva che un modo politicamente corretto di qualificare il lavoro forzato che aggiunge alla privazione della libertà una maggiore afflizione. Significa prefigurare un sistema penitenziario di tipo nuovo, «pre-moderno» (Gonnella), che come giuristi ci deve allarmare e la cui compatibilità con i principi costituzionali in materia di pena è tutta da verificare. Anche sotto il profilo economico non può essere trascurato che il lavoro gratuito obbligatorio altera la libertà del mercato poiché nemmeno le imprese vorrebbero un lavoro che andasse a manipolare il mercato all’esterno rendendolo non competitivo.
4. La Costituzione in tema di lavoro riconosce infine una serie di diritti che ovviamente non possono non trovare attuazione nel settore del lavoro penitenziario: se l’art. 4 riconosce il diritto al lavoro, l’art. 36 riconosce una retribuzione proporzionata alla qualità e quantità del lavoro prestato, il riposo settimanale e le ferie annuali retribuite nonché la durata massima (demandata alla legge ordinaria) della giornata lavorativa. La Costituzione non opera alcuna distinzione tra lavoratori liberi i detenuti ma è ovvio che il legislatore del 1975 non poteva prescindere nel delineare la disciplina del lavoro penitenziario dai principi costituzionali.
Il lavoro all’interno dell’istituto penitenziario è dunque assistito dai canoni della non afflittività e della remunerazione, quest’ultimo peraltro già previsto nel Codice Rocco all’art. 145 cp. E sempre per sfatare diffusi luoghi comuni val la pena ricordare che proprio l’art. 145 stabilisce che sulla remunerazione sono obbligatoriamente prelevate le somme dovute a titolo di risarcimento del danno, le spese che lo Stato sostiene per il mantenimento del condannato e le somme dovute a titolo di rimborso delle spese del procedimento, riservando al condannato una quota pari a un terzo della remunerazione a titolo di peculio. Con il proprio lavoro il detenuto è dunque già tenuto a saldare il proprio debito pecuniario sia con lo Stato sia con le vittime.
Le mercedi devono essere equitativamente stabilite in misura non inferiore ai due terzi del trattamento economico previsto dai contratti collettivi di lavoro (art. 22 Ord. penit.). Sebbene questa scelta non sia scevra da critiche severe, in quanto sarebbe il persistente segnale di un’idea pre-moderna del lavoro visto come sofferenza ed espiazione e che nella stessa terminologia usata («mercede») manifesterebbe non trattarsi di una vera retribuzione quanto piuttosto di una graziosa elargizione, tuttavia essa ha il merito di aver agganciato il compenso ai contratti collettivi di lavoro impedendo così che il passare del tempo acuisca la distanza rispetto ai livelli retributivi dei lavoratori liberi.
Peraltro la determinazione nel minimo non esclude l’osservanza del criterio relativo alla quantità e qualità del lavoro prestato: ove la remunerazione scenda al di sotto di una soglia di significatività non concorrendo più al fine di recupero sociale, interviene il giudice disapplicando l’atto determinativo della mercede perché direttamente ostativo al raggiungimento del fine posto dal comma terzo dell’articolo 27 Cost. e perché potrebbe in sé determinare la violazione del principio costituzionale dell’equa retribuzione.
Volontarietà, finalizzazione rieducativa, remunerazione e oggettività nell’assegnazione (deve osservarsi un sistema di graduatorie su parametri prefissati dalla legge) sono dunque i principi fondamentali che regolano il lavoro penitenziario.
Quanto alle modalità, particolarmente favorito è lo strumento delle cooperative sociali che operano all’interno del carcere (art. 47 reg.), che appare in grado di garantire un inserimento lavorativo meno aleatorio ed effimero di quanto non accada nell’ordinarietà dei casi: il detenuto è assunto quale socio-lavoratore e può mantenere l’impiego anche successivamente all’espiazione della pena, argine temporale che spesso coincide con la perdita del lavoro. L’Amministrazione offre in comodato d’uso gratuito i locali e, ove possibile, i macchinari per le lavorazioni a imprese o cooperative che in questo modo realizzano le loro attività produttive assumendo detenuti. Per le imprese che assumono un detenuto nelle attività produttive sia all’interno che all’esterno del carcere sono previste inoltre agevolazioni contributive, fiscali ed economiche che permangono naturalmente anche oltre il «fine pena» della persona (l. 22 giugno 2000 n. 193, cd “legge Smuraglia”). Un modello questo comunque positivo che non può essere messo in crisi nemmeno da recenti, isolate, vicende di cronaca che hanno dimostrato purtroppo alcune permeabilità a fenomeni di criminalità affaristica.
Oltre al lavoro interno al carcere (cd «lavoro domestico»), cioè le attività dirette ad assicurare la funzionalità e l’igiene delle sezioni (es. mensa, pulizia, etc.) che sono attività che il detenuto svolge alle dirette dipendenze dell’Amministrazione e per le quali viene regolarmente retribuito, carattere del tutto peculiare ha invece lo svolgimento di attività lavorativa in ambiente libero quali il «lavoro all’esterno» dell’istituto penitenziario, disciplinato dall’art. 21 Ord. penit., in cui è stretta la connessione rispetto alle finalità del trattamento rieducativo (se si considera che il detenuto ammesso al lavoro all’esterno è, di fatto, reinserito a pieno titolo nell’attività lavorativa della società libera, di cui condivide orari e ritmi) e la «semilibertà», istituto volto a consentire una modalità di esecuzione della pena detentiva particolarmente favorevole al consolidamento dell’evoluzione positiva della personalità del condannato attraverso il reinserimento, seppur parziale e controllato, nell’ambiente libero. Elemento differenziale rispetto al lavoro penitenziario intramurario è costituito dalla giurisdizionalizzazione della procedura di ammissione. Peraltro tali attività in entrambi i casi non devono necessariamente consistere nello svolgimento di un lavoro subordinato, autonomo o professionale, ma possono avere opportunamente finalità “altruistiche” o, comunque, idonee a dimostrare il superamento delle pulsioni personalistiche che hanno determinato il soggetto a delinquere. L’ammissione è disposta in relazione ai progressi compiuti nel corso del trattamento quando vi sono le condizioni per un graduale reinserimento del soggetto nella società e in questo quadro, ferma la volontarietà, ben si può prescindere dalla remunerazione nell’esecuzione di progetti di pubblica utilità in favore della collettività (in tal senso è la recente riforma dell’art. 21 Ord. pen. ad opera del Dl 78/13 conv. nella l. 94/13).
Del tutto diverse le ipotesi, conosciute dal nostro ordinamento, dei lavori cd di pubblica utilità inseriti, a fini riparatori, nel percorso trattamentale di una misura alternativa o, a fini sanzionatori, quale misura sostituiva a quella detentiva o infine quale fulcro del nuovo istituto della «messa alla prova». Ci si riferisce al lavoro sostitutivo disciplinato dagli artt. 102 e 105 della legge 24 novembre 1981, n. 689 e alle varie ipotesi di lavoro di pubblica utilità di cui al Dlg 28 agosto 2000, n. 274 (competenza penale del giudice di pace), all’art. 73, co 5,-bis DpR 309/1990 (stupefacenti), all’art. 165 cp (sospensione condizionale della pena) e all’art. 186 CdS come modificato dalla l. 29.07.10 n. 120 (guida in stato di ebbrezza) e ancora alle attività “riparative” rese in virtù dell’art.47, co 7°, Ord. penit., (affidamento in prova al servizio sociale) o in forza delle norme sulla «messa alla prova» (l. 28 aprile 2014 n. 67).
Si tratta in tutti questi casi di prestazioni rese dal condannato (o dall’imputato) sempre e solo su base volontaria che nulla hanno a che vedere con finalità retributive o di inasprimento sanzionatorio. I lavori di pubblica utilità, che in ogni caso passano attraverso la decisione di un giudice, vanno letti, pur nelle timide applicazioni che hanno avuto in sede giurisprudenziale, nell’ottica di una giustizia «riparativa» le cui ragioni di interesse si collegano all’evoluzione del diritto penale (che ha avuto come passaggi i modelli di giustizia retributiva, preventiva, rieducativa e vede come ultimo sviluppo proprio il modello riparativo) e, verosimilmente, ad una diversa percezione del rapporto stato/cittadino in cui lo Stato è percepito come collettività e non come apparato autoritario.
In questa ottica anche una nuova visione del lavoro carcerario che preveda l’obbligo del condannato non già di pagarsi utilitaristicamente il proprio mantenimento in carcere ma di riparare il danno derivante dal reato con la prestazione di lavoro è ammissibile, purché non si prescinda dai principi costituzionali e sovranazionali di cui la neo-quarantenne legge penitenziaria era già compiuta espressione. Considerare l’autore del reato non semplicemente il passivo destinatario della sanzione penale ma il soggetto a cui è richiesto di operare attivamente per l’eliminazione del danno provocato con la sua condotta illecita e individuare come finalità primaria l’eliminazione delle conseguenze dannose attraverso l’attività riparatrice è l’obiettivo di una giustizia nuova che si orienta in sostanza non verso il reo, cui imporre il lavoro coattivo al solo scopo di applicare una sanzione il più possibilmente proporzionata al fatto, ma verso la vittima. Una giustizia riparativa, in cui il lavoro può svolgere un ruolo predominante, per il suo carattere sociale e di equità sostanziale, può agire anche come fattore di stabilizzazione sociale e dunque svolgere finalità preventive mitigando inoltre le crescenti e irrazionali richieste di prevenzione generale legate alla funzione esclusivamente deterrente della pena. In questo senso sembra anche operare il disegno di legge delega n. 2798 presentato il 23 dicembre 2014 che, all’art. 26 («Princìpi e criteri direttivi per la riforma dell’ordinamento penitenziario»), testualmente prevede che la delega sia orientata aiseguenti princìpi e criteri direttivi: «d) previsione di attività di giustizia riparativa e delle relative procedure, quali momenti qualificanti del percorso di recupero sociale sia in ambito intramurario sia nell’esecuzione delle misure alternative;e) maggiore valorizzazione del lavoro, in ogni sua forma intramuraria ed esterna, quale strumento di responsabilizzazione individuale e di reinserimento sociale dei condannati».
[1] Per approfondire le questioni esposte in questo articolo si possono utilmente consultare: P. Bernasconi, in Grevi-Giostra-Della Casa Ordinamento penitenziario commentato, Padova, 2011, t. 1, 15 e 42, E. Fassone, in Grevi (a cura di), Diritti dei detenuti e trattamento penitenziario, Bologna, 1981, 163 ss.; Fiorentin, Il lavoro nel quadro della normativa penale e penitenziaria, in Diritto & Diritti, 2002; Foucault, Sorvegliare e punire, 1975, p. 291; Gonnella, Contro il giustizialismo, in Micromega, 7/14; Padovani, L’utopia punitiva, 1981, Milano.