Magistratura democratica

Il carcere è riformabile?

di Franco Maisto

Un quesito di fondo si aggira per l’Europa: il carcere è riformabile? Provo a rispondere premettendo la mia profonda convinzione che la confusione dei messaggi mediatici non può avere degli effetti di lunga durata e, prima o poi, emerge che un conto è il cambiamento, un conto è la trasformazione, un conto è il look, altro conto è la riforma.

1. Il dialogo pluridecennale con Pavarini sulla questione penitenziaria italiana può continuare così: e va bene… ammettiamo pure che il sistema penale si caratterizzi per una sostanziale ineffettività sanzionatoria, imputabile anche alla (e a partire dalla) legge Gozzini, ma, allo stesso tempo, altri devono ammettere che, senza alcun nesso funzionale, c’è una lievitazione della popolazione detenuta, nonostante la legge Simeone-Saraceni e il cosiddetto indultino. Nulla di nuovo sotto il sole… ma, in materia penitenziaria, non si verificano leggi chimiche, come quella dei vasi comunicanti! Bisogna riconoscere che è fallita la previsione degli anni settanta sull’efficacia deflattiva dei sistemi di probation; né hanno avuto migliore fortuna tesi come quella del Foucault di Sorvegliare e punire sulla fine dei grandi internamenti e sul declino dei tradizionali sistemi punitivi, soppiantati da forme, anche terapeutiche, di controllo sociale diffuso. Non ha funzionato nemmeno la teoria omeostatica dei livelli di incarcerazione nelle società moderne, di Alfred Blumstein: il criminologo della Carnegie Mellon University riteneva infatti, com’è noto, che funzionassero meccanismi stabilizzatori per riportare alla “soglia naturale” il numero dei detenuti, per l’effetto di pratiche permissive o restrittive, a seconda degli eccessi o delle deficienze di popolazione incarcerata. Le cose sono andate diversamente. E il sovraffollamento è molto spesso l’alibi per non affrontare la questione della riforma del carcere come problema sociale e di qualità della democrazia.

Dunque, il carcere c’è, come c’è stato e come ci sarà… purtroppo, per molti versi, ma ci sarà. Se la pena si è perduta, il carcere è ritornato. Alle Peines Perdues, proclamate negli anni Ottanta dagli abolizionisti Hulsman e Bernat de Celis, fa da contraltare «l’immane concretezza» (per usare l’espressione dell’importante libro di Gabrio Forti) del carcere, «la pena disumana» (come titola il suo ultimo, agile, ma efficace volumetto di esperienze e proposte, Ahmed Othmani, presidente della Penal Reform International).

 

 

2.E di nuovo: il carcere è riformabile? Francamente, non mi sembra una vera domanda, o quanto meno, si tratta di una domanda formulata male. Sempre e dovunque i governanti e gli amministratori vi diranno che stanno riformando le carceri. È una vecchia storia. Ricordo il Congresso delle Nazioni Unite, tenuto a Milano nel 1985, proprio in tema di riforma delle carceri e di “trattamenti dei delinquenti”, quando il compianto amico Luigi Daga mi faceva notare che tutti i rappresentanti degli Stati si dicevano impegnati nelle riforme.

Nonostante il mancato inveramento della profezia sulla fine dei “grandi internamenti”, rimane incontestabile la lezione foucaultiana sulla contestualità della prigione e della sua riforma: «Bisogna anche ricordare che il movimento per riformare le prigioni, per controllarne il funzionamento non è un fenomeno tardivo e neppure sembra essere nato dalla constatazione di uno scacco, stabilito chiaramente. La riforma della prigione è quasi contemporanea alla prigione stessa. Ne è come il programma. La prigione si è trovata fin dall’inizio impegnata da una serie di meccanismi di accompagnamento, che devono in apparenza correggerla, ma che sembrano far parte del suo stesso funzionamento, tanto sono stati legati alla sua esistenza lungo tutta la sua storia». Già gli studi degli anni ottanta di Tullio Padovani (penso, per tutti, a L’utopia punitiva) evidenziavano «la contrapposizione tra il pensiero riformatore teso all’inane e futile scopo di costruire un’amplissima gamma di sanzioni ed una realtà che s’incarica di costruire l’unica punizione congeniale ai suoi meccanismi di potere». Ed esattamente sostiene ancora oggi Padovani (nel saggio per il numero speciale della Rassegna penitenziaria e criminologica per la ristampa anastatica de Il Ponte del marzo 1949): «il tema della riforma si insedia all’origine come strumento di raccordo tra la teoria  della pena detentiva e la pratica dell’istituzione carceraria. Dai fasti dei sistemi penitenziari ottocenteschi, sui quali si è sviluppata una letteratura che definire immensa è riduttivo, alle pulsioni di fine ottocento per le alternative alla detenzione, alla ripresa novecentesca della riforma, dalla scuola positiva alla nuova difesa sociale transitando per le rivisitazioni autoritarie dei fascismi, per riapprodare alla critica dell’istituzione penitenziaria di impronta marxista o di matrice sociologico-psichiatrica, il cammino dell’istituzione penitenziaria verso la mitica riforma equivale alla corsa della tartaruga di Zenone col piè veloce Achille: la distanza non è mai colmata».

 

 

3. Posto allora che la necessità di una riforma carceraria costituisce un dato persistente nella polemica intorno alla pena detentiva, appare utile tentare di rispondere alle due vere domande. In primo luogo: si vuole o non si vuole riformare il carcere? e consapevolmente, non solo aggiornando la legislazione primaria vigente, ma anche “mettendo a regime” il nuovo regolamento di esecuzione, ed implementando un sistema di “buone pratiche”? In secondo luogo, la domanda che ripropone in termini di attualità, per tutti i contesti nazionali, Ahmed Othmani nel suo già citato volume La pena disumana: quali riforme e per quale carcere? ed ancora, e forse meglio prima: in quale ottica? a quali condizioni?

Credo che, comunque, sia fondamentale la formazione, se non la ricerca, di un vasto consenso dell’Amministrazione Penitenziaria; ma un’attenta lettura della sua storia ci insegna che non sempre questo punto di vista ha consentito reali progressi essendo necessario integrarlo con quello esterno: chi vede il carcere da fuori e ne coglie la differenza, il divario rispetto alla vita libera, alla via civile. Non credo cioè che si possa fare l’operazione shakespeariana del Riccardo II (atto V, scena V): «Ho studiato il modo in cui paragonare la prigione in cui vivo al mondo», un punto di vista puramente semplicemente interno. Il punto di vista esterno non può che essere una sfida: quella stessa voglia di scommettere e di cambiare che aveva animato i resistenti i cui scritti ricordiamo con gratitudine, ne Il Ponte del 1949.

Il nucleo centrale della loro aspirazione era, quale estrema necessità, un carcere secondo la Costituzione repubblicana.

Mi rendo conto che, di fronte alle aberrazioni della tarda modernità che rendono la condizione detentiva elegibile a quella libera per le povertà estreme, la prospettazione ha il sapore dell’ovvietà, ma credo nulla possa escludere la bontà di una risposta ovvia, in quanto tale.

Alla medesima tesi è possibile accedere in modo meno passionale abbracciando razionalità e metodo, con la sottolineatura della distinzione tra situazione ed orizzonte, come definita, in modo impareggiabile, da Hans Georg Gadamer in Verità e metodo: «Ogni presente finito ha dei confini. Il concetto di situazione si può definire proprio in base al fatto che la situazione rappresenta un punto di vista  che limita la possibilità di visione. Al concetto di situazione è legato quindi essenzialmente quello di orizzonte. Orizzonte è quel cerchio che abbraccia e comprende tutto ciò che è visibile da un certo punto di vista». Questo non significa che la “situazione penitenziaria” non ha orizzonti, ma certamente essa non consente di mettere a fuoco un orizzonte che vede deformato. Ma il futuro non è inevitabile! La prospettiva gadameriana, nel commento di Mauro Ceruti in Il vincolo e la possibilità, sottolinea, infatti, come la chiusura e la limitazione di ogni orizzonte non rimandano all’esigenza di un luogo fondamentale di osservazione, quale termine di riferimento per ogni comunicazione,ma  costituiscono, al contrario, le condizioni di possibilità fra punti di vista differenti.

 

 

4. L’orizzonte del carcere deve essere la Costituzione repubblicana, anche se la stessa Carta, nell’enunciare principi tassativi sulle pene, non lo prevede. L’orizzonte è disegnato dalla globalità dei valori costituzionali sulla qualità della vita dei detenuti e degli operatori, e quindi, non solo del fondamentale, sempre, quasi farisaicamente blaterato art. 27, aporia  formidabile e chiave di volta del sistema nelle fasi critiche istituzionali, ma anche del personalismo, dell’uguaglianza, della salute, del lavoro. Non si tratta dunque, solo di una politica di umanizzazione e di modernizzazione del sistema carcerario, ma di più, di una cultura, di un humus da ricreare, abbandonando anche quelle posizioni neorealiste trasversali, di disincanto, di pessimismo alla David Garland, o di irenismo angelico alla Nils Christie, ora sedicente minimalista, ma già abolizionista, che hanno fatto proseliti in Italia.

Proprio perché bisogna tener conto della complessità, della globalità e della inscindibilità di tutti i valori della Costituzione repubblicana, allora bisogna postulare due condizioni o presupposti.

La prima condizione è parte del testamento del giudice di sorveglianza e Maestro, Igino Cappelli, ne Gli avanzi della Giustizia: «Il carcere poteva cambiare solo nel senso delle linee generali di tendenza prealenti nella società,e dunque in peggio. Né si poteva pretendere che proprio la galera fosse un’isola di legalità e di decenza,se poi le sue vittime sono troppe volte le vittime della giustizia. E se la logica del lager è vincente,non c’è posto per un giudice impotente alla tutela dei diritti umani più elementari». Lezione ripresa di recente da David Garland in Pena e società moderna quando, ribaltando paradossalmente le categorie marxiane di struttura e sovrastruttura e ponendo la cultura nella struttura, ha evidenziato che è proprio la cultura il fattore determinante della pena: sono le diverse “mentalità”, “sensibilità culturali” ed “emotive” ad influenzare le istituzioni penali. In questa cornice, al di fuori di una cultura e di una prassi di sviluppato Stato sociale, in un diverso welfare, per dirla alla Ota de Leonardis, il carcere rimane come è, semplicemente irriformabile.

L’altra condizione è la prospettiva politica orientata alla progressiva riduzione qualitativa e quantitativa del carcere nelle politiche penali. Lo schematismo omologante ed imperante che confonde tra crimine, disordine e sicurezza comunitaria, si pone in contrasto con la prospettiva politica indicata in quanto produce due conseguenze. La prima è la percezione della criminalità come uno dei tanti rischi della vita, appunto, come “attuariale”, secondo la connotazione della criminologia che la professa ed il carcere che viene implementato (De Giorgi). La seconda conseguenza è l’alterazione di mission della giustizia penale e della polizia.

 

 

5. Un’area culturale e civile che accetta il rilancio rivisitato del welfare e la riduzione quantitativa e qualitativa del carcere, non può non riconoscere che in questi anni si è formata nel nostro sistema penitenziario, una “detenzione sociale”, bisognosa di “reintegrazione sociale”. Escludendo il narcotraffico, la criminalità transnazionale e i delitti solitamente ritenuti più gravi, residua un 60% di incidenza sul sistema composto dagli avanzi della giustizia: i tossicodipendenti, i senza dimora, i disabili mentali, gli extracomunitari condannati per “reati artificiali”.

Grosso modo, si tratta dell’utenza classica che in altri Stati è stata  trattata col community service ordero col “Tig”. La conferma di questa tesi ci viene offerta dalla recente ricerca voluta da Tamburino Il sistema penitenziario italiano: dati e analisi. Infatti, incrociando le variabili di età della popolazione detenuta per classi di età, non nazionali (così vengono definiti), tossicodipendenti, sieropositivi e malati di Aids, genus di delittuosità, di entità delle pene inflitte, credo che si riesca ad intercettare un’ampia fascia di detenuti per la quale mettere in atto, meglio se in e con una legge di riforma della legge 354, un progetto nazionale di reintegrazione sociale, anche mediante i lavori di pubblica utilità. Insomma, non uno o tanti progetti e progettini finanziati, bensì, la reintegrazione sociale come dato strutturale, sia del carcere, sia delle misure alternative, sia delle pene alternative, sia della custodia cautelare: insomma, un elemento trasversale. Si tratta, come è facile intuire, anche di un ampliamento, di una visione più attuale del diritto alla rieducazione a mezzo di atti e comportamenti oggettivi di responsabilizzazione sociale.

L’altro versante improrogabile della riforma deve risolvere la questione della garanzia effettiva dei diritti dei detenuti,anche con la tardiva introduzione nel nostro ordinamento dell’ombusman. Credo che nessuno abbia il coraggio di affermare che la legge 354 non sia stata di rilievo, un monumento nella legislazione, innanzitutto penale e poi sociale e poi ancora penitenziaria italiana. Ma si impone, e ormai sono maturi i tempi,da una parte, una ricognizione ed un approfondimento delle situazioni soggettive esistenti e, dall’altra, il riconoscimento dei nuovi diritti, anche se  talvolta, si tratta soltanto o si dovesse trattare di una loro esplicitazione formale.

In questa prospettiva allora, rivedere l’insufficiente disciplina regolamentare dell’affettività dei detenuti non è una questione di poco conto. Mi limito a ricordare a proposito l’autorevole e lapidaria posizione favorevole del cardinale Carlo Maria Martini espressa nell’efficace volume Sulla Giustizia del 1999 e poi negli scritti più recenti del 2003 raccolti in Non è giustizia.  

Credo in particolare, che la questione dei diritti debba essere declinata secondo i tre insegnamenti della Corte costituzionale, ormai rimasti disattesi dal Parlamento che inspiegabilmente ritarda di legiferare. Il primo elemento di declinazione non può che essere quello procedimentale e l’ossequio alla sentenza n. 26 del 1999 della Corte costituzionale sull’art. 35. La seconda declinazione è quella classica del diritto alla verifica del mutamento del processo rieducativo (Corte costituzionale n. 204 del 1974). Come è noto, si tratta dell’importante e sempre attuale sentenza che, se pur resa in tema di liberazione condizionale, enuncia il principio di valore generale e di riferimento assoluto alla funzione e alla finalità della pena, poi ripetuto e sviluppato dalla Corte in altre successive, secondo il quale, in base al precetto dell’art.27, terzo comma, della Costituzione, non solo «sorge il diritto per il condannato a che,verificandosi le condizioni poste dalla norma di diritto sostanziale, il protrarsi della realizzazione della pretesa punitiva venga riesaminato al fine di accertare se in effetti la quantità di pena espiata abbia o meno assolto positivamente al suo fine rieducativo», ma anche che tale diritto «deve trovare nella legge una valida  e ragionevole garanzia giurisdizionale». Il terzo elemento di declinazione che deve avere esplicitazione normativa, è rappresentato dall’idoneità dei mezzi per realizzare percorsi di alternatività alla pena detentiva, secondo l’insegnamento della Corte costituzionale con la sentenza n. 343 del 1987. Tale sentenza, pur dovendo decidere sugli effetti della revoca dell’affidamento in prova al servizio sociale, ha rappresentato l’occasione per una serie di affermazioni interessanti, come: «Giova ricordare che sul legislatore incombe l’obbligo di tenere non solo presenti le finalità rieducative della pena, ma anche di predisporre tutti i mezzi  idonei a realizzarle e le forme atte a garantirle». La citazione ha un senso profondo nel quadro dell’argomentazione svolta dalla stessa Corte costituzionale sul sistema complessivo delle misure alternative alla detenzione del quale si osserva: «L’introduzione di misure alternative alla detenzione, genericamente definibili di “prova controllata” (o probation) trae origine, come è noto, dalle congiunte crisi della pena e delle misure clemenziali, rivelatesi inadegate, la prima a svolgere il ruolo di unico e rigido strumento di prevenzione generale e speciale, le seconde a promuovere reali manifestazioni di emenda. Di qui la tendenza a … creare misure che, attraverso la imposizione di prescrizioni limitative - ma non privative – della libertà personale e l’apprestamento di forme di assistenza,siano idonee a funzionare ad un tempo come strumenti di controllo sociale e di promozione della risocializzazione».

 

 

6. Il problema della garanzia effettiva dei diritti rimanda alla questione della magistratura di sorveglianza: non esiste carcere riformato se non rinnovando la magistratura di sorveglianza. Credo che si imponga ormai, anche per l’accumulo di competenze, in qualche modo, maldestramente realizzato, nel corso del tempo, in capo all’ufficio monocratico e all’ufficio collegiale, una riorganizzazione, una revisione di questo delicato e sensibile settore della magistratura, intervenendo con forti caratterizzazioni. La finalità della trattazione tempestiva e competente delle procedure passa attraverso l’organizzazione degli uffici e dei tribunali di sorveglianza, la selezione per l’accesso alla magistratura di sorveglianza e la definizione di un sistema di provvista periodica dei tribunali medesimi, in relazione alla quantità e qualità degli Istituti di pena e alle procedure di competenza.

E mi limito, infine. al richiamo della necessità di una riforma legislativa dei circuiti penitenziari e dei regimi (gli attuali artt. 59-67 della legge penitenziaria), nonché del titolo II relativo alla organizzazione del personale penitenziario.

Credo, in sintesi, che, pur essendo necessaria l’analisi sociologica della questione della riforma del carcere, il criterio di orientamento per i cittadini che credono ancora in questa Costituzione repubblicana, sia rappresentato dai valori della stessa Costituzione.

[*] È la relazione svolta dall’autore al convegno Il carcere. Memoria e presente organizzato a Roma il 29 aprile 2004 in occasione della presentazione della ristampa anastatica del numero 3 del 1949 de Il Ponte del 1949 (dedicato a Carceri: esperienze e documenti) e del numero speciale del 2002 della Rassegna Penitenziaria e criminologica che ha accompagnato la ristampa della rivista di Calamandrei.