Dieci anni di riforma penitenziaria
L’intervento di Edmondo Bruti Liberati, ci riporta ai momenti della gestazione della “legge Gozzini”, un testo normativo innestatosi in maniera talmente profonda nel tessuto della legge del 1975 che ancora oggi, nel linguaggio comune e a volte in quello giornalistico, parlare di “Gozzini” significa parlare tout court di ordinamento penitenziario (NdR)
1. L’ordinamento penitenziario del 1975
Il nuovo ordinamento penitenziario, sbocco di un movimento riformatore che aveva preso le mosse subito dopo la caduta del fascismo, è entrato in vigore alla metà del 1975 in una situazione carica di tensioni contraddittorie, caratterizzata, in Italia, dall’allarme crescente per l’incremento della criminalità organizzata e, a livello internazionale, da una generale crisi del sistema di controllo della criminalità e della pena detentiva in particolare.
La critica della pena detentiva non si fonda solo su considerazioni di carattere umanitario, ma nasce proprio dalla constatazione degli effetti deludenti o addirittura controproducenti quanto ad efficacia rieducativa; il tutto in un quadro complessivo di sovraffollamento e sostanziale ingovernabilità degli istituti penitenziari.
È stato detto che «la “riforma” della prigione è quasi contemporanea alla prigione stessa»[1], il che è come dire che la crisi del carcere nasce con il carcere stesso. Ma alla metà degli anni ’79 la crisi, più che mai in passato, investe a livello di principi la pena detentiva, l’idea di rieducazione e di trattamento, in una parola l’intera politica penitenziaria. Emblematicamente un autorevole studioso (Jescheck) affermava che «la pietra angolare di ogni sistema sanzionatorio moderno riposta sui surrogati della pena detentiva».
Ed apparivano quasi improntate a rassegnata impotenza le conclusioni di una delle risoluzioni finali del IX Congresso internazionale di diritto penale tenutosi a Budapest nel 1974: «la pena detentiva è stata quasi unanimemente criticata e si è proposto di ridurne notevolmente l’ambito. Essa rimane tuttavia oggi inevitabile, perlomeno per certi tipi di delinquenti e fino a quando un sistema penale alternativo coerente non sarà stato elaborato»[2].
Per quanto riguarda in particolare il nostro Paese, il movimento verso la riforma penitenziaria aveva trovato un punto forte di sostegno nella sentenza 204 del 1974 della Corte costituzionale, che individuava il ‹‹diritto per il condannato a che, verificandosi le condizioni poste dalle norme di diritto sostanziale, il protrarsi della realizzazione della pretesa punitiva venga riesaminato al fine di accertare se la quantità di pena espiata abbia o meno positivamente assolto al suo fine rieducativo. Tale diritto deve trovare nella legge una valida e ragionevole garanzia giurisdizionale››.
In senso del tutto opposto peraltro operava il clima di allarme che si era creato di fronte al rilievo che andava assumendo la criminalità organizzata.
Avvenne così che nelle ultime fasi dell’iter parlamentare della riforma caddero alcuni degli istituti più innovativi (ad esempio i permessi per le relazioni umane, che riemergeranno con nome diverso solo dieci anni dopo) e furono introdotte prospettive fortemente restrittive[3]. Certamente in questo clima di timori e di diffidenze si colloca la ‹‹invenzione›› all’ultimo momento dell’organo collegiale ‹‹sezione di sorveglianza›› cui vennero attribuite le competenze più incisive. Ma su questo punto almeno l’esperienza successiva darà ragione al legislatore: proprio l’esistenza dell’organo collegiale consentirà una ‹‹tenuta›› della magistratura di sorveglianza di fronte alle polemiche sulla applicazione delle misure alternative.
2. Emergenza, amnistia, permessi, massima sicurezza
In questa situazione di crisi e di spinte contraddittorie nel luglio 1975 venne definitivamente approvata la riforma penitenziaria, che emblematicamente seguì dappresso un rilevante intervento legislativo di segno opposto, la legge 22 maggio 1975 n. 152, più nota come Legge Reale, che apriva la stagione della legislazione dell’emergenza[4].
D’altronde sulla nuova legge si vennero a scaricare una serie di tensioni derivanti da problemi non risolti.
Il regime fascista, come è noto, aveva posto in essere un organico disegno ‹‹riformatore›› indicando dapprima, con il Codice penale ‹‹chi e perché››
doveva andare in carcere e disciplinando, successivamente, con il Regolamento penitenziario, ‹‹come›› si doveva stare in carcere.
La attuazione della nuova normativa penitenziaria ha dunque dovuto scontare la mancata riforma della parte speciale del codice penale e di larghi settori della legislazione penale speciale, soprattutto con riferimento alla sproporzione tra le pene stabilite e la nuova gerarchia di valori meritevoli di protezione, alla luce dei principi costituzionali.
Capitò inoltre che la prima fase di applicazione della riforma dovesse fare i conti con una situazione di sovraffollamento degli istituti, mai prima sperimentata. Si era esaurita e anzi si era nettamente invertita quella tendenza alla diminuzione delle presenze in carcere che aveva segnato una costante dagli inizi del secolo (salvo i due dopoguerra). Anzi, si deve ricordare che a rendere più difficili i primi passi della riforma, tra il DpR 22 maggio 1970 n. 283 e il DpR 4 agosto 1978 n. 413, il parlamento lasciò trascorrere il più intervallo nella storia dell’Italia repubblicana tra due provvedimenti generali di clemenza (l’intervallo medio è infatti inferiore a cinque anni).
Ulteriori sono i segni di un andamento oscillante tra momenti di apertura riformatrice e pesanti battute di arresto. Il primo provvedimento legislativo dell’anno 1977, la legge 12 gennaio 1977 n. 1, rappresentò il primo intervento di modifica della riforma penitenziaria: accanto ad alcune risistemazioni procedurali vi è un ampliamento dell’area di applicazione delle misure alternative, con la soppressione della più incisiva tra le limitazioni poste nell’art. 47 co. 2.
Ma negli stessi giorni esplode la polemica sulle evasioni e in particolare sui permessi, che troverà un punto di approdo nella legge 20 luglio 1977 n. 450 con la quale, in sostanza, si chiude l’esperienza di larga applicazione dell’istituto del permesso, che era stata operata dalla magistratura di sorveglianza con una lettura aperta della normativa in vigore.
Sempre nell’estate del 1977 vennero istituite le carceri di massima sicurezza che, di fatto, insieme al controllo esterno degli istituti, comportarono un irrigidimento notevole di tutto il sistema.
Polemiche sui permessi, evasioni e rivolte nelle carceri non impedirono però l’emanazione di una amnistia con il DpR 4 agosto 1978. Il Ministro della Giustizia dell’epoca, alla Commissione Giustizia della Camera, il 22 novembre 1978 comunicò che alla data del 30 settembre erano stati posti in libertà 7.300 detenuti pari al 22% della intera popolazione carceraria esistente al momento dell’entrata in vigore del decreto di clemenza. Si rammenti che si trattava di un provvedimento molto ampio, che ad esempio consentiva l’indulto per detenzione e porto di armi comuni da sparo (ad es. quelle rivoltelle cal. 38 special che mietevano vittime per le strade). E se è vero che lo sfoltimento della popolazione carceraria, dopo ben otto anni dalla precedente amnistia, non era rinviabile, tuttavia colpisce ancor oggi il contrasto tra la scandalistica gestione della vicenda dei permessi e la accorta campagna di presentazione alla opinione pubblica dell’amnistia. Un’amnistia, per di più, emanata in un periodo in cui il carcere in quanto istituzione e nei suoi uomini era oggetto privilegiato dell’attacco terroristico.
Come è ben noto la legge del 1975 non ha affrontato in modo adeguato il problema della sicurezza, limitandosi alla generica proclamazione dell’art. 1 co. 3 (titolato «Trattamento e rieducazione») secondo cui: «Negli istituti devono essere mantenuti l’ordine e la disciplina». Ma il fatto è che ordine e sicurezza da un lato, rispetto ai diritti dei detenuti, trattamento rieducativo e risocializzazione dall’altro, sono prospettive che possono in concreto risultare configgenti. E la legge del ’75 ha affrontato il problema della sicurezza in termini del tutto elusivi, salvo lasciare aperta la valvola di sfogo dell’art. 90. Quando la questione, tra la fine del ’76 ed il ’77, si è imposta, abbiamo misurato, con la istituzione in via amministrativa del carcere di massima sicurezza e con il ricorso sistematico all’art. 90, che cosa significhi in pratica lasciare la tematica della sicurezza allo spazio vuoto di diritto.
Certo vi era stata, come si è visto, la enfatizzazione e la strumentalizzazione dei dati sui mancati rientri dai permessi e sui reati commessi da soggetti ammessi alle misure alternative. Vi era stata soprattutto una reazione di rigetto rispetto alla umanizzazione del trattamento penitenziario ed alla presa in carico da parte della società civile del problema della risocializzazione: il ritorno al processo di rimozione del ‹‹pianeta carcere››.
Ma vi erano fatti reali. Le evasioni (in senso proprio) ammontavano a cifre ben più ridotte di quel che si faceva apparire, ma si trattava spesso di evasioni di soggetti detenuti per fatti gravi o attuate con azioni violente, con introduzione di armi da fuoco ed esplosivi negli istituti, con presa in ostaggio di agenti di custodia. Dalle manifestazioni (salita sui tetti, mancato rientro dall’aria) ancora in larga misura pacifiche si era passati, qua e là, a rivolte violente. Si era determinato un vero e proprio collegamento operativo tra detenuti ed organizzazioni esterne nel campo del terrorismo come della criminalità comune. Si stava andando verso un clima generale di insicurezza per gli agenti di custodia, come per gli stessi detenuti. I feroci omicidi perpetrati in carcere non erano che la punta dell’iceberg di una estesa pesantissima situazione di intimidazione-sopraffazione. Un vero e proprio diritto di vita e di morte è stato esercitato in quel periodo dai capi delle organizzazioni terroristiche e comuni, rendendo spesso impossibile ogni distinzione individuale, ogni dissociazione dall’organizzazione o anche semplicemente la non collaborazione alle azioni di rivolta programmate in carcere. E vi è stato poi il tentativo di disarticolazione e di eliminazione fisica del personale della struttura organizzativa penitenziaria: dalla ‹‹campagna di annientamento›› degli agenti di custodia all’attacco ai magistrati della Direzione degli istituti di pena.
In questo clima si colloca la istituzione, in via di fatto e con il labile supporto di strumenti amministrativi (circolari ministeriali), delle carceri di massima sicurezza ed il ricorso sistematico all’art. 90 per derogare alle norme sul trattamento.
Non ho bisogno in questa sede di diffondermi sulle analisi, sostanzialmente da nessuno contrastate, che hanno sottolineato lo scarso o nullo ancoraggio normativo di queste scelte[5].
Il risultato fu l’irrigidimento durissimo delle condizioni di detenzione nel circuito degli «speciali», che per un certo periodo oltretutto ha avuto una espansione ben al di là dell’area di effettiva pericolosità. Ed ancora: moduli di organizzazione e di intervento in contrasto talora con il rispetto dei diritti più elementari della persona ed infine episodi di veri e propri abusi.
Personalmente condivido le posizioni di chi riteneva che il problema della sicurezza e dei livelli di custodia differenziati non potesse essere risolto con obiezioni pregiudiziali, ma andasse affrontato nel merito. Molto efficacemente lo studioso (Padovani) che con maggiore approfondimento aveva affrontato la questione aveva posto il punto cardine: «Il carcere di massima sicurezza sia il carcere di massima legalità» aggiungendo: «Abdicando alla responsabilità di affrontare consapevolmente questo nodo, sarà comunque la natura delle cose a riprendere il sopravvento, riportando in una dimensione puramente onirica anche il proposito di incidere sul piano del trattamento»[6].
Va a merito del piccolo gruppo di studiosi che seguì con grande attenzione l’attuazione della riforma del ’75 e dei magistrati di sorveglianza avere tenuto vivo il problema aprendo la strada verso una disciplina legislativa certo difficile, opinabile nelle scelte concrete, ma ineludibile.
Sin dal 1980-81 nei gruppi di lavoro dei magistrati di sorveglianza erano stati individuati i punti fondamentali: indicazione dei presupposti per la assegnazione a regime di custodia rafforzata, disciplina rigorosa del regime interno, intervento garantista del magistrato; mantenimento di un nucleo fondamentale di apertura verso il mondo esterno, che deve essere salvaguardato sempre, in coerenza con la prospettiva costituzionale di risocializzazione che non può essere esclusa per nessun detenuto; modica infine dell’art. 90 per ritornare ad uno strumento del tutto eccezionale e temporaneo di intervento in situazioni contingenti.
Era saggio pensare negli anni di piombo a tempi migliori, così come è stato saggio oggi che il problema della massima sicurezza ha perso molto della sua drammaticità, affrontare il nodo, senza aspettare non auspicati ma sempre possibili tempi peggiori.
3. Le riforme penali degli anni ’80
A partire dal 1981 riprese il faticoso cammino verso la riforma del sistema penale. Non si trattava certo della riforma del codice sostanziale e quanto al codice di procedura penale la strada, come ben sappiamo, rimane ancor oggi irta di difficoltà. E tuttavia alla fine dell’81, quasi a segnare dopo la stagione della legislazione dell’emergenza, una inversione di tendenza, venne approvata la legge 24 novembre 1981 n. 689, il più rilevante intervento riformatore dopo quello del ’74. E si tratta di una legge che riguarda da vicino la tematica di cui qui ci occupiamo: anche se l’attuazione pratica sarà non poco deludente, ci si muoveva nella prospettiva della riduzione dell’area di intervento della sanzione penale in generale (c.d. depenalizzazione) e della pena detentiva in particolare (sanzioni sostitutive).
A fine anno con DpR 18 dicembre 1981 n. 744 riprese la usuale cadenza delle amnistie. Anzi stavolta l’intervallo dal precedente provvedimento di clemenza è ridotto a tre anni e mezzo: forse si vuole recuperare la media statistica dopo il lungo intervallo tra il ’70 ed il ’78.
Ed ancora significativa, sempre ai nostri fini, la legge 12 agosto 1982 n. 532 che accanto al Tribunale della libertà introdusse finalmente nel nostro ordinamento l’istituto degli arresti domiciliari: la prospettiva della riduzione della detenzione si misura qui con la carcerazione preventiva.
Con le leggi dell’estate ’84 (legge 27 luglio 1984 n. 397, legge 28 luglio 1984 n. 398) è stato affrontato direttamente, nei presupposti e nella durata, il nodo della carcerazione preventiva, che ora muta anche di nome. Ta le battute di arresto ed i passi indietro che segneranno gli anni successivi fino ai nostri giorni, la direzione complessiva è però bene individuata: meno carcere. E ciò resta valido anche se ultime esperienze mostrano ormai chiaramente che il nodo ineludibile è quello della riforma globale del processo.
Di particolare rilievo, anche se non si tratta di provvedimenti legislativi, son il d.m. 31 ottobre 1984 sugli istituti di massima sicurezza, il Dm 31 ottobre 1984 sulla ricezione di pacchi da parte dei detenuti e la circ. min. 31 ottobre 1984 n. 3068/5518. Ma in realtà è quasi naturale che il carcere di massima sicurezza con provvedimenti amministrativa, così come è stato introdotto, ora si ritragga da parte: infatti il risultato pratico di queste disposizioni è stato una drastica diminuzione dell’area di applicazione dell’art. 90.
Infine con il Dl 22 aprile 1985 (convertito nella legge 21 giugno 1985 n. 297) è investita direttamente la materia penitenziaria con la introduzione della particolare disciplina per l’affidamento in prova del tossicodipendente (art. 47 bis), e, in modo ancor più incisivo, con la riduzione ad una mese del periodo di osservazione in detenzione per l’affidamento in generale.
È solo una anticipazione di più rilevanti interventi di modifica della riforma penitenziaria del 1975 ormai maturi.
4. L’iter parlamentare della legge «Gozzini»
I lavori preparatori della legge 10 ottobre 1986 n. 663 sono caratterizzati da una fase conclusiva alquanto concentrata, rispetto ai normali tempi parlamentari. Il 3 giugno 1986 viene depositata la relazione della commissione giustizia del Senato (rel. sen. Gallo) sul disegno di legge 23 presentato dal sen. Gozzini il 19 luglio 1983 ed esaminato unitamente al disegno di legge n. 423, presentato dal sen. Marchio il 2 gennaio 1984. Nelle sedute del 4 e 5 giugno 1986 il Senato approva un testo unificato; la Camera dei deputati approva, con ulteriori modificazioni, nella seduta dell’11 settembre 1986. Il Senato approva, con ulteriori modificazioni nella seduta del 25 settembre 1986: la Camera approva definitivamente il 2 ottobre 1986. Un iter parlamentare dunque particolarmente rapido nella fase finale, nonostante le difficoltà del percorso ad ostacolo rappresentato dalle modifiche apportate da entrambe le Camere.
Un più attento esame della complessiva vicenda parlamentare offre non pochi spunti di interesse. Anzitutto si osserva che il governo ha sostenuto, in una materia di tale rilievo, un testo di iniziativa parlamentare delle opposizioni. Vi è poi una singolarità: la ‹‹legge Gozzini››, come è giustamente chiamata dagli operatori e nel linguaggio giornalistico, nasce dalla unificazione di due disegni di legge presentati rispettivamente dai senatori della sinistra indipendente (Gozzini, Napoleoni, Ossicini, Ulianich e Anderlini) e del Movimento sociale italiano (Marchio, Filetti, Giangregorio). In realtà mentre il testo Gozzini è estremamente articolato ed ha costituito la vera base del testo definitivo, quello Marchio consta di un solo articolo, che riguarda la modifica dell’art. 90. Ed è davvero un segno dei tempi (e forse anche della detenzione in carceri di massima sicurezza di estremisti di destra) che esponenti di un partito che spesso si è distinto per campagne «legge e ordine» addirittura in favore della pena di morte, e per una concezione rigidamente retributiva della pena, scrivano nella relazione che «dell’art. 90 finora troppo spesso si è abusato, creando così dei veri e propri lager dove il detenuto vive in una condizione disumana certamente non tesa alla sua rieducazione».
In realtà il «progetto Gozzini» era già stato presentato nella legislatura precedente (Ddl Senato VIII legisl. n. 2159); il Ministro della giustizia Darida il 4 gennaio 1982 aveva presentato al Senato il Ddl n. 1961, intitolato ‹‹Istituzione dei permessi premio per i detenuti, introduzione di sanzioni disciplinari aggravate e modifiche dell’art. 90 della legge 26 luglio 1975 n. 354››, che fu approvato dal Senato il 29 luglio 1982,. Ma la fine anticipata della VIII legislatura aveva azzerato tutto.
Ancora si deve ricordare che la nuova disciplina della sorveglianza particolare si discosta nettamente dalla linee dell’iniziale progetto Gozzini e, a seguito di un emendamento del gruppo comunista, si è ispirata all’impianto della proposta presentata alla Camera dall’on. Mannuzzu (n. 806 del 9 novembre 1983).
Questi i precedenti a livello di progetti parlamentari, almeno i più immediati.
Ma la storia della legge Gozzini non è solo una storia parlamentare.
5. Dalla riflessione sulla applicazione della legge 1975 alle proposte di riforma
Un contributo di grande rilievo nella elaborazione di riflessioni sulla esperienza applicativa e quindi proposte di modifica all’ordinamento penitenziario è stato fornito dai magistrati di sorveglianza, in particolare attraverso una struttura di raccordo tra Consiglio superiore della magistratura e Ministero della giustizia (la cosiddetta Commissione mista composta da rappresentanti del Csm, esponenti della magistratura di sorveglianza e rappresentanti del Ministero).
È un modello su cui riflettere in un’epoca in cui tutte le più incisive riforme legislative non pretendono la completezza e definitività, ma si presentano piuttosto come aperte alle modificazioni suggerite dalla valutazione dell’applicazione pratica[7].
Sotto il profilo istituzionale si deve segnalare questo nuovo campo di iniziativa del Consiglio superiore della magistratura; ed ancora, si può cogliere una inedita (e particolarmente proficua) esperienza di collaborazione tra Ministero della giustizia e Csm.
Il Csm nella relazione al Parlamento approvata il 22 aprile 1976 aveva dedicato solo un accenno alla intervenuta riforma penitenziaria; i problemi che si ponevano per la nuova struttura della magistratura di sorveglianza erano visti all’inizio come meri adempimenti burocratici.
Ma le polemiche sui permessi sullo scorcio del ’76 destarono immediatamente l’attenzione del Csm, nel frattempo rinnovato alla scadenza del quadriennio e rafforzato nella sua rappresentatività dalla elezione con il sistema proporzionale.
La vicenda è significativa e mette conto ripercorrerla. L’istituto del permesso era stato sempre sotto il tiro di alcuni settori di opinione, ma nei primi giorni del 1977 venne lanciata una vera e propria campagna allarmistica sui mancati rientri fondata su dati approssimativi ed in parte «gonfiati». Attraverso un suggestivo accostamento al fenomeno, questo sì grave, delle evasioni attuate con violenza e con armi, talora con veri e propri assalti armati ai carceri, fu l’intera gestione della riforma e direttamente la magistratura di sorveglianza ad essere messa sotto accusa.
La questione assunse tale rilievo che il Consiglio superiore della magistratura promosse con grande tempestività una indagine sui permessi[8]. Dopo un minuzioso lavoro vennero raccolti dati completi, che avrebbero dovuto ridimensionare gli allarmi, poiché le percentuali globali sui mancati rientri erano modeste e del tutto in linea con le altre esperienze europee nel settore[9]. Ma non fu così: la campagna di opinione contraria proseguiva, pur prescindendo dal riferimento a dati empirici e si giunse alla legge 20 luglio 1977 n. 450, che sostanzialmente volle chiudere questa esperienza.
Parallelamente era andata avanti la ricerca di un capro espiatorio, individuato nel dott. Antonello Baldi, magistrato di sorveglianza di Siena. Promosso il procedimento disciplinare in relazione ad alcuni provvedimenti di concessione di permessi il dott. Baldi, con inusitata severità, venne prontamente sospeso dalle funzioni poiché, come si legge nella motivazione della ordinanza ‹‹appare, allo stato, che egli abbia commesso abusi di rilevante gravità››. Era il 9 luglio 1977, due giorni dopo cioè la approvazione della relazione finale sulla indagine conoscitiva; ma evidentemente la sezione disciplinare non se la sentiva di opporsi al clima generale che voleva un «colpevole». Qualche anno dopo il dott. Baldi verrà assolto[10].
In quel clima difficile il Csm convocò per il 14 luglio 1977 un incontro (il primo) con i magistrati di sorveglianza di tutta Italia e all’esito deliberò la prosecuzione dell’indagine, che anzi si trasformò poi in «Indagine conoscitiva sulla attuazione della riforma penitenziaria»[11].
Nel giugno 1978 si tenne un incontro tra il Ministro di giustizia, componenti del Csm e una delegazione di magistrati di sorveglianza, nominata dallo stesso Csm[12]. Le tensioni determinata dalla emergenza terroristica si facevano ormai sentire e l’incontro, al di là di quanto riportato nei comunicati ufficiali, vide momenti di vivo contrasto tra magistrati e rappresentanti del ministero. Un clima di sfiducia si faceva avanti nella magistratura di sorveglianza e molti chiesero il trasferimento ad altri uffici, tanto che il Csm, con una scelta molto discussa, ma necessitata, deliberò di consentire la destinazione agli uffici di sorveglianza anche di uditori di prima nomina[13].
Di fronte ad una situazione di crisi così acuta, che rischiava di affossare definitivamente la riforma, il Csm, raccogliendo un auspicio emerso nella riunione del giugno e recepito dal ministro Bonifacio, deliberò la costituzione di una «Commissione mista» costituita da membri del Consiglio stesso, da magistrati di sorveglianza e rappresentanti del Ministero di grazia e giustizia. L’iniziativa venne presentata in modo molto dimesso[14], ma si rivelò di straordinaria efficacia e vitalità, smentendo per una volta l’adagio secondo cui il modo migliore per non affrontare i problemi è quello di costituire una commissione.
La «Commissione mista» (come venne chiamata usualmente) conobbe naturalmente alti e bassi[15], ma nel complesso è stata una struttura di riferimento obbligato nel settore, grazie anche all’appassionato impegno di alcuni componenti del Csm, in particolare il «laico» Giovanni Conso ed i «togati» Mario Almerighi, Domenico Nastro e Marco Ramat.
In una valutazione retrospettiva credo si possa dire senza enfasi che in quegli anni difficili era in forse la stessa tenuta del nucleo della riforma penitenziaria: la apertura del carcere alla società, la umanizzazione della pena, la prospettiva del reinserimento nella società tendenzialmente offerta a tutti i detenuti senza preclusioni, il ruolo della magistratura di sorveglianza quale garante della legalità nella esecuzione della pena. Le mura del carcere, non solo materialmente, si alzavano sempre più; l’applicazione dell’art. 90 congelava la riforma per settori sempre più vasti di detenuti ed in questo clima venivano messi in discussione gli stessi presupposti della giurisdizionalizzazione della esecuzione della pena. La struttura ministeriale (oggetto di una serie impressionante di attacchi diretti, dalle gambizzazioni di funzionari agli assassini dei magistrati Palma, Minervini e Tartaglione, ai rapimenti di D’Urso e di Di Gennaro, cui si accompagnavano in periferia le intimidazioni e gli assassini di agenti di custodia) era quasi inevitabilmente schiacciata sulla mera tenuta materiale del sistema penitenziario.
Se la prospettiva della riforma nonostante tutto rimase aperta, se fu evitato il collasso definitivo della magistratura di sorveglianza lo si deve in misura non marginale alle iniziative assunte dal Csm e ad al proseguire del faticoso confronto nella sede della Commissione mista.
Nella relazione del Csm al Parlamento del 1980 venne affrontato espressamente il tema della applicazione della legge 354/75 e delle proposte di riforma.
Il Csm eletto nel 1975 al termine del suo mandato, nel 1981, auspicò il potenziamento degli uffici di sorveglianza e valutò positivamente l’esperienza della Commissione mista[16], che fu prontamente rinnovata dal Csm eletto nel 1981[17].
Ininterrotta si susseguì la serie degli incontri di studio in materia penitenziaria promossi dal Csm (Grottaferrata marzo 1979, Castelgandolfo marzo 1982, Grottaferrata novembre 1983, Frascati gennaio 1986), ove venivano a confronto le prospettazioni del Ministero, le riflessioni degli studiosi e le esperienze dei magistrati di sorveglianza, dei direttori di istituto e degli operatori del servizio sociale. I volumi con la pubblicazione degli atti testimoniano quel lavoro ed il contributo diretto fornito alla prospettiva delle modifiche alla riforma[18]. Questi volumi rappresentano anche la migliore risposta ad alcune critiche che, in un quadro di radicale contestazione del Csm, hanno censurato la iniziativa degli incontri di studio, in quanto indebita interferenza nell’attività interpretativa del singolo giudice. Il confronto, libero e appassionato, che in quella sede si è svolto tra magistrati di sorveglianza, docenti universitari e rappresentanti del ministero ha costituito piuttosto un importante punto di riferimento per i singoli magistrati, chiamati, nella decisione sui casi concreti, ad esercitare un’ampia discrezionalità, rispetto alla quale non sempre il testo normativo offriva parametri di orientamento. E l’attualità di questo profilo è semmai accentuata dalla legge 663.
Negli anni del convegno del 1982 si trovano già articolate linee di riforma che si confrontano con i nodi più rilevanti, dalle misure alternative ai permessi premio, alla massima sicurezza[19]; le proposte vennero ulteriormente discusse all’incontro di studi di Grottaferrata alla fine del 1983.
Nel frattempo il Ministro della giustizia aveva presentato il Ddl n. 1961/82 sui permessi premio e le sanzioni disciplinari aggravate, che, come già ricordato, fu approvato dal Senato il 29 luglio 1982, ma decadde per lo scioglimento anticipato delle Camere. La stessa sorte ebbe il d.d.l. n. 2159 presentato dal sen. Gozzini, che teneva conto ampiamente delle proposte elaborate dai magistrati di sorveglianza.
All’inizio della IX legislatura il sen. Gozzini ripresentò il suo progetto (Ddl n. 23/Senato del 19 luglio 1983) e la discussione in Commissione giustizia al Senato iniziò il 5 ottobre 1983.
Parallelamente proseguirono i lavori della Commissione mista e al convegno organizzato dal Csm a Grottaferrata nel novembre del 1983 venne presentata una relazione che fa il punto sulle proposte di riforma[20]. A luglio 1984 la Commissione mista presentò un documento ampio ed argomentato sulle proposte di riforma redatto anche alla luce delle elaborazioni della commissione giustizia del Senato[21]. Per il tramite del Csm e del Ministro l’elaborato della Commissione mista fu versato nella discussione parlamentare. I lavori in commissione al Senato proseguirono alacremente, con un contributo di ulteriori proposte sia dei senatori che del Governo. In proposito vi è ancora un dato rilevante: le audizioni in commissione di magistrati di sorveglianza (seduta del 29 gennaio 1985), di operatori penitenziari, dei responsabili della direzione degli istituti di pena, le visite al carcere dei parlamentari[22].
L’incontro di studio di Frascati del gennaio del 1986, che vide la partecipazione anche di diversi senatori della Commissione giustizia costituì un momento conclusivo di questo confronto.
Dopo di allora i lavori parlamentari proseguirono in modo serrato superando i problemi rimasti aperti, adottando le necessarie scelte politiche tra le diverse alternative che erano state prospettate, in modo tale da consentire una approvazione definitiva in tempi brevi.
Da questa vicenda, sotto il profilo del metodo, rimane evidenziato l’emergere di un ruolo particolarmente incisivo del Consiglio superiore della magistratura, ben al di là di una concezione meramente burocratica delle funzioni dell’organo, in significativo raccordo con il potere legislativo ed il governo[23].
Ed è ancora da sottolineare la novità del responsabile contributo alla discussione portato dagli stessi detenuti, sia dissociati dal terrorismo che comuni. La fase iniziale dell’iter parlamentare venne accompagnata da pacifiche manifestazioni in numerosi istituti. Ma già prima erano stati forniti anche contributi molto precisi tra i quali si può ricordare la relazione presentata a Rebibbia da un gruppo di detenuti il 29 giugno 1984 nel primo convegno che si tenne in un carcere[24].
[*] Pubblicato su questa Rivista (edizione Franco Angeli), n 3/1987: «Speciale: Problemi del sistema penitenziario a un anno dalla legge Gozzini», pag. 611 e ss.
[1] Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, trad. it, Torino, 1976, p. 255; può essere interessante ricordare che lo stesso Foucault ha anche osservato: ‹‹Conosciamo tutti gli inconvenienti della prigione, e come sia pericolosa quando non è inutile. E tuttavia non “vediamo” con quale altra cosa sostituirla. Essa è la detestabile soluzione, di cui non si saprebbe fare a meno›› (Ibid., p. 252).
[2] Il testo francese della risoluzione si trova riprodotto in Marinucci, Politica criminale e riforma del sistema penale, in Jus, 1974, p. 486, in nota. Al lavoro di Marinucci si rinvia per una ampia riflessione sulla problematica della riforma del sistema sanzionatorio.
[3]Si veda al riguardo Neppi Modona, Appunti per una storia parlamentare della riforma penitenziaria, in Quest. Crim., 1976, p. 350 ss.
[4] Già in precedenza, prendendo spunto dal succedersi, nello spazio di pochi mesi, del d.l. 11 aprile 1974 n. 99 (che incisivamente temperava rigidità del codice Rocco) e della l. 4 ottobre 1974 n. 497 (la c.d. legge Bartolomei che introduceva severi inasprimenti sanzionatori per taluni reati che avevano suscitato speciale allarame) Marinucci aveva rilevato «all’insegna dell’urgenza, si imprime fatalmente alla nostra politica criminale il movimento di un pendolo che oscilla freneticamente in direzioni radicalmente opposte, ora verso una sconfinata mitezza, ora verso una forsennata severità» (op. cit., p. 466).
[5] Cfr. Padovani, Ordine e sicurezza negli istituti penitenziari: un’evasione dalla legalità, in Diritti dei detenuti e trattamento penitenziario, a cura di Grevi, Bologna, 1981, p. 285 ss.; nonché Tamburino, La sicurezza nel quadro del regime penitenziario. Ipotesi introduttive, in Diritto penitenziario e misure alternative, Roma, 1979, p. 101 ss.; La Greca, Documenti per una riflessione sugli istituti di ‹‹massima sicurezza››, in Foro it., 1983, II, p. 473; Id., Novità sul regime di ‹‹massima sicurezza›› negli istituti penitenziari in L.P., 1985, p. 299 ss.
[6] Padovani, op cit., p. 305.
[7] Nell’introdurre l’incontro di studio organizzato dal Csm il 25 marzo 1979 Giovanni Conso individuava chiaramente due obiettivi: «Si tratta in primo luogo di fare il punto della situazione attraverso un confronto delle ormai numerose esperienze… Subito dopo ci si dovrà porre di fronte al problema di innovare la riforma, attraverso opportuni miglioramenti, per un aggiornamento che sappia concretizzare le esperienze vissute in modo da ridare slancio alla riforma stessa…» (in Diritto Penitenziario e misure alternative, cit., p. 10). Ed infatti insieme al confronto sulle questioni organizzative e sui problemi interpretativi aperti, negli atti di quel convegno si individuano alcuni nodi sui quali si segnala l’esigenza di un intervento legislativo; con riferimento ad esempio al coordinamento, in un sistema progressivo, tra affidamento e semilibertà si consentito rinviare a Bruti Liberati, Misure alternative alla detenzione: problemi sostanziali e processuali, in Diritto penitenziario e misure alternative cit., p. 152 ss.
[8] Circ. 28 gennaio 1977 n. 304 in Notiz. Csm, 1977, n. 1, p. 14.
[9] Relazione finale 7 luglio 1977 in Notiz. Csm, 1977, n. 11, p. 18.
[10] Sez. disc. Csm 23 giugno 1981, nella cui motivazione si può leggere: «la sezione non ritiene che possa addebitarsi in sede disciplinare una interpretazione della normativa sui permessi che rientrava, secondo prassi generalizzata ed autorevole dottrina, nello spirito della riforma penitenziaria».
[11] Delibera 22 marzo 1978 in Notiz. Csm, 1978, n. 6, p. 6.
[12] Delibera Csm 31 maggio 1978 in Notiz. Csm, 1978, n. 10, p. 19. All’incontro parteciparono il ministro della Giustizia Bonifacio e suoi collaboratori; per il Csm il laico Conso ed i togati Sergio, Ramat, Nastro ed Almerighi; una nutrita rappresentanza dei magistrati di sorveglianza, tra i quali chi scrive.
[13] Delibera 13 luglio 1978 in Notiz. Csm, 1978, n. 13, p. 21.
[14] Delibera 12 luglio 1978, in Notiz. Csm, 1978, n. 13, p. 38. La commissione si riunì dieci volte nel triennio 1978-81.
[15] Su questa esperienza cfr. Daga, Regole nuove negli istituti di pena, in Quad. giust., 1986, n. 63, pp. 43-44, 50; nonché Zappa, Gli uffici di magistrati di sorveglianza. Ipotesi di ristrutturazione, in Problemi attuali della magistratura di sorveglianza, Roma, 1983, p. 88. Giancarlo Zappa, Sandro Margara e Mario Canepa hanno rappresentato in questi anni il punto di riferimento dei magistrati di sorveglianza più attivi.
[16] Delibera 24 giugno 1981, in Notiz. Csm, 1981, n. 12, p. 3.
[17] Delibera 30 settembre 1981 in Notiz. Csm, 1981, n. 15, p. 3.
[18] Diritto penitenziario e misure alternative, Roma, 1983; Problemi attuali della magistratura di sorveglianza, Roma, 1983; Incontro del Csm con i magistrati di sorveglianza, Roma, 1985. Gli atti del convegno di Frascati del gennaio 1986 sono in corso di pubblicazione.
[19] Si veda il progetto redatto in articoli dal titolo ‹‹Proposte di modifica della legge 354›› predisposto da un gruppo di magistrati di sorveglianza riuniti a Milano l’8 ottobre 1981 e coordinato da Zappa, in Problemi attuali della magistratura di sorveglianza, cit., pp. 121-131. Sul significato complessivo di queste proposte cfr. Vassalli, Il dibattito sulla rieducazione. In margine ad alcuni recenti convegni, in Rass. penit., 1982, p. 440 ss.; nonché già la relazione di sintesi del convegno svolta dallo stesso Vassalli, ora in Problemi attuali, cit., p. 295 ss.
[20] Cfr. l’elaborato dal titolo «Modifiche intervenute o in corso di esame in relazione alla l. 26 luglio 1975 n. 354, con particolare riguardo ai permessi, agli istituti di massima sicurezza, all’art. 90 dell’ordinamento penitenziario», in Incontro del Csm cit., p. 83 ss. L’elaborato era il frutto del lavoro di un gruppo di studio di magistrati di sorveglianza, coordinato da Canepa e composto da Maisto, Gerini, Merlo, Pasi e Spanto.
[21] Cfr. al riguardo Notiz. Csm, 1984, n. 10, p. 9. Particolarmente proficua fu l’opera del comitato ristretto redigente costituito all’interno della Commissione giustizia del senato.
[22] Si veda in proposito Daga, Regole nuove, cit., p. 43 ss.
[23] Ha ricordato di recente F. P. Bonifacio che «chi si proponga di indagare la funzione istituzionale del Consiglio, dovrà fare necessariamente i conti con il ruolo che, nei giorni tragici della Repubblica, ebbe a svolgere il massimo organo di governo della magistratura: egli non avrà difficoltà, allora, a comprendere che la costituzione, nel complesso dei suoi principi, non affida al Consiglio competenze meramente amministrative» e che «il suo ruolo non può ridursi all’esercizio delle singole attribuzioni statuite nell’art. 105 Cost. » (Il ruolo istituzionale del Consiglio superiore della magistratura, in questa Rivista, 1987, pp. 1 e 4). Come si è ricordato sopra Bonifacio era ministro della Giustizia quando nacque l’esperienza della «Commissione mista».
[24] Salvatore Buzzi e altri, Una proposta dal carcere: misure alternative alla detenzione e ruolo della comunità esterna, ora in questa Rivista, 1984, p. 853 ss. Il clima di ampia partecipazione che ha accompagnato l’ultima fase dell’iter parlamentare della legge 663 è stato già sottolineato da Margara, La modifica della legge penitenziaria: una scommessa per il carcere, una scommessa contro il carcere, in questa Rivista, 1986, p. 519 ss.