Correnti malate, probabilmente morte
Che le correnti della magistratura politicizzino la giurisdizione, torcendo le inchieste o i processi verso obiettivi di parte, è un falso diffuso ad arte dagli ambienti politici e dalla stampa soprattutto (ma non esclusivamente) di centrodestra.
Altri sono, invece, e più gravi, i guasti del “correntismo” della magistratura: le pure logiche di spartizione del potere, che affondano le radici nella fragilità culturale di tutti i gruppi, intralciano il percorso di miglioramento del servizio giustizia, e l’autoreferenzialità della “casta” alimenta la questione morale.
Solo la speculazione politica di infimo livello, assai diffusa ai nostri giorni, insiste sulla vulgata secondo cui l’appartenenza a una corrente inficia il grado di indipendenza della magistratura guidando l’azione di un procuratore o compromettendo la serenità di un giudice. Questo è falso.
Con il termine “corrente”, il populismo odierno (dall’inconfondibile imprinting del ventennio arcoriano) allude a come le simpatie politiche colleghino meccanicamente una toga a questo o a quel raggruppamento dell’Associazione magistrati. Ne conseguirebbero – siamo sempre nella fioritura di stupidaggini da talk show – la scelta mirata dei target investigativi, la manipolazione della tempistica giudiziaria, la diffusione politicamente mirata di carte processuali, il rapporto sotterraneo con organi di stampa vicini a questa o quell’ideologia. Per la precisione, pur non mancando qualche mugugno degli esponenti politici di centrosinistra, la generalità degli attacchi e delle versioni irrispettose dei fatti, è appannaggio del centrodestra e della stampa che lo affianca, pronta a cogliere ogni pretesto per dipingere le “toghe rosse” di Magistratura democratica, come persecutrici di uomini, amministratori e organizzazioni politicamente sgraditi, dunque da “combattere”.
È una rappresentazione speciosa e volgare dell’insieme della magistratura e dei fermenti culturali che l’attraversano, anche se è ovvio che esistono i casi deprecabili, perché viviamo in un mondo che perfetto non è. A testimoniare la rettitudine complessiva dell’esercizio della giurisdizione ci sono migliaia di sentenze, l’impegno professionale dei 9mila magistrati ordinari e dei loro coadiutori, la tenuta dell’ordinamento nonostante un ventennio di waterboarding che avrebbe già piegato un corpo istituzionale meno forte o disancorato dai principi.
Dunque mente deliberatamente chi dalla tv, dalle piazze o dal Parlamento martella con il messaggio «correnti=ingiustizia».
La preoccupazione che suscita il persistere delle correnti nella magistratura, è d’altro tipo ed è più grave. In primo luogo perché – ormai dilavato dal tempo e dai mutamenti culturali l’humus delle originarie ragioni ideali – è visibile a occhio nudo l’intrico di radici che affondano nella fragilità culturale comune all’intera categoria, senza rilevanti differenze tra sigle; il secondo motivo di allarme sta negli effetti nefasti che il tavolo di trattativa permanente tra correnti riversa sulla quotidianità del servizio in termini di carriere, valutazioni di professionalità, nomine, organizzazione giudiziaria.
L’Associazione nazionale è la casa di tutti i magistrati. Così dice, ad esempio, la partecipazione altissima a ogni tornata elettorale: nel 2012 ha votato oltre il 75% dei 9mila magistrati, con una ripartizione equilibrata fra le tre principali correnti: Area (2.271 voti), Unità per la Costituzione (2.268) e Magistratura indipendente (2.000). Non male, come rappresentanza di un potere monadico, impersonale e diffuso. Ma tutti sanno – o imparano molto presto – che la possibilità reale di pesare nell’Anm, di ottenerne l’attenzione e i dovuti ritorni, dipende anche dall’impegno di uno dei tre raggruppamenti, in cui è opportuno militare, o anche dai legami con chi vi ricopre un ruolo. L’equilibrio e la mediazione tra le correnti determinano la dirigenza e la politica dell’Associazione. Lo stesso accade nel Consiglio superiore quando è chiamato a decidere su questioni disciplinari o suona l’ora delle nomine. Le dinamiche con cui variano le geometrie intercorrentizie, le cordate e i cartelli, sono le stesse del sottogoverno nella politica.
Per l’osservatore esterno, il discorso potrebbe chiudersi qui, perché è ormai risaputo il giudizio del Paese sulle derive del sottogoverno, in qualunque ambito venga esercitato: è una condanna senza appello perché il sottogoverno è il contrario della trasparenza, non apprezza il merito, l’appartenenza un apprezzato atout, la fedeltà ai leader facilita o assicura la carriera. Esistono le eccezioni, ci mancherebbe. Ma per essere di qualche utilità, ogni analisi su questo tema dovrebbe evitare di rifugiarsi nel valore storico e culturale delle correnti per ancorarsi onestamente al solo punto cospicuo oggi rilevabile: il loro peso condizionatore dell’azione di autogoverno della categoria.
Restano comprensibili la nostalgia, la rievocazione, il duello dialettico, il richiamo forte ai princìpi e alle grandi figure del passato. Persino corretti quando l’urgenza è respingere gli assalti della politica o difendersi da Guardasigilli dichiaratamente ostili alla magistratura (s’è visto anche questo). Ma su questa strada si va fuori tema perché sono argomenti non più in grado di rianimare le battaglie culturali degli anni ‘70 e ‘80, l’opposizione coraggiosa a gerarchie formate da anziani autoritari oltreché, non di rado, ossequiosi verso poteri di ogni genere. Possono anche essere condivisibili certe elaborazioni dotte e sofferte sull’essenza della magistratura, ma oggi i temi, i terreni di confronto, i problemi reali sono ben altri.
Non è rimasto molto delle grandi motivazioni ideali distintive di una corrente rispetto a un’altra e l’attuale elaborazione teorica è ormai affidata a pochi pensatori applauditissimi nei congressi e messi da parte quando sui tavoli riservati si cominciano a distribuire le carte per decidere eletti e “trombati”. Il ricorso al potere reale delle correnti è trasversalmente improprio, le raccomandazioni chieste e gli appoggi ricevuti non rendono distinguibile un gruppo da un altro. Le stesse manovre si registrano nel campo del penale e del civile, del giudicante e del requirente, al nord come al sud. Se “correntiziamente” ben piazzato, un magistrato giovane e brillante potrà arrivare a sedere nel Csm superando lodevoli anzianità e consolidate esperienze di cani sciolti. Le degenerazioni più recenti offrono fenomeni di ulteriore frammentazione senza parvenza d’ideale, ovvero il raggrupparsi localistico in frange interne alla medesima corrente, basate in uffici giudiziari dai quali si dialoga con i cittadini, si dà battaglia con interviste e comunicati stampa, si criticano le scelte del Governo, si rimproverano il Csm e il Parlamento; si arriva a biasimare – sempre urbi et orbi – i capiufficio.
Al fondo di queste turbolenze che provocano affanno ai vertici associativi e di corrente, con scissioni e sanguinose polemiche interne, si possono individuare alcune ragioni bene visibili e altre meno afferrabili.
Visibili – talora anche fondate – sono le ragioni della corporazione che difende lo stipendio o le ferie, che protesta per gli assurdi carichi di lavoro, sottolinea le assenze del Ministero, i ritardi del Consiglio superiore, alza fuoco di sbarramento contro ipotesi normative giudicate sbagliate. Dovrebbe essere compito istituzionale del Csm, ma ci stanno anche le voci della “base” espresse dai loro eletti. Altre ragioni appaiono più discutibili, spesso sovrapponibili ad aree di privilegio e ad antiche guarentigie, troppo simili a quelle della vituperata casta dei politici.
Muovendo da queste premesse – falso che le correnti politicizzino la giurisdizione, vero che non contribuiscano o intralcino il percorso di miglioramento del servizio – il punto focale si sposta dalla divisione in sigle al diffondersi di una sorta di pensiero debole che sembra omologare i magistrati verso i temi spicci e quotidiani della corporazione, sui quali litigano, si impegnano, si agitano, sempre portando a motivazione importanti tematiche ideali e forti affermazioni di principio. Sono le modalità tipiche della cultura che domina in ogni casta.
Argomento fastidioso, ma pertinente. Una casta (come si diceva, l’Italia ne è ricca: politici, preti, avvocati, militari, giornalisti, sindacalisti, farmacisti, professori, taxisti, notai, per limitarsi alle più citate) è «un ordine di persone che si considera, per nascita o per condizione, separato dagli altri e gode o si attribuisce speciali diritti o privilegi». È esattamente la considerazione di sé che genera le piccole e grandi arroganze, il sussiego che non ascolta o respinge automaticamente ogni rilievo mosso dall’esterno e subito si appella all’indipendenza o ad altri altissimi valori, anche a sproposito. La consapevolezza dello status è totale e la sua acquisizione velocissima. La si percepisce anche nei giovani uditori, freschi di studio e ancora timidi davanti al collega anziano e famoso.
La consapevolezza degenera nell’autoreferenzialità, ovvero la perdita di contatto con parametri che non siano quelli accolti e interiorizzati dalla categoria; la stessa distanza che pone la gente comune in soggezione verso un barone universitario o un primario ospedaliero. I sintomi più visibili sono la repulsione per l’autocritica e la tendenza – anch’essa tipica delle caste – a non indignarsi, salvo poche eccezioni mal giudicate dai più, per gli errori e i comportamenti riprovevoli dei colleghi (non importa di che corrente). Difficile dire, a esempio, quali riflessioni abbia stimolato il recente caso della presidente Saguto, né quanto importi, ai magistrati, la percezione che si ha della categoria. Ma i cittadini si chiedono, perplessi, dove guardassero i colleghi del Tribunale di Palermo mentre nella sezione delle misure di prevenzione cresceva il bubbone esploso due mesi fa. E quali scuse siano state presentate per le probabili omissioni e ritardi. Questo genere di attenzione, tipica del bilancio sociale, è trasversalmente ignorata o non ritenuta pertinente dall’associazionismo e dalla sottostante suddivisione correntizia.
È anche, purtroppo, opinione diffusa, non solo nei bar ma anche tra gli addetti più avvertiti, quanto rischioso possa essere per un cittadino, trovarsi coinvolto in una lite con un magistrato, perché la solidarietà corporativa supera geografia, anzianità, ruolo e funzione aleggiando come incognita imponderabile fino all’ultimo grado di giudizio e può incidere per riflesso condizionato anche oltre le intenzioni di chi l’attiva o la richiede. Nessuna toga – tanto per chiudere senza troppo drammatizzare – deve preoccuparsi se i biglietti per un concerto sono esauriti, per i tempi d’attesa di una visita specialistica e sarà certo il trattamento di riguardo dal concessionario d’auto, senza nulla chiedere, perché è spontanea la pulsione a ingraziarsi la categoria.
I profili generali, la cultura, la mentalità e i tic fin qui descritti, non hanno una relazione diretta con la sopravvivenza delle correnti, ma forse ce l’hanno con i loro aspetti più negativi e criticati dagli stessi aderenti perché indici ormai rilevati di gravi responsabilità. La categoria nel suo insieme – sempre evocando presunti rischi per l’indipendenza – non ha mai scelto e ha a lungo resistito a una seria valutazione di professionalità; ancora oggi diffida largamente e in qualche caso si oppone ai tentativi di introdurre le buone pratiche per una maggior efficienza, interpretandole come “aziendalismo giudiziario”; non ha accettato l’idea che occorra studiare apposite tecniche per dirigere un ufficio, per far funzionare il team di cui si diventa leader e anche per essere capaci di lavorare in gruppo (pool) quando occorra. Altri indicatori che rivelano altrettanti rischi: l’idea di essere i soli difensori (o peggio detentori) di valori cui la società stenta ad aderire e perciò da sanzionare quando se ne discosta. Da qui, è breve il passo per sentirsi una fortezza da difendere, anche perché gli assedianti sono quasi tutti: avvocati, giornalisti, imprenditori, professionisti, amministratori. E, in un riflesso collettivo che si diffonde senza ostacoli, viene dichiarato “assediante” ogni collega (meglio se di altra corrente) che vada a ricoprire altre funzioni nei ranghi dello Stato, che si candidi, che presieda un’Authority o diventi assessore. Anche se questo collega opera bene, contribuisce al benessere e alla modernizzazione della pubblica amministrazione, accresce il prestigio della categoria confermandone onestà, affidabilità e competenza di chi vi appartiene. Niente da fare: nella casta si sta dentro o si è fuori.
NdA Nel 1979 ho mosso a Milano i primi passi da cronista giudiziario per il quotidiano Lotta Continua e Radio popolare, dunque da giornalista convintamente e visibilmente di sinistra in anni non facili a causa del terrorismo rosso. Ma nel Palazzo di giustizia non mi sentivo fuori posto tra giovani magistrati e avvocati zazzeruti, dal look trasandato quanto il mio, l’occhio acceso dalle grandi passioni civili, il volantino facile: erano le toghe di Md e gli avvocati del Soccorso rosso. Nel 2013, ho pubblicato “L’onere della toga”, un libro che mostra – attraverso le storie umane e professionali di cinque Pm – il lato meno noto degli uomini e delle donne ossessivamente descritti come disonesti persecutori di avversari politici. È un libro libero e consapevolmente dalla parte dei protagonisti.
Pur invecchiato coltivando curiosità, comprensione e fiducia nei magistrati, non credo che oggi scriverei un libro come “L’onere della toga”, perché terminata la “grande pressione” iniziata nel 1994, ciò che ho potuto osservare dal 2012 in avanti ha corroso la mia empatia e fatto traballare le mie opinioni. Resto tuttora aggrappato alla stima per poche toghe o ex toghe che definirei “eccezionali”: per storia e caratteristiche personali e perché sempre più rare nel loro stesso ordine.