Editoriale
Non credo occorrano molte parole per spiegare le ragioni che ci hanno indotto ad occuparci in questo numero della Rivista del tema del dissenso.
Viviamo certamente in un’epoca caratterizzata dalla complessità e dalla frammentazione. L’eccezionale sviluppo della tecnica, che – per dirla con Emanuele Severino – è la potenza più forte fra quelle che si sono presentate durante l’intero corso della storia, annullando le distanze, facilitando ogni forma d’immediata comunicazione e provocando modificazioni veloci e profonde nel modo di vivere quotidiano, sta trasformando profondamente anche gli strumenti di governo delle società; ma li rende pure meno facilmente gestibili attraverso i tradizionali canali cui ancor fino a ieri eravamo avvezzi. D’altro canto, la stessa rapidità del mutamento economico-sociale contribuisce ad accrescere i dislivelli: perché la velocità del cambiamento non è uguale in ogni luogo ed in ogni contesto, e le società quasi ovunque appaiono percorse da correnti e da spinte contrastanti, non facilmente riconducibili alle usuali categorie definitorie della politica e della sociologia. Fenomeni migratori di rilevante portata, quali non se vedevano dal tempo tragico dell’ultimo dopoguerra, ed il montante pericolo del terrorismo diffuso su scala mondiale fanno il resto.
Dal senso di diffuso disagio o di vero e proprio smarrimento che tale situazione provoca, anche ma non solo nel nostro Paese, è quasi inevitabile che si generino istanze di “governabilità”. Parola spesso ripetuta – direi quasi invocata – da chi si sente disorientato e smarrito nei confronti di fenomeni sociali che sembrano sfuggire ad ogni controllo. Quella parola però, al tempo stesso, viene non di rado strumentalmente adoperata da chi quei fenomeni invece tenta (o magari s’illude) di controllare a fine di esercizio del potere.
Ma se l’esigenza di una qualche governabilità è intrinseca a qualsiasi società, non per questo occorre farne una priorità assoluta. V’è altrimenti il rischio di schiudere la porta a preoccupanti prospettive autoritarie, di cui si scorgono forse già le tracce nella riscrittura di alcune parti della nostra Costituzione, nella configurazione di sistemi elettorali che proprio sull’esigenza di governabilità fanno leva e, più in generale, nella tendenza a ridurre lo spazio d’intervento dei corpi intermedi tra la società civile ed il potere politico.
Proprio per questo è oggi più che mai necessario rivendicare convintamente il ruolo del dissenso e preservane lo spazio operativo: perché è il migliore antidoto contro ogni forma di autoritarismo, esplicito o meno che sia. Dissenso inteso non come il mefistofelico «spirito che nega», ma come capacità critica senza poter esprimere la quale cesseremmo di essere cittadini per ridiventare sudditi. Dissenso che nel corso della storia è stato spesso oggetto di repressione ma che, nondimeno, ha sempre costituito la molla di ogni progresso umano: perché, opponendosi radicalmente a qualsiasi forma di dogmatismo – in campo religioso, scientifico e politico – ha scosso convinzioni ritenute immutabili, e superate invece dai tempi, consentendo lo sviluppo del pensiero e della moderna civiltà occidentale, con le sue mille contraddizioni ma anche con i suoi pur imperfetti valori di laicità e di democrazia.
E dunque, mentre l’appello alla governabilità si fa più forte e mentre in molte parti del mondo (non troppo lontane da noi) c’è chi fanaticamente esalta modelli politico-sociali ispirati al più radicale dogmatismo religioso, la tutela degli spazi del dissenso – anche naturalmente sul piano giuridico – è davvero divenuta impellente. E ci impone di essere, a nostra volta, radicali nel rivendicare quegli spazi, senza lasciarci trascinare in equivoci compromessi con le esigenze di sicurezza sociale che si vorrebbero contrapposte (e penso alla necessità di abolire finalmente dal nostro ordinamento i residui reati di opinione) e senza arretrare neppure quando le opinioni di chi dissente ci appaiano assolutamente inaccettabili (e penso alle ricorrenti proposte di perseguire penalmente i vari negazionismi storici). Perché sarà pur vero che le lezioni dei “cattivi maestri” possono indurre sconsiderati discepoli ad azioni pericolose o eversive, ma il rapporto tra pensiero ed azione non è mai meccanico ed il prezzo che, in termini di libertà, si paga nel voler reprimere il pensiero per prevenire l’azione è sempre troppo alto. La linea di demarcazione tra la diffusione di certe idee e la messa in atto di comportamenti violenti ed antidemocratici può talvolta riuscire difficile, come l’esperienza dei cosiddetti “anni di piombo” amaramente ci ricorda, ma già Kelsen, in un saggio apparso nel 1953, intitolato Cos’è la giustizia (pubblicato nel 1966 in traduzione italiana da Il Mulino in un volume di scritti kelseniani dal titolo I fondamenti della democrazia), ammoniva che «Dalla possibilità di trovare una tale linea di demarcazione dipende la possibilità di conservare democrazia», ed aggiungeva: «Può anche darsi che questa delimitazione racchiuda in sé un pericolo, ma la democrazia, per la sua essenza stessa e per il proprio onore, deve affrontarlo. Se non può superarlo essa non è degna di essere difesa». E sarà anche pur vero che il negazionismo può alimentare nostalgie politiche che ci fanno orrore, ma è solo sul piano storico che esso va risolutamente combattuto, con le armi dell’argomentazione e dell’evidenza dei dati, non certo con quelle della censura.
In questo numero della Rivista si parla anche dell’associazionismo dei magistrati. L’accostamento con il tema della tutela del dissenso potrebbe apparire arbitrario. Ma credo invece che non lo sia: per una ragione storica e per una ragione politica.
Sul piano storico il fenomeno dell’associazionismo, tra magistrati che erano abituati a considerarsi spesso come detentori di un potere e come interpreti apolitici della volontà del legislatore, ha segnato la presa progressiva di coscienza di quanto, viceversa, l’esercizio della funzione giurisdizionale potesse essere intrinsecamente venata di opzioni in senso lato “politiche”, o – se si preferisce – di opzioni ideali tra loro diverse. I magistrati non più dunque concepiti come un corpo monolitico di funzionari pubblici, ma come portatori di idee talvolta dialetticamente in contrasto tra loro e nel quale, quindi, anche il dissenso dagli orientamenti consolidati andava visto – e deve esser visto – come un fattore propulsivo. E non è certo casuale che all’associazionismo dei magistrati il regime dittatoriale fascista intese a suo tempo porre divieto.
Sul piano politico l’associazione dei magistrati costituisce, evidentemente, uno di quei corpi intermedi della società civile che, come sopra accennato, non sembrano godere grande favore presso gli attuali rappresentanti del potere di governo; i quali, in nome della governabilità e della necessaria rapidità delle loro decisioni, paiono poco inclini a confrontarsi con loro.
Ora, non si vuole certamente negare che il fenomeno associativo attraversa da alcuni anni una grave crisi ideale e reale. Il venir meno nella società di molti dei riferimenti ideali che avevano innervato la cultura politica del novecento è un fatto tanto evidente quanto complesso da indagare nelle sue cause storiche remote e recenti; né certo si può pensare di farlo qui. È difficile, tuttavia, non registrare come quel fenomeno si sia riflesso non solo sull’esistenza e sul modo di operare dei partiti politici, ma in notevole misura anche sull’associazionismo giudiziario e sulle correnti di cui esso si è nutrito; non perché quelle correnti fossero (e men che mai oggi lo sono) la meccanica trasposizione in ambito associativo dei principali partiti politici esistenti nel Paese, ma perché innegabilmente almeno alcune di esse – e mi riferisco ovviamente soprattutto a Magistratura democratica – erano nate da un’ispirazione ideale che rispecchiava una visione generale della società comune anche ai partiti politici di sinistra. È indiscutibile che l’appannarsi di questa visione e la crisi delle ideologie novecentesche più fortemente profilate hanno favorito, in campo associativo, derive “correntizie”, ed è divenuto usuale dare a questo termine una valenza negativa, ravvisando appunto nelle correnti della magistratura associata non più dei centri di elaborazione ideale e culturale, bensì dei gruppi volti soprattutto alla gestione del potere nelle istituzioni che amministrano la giustizia.
Di questa visione denigratoria non credo ci si possa liberare con un’alzata di spalle. Occorre invece interrogarsi a fondo sulle difficoltà che attraversa oggi l’associazionismo giudiziario; ed è quello che qui tentiamo di fare. Ma con la consapevolezza che esso rimane uno strumento indispensabile di evoluzione professionale e culturale dei magistrati e che, quindi, sarebbe un arretramento gravissimo il volerne fare a meno.
Oso dire del resto – senza presunzione né superbia – che proprio questa Rivista, nata e supportata da Magistratura democratica, attraverso le riflessioni che propone sta a dimostrare come ci sia ancora spazio per una corrente associativa che non nella spartizione di posti giudiziari, bensì nell’elaborazione culturale dei temi della giustizia, ricerchi la propria ragion d’essere.
L’associazionismo giudiziario, nella sua più alta funzione, dovrebbe poter concorrere alla formazione professionale di un magistrato che non sia soltanto dotato delle conoscenze tecnico-giuridiche che l’accesso tramite pubblico concorso è supposto già garantire, ma che sia anche capace d’interpretare il suo ruolo con la necessaria consapevolezza ed attenzione ai riflessi etico-sociali insiti in ogni decisione di giustizia.
Se la bontà della decisione fosse garantita solo dal rispetto delle forme legali che la circondano (come pure sostiene una moderna corrente di nichilismo giuridico, che appunto nel rispetto della forma vede il solo salvagente possibile in un mare di norme e principi giuridici privi di ogni intrinseca coerenza), il ruolo del giudice si ridurrebbe, appunto, a quello di garante della regolarità formale del procedimento. Un ruolo sostanzialmente burocratico, che non soltanto mi parrebbe riduttivo ma anche francamente in contrasto con l’essenza stessa del giudicare, cui è insita un’istanza di ricerca della giustizia – magari soltanto tendenziale e comunque relativa – senza la quale il diritto perderebbe il suo valore sociale.
Le regole processuali naturalmente occorrono, ed occorre che il giudice le faccia rispettare, ma allo scopo di garantire che la decisione sia la più possibile rispondente ai criteri di giustizia cui è improntato l’ordinamento giuridico; tradiscono invece il loro ruolo quando si trasformano in inutili proceduralismi che ostacolano, anziché favorire, la decisione sul merito. E ciò – se non m’inganno – è tanto più vero proprio nel processo civile, nel quale il giudice, più che brandire la spada destinata a punire il colpevole di reati, deve reggere la bilancia per distribuire torto e ragione tra le parti.
Per questo sono persuaso che le regole del processo civile dovrebbero essere più che mai funzionali al raggiungimento della decisione sul merito. Ovviamente bisogna che a quella decisione si pervenga correttamente, ma occorre che il percorso sia disegnato dal legislatore nel modo più piano e semplice possibile: perché ogni qual volta accade – ed accade purtroppo spesso – che il processo civile si concluda con una pronuncia di carattere meramente processuale, senza definire il merito della lite, siamo di fronte ad una sconfitta della giustizia. Anche se formalmente corretta, quella decisione lascia l’amaro in bocca, giacché significa che non si è potuto risolvere il conflitto tra le parti dando ragione a chi lo meritava, col rischio che il suo buon diritto sia stato leso senza rimedio.
Non sono affatto sicuro che il processo civile, quale oggi lo conosciamo e lo pratichiamo quotidianamente nelle aule di giustizia, sia davvero idoneo allo scopo cui dovrebbe tendere. Lo era forse nella prima metà del secolo scorso, quando ne fu messa a punto la struttura ad opera di giuristi raffinati che, però, avevano in mente tribunali chiamati a decidere un numero di cause incommensurabilmente minore di quello odierno e che si rivolgevano ad un ceto di avvocati e di giudici professionalmente ben selezionato. L’avvento della giustizia di massa – che di per sé è certo un fenomeno positivo, perché corrisponde ad un accrescimento generalizzato delle tutele giuridiche – ha però modificato radicalmente la situazione; ed ha concorso a peggiorarla molto il vero e proprio diluvio di riforme, per lo più assolutamente disorganiche, intervenuto a partire dagli anni 90. Ne è risultato un sistema processuale civile che, sotto certi aspetti, appare forse ormai troppo sofisticato e complicato per essere gestito adeguatamente da un ceto di operatori giuridici così numeroso da essere fatalmente meno professionalmente attrezzato di una volta, e che, per altri aspetti, si presenta alquanto frammentario e disorganico, oltre che del tutto inadatto a fronteggiare in tempi ragionevoli una domanda di giustizia così enormemente aumentata.
Altre riforme, com’è noto, sono state da poco messe in cantiere, ed è dunque quanto mai necessario interrogarsi sull’effettiva idoneità di questa nuove proposte a rendere davvero funzionale e moderna la nostra procedura civile.
Personalmente di una cosa mi sento profondamente convinto: che non sono più tollerabili interventi settoriali e frammentari, il cui risultato è quasi sempre solo quello di creare ulteriori indesiderabili complicazioni di diritto intertemporale e di rendere ancor più arduo il coordinamento tra le vecchie disposizioni, rimaste invariate, e quelle invece modificate. Riformare la procedura civile è indispensabile, per le ragioni cui ho già accennato, ma occorre farlo in modo completo ed organico. Dal 1940 mi pare sia trascorso un tempo più che sufficiente perché ci si prenda la pena di scrivere da cima a fondo un nuovo codice di procedura civile.