La tutela del dissenso e delle formazioni minoritarie in una società pluralista
In questo contributo, l’Autore enuclea una serie di sedi – istituzionali e sociali - nelle quali si pone il problema della tutela dell’opinione minoritaria, richiamando quale sia il fondamento costituzionale che impone la tutela del dissenso e quali siano i limiti costituzionalmente accettabili che possono essere posti al suo esercizio. Il contributo registra poi la tendenza a comprimere sempre più nei processi decisionali delle istituzioni lo spazio di espressione del dissenso (a vantaggio della governabilità); con il rischio però di rendere la democrazia sempre meno contendibile. Nel contributo si prende poi in esame (con preoccupata attenzione) quanto le recenti riforme (elettorale, costituzionale, del sistema di governance della Rai) rischino di marginalizzare sempre più chi è fuori dalle maggioranze consolidate.
Premessa
La stagione politica che stiamo vivendo è attraversata da una sorta di frenesia delle riforme: se ne parla in ogni occasione e ne parlano soprattutto i massimi esponenti delle istituzioni dello Stato.
Si ritiene che questa parola d’ordine sia quella più necessaria da pronunciare in Italia, in questo momento, per dare credibilità alla nuova classe dirigente e, soprattutto, sia quella più utile far ascoltare in Europa: una sorta di credenziale da utilizzare per attribuirsi una legittimazione e per uscire da quella tutela economica così opprimente degli ultimi anni.
Il termine riforma è quello decisamente più usato nel linguaggio politico. Se ne parla in ogni occasione ed in pratica viene scelto per qualificare ogni atto normativo, anche il più ordinario. Tutto è riforma. Naturalmente lo è quella sulla scuola, sulla giustizia, sul fisco o quella sul lavoro o quella sulla pubblica amministrazione, anche se la parte più rilevante di quell’intervento è rinviato ad una serie numerosissima di norme di attuazione.
Viene definita riforma anche la proposta di legge sulla governante della Rai: nessuno si preoccupa del fatto che questo intervento normativo appare caratterizzato da contenuti di segno diametralmente opposto.
È naturale invece che il termine riforma venga utilizzato per la revisione costituzionale della seconda parte della nostra Carta e per la scrittura della legge elettorale: una sorta di atto dovuto dopo la dichiarazione d’incostituzionalità del Porcellum.
Uno dei motivi conduttoriche accompagna la legge elettorale è quello di conoscere, alla sera dello stesso giorno delle elezioni, il Governo che guiderà il Paese: è certamente un bene, a condizione però che le formule maggioritarie non schiaccino la rappresentanza.
La revisione costituzionale tende invece a superare il bicameralismo paritario ed a snellire in modo significativo il processo legislativo: per far questo viene ridotto considerevolmente il ruolo del Senato e quello delle autonomie regionali. Un altro obiettivo è anche quello di ridurre i costi della politica.
Vedremo meglio in seguito questi profili. Per il momento è opportuno segnalare che a volte i costi della democrazia non possono essere eccessivamente compressi e quanto a snellezza dei procedimenti decisionali non bisogna dimenticare che già esiste una grande rapidità di decisioni grazie alla combinazione perversa di decreti legge di enormi proporzioni, di deleghe senza principi e di fiducie richieste ad ogni piè sospinto.
Se durante il processo riformatore alcuni gruppi politici si oppongono, magari all’interno degli stessi partiti che compongono la maggioranza, prima ancora di cercare di capire ed approfondire le ragioni del contrasto si giudica questo comportamento con un certo fastidio ed è frequente ascoltare espressioni di viva insofferenza verso coloro che si oppongono, anche solo parzialmente e vengono definiti, con estrema naturalezza “dissidenti” o “dissenzienti”. È un lessico antico che ritorna di moda. Lo si sentiva richiamare spesso nel linguaggio dei regimi autoritari e di quelli totalitari, ma non ne era assolutamente frequente l’impiego nel periodo degli ordinamenti democratici.
Ammettiamo pure che questo linguaggio sia inconsapevole, che sia frutto di un atteggiamento un poco superficiale: anche se l’uso ripetuto nei telegiornali di maggior ascolto non promette affatto bene.
Io mi permetterò di prenderlo solo come spunto per affrontare il tema della tutela del dissenso nella società contemporanea ed in particolare nel nostro Paese. Ci sono diversi aspetti da prendere in considerazione e lo faremo nell’ottica del costituzionalista e secondo un percorso logico che proprio dalla Costituzione prenderà le mosse.
Nell’ottica di una riflessione sulla tutela delle opinioni minoritarie e del dissenso è chiaro, fin da una primissima osservazione, che le due leggi appena richiamate che riguardano l’assetto costituzionale dello Stato e la rappresentanza elettorale siano quelle che ci interessano più da vicino.
Tutti avvertiamo l’esigenza di assicurare nelle moderne democrazie un’efficace azione di governo: e quest’obiettivo risulta ricorrente sia nella riforma costituzionale che nella riforma della legge elettorale. Dobbiamo però subito annotare che vi sono dei cambiamenti nelle parole d’ordine. E questo non è senza significato. Se in passato lo slogan era più Governo e più Parlamento, oggi lo slogan sembra essersi dimezzato e ridotto alla sola prima parte.
Nel nostro percorso logico, però, prima di valutare le riforme istituzionali, dovremo considerare le disposizioni sulle libertà e il pluralismo, contenute nella prima parte della Costituzione, per capire in che misura l’ordinamento tuteli a livello formale e sostanziale la diversità delle opinioni.
In questa prospettiva si deve dedicare anche un’attenzione al sistema dell’informazione perché la nostra Costituzione impone fin dall’art.3, secondo comma, di tener conto delle situazioni di fatto che possono influire sul pieno esercizio delle libertà. E in questo senso daremo anche uno sguardo molto interessato alla proposta di legge (prossima all’approvazione) che riguarda l’assetto di governo della Rai.
1. I principi costituzionali a fondamento del dissenso:
il principio pluralistico e il sistema delle libertà di pensiero e di comunicazione
1.1.Il principio pluralistico
Il primo e più importante principio da prendere in considerazione in questo itinerario è naturalmente il principio pluralistico che si fonda sull’art.2 Cost. e su tutto il sistema delle libertà che hanno al centro l’art.21 Cost. (pietra angolare del sistema democratico, come lo ha definito la Corte costituzionale) e su tutte le altre libertà costituzionali che si ricollegano alla libertà di pensiero. Al centro, all’incrocio tra tutte queste libertà si colloca la tutela del pensiero critico[1].
Il principio pluralistico caratterizza la Repubblica nel suo complesso e costituisce l’architrave del carattere democratico del nostro ordinamento. Vedremo come la Corte nella sua giurisprudenza riconosca che il principio pluralistico rappresenta uno snodo fondamentale che caratterizza l’ordinamento del sistema radiotelevisivo.
Pluralismo sociale e pluralismo istituzionale costituiscono due risvolti della stessa medaglia e costituiscono entrambi beni essenziali. Due valori che s’integrano nella stessa nozione e che – è bene ricordarlo – non costituiscono mai un dato acquisito ma rappresentano il risultato di un permanente punto di equilibrio.
In questo quadro la tutela del dissenso assume un’importante funzione promozionale per una valorizzazione della democrazia e dei diritti. La tutela dell’opinione minoritaria costituisce un indicatore della qualità della democrazia.
La democrazia sarà “contendibile” se le formazioni minoritarie potranno aspirare a crescere ed anche a diventare la futura maggioranza. Sul piano politico è indispensabile che funzionino i sistemi capaci di produrre una rappresentanza responsabile, attraverso una legge elettorale appropriata che sappia coniugare sistemi proporzionali ed eventualmente correttivi maggioritari. Un sistema elettorale che renda difficile o impossibile tutto questo, non è dunque un buon sistema elettorale.
Importanti sono anche le norme che tutelano le minoranze, ogni tipo di minoranza; sono importanti le norme che le garantiscono sia sul piano parlamentare che in quello istituzionale.
Vi sono molte applicazioni di questi principi in campo politico, sociale, sindacale, religioso, ma sul piano istituzionale questa caratteristica si ritrova nella separazione dei poteri e nella distribuzione del potere sovrano tra diversi organi costituzionali e soprattutto tra i diversi livelli di governo. L’esistenza di un solido sistema di autonomie istituzionali è un bene prezioso in questa direzione perché determinate forze politiche minoritarie a livello nazionale possono cominciare ad affermarsi e a sperimentarsi a livello locale.
In linea più generale possiamo dire che la nostra Repubblica si connota in modo particolare per il fatto di aver introdotto l’istituto referendario non solo a livello nazionale, ma oramai anche a livello regionale e locale. Questo istituto rompe gli schemi della rappresentanza indiretta in favore di una democrazia diretta. Il referendum, di cui si conoscono svariate modalità, costituisce un elemento caratterizzante della nostra democrazia. Esso è stato pensato e costruito proprio per dare rilievo a minoranze capaci di proporre, attraverso l’abrogazione della legge, dell’atto cioè che rappresenta la più alta espressione della volontà dello Stato, la più radicale modificazione dell’indirizzo politico della maggioranza.
1.2 Le varie tipologie del dissenso
La nozione di dissenso presenta caratteri molto ampi ed anche significati molto diversi. Quando noi ne parliamo dobbiamo precisare che intendiamo riferirci a quello di natura politico-ideologica. Si tratta di un dissenso che prevalentemente si manifesta nel rapporto tra individuo e autorità, tra governanti e governati, tra singoli o formazioni sociali ed esponenti del potere costituito e che si sostanzia in una critica anche estremamente energica nei confronti del pensiero ufficiale, dell’ideologia prevalente o dominante.
Si potrebbe dire che si tratta di rapporti di carattere pubblicistico, anche se questa nozione appare insufficiente, perché non sempre si tratta di rapporti tra privati ed istituzioni dello Stato. L’orizzonte del dissenso politico-ideologico si estende fino a comprendere una nozione più ampia di “istituzioni” presenti nella società. Il dissenso si rivolge, sempre più frequentemente nelle società contemporanee verso un determinato ordine, verso un sistema di valori, verso un insieme di interessi. Il potere preso di mira, in queste manifestazioni critiche, non si colloca necessariamente nei luoghi simbolici del potere ma assume comunque un peso considerevole in una più ampia panoramica (sociale, politica, economica, religiosa,artistica, scientifica ).
E qui il discorso scivola via dal diritto costituzionale per entrare in altre discipline e per parlare dei cd “poteri forti”, di luoghi più o meno nascosti di esercizio di questo potere. Basta andare poco indietro nel tempo per pensare a tutto quello che ha rappresentato nel nostro Paese una determinata organizzazione denominata P2. Vogliamo infine misurare il peso di chi gestisce l’informazione e dell’influenza che esso è in grado di esercitare sul sistema tradizionale dei poteri dello Stato.
Una volta c’erano i regimi autoritari o dittatoriali. Il dissenso si esercitava nei loro confronti e un determinato apparato normativo serviva a tutelarli (basti pensare a tutto l’apparato dei reati di opinione tutt’ora presenti nel nostro codice penale!). Non che i regimi autoritari siano scomparsi ma quello di cui onestamente dobbiamo preoccuparciè il pericolo che questistessi strumenti (mantenuti integri) possano essere utilizzati verso “ordini” e verso nuovi “poteri” presenti nella società.
Ad esempio è evidente che quando ci si muove sui piani che abbiamo descritto anche i dissensi tra i privati che avevamo escluso in un primo momento possono tornare ad assumere un particolare rilievo.
Questo perché i contrasti di natura politico-ideologica avvengono non solo tra i partiti e lo Stato, ma anche “tra” i diversi partiti e così anche tra i sindacati o tra le confessioni religiose e via dicendo. Spesso questo tipo di contrasto può avvenire all’interno degli stessi partiti o dei sindacati o delle confessioni religiose. Per i sindacati la Costituzione parla di ordinamento a base democratica, per i partiti non ne parla esplicitamente, ma si ritiene che un’eventuale legge – da molti richiesta – sui partiti, debba farsi carico seriamente di questo profilo. Si parlava in passato di cattolici del dissenso per alludere a contrasti all’interno di quella confessione religiosa. È facile oggi estendere la nozione a svariatissimi ambiti.
A questo proposito non va dimenticato che una parte molto importante della giurisprudenza della Cedu sull’art.10 della Convenzione riguarda il politicalspeech e questo perimetro, molto ampio, si estende fino ad abbracciare molte decisioni in tema di diffamazione e tra queste molte espressioni critiche verso uomini politici che da noi si configurerebbero come reati di vilipendio[2].
C’è poi il grande capitolo dell’hate speech, dei discorsi di odio, di discriminazione razziale, di natura antireligiosa, antisemiti, negazionisti, di tutta quella gamma dei reati introdotti nel nostro ordinamento soprattutto dopo l’approvazione della Costituzione repubblicana e che riguardano i temi del genocidio, della discriminazione e dell’odio razziale, etnico, religioso: spesso sono sanzionate penalmente alcune forme di pensiero che assumono questi contenuti[3]. All’ordine del giorno politico parlamentare ci sono oggi i temi dell’omofobia e del negazionismo.
Questo tema che indubbiamente spiazza alcuni degli schemi precedenti è pure al centro della giurisprudenza della Cedu con due approcci diversi: in alcuni casi applica l’art.17 Convenzione negando in radice che discorsi di questa natura abbiano copertura da parte della Convenzione. Quando invece si ritiene che alcune di queste espressioni possano inquadrarsi nell’art.10 la Corte analizza questi discorsi alla luce dei suoi canoni tradizionali che tengono conto del tenore del discorso, dei soggetti coinvolti e del contesto di riferimento: in definitiva valuta a fondo le modalità espressive.
1.3 Il sistema delle libertà di espressione
Tornando alla Costituzione si deve riconoscere che la prima e fondamentale tutela di questo dissenso, di questo tipo di opinioni minoritarie nel nostro ordinamento si ritrova nel tessuto delle libertà costituzionali che hanno al centro la libertà di manifestazione del pensiero e l’art.21 Cost.[4]. L’art. 21 Cost., a sua volta, si collega ad un sistema di altre libertà ad esso molto vicine. Il primo e più stretto collegamento si pone con l’art.15 della Costituzione. È ben vero che la libertà di manifestazione e diffusione del pensiero garantita dall’art. 21 si differenzia dalla libertà di comunicazione e di corrispondenza (art. 15 Cost.) per il fatto di essere rivolta ad una pluralità indistinta di soggetti anziché a destinatari determinati, ma tale distinzione è divenuta negli ultimi anni più complessa e più sfumata, a causa della convergenza tecnologica e della sempre più frequente sovrapposizione tra le varie modalità espressive e comunicative. È lecito quindi parlare di una più ampia libertà della comunicazione.
La libertà di cui all’art. 21 Cost. si collega, poi, a molte altre libertà disciplinate in Costituzione. In alcuni casi, in modo diretto, in quanto rappresentano particolari aspetti della più generale libertà di pensiero. In altri casi in modo indiretto, perché attraverso altre libertà si tutela l’ambito nel quale la libertà di opinione si svolge (basti pensare alla libertà di riunione e alla libertà di associazione)
Prima tra tutte viene la libertà religiosa che in alcuni testi costituzionali è disciplinata insieme alla manifestazione del pensiero, ma che nella nostra Costituzione è fatta oggetto di una specifica disciplina ed anzi di una disciplina molto più articolata: almeno tre diversi articoli della Costituzione ne parlano in modo espresso. Il dissenso è ampiamente tutelato in questo campo naturalmente fino al momento in cui non diventi invasivo[5]. Si potrebbe valutare poi se determinate espressioni pronunciate all’interno di determinate comunità religiose possano rientrare in quelle nozioni di propaganda spesso sanzionate nel nostro ordinamento. La problematica non è comunque diversa rispetto a quella generale che si pone per la libertà di espressione, anche se si deve sottolineare (questione non priva di interesse) che l’art.19 Cost. parla di «professare liberamente la propria fede» ed aggiunge significativamente di «farne propaganda»[6].
Anche la libertà d’insegnamento e di ricerca costituisce una delle libertà fondamentali; anch’essa si può configurare come parte della libertà di espressione; anch’essa, è inutile dirlo, è stata fatta oggetto di attenzioni e di pesanti limitazioni durante i periodi autoritari.
Oggi non vi sono profili di particolare attenzione, per quanto ci interessa, anche se i luoghi d’insegnamento sono da sempre configurabili come spazi di libero pensiero e di particolare autonomia. Gli unici profili rilevanti e più noti che si potrebbero cogliere sono forse quelli legati alle vicende di “eterodossia” nelle università private d’impronta religiosa. I casi più significativi da ricordare sono quelli dei proff. Cordero, prima, e Lombardi Vallauri, dopo. Quest’ultimo è arrivato perfino alla Corte di Strasburgo.
La libertà dell’arte e della scienza rappresenta un altro profilo che potrebbe mostrare delle affinità con il nostro tema. Da sempre gli artisti sono stati in prima linea nelle critiche, anche feroci, ai poteri dominanti: basti pensare al delicatissimo terreno della satira. Da questo punto di vista il profilo della libertà dell’arte e della scienza può essere considerato assai prossimo alla tutela della libertà di espressione in generale, avendo chiaro che in questa parte della Costituzione non è richiamato il limite espresso del buon costume e che la satira gode di un trattamento privilegiato con riferimento soprattutto alla diffamazione.
La libertà di manifestazione del pensiero si collega, infine, a tutti quei valori e a quelle libertà su cui si fonda l’ordinamento democratico delineato dalla nostra Costituzione, a partire dall’art. 1 Cost., dal momento che esso non può correttamente realizzarsi in mancanza di una libera circolazione delle idee e delle opinioni politiche, sociali, religiose, ecc.: si pensi, in particolare, agli artt. 17 e 18 Cost. sulle libertà di riunione e di associazione, agli artt. 39 e 49 Cost. sulle libertà di associazione sindacale e partitica[7].
La più efficace sintesi di un tale quadro di correlazioni è attribuibile, ancora una volta, alla Corte costituzionale, la quale, con incisiva e felicissima formulazione, come sopra abbiamo ricordato, ha definito la libertà di espressione come «la pietra angolare dell’ordinamento democratico»[8].
Il contenuto della norma costituzionale e della relativa garanzia, com’è noto, è amplissimo. La manifestazione del pensiero alla quale fa riferimento l’art. 21 Cost. comprende, ormai per pacifica interpretazione, qualsiasi forma di espressione d’idee, di pensieri, di opinioni, di notizie che si ritenga di comunicare, di trasmettere agli altri sul piano più generale. In questa nozione si comprende non solo il pensiero puro ed astratto, ma è compresa anche la pubblicità, la propaganda e perfino l’apologia che il nostro codice continua, ingiustificatamente a considerare reato.
2. I limiti alle libertà costituzionali a tutela del dissenso:
il metodo democratico
A fronte di questa ampia nozione si pone il problema dei limiti ammissibili per questa libertà. Essi devono essere letti ovviamente in chiave restrittiva, altrimenti perderebbe di significato l’affermazione così ampia che abbiamo appena formulato.
I limiti che la nostra Costituzione tollera sono solo i limiti espressi, cioè esplicitamente richiamati nella norma Costituzionale (nel caso il buon costume, inteso come morale sessuale) ed i limiti impliciti, fondati su beni costituzionali di pari valore, che il legislatore applica secondo ragionevolezza, necessità e proporzionalità.
Questi limiti impliciti sono ormai per consolidata interpretazione, l’onore delle persone, la riservatezza e i segreti costituzionalmente giustificati. Non può essere in nessun modo considerato limite implicito l’ordine pubblico che i costituenti non vollero e che la Corte ha malamente interpretato come un contenitore dal quale ricavare ogni possibile limitazione[9]. Di qui la permanenza ancora oggi nel nostro ordinamento di una serie ingiustificata dei reati di opinione.
L’unico limite che si può porre in materia è quello che la Costituzione espressamente richiama è cioè il metodo democratico. Si tratta di un bene costituzionale indubbiamente di pari valore e capace pertanto di limitare l’art.21 Cost. La nozione è presente nell’art.49 Cost. ed attiene proprio alla cd materia politica. Del dissenso di natura politica e ideologica abbiamo parlato in precedenza. Un Paese democratico deve tollerare il più ampio confronto di idee, anche e direi soprattutto di quelle più scomode. Il dibattito può avvenire in qualsiasi forma, anche nel modo più aspro e più aggressivo, ma non deve mai minare le radici, l’essenza di quel “metodo democratico” che la nostra Costituzione ha posto alla base del dibattito pubblico.
Questo valore si desume anche dai limiti posti ad un’altra libertà molto vicina all’attività politica, la libertà di associazione (art. 18 Cost.). Il metodo democratico richiama poi un altro principio costituzionale fondamentale al quale abbiamo fatto riferimento in precedenza: quello del pluralismo politico che costituisce un altro pilastro della nostra forma di Stato. Il principio pluralistico costituisce, tra l’altro, struttura portante dell’art.21 della Costituzione. La Corte costituzionale l’ha riconosciuto e sottolineato in alcune sue importanti decisioni[10].
L’unica eccezione costituzionalmente prevista a questa impostazione è quella che ha per oggetto il divieto di ricostituzione del partito fascista ai sensi della XII disposizione transitoria e finale della Costituzione.
Le varie opinioni, anche in un confronto particolarmente aspro, come diceva Esposito, si bilanceranno tra di loro. Nessuno potrà appellarsi ad una verità ufficiale rispetto alla quale si deve prestare obbedienza, nessuno potrà invocare una delle tante nozioni di ordine pubblico ideale che in definitiva rappresenta l’ideologia politica dominante.
Lo stesso valore della tranquillità e della sicurezza pubblica sono richiamati in altre norme costituzionali sulle libertà (primi fra tutti gli art.16 e 17 Cost. sulla libertà di circolazione e di riunione) e in quei casi possono essere pacificamente applicate. Sarebbe assurdo e incoerente reintrodurre per la finestra ciò che è stato fatto uscire dalla porta. Il riferimento esplicito è proprio all’art.21 Cost.
Il richiamo all’ordinamento democratico che compare in alcune sentenze della Corte costituzionale, anche se presenta qualche assonanza terminologica, con il metodo democratico, è invece concetto molto diverso da questo perché evoca un fine complessivo cui concorre anche la libertà di pensiero, come altre libertà, ma non può in alcun caso essere concepito come limite alle stesse a meno di evocare pericolosi riferimenti a visioni funzionalistiche.
Lo stesso prestigio delle istituzioni, valore anch’esso evocato in decisioni della Consulta sempre a proposito di alcuni reati di opinione, è valore che è difficile trovare espresso in Costituzione. È difficile anche desumerlo o ricondurlo al dovere di fedeltà della generalità dei cittadini. Non si tratta di un dovere che possa impedire la libertà di espressione che soprattutto deve dirigersi e in senso critico verso le istituzioni rappresentative. Si tratta di un valore incompatibile con le regole di una moderna società democratica. Molti spunti in questo senso possono trarsi dalla giurisprudenza della Corte Edu.
L’unico limite che deriva dal rispetto del metodo democratico è rappresentato dunque dalla violenza. Questa è totalmente bandita dalla lotta politica. A questo proposito possono aiutare i canoni elaborati dalla giurisprudenza costituzionale ed ordinaria.
Ragionevolezza e proporzionalità innanzitutto per giudicare in astratto l’ammissibilità di determinate fattispecie di reato e qui rinvio al grande dibattito che dottrina e giurisprudenza hanno costruito intorno alla figura dell’istigazione. Pericolo chiaro e immediato secondo anche i canoni della giurisprudenza americana per chi giudica in concreto l’ammissibilità di un determinato comportamento[11]. Il criterio del clear and present danger si basa sul presupposto che il pensiero non può essere considerato in sé pericoloso e può essere vietato solo a causa del pericolo concreto e in dipendenza del contesto[12]. Ancora una volta il rinvio è alla giurisprudenza della Cedu.
Lo spostamento della responsabilità del giudizio essenzialmente sul magistrato, come spesso ha fatto la Corte con le sue sentenze interpretative, non è esente da rischi e deresponsabilizza troppo il legislatore.
Questa impostazione rende evidente il fatto che la manifestazione del pensiero in quanto tale (il discorso si riferisce essenzialmente alla nozione di propaganda ed anche a quella dell’apologia) difficilmente potrà configurarsi come atto di violenza.
Ha detto efficacemente Biagio De Giovanni: «in fondo dobbiamo pensare che c’è una certa irresponsabilità del pensiero. C’è uno spazio del pensiero che non è ancora lo spazio dell’agire»[13].
3. I valori da applicare nel sistema dell’informazione: pluralismo, autonomia e indipendenza
Una volta chiarito quali sono le regole costituzionalmente previste dalla Costituzione a tutela delle opinioni minoritarie e del dissenso bisogna valutare quali sono nella società contemporanea gli strumenti di una politica “attiva” capace di valorizzare queste attività come necessario ingrediente democratico.
La prospettiva è quella disciplinata dall’art. 3, secondo comma della Costituzione. Non basta che la Costituzione tuteli un determinato bene. Questa tutela statica, diciamo più esattamente, questa libertà negativa, può essere sufficiente ad impedire che l’ordinamento (in questo caso penalistico) limiti l’esercizio di quella libertà, ma non è sufficiente ad impedire che le opinioni dominanti occupino uno spazio prevalente.
Questo è facilmente percepibile, ad esempio, nel campo dell’informazione ed anche nel più ampio mercato della comunicazione (si pensi non solo alle news, ma anche all’intrattenimento e in genere a tutto il settore dell’audiovisivo). Questo mercato, come sempre avviene, è dominato dai poteri economici più forti che hanno un chiaro interesse a sostenere le posizioni di chi governa, se non addirittura a creare essi stessi i soggetti più adatti a governare e ad amplificare le loro idee.
Tutto questo, anche se costituisce chiaramente un territorio decisivo per la formazione di quel consenso che assume un valore determinante in occasione delle competizioni elettorali, appartiene alla logica ineliminabile degli attuali sistemi economici. È questa la ragione per la quale gli Stati liberali hanno cercato, con maggior o minor successo di adottare normative adeguate a reprimere le concentrazioni più vistose in materia di informazione e ad approvare leggi più o meno incisive in materia di conflitti di interesse.
Non sarà un caso se nel nostro Paese non è mai stato facile approvare leggi di questo tipo nonostante che la nostra Corte costituzionale ne avesse invocato più volte l’approvazione e nonostante i ripetuti richiami di autorevoli organismi di natura internazionale (vedi il Consiglio d’Europa ed in particolare la Commissione di Venezia che di queste cose istituzionalmente si occupa).
La ragione fondante dei servizi pubblici radiotelevisivi in Europa ed in particolare nel nostro Paese è facilmente ricollegabile proprio all’art.3 secondo comma della Costituzione.
Su scala europea l’elemento più significativo di raffronto è oggi costituito dal Protocollo sul sistema di radiodiffusione pubblica negli stati membri, annesso al Trattato di Amsterdam (2 ottobre 1997). È fondamentale innanzitutto la considerazione introduttiva che collega direttamente «il sistema di radiodiffusione pubblica» alle «esigenze democratiche, sociali e culturali di ogni società, nonché all’esigenza di preservarne il pluralismo dei mezzi di comunicazione» e che riprende chiaramente le motivazioni di ordine costituzionale sopra richiamate.
Si ritrovano in queste parole molti dei concetti che siamo venuti richiamando. La televisione pubblica per evitare che sul terreno politico si consolidi e si cristallizzi un tessuto di opinioni ufficiali, dominanti o prevalenti, sempre dello stesso segno, per favorire un fisiologico confronto ed anche ricambio di queste opinioni, deve assicurare e preservare determinati valori.
Questi valori definiscono il modo di essere della televisione pubblica. Tre sono in particolare i capisaldi fondamentali che caratterizzano i servizi pubblici in tutta la tradizione europea. Il principio dell’indipendenza, quello dell’autonomia e quello pluralistico. Ci sono importanti sentenze della Corte costituzionale che li hanno richiamati[14]. Il principio pluralistico, che costituisce il risvolto del diritto all’informazione, è il principio fondamentale in materia radiotelevisiva e si articola nei due profili del pluralismo esterno e di quello interno. Il pluralismo esterno si collega al principio della concorrenza e richiede che nel sistema operino il maggior numero possibile di operatori diversi tra di loro. Il pluralismo interno vuole invece che il servizio pubblico sia espressione della complessità sociale del paese e sia capace di dare spazio a tutte o almeno alle principali correnti di pensiero. In questo senso il principio caratterizza sia l’aspetto strutturale che quello funzionale della televisione pubblica.
Sono proprio questi i punti di riferimento che mancano nel recente intervento normativo in materia di «governo della televisione pubblica». Questo è anche il motivo per il quale è assolutamente improprio qualificarlo come riforma. La proposta si svolge non solo formalmente, ma anche sostanzialmente all’interno del disegno generale della legge Gasparri e del Testo unico del 2005. Essa appare caratterizzata più da una visione retrospettiva, conservatrice, piuttosto che da un moderno disegno riformatore[15]. Basterebbe vedere quel che stanno facendo in questo campo le più importanti democrazie europee (da ultimo il Regno Unito) per capire che esistevano altre strade, già tracciate e facili da percorrere.
Il primo problema che si pone in termini di applicazione dei suddetti principi è quello della composizione dell’organo di governo. L’organo di governo della televisione pubblica deve rappresentare la sintesi della complessità sociale del paese: deve essere plurale. La derivazione parlamentare è importante, ma da sola è insufficiente: il principio pluralistico esige che trovino rappresentanza altri “mondi”. Capisco che allargare a questi mondi significa perdere il controllo politico governativo, ma questo è essenziale per realizzare i tre principi che ho richiamato.
Il concetto di indipendenza che costituisce uno dei cardini dei servizi pubblici europei è del tutto assente ed infatti la governance è fondata su un accresciuto ruolo dei partiti e del Governo.
Per garantire autonomia e indipendenza è indispensabile che la scelta dei componenti dell’organo di governo sia fatta del rispetto di rigorosi criteri di competenza e attraverso procedure comparate e selettive (non con nomi estratti dal cilindro della politica). Il problema della revoca per assicurare il principio di responsabilità può essere giusto ma non deve essere affidato alla maggioranza di governo (cfr. Corte n.69 del 2009).
Quella che appare diametralmente opposta al principio di indipendenza è la concentrazione di poteri (che non ha riscontri in Europa) in una sola persona. L’amministratore delegato (gradito al Governo) è un monarca assoluto; la sua nomina viene sostanzialmente ricondotta non tanto alla maggioranza di governo, ma al Governo stesso, anzi al suo premier (che si permette addirittura di ricevere il candidato alla vigilia della nomina)
La Corte costituzionale nella sentenza n. 225 del 1974 ha sancito il principio secondo cui, nello stabilire le «condizioni minime necessarie perché il monopolio statale possa essere considerato conforme ai principi costituzionali», la legge deve prevedere, tra l’altro, che «gli organi direttivi dell’ente gestore (si tratti di ente pubblico o di concessionario privato purché appartenente alla mano pubblica) non siano costituiti in modo da rappresentare direttamente o indirettamente espressione, esclusiva o preponderante, del potere esecutivo e che la loro struttura sia tale da garantirne l'obiettività».
Se si aggiunge che la proposta di legge contiene anche una delega di riordino dell’intera materia, assolutamente priva di veri principi e criteri direttivi, ce n’è abbastanza per giudicare questo intervento del tutto inadeguato nell’ottica di una valorizzazione del pluralismo e dell’indipendenza.
Non vi è tutela attiva della diversità delle opinioni presenti nella società: l’intervento normativo in esame costituisce piuttosto un aperto sostegno a favore del consolidamento di un determinato sistema di valori. Se poi avvenisse qualcosa di diverso nei fatti per un’illuminata concezione di chi è delegato a governare, questo sarebbe del tutto ininfluente perché sarebbe una graziosa concessione, non dissimile da quei governanti illuminati che abbiamo ben conosciuto nel passato. Il sistema democratico richiede regole precise in omaggio ai principi costituzionali e non casuali circostanze di favore.
4. Una legge elettorale inadeguata
Se l’equilibrio nel sistema dell’informazione rappresenta una sorta di precondizione indispensabile al corretto funzionamento del sistema democratico, il punto nevralgico di questo funzionamento si ritrova certamente nella legge elettorale.
La legge elettorale è stata negli ultimi 40 anni certamente il fulcro delle maggiori tensioni nel dibattito politico del nostro paese.
Esisteva in precedenza il sistema proporzionale che l’Italia aveva ripreso nell’immediato dopoguerra giudicandolo come il più idoneo a fornire in Parlamento una rappresentanza corretta del corpo elettorale. La partecipazione elettorale era molto alta (in considerazione anche delle scelte decisive di quegli anni) e i partiti avevano un peso rilevantissimo nella scelta degli eletti attraverso il sistema delle preferenze.
Ci sono stati dei tentativi, negli anni ’50, di introdurre formule maggioritarie,[16] ma i veri cambiamenti sono intervenuti negli anni ‘90, prima con la correzione del sistema delle preferenze e poi con l’introduzione del sistema elettorale maggioritario[17].
La legge Mattarella è rimasta in vigore poco più di 10 anni e dopo alcuni tentativi di correggerla attraverso il referendum (1999) per eliminare la quota proporzionale[18], nel 2005 è stata abrogata e sostituita da una legge proporzionale (Porcellum) con un alto premio di maggioranza e liste bloccate. Negli ultimi anni la partecipazione elettorale è andata sensibilmente riducendosi. L’abbinamento con un certo tipo di maggioritario, forse, non è casuale.
Nel 2014 la Corte costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità parziale del Porcellum. Nel maggio del 2015 il Governo Renzi ha fatto approvare l’Italicum: una legge elettorale con premio di maggioranza attribuito alla lista che ottenga il 40 per cento al primo turno o che vinca al ballottaggio. Gli eletti sono in parte indicati dai partiti e, per una parte minoritaria, scelti con le preferenze.
Mentre la legge Mattarella è stata accompagnata, anche sull’onda del referendum, da forti consensi parlamentari, le due ultime leggi elettorali, quella del 2005 e quella attuale, sono state oggetto di contestazioni anche violente, non solo da parte dell’opposizione, ma anche da ampi settori della stessa maggioranza, fino al punto che il Governo, con una prassi decisamente inusitata, ha posto la fiducia in alcuni passaggi parlamentari.
Vediamo ora di esaminare questa legge nella nostra prospettiva della tutela delle opinioni minoritarie. Dobbiamo anche domandarci se la legge preveda dei necessari meccanismi di sintesi per consentire alle forze prevalenti di poter concretamente governare.
Diciamo subito che questo secondo obiettivo è assolutamente garantito attraverso due strumenti decisivi. Il primo è rappresentato dal premio di maggioranza del 55 per cento nella Camera dei deputati, cioè, nella sola Camera che, dopo la riforma costituzionale, potrà dare la fiducia. Questa maggioranza assoluta consente al Governo di formarsi agevolmente e di disporre una solida maggioranza iniziale. La seconda, chiamiamola pure “garanzia per il Governo”, durante la sua vita parlamentare, è rappresentata dal fatto che la maggioranza degli eletti (cioè i capolista scelti dal partito vincitore) potranno considerarsi “fedeli” agli orientamenti del leader di quel partito e probabile presidente del Consiglio.
Per quanto riguarda la tutela delle minoranze, la valutazione si presenta assai più delicata. Prendendo le mosse – com’è inevitabile - dalla sentenza della Corte costituzionale n.1 del 2014 si deve cercare di capire se nella legge si sia rispettato un corretto bilanciamento tra il principio di rappresentanza e tra quello di governabilità (che costituisce uno degli assi centrali di quella fondamentale decisione) e nella consapevolezza che il primo costituisce la regola assoluta e il secondo dovrebbe rappresentare un correttivo che opera in termini di pura “eccezione”.
Uno dei nodi centrali che caratterizza la legge è certamente costituito dalle modalità di costruzione del premio di maggioranza che, anche se supera alcune delle obiezioni fatte dai giudici costituzionali, è suscettibile di molte altre valutazioni critiche per la sua struttura che altera il principio maggioritario[19] e costituisce una deformazione del principio di rappresentanza democratica.
Ragionando nella traiettoria della sentenza della Corte è difficile non rilevare che non c’è alcuna soglia per il secondo turno di ballottaggio, tra le due liste più votate al di sotto del 40%, con la conseguenza che potrebbe avere il premio di maggioranza una lista, certamente più votata delle altre, ma che potrebbe aver ottenuto al primo turno una soglia anche molto inferiore al 40%. Si dubita addirittura che questa soluzione corrisponda alle indicazioni della Corte[20]. Potrebbe avere un senso la proposta di introdurre, per il secondo turno, un tetto di partecipazione (almeno al 50 per cento) in mancanza del quale i seggi si ripartiscano con il sistema proporzionale. Si sostiene anche che un premio di maggioranza così concepito non esiste in nessuna grande democrazia occidentale, salvo forse la Grecia.
Oggi la legge è approvata, anche se da più parti se ne invoca un riesame. Io credo che, senza comprometterne l’impianto di fondo, si potrebbero modificare alcuni punti collegati ad altrettanti principi costituzionali capaci di rendere il disegno complessivo più conforme ad un corretto bilanciamento tra rappresentanza e governabilità in una democrazia parlamentare.
Senza poter sviluppare questi punti con la dovuta ampiezza mi limito a sintetizzarli rapidamente.
Il primo consiste in un aumento del numero dei collegi per renderli più piccoli in modo tale da consentire una più facile conoscibilità diretta degli eletti senza dipendere da costose campagne elettorali. Il secondo intervento, altrettanto essenziale, riguarda la riduzione del numero dei parlamentari “nominati” sensibilmente al di sotto della soglia del 50% della rappresentanza complessiva. Abbiamo visto negli ultimi anni che un Parlamento di nominati tende facilmente a delegittimarsi.
In terzo luogo è necessario adottare un sistema che vieti o disincentivi le pluricandidature: si tratta di una prassi ereditata dalla precedente legge elettorale e che tende a tutelare leaders grandi e piccoli. In tutte le più importanti democrazie i leaders si sottopongono al giudizio degli elettori. Se non riescono a farsi eleggere è bene che ne traggano le conseguenze, ma non possono alterare per questo la genuinità dell’intero sistema.
Il quarto punto è quello più importante nella prospettiva del nostro discorso. Un vero sistema democratico è quello basato sul principio dell’alternanza e sulla possibilità che movimenti minoritari possano crescere fino a diventare maggioranza. Questa alternanza non può limitarsi solo alla successione al potere di due blocchi consolidati. Bisogna fare in modo che anche nuove forze possano emergere. Non basta stabilire, come la legge fa, una soglia del 3 per cento per consentire ad una forza di entrare in Parlamento. Bisogna fare in modo che queste forze possano allearsi, al secondo turno con forze più importanti ed a loro vicine in modo da consentire a quelle più forti di vincere grazie al loro apporto e a quelle più piccole di crescere sia in forza che in visibilità. Solo in questo modo i piccoli possono diventare più grandi ed aspirare all’alternanza. Negare tutto questo vuol dire semplicemente che si vuole mantenere il sistema bloccato intorno a due forze soltanto.
5. Una riforma costituzionale che semplifica e “concentra” troppo
L’ultimo ordine di considerazioni riguarda il sistema costituzionale.
Anche questo è stato oggetto di un intervento di riforma che è ancora in corso, sia per la procedura che è necessariamente più complessa di una legge ordinaria (art.138 Cost.), sia per i contrasti che ne hanno caratterizzato l’iter. È facile prevedere che la maggioranza che la voterà non sarà ampia ed è altrettanto facile prevedere che vi sarà il referendum nel corso del 2016.
Vorrei dire in estrema sintesi che la riforma costituzionale si basa su alcuni principi del tutto condivisibili che vengono frequentemente ricordati (superamento del bicameralismo eguale, istituzione di una camera rappresentativa delle autonomie, riforma del titolo V) e che costituiranno anche l’asse della campagna referendaria.
Accanto a questi ci sono altri principi meno condivisi (semplificazione delle procedure democratiche di formazione delle leggi, istituti di partecipazione, gratuità degli incarichi politici, elezione degli organi di garanzia) e ci sono scelte decisamente negative (composizione del Senato, drastico ridimensionamento del ruolo delle Regioni, concentrazione enorme di poteri in capo all’esecutivo e alla sua disciplinata maggioranza). Mi limito a richiamare quelli che mi sembrano i difetti più gravi.
Un primo rilievo riguarda il tipo di bicameralismo che discenderà dalla riforma: un bicameralismo decisamente squilibrato. Questo dato emerge a prima vista dall’esame della composizione del Parlamento in seduta comune. Un organo composto da 630 deputati e da 100 senatori è un organo decisamente squilibrato e al limite dell’inutilità. Chi vincerà le elezioni avrà già 340 deputati sulla carta: una maggioranza in grado di condizionare l’intero collegio. Non deve sottovalutarsi poi il fatto che quest’organo è quello che elegge il Presidente della Repubblica. Ma è anche squilibrato il disegno del nuovo Senato, destinato a gestire funzioni che si sono notevolmente ampliate durante i vari passaggi parlamentari. La legittimazione del Senato è riposta su un sistema regionale indebolito ed anche i meccanismi di voto (per testa e non per Regioni) rischia di riassorbire la rappresentanza nello schema della rappresentanza partitica.
Il secondo rilievo riguarda i procedimenti legislativi diversificati: sono troppi e troppo macchinosi. La riforma costituzionale che pur si richiama a principi di semplificazione disegna ben sei diversi procedimenti legislativi (bicamerale, monocamerale partecipato, monocamerale rinforzato, bilancio, decreti legge, corsia preferenziale). Difficile pensare che si approveranno le leggi più rapidamente ed è difficile escludere che non vi siano numerosi ricorsi di costituzionalità.
Le Regioni, che costituivano il fulcro del pluralismo istituzionale, vengono decisamente ridimensionate. Se la riforma del 2001 aveva avvicinato le Regioni al modello degli Stati federali, questa riforma riporta le Regioni al disegno del 1948. È singolare che questo sia potuto avvenire senza neppure un lamento in ambito regionale. Sullo sfondo s’intravede il disegno di configurare le Regioni come enti essenzialmente amministrativi. Può darsi che a quel punto le funzioni disegnate appaiano eccessive e si potrebbe imboccare tra qualche anno il percorso distruttivo delle Province. Sullo sfondo resta una fortissima e non sempre giustificata differenziazione con le (blindate) Regioni a statuto speciale. La potestà legislativa concorrente viene meno ma si introducono in tutta una serie di materie una nuova incerta distinzione tra differenti livelli delle stesse materie (disposizioni generali e comuni, interesse nazionale, disposizioni di principio o strategiche) a tutto beneficio di un rinnovato contenzioso davanti alla Corte[21].
Nella nostra prospettiva quel che preoccupa di più è rappresentato da un rafforzamento non bilanciato dei poteri del Governo. Tutte le riforme costituzionali e regolamentari avevano cercato sempre di bilanciare i poteri del Governo con quelli del Parlamento. Questa riforma procede in un senso decisamente opposto. Non si tratta solo della scelta di attribuire la fiducia alla Camera dei deputati dove il Governo disporrà della maggioranza assoluta, ma si tratta di valutare l’insieme delle altre modifiche costituzionali. Si introduce per la prima volta la cd corsia preferenziale per i ddl del Governo con una flebile limitazione di materia ma con la possibilità di proporla senza limitazioni quantitative (esistenti altrove): in questo modo il Governo si impadronisce del potere di determinare l’ordine del giorno del Parlamento, cosa che non era mai avvenuta in passato. I decreti legge sono circondati di maggiori limiti ma restano un potere saldamente nelle mani dell’Esecutivo. La delega legislativa, che avrebbe potuto essere disciplinata, è rimasta tale e quale con la possibilità di principi e di criteri direttivi evanescenti e con lo spostamento delle scelte fondamentali in mano al Governo. La nuova clausola di supremazia nei confronti delle Regioni consente al Governo di attirare nella sua competenza qualsiasi materia sulla carta attribuita alle Regioni.
Conclusioni
A questo punto credo che siano sufficienti pochi elementi di natura conclusiva.
Abbiamo visto che il sistema costituzionale della libertà di espressione e delle disposizioni costituzionali collegate assicurano la più ampia tutela dei singoli e delle formazioni sociali nella comunicazione sia privata che pubblica. Sotto questa tutela amplissima rientra il pensiero politico, religioso, d’insegnamento, scientifico, artistico anche fortemente critico, rivolto verso le istituzioni dello Stato e verso ogni altra istituzione o ordine presente nella società.
È implicito che la tutela di questo pensiero si estenda verso le manifestazioni di dissenso, anche fortemente minoritarie. È proprio la tutela di queste manifestazioni che rappresenta il nucleo fondante della nostra democrazia.
Nel nostro ordinamento questa libertà non è solo una libertà negativa che impedisce lesioni da parte dello Stato ed anche da parte dei privati, ma proprio in ragione del carattere democratico della nostra Repubblica queste libertà esigono forme attive di sostegno.
Nel campo dell’informazione questo sostegno attivo significa un obbligo dello Stato di predisporre norme che tutelino il pluralismo esterno e la libera concorrenza tra gli operatori. Nel nostro Paese mancano, soprattutto nel campo della radiotelevisione, delle norme antitrust adeguate che garantiscono pluralismo, concorrenza e che limitino la preponderanza dei maggiori gruppi editoriali. Questa lacuna è evidente fin dalla nascita della televisione privata. Nessun Governo ha saputo o voluto rimediare. Fa molto comodo ai soggetti dominanti in un certo momento storico avere il sostegno della radiotelevisione ed è più comodo trattare con pochi soggetti soltanto.
Nel campo della radiotelevisione pubblica, del servizio pubblico, anziché battersi per l’attuazione dei principi fondamentali di indipendenza, autonomia e di pluralismo interno si è spesso cercato di favorire forme più o meno esplicite di sudditanza, prima ai partiti e spesso direttamente anche al Governo. Nonostante gli espliciti ammonimenti della Corte costituzionale, questo è quello che è avvenuto anche con gli interventi più recenti. Naturalmente ci si è guardati bene anche dall’eliminare in questo campo i più insidiosi conflitti d’interesse.
È evidente che in presenza di queste condizioni la competizione politica risulta viziata: i detentori delle posizioni maggioritarie tendono ad essere sempre più forti e coloro che si oppongono trovano pochissimo spazio per farlo.
A questo si aggiunge sul piano istituzionale una legge elettorale fortemente maggioritaria nel risultato, anche se di impianto inizialmente proporzionale. Nel bilanciamento tra rappresentanza e governabilità, si privilegia decisamente il secondo valore che la Corte anche nella sentenza n.1 del 2014 aveva impostato in termini diversi.
Se poi si tiene conto che le forze emergenti finiscono con l’avere sostanzialmente un solo diritto di tribuna (con la soglia di sbarramento al 3 per cento) e non possono in alcun caso sperare di formare governi di coalizione con le forze politiche maggioritarie, si capisce quanto difficile diventi il ricambio.
Chi è al Governo risulta blindato con una maggioranza di parlamentari fedeli perché scelti direttamente dal partito piuttosto che dal corpo elettorale. Se qualcuno dissentisse sarebbe poi estremamente facile la minaccia dello scioglimento e di un nuovo voto per lasciar fuori gli indisciplinati.
Questo quadro non cambia, anzi peggiora, se si considerano insieme la legge elettorale e quella costituzionale: quest’ultima concentra ulteriormente il potere nelle mani dell’Esecutivo che si trova ad agire in Parlamento con poteri decisamente maggiori.
Ragionando sul terreno della forma di Governo (e lasciando per un attimo da parte la forma di Stato) è difficile trascurare il fatto che la riforma costituzionale determina un fortissimo aumento del peso dell’Esecutivo rispetto al Parlamento. Quali sono gli equilibri che vengono cambiati?
Innanzitutto la fiducia concessa dalla sola Camera eletta con un forte premio di maggioranza che attribuisce al partito vincente la maggioranza assoluta. Sul piano dei poteri, il Governo che dispone di un procedimento monocamerale per le leggi più importanti, vede ridotta forse la possibilità di ricorrere ai decreti legge, ma resta immutata la possibilità di farsi delegare con principi molto generici grandi spazi di intervento da un Parlamento, senz’altro più “governabile”, esiste poi la possibilità aggiuntiva di disporre, per i provvedimenti giudicati essenziali, di una corsia preferenziale che nei risultati non sarà molto diversa dai vituperati decreti legge. Lo stesso Governo conserva la possibilità di chiedere la fiducia con assoluta disinvoltura.
C’è da considerare poi la riduzione del sistema delle autonomie regionali, ricondotte al “peso” del 1947 e rappresentate a livello nazionale da un Senato decisamente più debole. Sono segnali preoccupanti sul piano del bilanciamento dei poteri. Mortati aveva notato che il pluralismo istituzionale derivante dal riconoscimento di forti poteri alle autonomie territoriali rappresentava un forte presidio della democraticità del nostro ordinamento[22].
Non si dovrebbe trascurare infine il fatto che il leader in alcuni dei partiti principali ha un tipo di legittimazione molto forte e che ora anche il settore mediatico pubblico rischia di essere caratterizzato da una governance molto accentrata e totalmente nelle mani dell’esecutivo. Sono pochi quelli che pensano che il peso della televisione sia secondario nella competizione elettorale.
È difficile, mentre siamo ancora in una fase deliberativa, pronunciare un giudizio definitivo. È indubbio però che in questo modo si rischia di precostituire realmente una sorta di presidenzialismo di fatto, del tutto privo dei pesi e dei contrappesi che caratterizzano le moderne democrazie.
È indubbio che l’insieme di questi fattori consentono di avvicinare molto la forma di governo che uscirà da queste riforme a quel premierato assoluto di cui parlava Elia a proposito della riforma costituzionale del 2005, poi bocciata dal referendum. Visto però il quadro dell’informazione che abbiamo di fronte, non credo proprio che il prossimo referendum costituzionale possa dare il risultato di allora.
[1] V.R. Zaccaria-A. Valastro-E. Albanesi, Libertà dell’informazione e della comunicazione, Padova, Cedam, 2013.
[2] Secondo la Corte: «l’art.10 non vale solo per le informazioni o le idee che sono favorevolmente accolte o considerate inoffensive o indifferenti, ma anche per quelle che offendono, scuotono o disturbano lo Stato o un qualunque settore della popolazione» (cfr. Handyside c. Regno Unito; Murphy c. Irlanda).
[3] In alcuni appelli, che leggo in questi giorni, si nega che manifestazioni di pensiero di questa natura possano addirittura costituire opinioni (vedi Carta di Roma). Mi permetto sommessamente di dissentire!!! Altro discorso è quello dei limiti costituzionalmente ammissibili.
[4] V. A. Pace-M. Manetti, La libertà di manifestazione del proprio pensiero, Commentario della Costituzione, Branca-Pizzorusso, Il Foro italiano, Zanichelli, Bologna, 2006; A. Valastro, Art.21, Commentario alla Costituzione, a cura di R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti, Utet, Milano, 2006; P. Barile-S. Grassi, voce Informazione (Libertà di), in Noviss. dig. it., Appendice, vol. IV, Torino, Utet, 1983, p. 200 ss; L. Paladin, Problemi e vicende della libertà di informazione nell’ordinamento giuridico italiano, La libertà d’informazione, Torino, Utet, 1979, p. 6; P. Barile, Libertà di manifestazione del pensiero, Milano, Giuffrè, 1975, p. 4;
[5] La Cedu (cfr. Kokkinakis c. Grecia del 1993 e Larissis c. Grecia del 1998) ha considerato illecito solo il proselitismo religioso svolto con indebite pressioni su soggetti in stato di difficoltà o violenze psico-fisiche finalizzate alla conversione, o sfruttando rapporti di subordinazione lavorativa.
[6] Questo profilo della libertà si trova oggi “espressamente” garantito dall’art. 19 Cost. perché in passato la giurisprudenza prevalente sull’art. 5 della legge sui culti ammessi (che riproduceva l’art. 2 della l. sulle guarentigie pontificie del 1871, definendo “pienamente libera” la discussione in materia religiosa) era favorevole ad ammettere le dotte dispute tra esperti, ma poi orientata ad escludere invece la libertà di usare slogans propagandistici avversi alla religione cattolica. Non a caso, Corte Cost. n. 1 del 1956, è intervenuta proprio su questo aspetto, dichiarando illegittimi i limiti imposti dall’art. 113 t.u.l.p.s. al libero volantinaggio delle minoranze religiose. Dopo la Costituzione, la compressione della libertà di propaganda delle minoranze religiose è proseguita attraverso il ricorso strumentale all’art. 402 cp sul vilipendio della religione cattolica, ora abrogato (v. Cass. pen. 6 giugno 1961). La dottrina (estendendo il ragionamento usato da Corte Cost. n. 243 del 2001 per la “propaganda antinazionale”) esclude che l’incriminazione per vilipendio possa essere applicata alla “propaganda antireligiosa”, ritenendo quest’ultima punibile di per sésoltanto nei casi in cui si profila contrasto con la libertà di manifestazione del pensiero. Vedi anche come l’incriminazione per vilipendio non si ritiene estensibile alle espressioni di critica e di satira (cfr. Trib. Latina 24/10/06).
[7] Sulle affinità e correlazioni tra l’art. 21 Cost. ed altre norme costituzionali, cfr. P. Barile, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, Il Mulino, Bologna, 1984., p. 228
[8] Corte cost. n. 84 del 1969. Sul «particolare valore» che la libertà di manifestazione del pensiero riveste in ogni ordinamento democratico, v. anche le sentt. Corte cost. nn. 9 del 1965, n. 11 del 1968 e n.126 del 1985. In dottrina, per tutti, cfr.L. Paladin, Libertà di pensiero e libertà d’informazione:le problematiche attuali, Quaderni cost.1987, p. 5; C. Esposito, La libertà di manifestazione del pensiero nell’ordinamento italiano, Milano, Giuffrè, 1958, p. 48.
[9] Cfr. Corte cost. n.19 del 1962 sull’art. 656 cp e sul discutibilissimo salvataggio della contravvenzione per notizie false esagerate e tendenziose; Corte cost. n.87 del 1966: in questa decisione l’ordine pubblico è inteso come “ordine legale” ma anche come “metodo democratico”; Corte cost. n.168 del 1971 sull’art. 650 cp in riferimento all’“ordine pubblico costituzionale”; Corte cost. n.16 del 1973 sull’art. 266 cp, istigazione dei militari all'infedeltà. Viene richiamato il “sacro dovere di difesa della patria”.
[10] V. per tutte Corte cost. n.153 del 1987.
[11] Per un’interpretazione dei giudici volta a circoscrivere l’ambito di applicabilità del limite di ordine pubblico, cfr. Cass. pen., sez. I, sent. 22 novembre 1997, n. 10641, e Cass. pen., sez. I, sent. 8 luglio 1999, n. 8779.; nonché quello sulla legittimità di fattispecie penali concernenti l’istigazione all’odio razziale, etnico e religioso. In senso critico cfr. P. Caretti, Manifestazione del pensiero, reati di apologia e di istigazione: un vecchio tema che torna di attualità in una società multietnica, in Aa.Vv., Diritti, nuove tecnologie, trasformazioni sociali: scritti in memoria di Paolo Barile, Padova, Cedam, 2003, p. 111 ss.
[12] M. Manetti, in A.Pace-M.Manetti, Libertà di manifestazione del proprio pensiero, cit. pag. 257.
[13] E così prosegue: «Il pensiero ha un enorme spazio libero intorno a sé. Se il pensiero dovesse pensare a tutte le conseguenze che possono nascere dal suo pensare, non ci sarebbe più il pensiero umano. Il reato è nell’azione, non può essere nel pensiero», Il Messaggero, 20 ottobre 2015.
[14] Corte cost. n.225 del 1974 e n.69 del 2009. Sul principio pluralistico, si vedano, oltre alla già citata, n.153 del 1987, la sent. n.826 del 1988 e soprattutto la sent. n.284 del 2002.
[15] Questo vale anche per il disegno di privatizzazione che sembrava superato dai fatti. Non si capisce che significato abbia mantenere uno schema che, almeno nelle intenzioni, non s’intende realizzare. Privatizzare vuol dire poi, in mancanza di normativa antitrust, diminuire il pluralismo. L’impianto pubblicistico, molto marcato, è caratterizzato da una serie di vincoli che i privati non hanno, anche se si ripete spesso che la Rai deve competere ad armi pari con gli altri soggetti sul mercato. Non si dice nulla sulla concessione, che rappresenta la chiave di volta del sistema. L’attuale concessione scade nel maggio del 2016: il silenzio è dunque incomprensibile. Ci si occupa della durata del contratto di servizio ma sembrerebbe ancora più doveroso preoccuparsi della sua efficacia (non presidiata in modo significativo) e dei tempi di approvazione. È singolare il fatto che il contratto del triennio 2013-2015 sia ancora in fase di gestazione!!!
[16] Nel 1953 De Gasperi favorì, tra vivacissime contestazioni, l’approvazione di una legge elettorale con un consistente premio di maggioranza (65%) alla Camera dei deputati alla lista o al gruppo di liste collegate che avesse peraltro superato la metà dei voti validi. La legge non ebbe però effetto. Infatti non fu raggiunto, sia pure per pochissimi voti, il quorum del 50 % e dopo poco nel 1954 la legge fu abrogata.
[17] A partire dagli anni ‘90 vari movimenti (Segni e radicali) misero sotto attacco il sistema elettorale: prima (1991) per introdurre la preferenza unica e poi (1993), dopo il via libera della Corte costituzionale, con il referendum che sostituiva il sistema proporzionale con il maggioritario. L’anno successivo il Parlamento approvò il cd Mattarellum, con i collegi uninominali e che miscelava una quota proporzionale del 25 per cento e il 75 per cento di rappresentanza maggioritaria.
[18] Il referendum non raggiunse il quorum del 50 per cento per pochissimi voti.
[19] Cfr. V. Onida, Una legge elettorale che non rispetta la reale maggioranza, Corriere della Sera, 10 marzo 2015; Cosi anche E. Scalfari, in un’editoriale su La Repubblica, di quei giorni, notò che «un premio di maggioranza che non sia attribuito al 50%+1 rappresenta una forte distorsione del sistema elettorale».
[20] P. Caretti, Forum di Articolo 21 del 19 marzo del 2014 su Legge elettorale e conflitto d’interessi.
Si vedano anche gli interventi di G.Azzariri, L.Carlassarre, A.Pace, A. Pertici, F.Sorrentino,R.Zaccaria.
[21] Molto più ampiamente su questi aspetti cfr. U. De Siervo, I più che discutibili contenuti del progettato art. 117 della Costituzione, in Scritti in ricordo di Paolo Cavaleri, in corso di pubblicazione, ottobre 2015.
[22] C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, Tomo I, Padova Cedam, 1975, p.157 e s.