Magistratura democratica e la tutela del dissenso. Cronache di un’esperienza
In questo contributo, gli Autori ripercorrono l’esperienza di Magistratura democratica e ricordano come – tra i suoi elementi fondativi – vi sia stata la scelta di campo in favore di un garantismo di impronta liberaldemocratica e una caparbia attenzione alla tutela della manifestazione del pensiero.
Da qui – in un affresco di quella difficile stagione – gli Autori muovono per ricordare le nette prese di posizione di Magistratura democratica contro alcune iniziative giudiziarie che comprimevano tale libertà, l’impegno di Magistratura democratica per l’abrogazione dei reati di opinione e il prezzo che i suoi aderenti dovettero pagare.
Gli Autori concludono il loro contributo registrando – come un dato di fatto – il diverso atteggiamento che Magistratura democratica ha recentemente assunto in relazione a procedimenti penali scaturiti a seguito della manifestazione di un pensiero.
Capita spesso agli anziani che hanno percorso un’intera vita professionale in Magistratura democratica, ad interrogarsi (e ad essere interrogati) sui risultati del loro impegno: cosa abbiamo costruito, cosa resta delle nostre battaglie, cosa resta di decenni tumultuosi della democrazia italiana vissuti con un impegno inconsueto in un ordinamento all’epoca dei nostri esordi largamente burocratico?
Alcune risposte sono abbastanza condivise. L’indipendenza reale della magistratura rispetto al potere esecutivo, raggiunta attraverso la demolizione dell’ordinamento giudiziario e delle norme processuali ereditate dal fascismo è oggi un valore condiviso. L’ancoraggio ai principi fondamentali della Costituzione repubblicana e il programma emancipatore dell’art.3 capoverso della Costituzione come motore di eguaglianza fondamentale per il raggiungimento dell’uguaglianza sostanziale dei cittadini, saldato con gli altri principi costituzionali del diritto al lavoro e della retribuzione sufficiente, per molti anni nella giurisprudenza dei giudici del lavoro hanno prodotto rilevanti risultati, anche se oggi è in corso un radicale mutamento degli orientamenti politici e del quadro normativo in materia.
La giurisdizione civile ha raggiunto spesso risultati impensabili solo qualche decennio fa in materie come la procreazione assistita o la eliminazione delle discriminazioni di genere o il fine vita e la tutela della volontà del defunto, precedentemente espressa o ricostruita successivamente al decesso, sconfiggendo una forte incrostazione clericale sopravvissuta nella giurisprudenza e nella cultura giuridica.
Ma non è di questo, e dei contraccolpi della riorganizzazione normativa secondo i principi neoliberisti e del loro impatto sulla giurisdizione che possiamo occuparci. Il discorso sarebbe eccessivamente complesso e articolato.
1. Contro l’ideologia della neutralità
Vogliamo ricordare un altro dei motivi ispiratori dell’azione di Magistratura democratica agli inizi, proseguita per molti decenni. Quello del garantismo di impronta liberaldemocratica trasfusa in Costituzione nelle libertà di manifestazione del pensiero, di riunione, di associazione.
È la coesistenza dell’impegno per la trasformazione democratica della società in senso egualitario, e quindi della giurisdizione come fattore di eguaglianza, e di quello di garanzia dei diritti individuali, delle libertà democratiche e del pluralismo, che ha costituito la garanzia dell’autonomia della corrente, che si proclamava autonoma articolazione della sinistra in quanto partecipe del progetto di emancipazione enunciato nella Costituzione, ma non poteva accettare i dogmi del primato della politica, la sottovalutazione delle libertà individuali e la pretesa egemonica del Partito comunista protrattasi fino a tutti gli anni settanta.
Tutto questo, questo duplice impegno, è maturato con particolare intensità, per Md, già alla fine degli anni sessanta. L’approccio di Md alla questione del dissenso ha infatti origini antiche, legate alle ragioni stesse della sua nascita (1964). Ma alla fine di quel decennio Md è stata uno dei protagonisti, in prima fila, delle iniziative per un rinnovamento che le nuove generazioni richiedevano.
Il triennio 1968-70 ha visto la più forte spinta sociale al cambiamento dell’intera storia dell’Italia unitaria, che determinò uno sconvolgimento del quadro politico. Nel 1968 Aldo Moro, a quel tempo ministro degli esteri, intervenendo al consiglio nazionale del suo partito, la Dc, si espresse con queste parole: «Tempi nuovi si annunciano e avanzano in fretta come non mai. Il vorticoso succedersi delle rivendicazioni, la sensazione che storture, ingiustizie, zone d’ombra, condizioni d’insufficiente dignità e d’insufficiente potere non siano oltre tollerabili, l’ampliarsi del quadro delle attese e delle speranze all’intera umanità, la visione del diritto degli altri, anche dei più lontani, da tutelare non meno del proprio, il fatto che i giovani, sentendosi a un punto nodale della storia, non si riconoscano nella società in cui sono e la mettano in crisi, sono tutti segni di grandi cambiamenti e del travaglio doloroso nel quale nasce una nuova umanità».
In questo clima, quel triennio ha visto anche una Magistratura democratica ben presente nel dibattito politico e culturale che si era allora aperto nel Paese. Una presenza che ha avuto un forte risalto mediatico, anche perché per la prima volta un gruppo di magistrati, rompendo l’ideologia della neutralità - un’ideologia del tutto funzionale agli interessi delle classi dominanti - e la tradizionale compattezza corporativa della magistratura, si schierava apertamente con i soggetti di classe protagonisti del conflitto. Lo faceva con la giurisprudenza alternativa, aderente ai valori e alle promesse della Costituzione, e lo faceva con una serie di interventi pubblici, alcuni dei quali in difesa delle libertà garantite dalla carta fondamentale della Repubblica.
È vero che dalla prima metà degli anni ‘60 si è affermata nella cultura giuridica e nella magistratura la consapevolezza dell’importanza della Costituzione come fonte primaria del diritto, immediatamente precettiva. Ma l’ideologia dominante, in magistratura e nella cultura del Paese, era quella della neutralità della giurisdizione, e dell’interpretazione come un procedimento tecnico neutrale: insomma, quella che si definiva appunto come “ideologia della neutralità”. Questa escludeva critiche a sentenze, pronunciamenti collettivi, prese di posizione ed interventi su processi in corso da parte dei magistrati, visti come attentati all’indipendenza dell’ordinamento giudiziario, delle gerarchie e della sacralità delle pronunce della cassazione[1].
2. L’ordine del giorno Tolin
Perciò apparve clamorosa la rottura di tale ideologia con il cosiddetto ordine del giorno Tolin (Bologna, 30 novembre 1969) di aspra critica all’arresto con mandato di cattura del 24 novembre 1969, all’epoca facoltativo, per istigazione continuata a delinquere del direttore del giornale Potere operaio Francesco Tolin, per tre articoli in cui difendeva la «violenza operaia» contro la «violenza capitalista». L’arresto si collocava in una stagione di crescente criminalizzazione ad opera di polizia e magistratura di giornalisti di vario orientamento e di tipografi. Il clima era tale che a Milano e Roma alcuni tipografi arrivano a chiedere il preventivo visto della Questura prima di stampare un manifesto delle organizzazioni, sindacali o politiche, di sinistra (ma anche dei Giovani liberali). Per trovare un precedente di un direttore di giornale arrestato bisognava tornare ai tempi del fascismo. La gravità del fatto fu tale che il comitato di redazione dell’unico telegiornale pubblico allora esistente e più di 60 giornalisti della Rai chiesero l’immediata scarcerazione di Tolin. Nel documento di Md si esprimeva una profonda preoccupazione rispetto a «un disegno sistematico operante con vari strumenti e a vari livelli, teso a impedire a taluni la libertà di opinione».
Dunque l’approccio di Md al dissenso così severamente colpito fu al contempo di segno garantista e libertario. Tali modalità di intervento di Md suscitarono grave scandalo e furono il motivo, e talvolta il pretesto di una scissione di Magistratura democratica.
È stato subito chiaro che non lottavamo per un’indipendenza della magistratura quale privilegio della corporazione, come dimostrava l’iniziativa delle “contro inaugurazioni” dell’anno giudiziario, con aspre critiche ai procuratori generali e la partecipazione di cittadini, esponenti di partiti, sindacati e movimenti, né per un’efficienza fine a sé stessa. Il sistema dei codici penale e di procedura penale era un sistema assolutamente efficiente, ma in senso autoritario e classista. Occorreva garantire contemporaneamente l’indipendenza esterna della magistratura dal potere politico, quella interna dai vertici di un ordinamento autoritario e centralizzato, le libertà individuali e il pluralismo.
La prova, a meno di un anno di distanza, fu l’iniziativa della proposta di referendum popolare abrogativo delle norme penali sui reati politici d’opinione, lanciata nel convegno dell’ Anm svoltosi a Napoli il 24 e 25 ottobre 1970, ma già annunziata in seno all’Anm nella primavera precedente e nel congresso di Trieste del settembre 1970.
3. Il referendum abrogativo dei reati politici di opinione
A tale iniziativa non si pervenne improvvisamente in base ad una valutazione astratta da neutrali cultori del diritto penale, ma sollecitati da una grave emergenza.
Alle agitazioni sindacali del 1969, mediante cortei, marce e manifestazioni di centinaia di migliaia di metalmeccanici, scioperi, picchettaggi, occupazioni di fabbriche, comitati di lotta, si affiancarono le lotte degli studenti, con cortei, occupazioni di scuole o interruzioni di lezioni, per contestare un’organizzazione della scuola ritenuta funzionale al riprodursi del sistema capitalistico. Così la reazione di magistratura e polizia si tradusse in circa 13.000 denunce, che colpirono 737 sindacalisti, 1103 vigili urbani, 2158 operai, 1916 ospedalieri e dipendenti di enti locali, studenti, direttori di giornali.
Quella del referendum non fu la prima opzione coltivata da Md, che caldeggiò la proposta di amnistia lanciata dall’allora segretario del PSI Francesco De Martino[2]. A un’amnistia poi si arrivò (dPR 22 maggio 1970, n. 283), ma di contenuto limitatissimo, riguardante in pratica solo le occupazioni in occasione di manifestazioni studentesche e lievissimi reati comuni. Restava fuori la quasi totalità delle denunce delle manifestazioni sindacali e operaie, se non quando ricorreva l’attenuante del danno di particolare tenuità. La delusione fu grande e spinse Md a coltivare il progetto del primo referendum abrogativo della storia italiana.
Osservava Luigi Ferrajoli, che dette un contributo fondamentale all’elaborazione del testo e della relazione della proposta di referendum abrogativo: «Le norme di cui si chiede la soppressione sono le norme del codice penale che più marcatamente riflettono l’ideologia illiberale e autoritaria del regime fascista a tutela del quale furono introdotte. In forza di queste norme, la cui storia recente è la storia della repressione politica nel nostro Paese, le libertà sancite dalla Costituzione repubblicana sono oggi gravemente in pericolo ….». Ma lo stesso Ferrajoli esprimeva un auspicio e una speranza che dimostrano come l’iniziativa contava ancora sull’apporto determinante dei partiti di sinistra: «Forse non arriveremo neppure alla votazione sul referendum. Forse l’iniziativa, mobilitando la pubblica opinione su temi istituzionali troppo a lungo ignorati, avrà l’effetto di indurre il Governo a riesaminare totalmente il suo limitato progetto di riforma e di sollecitare il Parlamento ad attuare per via legislativa l’abrogazione di tutte le norme contenute nel progetto. Ma una cosa è certa. Da questo momento il dibattito sui reati d’opinione si trasferisce nel Paese; cessa di essere un dibattito tecnico-giuridico e diventa un dibattito politico; esce dalle secche delle discussioni accademiche, dei convegni di studio e delle commissioni parlamentari in cui stagnava da oltre vent’anni e diviene battaglia popolare che impegna la responsabilità di tutte le forze politiche.»[3]
L’inizio sembrò promettente. Infatti dopo l’“autunno caldo” del 1969 tutti i partiti di governo, esclusi socialdemocratici e repubblicani, e i partiti di sinistra avevano presentato in Parlamento disegni di legge per l’abrogazione della maggior parte dei reati politici d’opinione. Esisteva, inoltre un progetto di legge del Governo, sia pure di contenuti limitati. Dunque, l’iniziativa di Md, nonostante il suo radicalismo, non poteva certo esser considerata una provocazione. Il 22 dicembre 1970 si costituì un Comitato nazionale per il referendum abrogativo dei reati politici, d’opinione e sindacali con l’adesione del PSI, PSIUP, Movimento politico dei lavoratori, Partito radicale, Movimento giovanile della DC, organizzazioni sociali, movimenti politici e singole personalità, per la propaganda dell’iniziativa e la raccolta delle firme necessarie. Mancava però l’appoggio del PCI. Mentre le forze maggiori dapprima si defilarono e poi passarono ad un’aperta ostilità, il PCI già dal congresso di Trieste dell’Anm pose la condizione impossibile che il referendum fosse proposto dall’intera Anm, di cui conosceva le posizioni moderate e sostanzialmente conservatrici. Tanto più che quel congresso, sui temi «Uguaglianza dei cittadini e la giustizia» e «Evoluzione democratica e certezza del diritto», si concluse con l’esclusione di Md dalla giunta centrale e l’alleanza tra le correnti conservatrici e genericamente progressiste, per le quali la proposta di referendum era stata considerata quasi una provocazione. Il PCI passò poi ad un’aperta ostilità, con articoli che esprimevano perplessità sull’uso del referendum, fino al divieto di raccogliere firme alle Feste dell’Unità[4].
Certo l’iniziativa era radicale e complessa, come risulta dal lungo elenco di reati da abrogare, ma il segno democratico-costituzionale era chiarissimo, come risulta dalla rubrica dei reati oggetto del referendum[5].
Non si pensi che tali reati, a venticinque anni dall’entrata in vigore dalla Costituzione, e a 15 dall’attuazione della Corte costituzionale, fossero un armamentario desueto: tali norme come diremo tra poco, furono largamente applicate ed alcune lo sono tuttora.
In ogni caso, salvo l’aiuto dato in alcune sedi dal PSIUP, o dai sindacati dei metalmeccanici, ci trovammo da soli a gestire l’impresa disperata di propagandare l’iniziativa, raccogliere, in breve tempo, firme tutte autenticate con l’aiuto di volenterosi cancellieri e qualche raro notaio. A settembre del 1971 Md prese atto del fallimento dell’iniziativa: si erano raccolte 300.000 firme autenticate. Non mancarono critiche anche all’interno del gruppo, per il carattere troppo vasto dell’iniziativa e per l’esito complessivo. Certo, non tutti si mobilitarono al massimo, anche all’interno, come era peraltro scontato in partenza. Ma a nostro avviso, al di là dell’indubbia sensibilizzazione di parte non piccola dell’opinione pubblica sull’assurda persistenza di incriminazioni tipiche dello stato autoritario fascista, il risultato più rilevante fu spingere due o trecento magistrati (su un totale di circa 550 aderenti a Md in quell’epoca) fuori degli uffici per affrontare dibattiti, entrare a contatto con il mondo del lavoro, con gli operai e gli studenti. Insomma a rompere ogni chiusura corporativa.
4. Le conseguenze della mancata abrogazione delle norme previste dalla proposta referendaria
Le norme sui vilipendi sono rimaste immutate con il loro carico sanzionatorio (reclusione fino a tre anni, elevabile a quattro ed oltre per effetto di aggravanti specifiche previste) fino al 24 febbraio 2006, quando per l’impossibilità e l’inopportunità politica di colpire esponenti di spicco e militanti della Lega, allora al Governo, il legislatore ha sostituito le pene con semplici multe[6]. La stessa Corte costituzionale, dopo aver affermato che la libertà di manifestazione del pensiero si estende anche alla propaganda, ha però negato l’illegittimità costituzionale del delitto di vilipendio previsto dall’art. 290 codice penale (ordinanza 26.6.1975, n. 168) implicitamente accogliendo la distinzione tra critica ragionevolmente motivata e affermazioni grossolane di propaganda o dispregio, con la conseguenza che il reato può essere commesso spesso da persone poco acculturate, ignare dell’arte della retorica, della dialettica o della logica formale. Ma al momento giusto anche le persone culturalmente preparate possono essere colpite.
Per tale reato, infatti, furono incriminati Franco Marrone per dichiarazioni rese nel dibattito organizzato il 2 maggio 1970, a Sarzana, sul conflitto sociale e sul processo per la strage di piazza Fontana, avvenuta a Milano il 12 dicembre 1969, e in seguito Luigi De Marco, Marco Ramat, Generoso Petrella e Mario Barone. Il succedersi delle imputazioni dimostrava, con riferimento agli avvenimenti, la gravità dei reati di vilipendio e del loro possibile uso strumentale. In quel dibattito, presieduto da Mario Barone, Franco Marrone tra l’altro criticò la reazione repressiva alle lotte sociali «dei padroni e naturalmente dei magistrati che sono i loro servi», traducendo così in uno slogan l’analisi ormai diffusa concernente la partecipazione di parte della magistratura al blocco di potere dominante e della funzionalità della giustizia al mantenimento dello stesso.
In risposta, all’apertura da parte della procura della Repubblica di La Spezia di un procedimento penale per vilipendio della magistratura, fu indetto in quella città su iniziativa di Md e di altre associazioni un convegno, in occasione del quale circa trecento persone, fra magistrati, docenti e intellettuali, quale segno della volontà di difendere la libertà di manifestazione del pensiero, sottoscrissero un documento di solidarietà che esordiva con l’affermazione che alcuni condividevano e altri no le parole di Marrone, ma se ne assumevano la paternità in difesa della libertà di manifestazione del pensiero.[7] Ne derivò l’estensione dell’imputazione di vilipendio, a mo’ di rappresaglia, dei dirigenti nazionali di Md Luigi De Marco, Marco Ramat, Generoso Petrella, e, con un criterio selettivo a dir poco sorprendente, di Mario Barone, per la ragione che sedeva al tavolo della presidenza del convegno.
Ma le cose peggiorarono ancora quando cominciò a manifestarsi la montatura sulla pista anarchica nel processo Valpreda per la strage di piazza Fontana e le critiche dei gruppi di sinistra crebbero di numero e violenza.
Per vilipendio dell’ordine giudiziario e delle forze armate furono incriminati Umberto Terracini per l’articolo duramente critico, pubblicato su Rinascita il 19 maggio 1972, sulla morte di Franco Serantini ucciso dalle forze di polizia a Pisa, e Luciana Castellina per tre articoli pubblicati su Il Manifesto il 12, 19 e 26 febbraio 1972. Pure si trattava di personaggi di vasta cultura, quanto meno a conoscenza della dialettica hegeliana!
Md prese l’iniziativa della pubblicazione integrale degli articoli incriminati, sotto il titolo «La giustizia vilipesa», con un’aspra nota critica che collegava l’intensificarsi del ricorso ai reati di vilipendio all’intensificarsi della repressione (si discuteva allora nel Governo dell’introduzione del fermo di polizia, misura sempre contrastata da Md), ponendosi a rischio di nuove incriminazioni[8]. Ma quel che è più grave è che in questo contesto si arrivò all’arresto in flagranza durante comizi elettorali, come avvenne al militante dell’Unione dei comunisti italiani (marxisti-leninisti) Vanni Pasca a Reggio Calabria il 5 maggio 1972, condannato poi per direttissima, in stato d’arresto, il 31 maggio 1972 a due anni di reclusione senza condizionale e libertà provvisoria[9].
È impossibile qui seguire le decine di incriminazioni e condanne a carico di esponenti di gruppi antagonistici, principalmente anarchici, e di Lotta continua. Non possiamo che procedere per campione, per mostrare la gravità concreta del ricorso alle incriminazioni contenute nella proposta referendaria.
Altri reati di cui si propose l’applicazione e che trovarono invece larga applicazione sono quelli di istigazione, in particolare l’istigazione di militari a disobbedire alle leggi, che punisce «Chiunque istiga i militari a disobbedire alle leggi o a violare il giuramento dato o i doveri della disciplina militare o altri doveri inerenti al proprio stato, ovvero fa ai militari l’apologia di fatti contrari alle leggi, al giuramento, alla disciplina o ad altri doveri militari». Per il fatto commesso a mezzo stampa la pena é della reclusione da due a cinque anni (salvo una possibile mitigazione introdotta dalla Corte costituzionale nel 1989). Tale norma, di estrema estensione e genericità, fu usata insieme alle norme del codice penale militare di pace (che colpivano i militari in servizio) per stroncare il movimento dei Proletari In Divisa (PID) o altri analoghi, nell’epoca in cui il servizio militare era obbligatorio e non era riconosciuta neppure l’obiezione di coscienza, introdotta con legge 15 dicembre 1972 n. 772. Comunque qualsiasi critica all’organizzazione di reparti, alle modalità del servizio e alla disciplina proveniente da singoli o organizzazioni antimilitariste o semplicemente per la democratizzazione dell’esercito fu duramente repressa.
Il movimento Proletari In Divisa nacque nel 1968, come estensione alla vita militare del movimento. Nelle caserme nacquero le prime forme di lotta, dal rifiuto del rancio alla critica della gerarchia militare, dalla nocività e pericolosità delle condizioni di vita, fino ad analisi più complessive sulla funzione dell’esercito nella società capitalista. Ben presto fu egemonizzato da Lotta continua che pubblicò anche un quindicinale dedicato alle lotte nelle caserme. Centinaia di militari aderenti al movimento furono arrestati nelle caserme e condannati dai Tribunali militari [10]. È impossibile seguire le decine di arresti e sequestri di stampati del movimento. Ci limitiamo al caso più incredibile per gravità.
Nel 1977 il giudice istruttore di Roma Antonio Alibrandi spiccò 89 decreti di perquisizione e mandati di cattura per associazione per delinquere (art. 416 cp) e istigazione di militari a disobbedire alle leggi. Gli arrestati appartenevano a diversi movimenti e partiti: in massima parte a Lotta continua, ma anche ad Avanguardia operaia, PDUP e perfino al Partito Radicale. Tra questi ultimi il matematico settantunenne Bruno De Finetti, accademico dei Lincei, Giancarlo Cancellieri, Roberto Cicciomessere (segretario del partito), Andrea Tosa e Valter Vecellio. Costoro decisero di costituirsi, Cicciomessere fu arrestato davanti a Montecitorio, gli altri dettero appuntamento alla polizia in coincidenza con l’apertura dell’Accademia dei Lincei. La difesa fu assunta da Umberto Terracini. La posizione dei radicali fu stralciata e il mandato di cattura nei loro confronti fu quasi subito revocato. Il giudice Antonio Alibrandi rifiutò perfino di trasmettere copia degli atti al ministro della giustizia Francesco Paolo Bonifacio.
La protesta di Md, anche in questo caso, fu immediata. Guido Neppi Modona, nell’articolo su La Repubblica del 25 novembre 1977 dal titolo «Il giudice Alibrandi alle prese con il ministro Bonifacio», oltre ai rilievi sul tipo di reato e sulla gravità della vicenda osservò che la responsabilità principale «va ricercata ancora una volta nelle norme dell’ordinamento giudiziario che consentono ai capi degli uffici di assegnare i processi ai singoli magistrati, senza alcuna forma di controllo democratico e con criteri di assoluta discrezionalità». Era per giunta noto che il giudice Alibrandi era l’unico magistrato dichiaratamente aderente al MSI.
5. La stagione dei procedimenti disciplinari
Il dissenso espresso da magistrati di Md suscitava l’attenzione continua dei titolari dell’azione disciplinare, soprattutto quando gli interventi affrontavano tematiche di particolare rilievo politico e sociale. In particolare la gestione dei processi per la strage di piazza Fontana, all’inizio degli anni Settanta, imponeva espressioni di critica e dissenso che il ceto di governo non era disposto ad accettare. Così se a Dino Greco, Domenico Pulitanò e Guido Galli venne detto che a loro non era consentito discutere di provvedimenti giurisdizionali (in sede associativa avevano fatto approvare a Milano un documento di critica e protesta per lo spostamento del processo per la strage da Milano a Roma); a Marco Ramat, Luigi De Marco, Generoso Petrella e Corradino Castriota fu contestato la violazione del prestigio dell’ordine giudiziario per avere sottoscritto un documento in cui tra l’altro si esprimevano critiche al modo in cui era stato gestito dalla magistratura il ritenuto suicidio di Giuseppe Pinelli. E analoghe procedure disciplinari raggiunsero a Federico Governatori e Luigi Ferrajoli[11].
Tutti questi interventi ebbero una risonanza mediatica clamorosa e produssero anche aspre reazioni in quella parte dei magistrati, a quel tempo ampiamente maggioritaria, che li considerava lesivi non solo del prestigio della magistratura ma anche della loro credibilità professionale. Il dissenso espresso da Md dagli orientamenti maggioritari della giurisprudenza indusse le altre componenti dell’Anm a elaborare un «preambolo programmatico» che stabiliva che per poter partecipare alla giunta dell’associazione era fra l’altro necessario non praticare la critica ai provvedimenti giudiziari.
6. Cronache di oggi
Le norme sui reati di opinione continuano ad avere effetti anche oggi.È a tutti nota la vicenda della Tav (linea ferroviaria veloce Torino Lione), una “grande opera” costosissima destinata a produrre inconvenienti e danni su un’intera vallata e che, non a caso, la grande maggioranza della popolazione e dei suoi rappresentanti locali la rifiuta. Nel dibattito che si è aperto due noti intellettuali, Gianni Vattimo e Erri De Luca, hanno preso, come altri, una posizione duramente critica sull’opera, suscitando l’attenzione della procura della Repubblica di Torino.
Nel processo che si è aperto a carico del secondo sono stati richiesti dalla pubblica accusa otto mesi di reclusione nel processo per istigazione al sabotaggio della Tav. Erri De Luca è infatti accusato, secondo il capo d’imputazione, per aver risposto ad alcune domande sull’opera con valutazioni e parole che erano state riportate da Huffington Post e Ansa: «La Tav va sabotata, ecco perché le cesoie servivano: sono utili a tagliare le reti. Nessun terrorismo … sono necessari per far comprendere che la Tav è un’opera nociva e inutile … hanno fallito i tavoli di Governo, hanno fallito le mediazioni: il sabotaggio è l’unica alternativa … resto convinto che il Tav sia un’opera inutile e continuo a pensare che sia giusto sabotare quest’opera … ».
Rispetto a una simile incriminazione non vi sono stati interventi di Md, del tutto silente, ma solo interventi di singoli. Eppure è evidente che con questa imputazione e la relativa richiesta di condanna si è voluto processare uno scrittore per un classico reato di opinione, previsto da una norma ancora vigente del codice Rocco. Eppure le domande che ci si potevano porre, a parte quelle strettamente tecniche (ad esempio, in cosa consiste il necessario «pericolo concreto»?), non erano poche. La norma incriminatrice può considerarsi ancora oggi rispettosa della Costituzione? Qual è oggi la rilevanza dell’articolo 21? Con un’imputazione sconosciuta nella storia della Repubblica, l’istigazione al sabotaggio, si vuole forse difendere una scelta politica discutibile e discussa? Ancora: accogliendo l’impostazione dei pubblici ministeri torinesi, quanti libri e riviste dovrebbero finire sotto processo?
All’udienza innanzi al Tribunale, fissata per il 19 ottobre, la sentenza è stata netta: assoluzione «perché il fatto non sussiste». La lettura della motivazione di questa sentenza sarà interessante, anche per coloro che ritengono che sia ormai passato il tempo della critica severa ma tecnicamente ragionata alle scelte e ai provvedimenti dei magistrati.
Eppure Md, fino agli inizi di questo secolo, non ha avuto esitazioni a intervenire per la libertà di manifestazione del pensiero e contro l’utilizzo dei reati di opinione per ragioni di sostegno alle scelte del potere politico. Tra l’altro, proprio fino a quel tempo, Md era impegnata sul fronte della realizzazione del «diritto penale minimo»[12]. Questo, non solo per ragioni di efficienza e perché la collettività non riconosce più alcun disvalore sociale a molti reati, ma anche perché nell’opera di individuazione dei beni per i quali è indispensabile l’intervento repressivo penale non può essere dimenticato il rilievo costituzionale riservato ad alcuni valori, come la libertà di manifestazione del pensiero, per natura esente da limiti. Ormai da più di un decennio l’impegno di Md su questo fronte, e la capacità di critica di provvedimenti giurisdizionali, sembrano essersi decisamente attenuati. Le ragioni sono molteplici e andranno altrove discusse. Di certo, l’abbandono della logica del conflitto non è un fattore di crescita della democrazia.
[1] Il punto di vista di Magistratura democratica sulla cd “ideologia della neutralità” del potere giudiziario è espresso con grande chiarezza da Domenico Pulitanò, La buona fede del giudice e la parzialità del giurista, in Quale giustizia, n. 3, maggio-giugno 1970.
[2] G. Palombarini - Gf. Viglietta, La costituzione e i diritti, pp 90-92.
[3] Luigi Ferrajoli, in Quale giustizia, n. 5-6, settembre-dicembre 1970, p.5.
[4] Vedi G. Palombarini-Gf. Viglietta cit, p.91-92
[5] Questo il catalogo dei reati oggetto del quesito referendario: Istigazione di militare a disobbedire alle leggi; Attività antinazionale del cittadino all’estero; Associazioni sovversive; Associazioni antinazionali; Propaganda ed apologia sovversiva o antinazionale; Illecita costituzione di associazioni aventi carattere internazionale e partecipazione ad esse; Offesa all’onore o al prestigio del Presidente della Repubblica; Lesa prerogativa dell’irresponsabilità del Presidente; Vilipendio della Repubblica, delle istituzioni costituzionali e delle forze armate; Vilipendio alla Nazione italiana, alla bandiera o altro emblema dello Stato; Offesa all’onore dei capi di stato esteri, alla bandiera o altro emblema di stati esteri; Istigazione a commettere alcuni dei delitti di cui ai capi I e II; Pubblica istigazione o apologia; Eccitamento al dispregio e vilipendio delle istituzioni, delle leggi e degli atti dell’autorità; Abbandono collettivo o individuale di pubblici uffici, impieghi, servizi o altri lavori; Interruzione di un servizio pubblico o di pubblica utilità e omissione di doveri di ufficio in occasione dell’abbandono o interruzione; Interruzione di un ufficio o servizio di pubblica utilità; Oltraggio a pubblico ufficiale, a corpo politico, amministrativo o giudiziario, a magistrato in udienza, a pubblico impiegato; Vilipendio della Religione di Stato e offesa alla religione mediante vilipendio di cose o persone; Apologia di reato, Istigazione a disobbedire alle leggi; Sciopero per fini contrattuali o non contrattuali e coazione alla pubblica autorità mediante sciopero, Sciopero scopo di solidarietà o protesta; Serrata; Boicottaggio; Arbitraria invasione e occupazione di aziende agricole o industriali; Plagio; Grida e manifestazioni sediziose; Radunata sediziosa; Pubblicazione di notizie false, esagerate o tendenziose; grida o notizie atte a turbare la tranquillità pubblica o privata.
[6] Ricorda Livio Pepino (Forti con i deboli, Bur ed., 2012, pag, 28), che cita in proposito Achille Battaglia, I giudici e la politica, Laterza, Bari, 1962) che è a partire dal 1952 che venne riscoperto il reato di vilipendio delle istituzioni. Nel 1952 i procedimenti con tale imputazione furono 65, nel 1955 se ne ebbero 132, nel 1956 giunsero a 350, nel 1957 salirono a circa 550.
[7] Sulle vicende del processo v. G. Palombarini- Gf. Viglietta, cit.
[8] Vedi Quale giustizia, gennaio-febbraio 1973, pag.16 ss.
[9] Vedi Quale giustizia, gennaio- febbraio 1973, pag 29 e seguenti, nelle quali si documenta anche l’analoga vicenda dell’anarchico Luigi Zanché.
[10] Per una più completa informazione vedi il libro di Armando Todesco, Pid, proletari in divisa, 1969-1976, C.s.t. Milano, 2001.
[11] Si veda in proposito G. Palombarini, Giudici a sinistra, Esi ed., 2000, pag. 180 ss.
[12] Numerosi interventi di aderenti a Md su tale tematica sono riportati nel volume Diritto penale minimo, a cura di Umberto Curi e Giovanni Palombarini, Donzelli ed., 2002.