I giovani magistrati e l’associazionismo giudiziario
I magistrati più giovani, se avvertono normalmente il richiamo dell’Anm, vista come “casa comune” e autorevole riferimento identitario, altrettanto normalmente rifuggono, invece, dall’impegno nelle “correnti” che animano l’Associazione. Le ragioni spaziano dalla maggiore maturità delle nuove leve della magistratura (che, per le modalità del concorso, vi approdano in genere a un’età più avanzata rispetto al passato), che induce a scelte mediate e consapevoli, piuttosto che a giovanili entusiasmi; al coinvolgimento delle correnti nel conflitto con la politica, visto come un appannamento, comunque, della “sacralità” della funzione giudiziaria. Ma, soprattutto, ciò che allontana i magistrati più giovani dalle correnti è il malcostume cui esse si sono abbandonate nella gestione del potere di autogoverno, anzitutto nelle nomine a uffici direttivi o altrimenti prestigiosi.
(Giorgio Gaber, La libertà)
«Qualcuno era comunista perché aveva bisogno di una spinta verso qualcosa di nuovo, perché era disposto a cambiare ogni giorno, perché sentiva la necessità di una morale diversa, perché forse era solo una forza, un volo, un sogno, era solo uno slancio, un desiderio di cambiare le cose, di cambiare la vita.
Qualcuno era comunista perché con accanto questo slancio ognuno era come più di se stesso, era come due persone in una. Da una parte la personale fatica quotidiana e dall’altra il senso di appartenenza a una razza che voleva spiccare il volo per cambiare veramente la vita.
No, niente rimpianti. Forse anche allora molti avevano aperto le ali senza essere capaci di volare, come dei gabbiani ipotetici.
E ora? Anche ora ci si sente come in due: da una parte l’uomo inserito che attraversa ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana e dall’altra il gabbiano, senza più neanche l’intenzione del volo, perché ormai il sogno si è rattrappito.
Due miserie in un corpo solo».
(Giorgio Gaber, Qualcuno era comunista)
Svolgo le funzioni di sostituto procuratore da meno di un anno (sono del dm 2013) e, come tanti neo-magistrati, sono entrato in magistratura ormai non più giovanissimo.
L’era dei “giudici ragazzini” (definizione coniata per indicare quei giovanissimi magistrati che, poco più che ventenni, si sono trovati, in un passato neppure poi così lontano, a fronteggiare i disagi e le difficoltà di uffici giudiziari di frontiera), nel bene o nel male, può ormai dirsi sostanzialmente superata a seguito della trasformazione del concorso in magistratura in un concorso di secondo livello, a cui è possibile accedere soltanto previa acquisizione di un titolo “abilitante”. Questo ha comportato, inevitabilmente, un innalzamento dell’età media dei neo-magistrati, con la conseguenza che ormai si approda alla magistratura con una diversa maturità (quantomeno anagrafica) rispetto al passato e, spesso, con un “bagaglio” di pregresse esperienze lavorative: personalmente, prima di superare il concorso in magistratura, ho lavorato come “precario della ricerca” (prima dottorando poi assegnista di ricerca), dipendente statale (per 13 anni impiegato presso l’Ufficio legale del Ministero per i beni culturali) e come libero professionista (una breve esperienza da avvocato).
Che questo sia un fatto positivo o meno (sul nuovo sistema di reclutamento credo sia arrivato il momento di fare un primo bilancio) non sono ancora in grado di dirlo: di certo c’è che non si arriva più “vergini” all’esercizio delle funzioni giudiziarie, il che, se da un lato può avere come risvolto negativo il fatto di doversi reinventare come lavoratore, affrontando un non semplice “processo di auto-purificazione” che consenta di esercitare, per la prima volta, una funzione statuale, quella giurisdizionale, «in nome del popolo» (e non del professore che per cooptazione ti ha messo in cattedra) e in modo «autonomo e indipendente da ogni altro potere» (e non dovendo realizzare le linee politico-programmatiche del ministro pro-tempore); dall’altro può avere come risvolto positivo quello di poter contare su una maturità (questa sì non solo anagrafica) fatta di “conoscenze parallele” (nel senso di professionalità acquisite in ambiti diversi da quello giudiziario ma che a questo possono tornare utili), di difficoltà già affrontate (soprattutto nella gestione dei rapporti interpersonali che animano la vita di qualsiasi contesto lavorativo) e di una maggiore consapevolezza di sé come persona, cittadino, lavoratore.
Ciò premesso, a giudicare dall’approccio che i giovani magistrati hanno avuto negli ultimi anni nei confronti dell’associazionismo giudiziario, mi sembra di poter dire che questa “maggiore maturità” è probabilmente una delle ragioni che sta alla base della “maggiore cautela”, rispetto al passato, con la quale i neo-magistrati si approcciano alla dimensione associativa interna alla magistratura.
A tale proposito, è però doveroso operare subito un necessario distinguo: se, infatti, già nel corso del primo anno di tirocinio o, al più tardi, al momento della presa delle funzioni nella prima sede di destinazione, la maggior parte di quelli che qualche collega “anziano” continua a chiamare “uditori” presentano la loro domanda di iscrizione all’Associazione nazionale magistrati; al contrario, almeno nei primi anni di esercizio delle funzioni, soltanto pochi di loro si avvicinano ad una delle associazioni di magistrati, che vengono in gergo chiamate “correnti”, e che animano il dibattito interno all’Anm, tant’è che uno dei suoi massimi organi interni, il Comitato direttivo centrale, come è noto, è composto da magistrati eletti a seguito di elezioni per liste contrapposte ognuna delle quali è espressione proprio di una di queste diverse “correnti”.
Le ragioni di questa differenza vanno ricercate, a mio giudizio, nel fatto che, nonostante il complessivo scetticismo che i neo-magistrati nutrono nei confronti del fenomeno associativo interno alla magistratura (scetticismo le cui cause si cercherà di indagare nel prosieguo di queste brevi riflessioni), la stragrande maggioranza di loro continua a vedere nell’Anm quella “casa comune” sotto il cui tetto si continua a percepire quel senso di appartenenza che, per lo meno nei confronti del mondo esterno, fa sentire qualsiasi magistrato italiano più sicuro (e ciò vale a maggior ragione per i più giovani, che, in quanto tali, si percepiscono giustamente come i più esposti alle insidie di un mestiere difficile quale è quello del magistrato), in quanto parte di una grande “famiglia” che, anche grazie all’alto profilo istituzionale che, da sempre, i rappresentati dell’Anm hanno saputo mantenere nel dialogo con i loro principali interlocutori (in primis il Governo e l’avvocatura), gode nell’opinione pubblica di un generale apprezzamento, dovuto soprattutto all’autorevolezza con cui i suoi esponenti intervengono nei dibattiti che riguardano i temi della giustizia e della legalità.
Di contro, per quanto riguarda le ccdd “correnti” - cercando di rifuggire da qualsivoglia tipo di generalizzazione, perché non poche sono le eccezioni -, l’impressione è, invece, che i magistrati reclutati con le ultime procedure concorsuali si sono mostrati complessivamente poco attratti, soprattutto nei primissimi anni di esercizio della professione, dalla partecipazione attiva al dibattito interno alle stesse e, ancor di più, dall’idea di aderire formalmente ad una di esse. Quasi che essere diventati magistrati dopo aver già superato la fase post-adolescenziale ed essere entrati a pieno titolo nell’età matura della vita - il che in molti casi può determinare l’affievolirsi di quelle pulsioni che generalmente caratterizzano il “protagonismo” con cui i giovani stanno nella società e si giocano il proprio ruolo nei contesti in cui operano - induce i neo-magistrati a vivere l’associazionismo giudiziario più da spettatori che, appunto, da “protagonisti”.
Con il passare degli anni, infatti, l’istintività cede il passo alla prudenza, l’impulsività alla riflessività, e se questo è certamente un bene per l’esercizio della funzione giudiziaria, dovendo il magistrato fare dell’equilibrio la sua dote principale, di contro, forse, induce anche ad una maggiore riluttanza rispetto all’impegno associativo, impegno che, invece, indubbiamente, richiede anche una certa dose di entusiasmo, direi quasi, per usare le parole di Giorgio Gaber, «di una spinta verso qualcosa di nuovo … di uno slancio, di un desiderio di cambiare le cose»[1]: aderire ad una “corrente” piuttosto che ad un’altra non è un’operazione neutra, poiché richiede la consapevolezza di operare una scelta quantomeno tra diversi modi di intendere l’essere “magistrato” e tra diverse “visioni” sul ruolo che la stessa Anm deve svolgere nei confronti del mondo esterno. Scegliere di aderire ad una “corrente” significa decidere da che parte stare, prendere posizione, schierarsi, e questa scelta di campo, se non si è mossi da un certo “entusiasmo” e dal desiderio di non limitare il proprio orizzonte al limite estremo della propria scrivania, può diventare una scelta difficile da compiere, dietro la quale si rischia di intravedere “cinicamente” più insidie che aspetti positivi.
Questa scelta richiede poi, per essere compiuta con la dovuta consapevolezza, uno sforzo di comprensione del fenomeno associativo: richiede, in altri termini, l’acquisizione di quelle informazioni di base per poter comprendere, ad esempio, il senso dell’esistenza di più associazioni e del perché non è bastevole la sola Anm; la specificità di ognuna di esse e le tematiche sulle quali ognuna di esse concentra la sua attenzione, e così via. E questa comprensione richiede un tempo che può essere più o meno lungo a seconda anche del Tribunale in cui si svolge il tirocinio, dei diversi input che da quel contesto si ricevono, nonché dei tutors che si incontrano lungo il cammino.
Aderire ad un gruppo vuol dire, infine, molto banalmente, anche essere disposti a sacrificare, di tanto in tanto, un pomeriggio del proprio, già poco, tempo libero per partecipare ad un assemblea in cui può capitare di discutere di temi “alti”, come i diritti, ovvero di questioni che possono apparire di più “bassa cucina associativa” e che, invece, a ben vedere, stanno alla base del corretto funzionamento della Giustizia e, quindi, dell’effettività di quegli stessi diritti, come, ad esempio, l’organizzazione degli uffici.
In poche parole, fare, come suol dirsi, “vita associativa”, vuol dire “processare” il proprio modo di vedere la professione di magistrato, mettersi in discussione, cercare il confronto e, quando serve, mettere il proprio tempo e le proprie residue energie a disposizione di quella che evidentemente si considera una “giusta causa”.
Tutto questo richiede uno sforzo aggiuntivo a quello, già molto grande, che ogni magistrato di prima nomina deve affrontare per imparare ad essere un buon magistrato. E questo già da solo potrebbe spiegare il perché nei giovani magistrati - anagraficamente più grandi dei loro predecessori e, perciò solo, forse più saggiamente consapevoli dei propri limiti - si riscontra una certa ritrosia nei confronti dell’impegno associativo.
La “maggiore maturità” non è, però, certamente l’unica ragione della, almeno iniziale, “insensibilità” che i neo-magistrati mostrano nei confronti dell’associazionismo giudiziario.
Vi sono, infatti, a mio parere, almeno altre due cause di questo fenomeno: una che riguarda quella che possiamo definire la “sfera esterna” al mondo della magistratura e che ha a che fare con il “confronto/scontro” che si è sviluppato, negli ultimi vent’anni, tra il mondo della politica e quello della magistratura; l’altra, che attiene alla “sfera interna”, che riguarda, cioè, le dinamiche tutte interne al mondo della magistratura e soprattutto alle modalità di gestione del cd “autogoverno”.
Quanto alla variabile “esogena”, non solo già molto si è detto e scritto negli ultimi anni, ma la stessa recente cronaca quotidiana propone ancora all’attenzione dell’opinione pubblica l’ormai trito e ritrito tema del “conflitto” tra politica e magistratura (che in realtà tale non è e non potrebbe mai essere visto il nostro assetto costituzionale, nel quale gli ambiti riservati al potere esecutivo e a quello giudiziario sono ben distinti e la “forza” dell’uno è volutamente bilanciata dalla “forza” dell’altro in un gioco di “pesi e contrappesi” che rappresenta il principale baluardo del nostro Stato democratico). Eviterò, pertanto, di soffermarmi sulla natura e sulle cause di tale fenomeno, rinviando sul tema ai “fiumi di inchiostro” già versati da chi, con molta maggiore cognizione di causa di me, lo ha raccontato e descritto. Mi limiterò, perciò, a svolgere qualche breve riflessione sul come e perché, a mio giudizio, questo dibattito (a volte artatamente distorto dai commentatori) sul tema dei rapporti tra “potere esecutivo” e “potere giudiziario” ha inciso sull’approccio sempre più “cauto” che i giovani magistrati hanno avuto nei confronti dell’associazionismo giudiziario.
Chi è entrato in magistratura negli ultimi quindici anni è figlio di un’epoca nella quale la politica, dopo la supplenza esercitata dalla magistratura nei suoi confronti non solo sul piano della legalità ma anche su quello dell’etica pubblica (il riferimento è ovviamente al fenomeno di “Mani pulite” che, soprattutto nei primi anni Novanta del secolo scorso, ha fatto venire allo scoperto le mille “Tangentopoli” d’Italia), ha cercato di recuperare terreno, dapprima mediante un rinnovamento, almeno di facciata, della classe dirigente del Paese - facilitato anche e soprattutto dalla necessità di colmare i vuoti lasciati da un sistema politico (quello della cd “Prima Repubblica”) che si era sgretolato sotto i colpi delle numerose inchieste giudiziarie - e poi - tradendo gli stessi presupposti sulla base dei quali i nuovi partiti erano riusciti a rimpiazzare la vecchia nomenclatura (in primis la lotta alla corruzione) - provando a ristabilire i rapporti di forza con il potere giudiziario, sulla base del mistificante presupposto che quello portato dalle Procure, con le indagini che iniziavano a riguardare anche i “volti nuovi” della “Seconda Repubblica”, fosse un attacco “politico”. Questa operazione si è tradotta in un tentativo di delegittimazione della magistratura che è stata accusata di agire per fini politici. A queste accuse, rivolte soprattutto a quella parte di magistrati che si riconosce in Magistratura democratica (i cui componenti si guadagnarono l’etichetta di “toghe rosse” e che più delle altre associazioni è stata percepita, per la sua matrice “progressista”, come il propulsore di un fantomatico progetto “golpista” volto a contrastare i progetti politici dei nuovi partiti democraticamente eletti), la magistratura, tutta, ha sempre risposto con la dovuta fermezza, ribadendo l’autonomia e l’indipendenza da ogni altro potere, con cui da sempre esercita il suo delicato e severo ruolo di garante del rispetto delle leggi.
Il fronte comune che l’intera magistratura ha fatto per contrastare ogni tentativo di “isolamento” di quei magistrati più esposti agli attacchi di una politica “debole”, e per questo più aggressiva nei confronti di una magistratura che veniva vista come un nemico da battere, ha certamente rappresentato uno dei momenti di maggiore forza dell’associazionismo giudiziario. Agli attacchi esterni l’unica risposta possibile non poteva che essere una forte coesione interna: emblematica fu la richiesta di iscrizione di numerosi magistrati italiani a Magistratura democratica all’indomani della richiesta dell’ex Ministro della giustizia, on. Cesare Previti, all’epoca dei fatti imputato di corruzione, di conoscere i nomi degli aderenti ad Md, quasi a voler redigere un sorta di lista di proscrizione[2].
Questo “scontro”, mai cercato ma subito dai magistrati italiani, ha, però, a lungo andare, assuefatto l’opinione pubblica, di cui facevano parte anche quei giovani poi divenuti magistrati negli ultimi dieci anni, al punto che, una volta entrati in magistratura, la loro comprensibile reazione è stata quella di “non volerne più sapere” di quel clima di conflittualità e di tenersi, perciò, il più possibile lontano da quelle realtà, le “correnti”, che, nell’immaginario collettivo, incarnavano ormai quella parte della magistratura che era stata trascinata sul terreno dello scontro con la parte peggiore della politica italiana e che, per ciò solo, aveva in qualche modo scalfito, suo malgrado, quell’aurea di “sacralità” da cui si pensa la magistratura debba essere avvolta. Le conseguenze peggiori di tale fenomeno le ha pagate proprio Magistratura democratica, scelta dalla propaganda politica come il capro espiatorio su cui far ricadere ogni colpa. Il vento per fortuna è cambiato e la storia ha reso giustizia dei torti subiti: basti pensare che nonostante tutti e tre i pubblici ministeri che, con l’inchiesta denominata “Mafia Capitale” (il cui processo ha preso avvio proprio in questi giorni) hanno “messo alla sbarra” un intero pezzo della politica capitolina, siano iscritti a Md o al Movimento per la giustizia, a nessuno è venuto in mente, per ciò solo, di mettere presuntivamente in discussione il loro operato, cercando di strumentalizzare la loro appartenenza alla parte più progressista della magistratura italiana.
È anche questo, si spera, un segnale che il clima sta cambiando e che, prima o poi, le scorie dell’ultimo ventennio di attacchi (questi sì politici) alla magistratura, saranno il lontano e sbiadito ricordo di una democrazia ancora incompiuta. L’effetto di tutto ciò non potrà che essere positivo anche per quanto riguarda l’approccio che i futuri magistrati avranno nei confronti delle “correnti” in generale e di Md in particolare.
Venendo, invece, ora a quella che ho definito la causa “endogena” della ritrosia che i magistrati di prima nomina, e negli ultimi tempi non solo loro, hanno dimostrato nei confronti delle “correnti”, essa va individuata senz’altro nella non sempre brillante prova di sé che le stesse hanno dato sul piano soprattutto della coerenza tra quanto professato pubblicamente e quanto praticato nel segreto delle stanze di Palazzo dei Marescialli, soprattutto sul tema delle nomine dei dirigenti degli uffici giudiziari, dei consiglieri di cassazione e dei componenti di uffici quali il Massimario.
A questo proposito mi torna alla mente la e-mail che il 22 marzo 2014, alla vigilia delle primarie per la scelta dei candidati di Area al Csm, il collega Giuseppe Cascini inviò sulla mailing-list «nuovarea» e che, molto probabilmente, gli valse la mancata elezione. In quella e-mail Cascini, con il suo solito stile diretto e che non lascia margine alcuno a qualunque tipo di compromesso al ribasso, denunciava i due mali di cui è affetto il governo autonomo della magistratura e che egli individuava nel correntismo e in quello che definiva il suo “figlio (in)naturale”, il localismo. Scriveva Cascini: «La percezione diffusa, nella magistratura e nel Paese, è che molte decisioni del Csm siano ispirate da logiche di appartenenza, di corrente o di territorio. Non mi pare utile in questa sede discutere in che misura tale percezione corrisponda alla realtà, in quanto essa è troppo diffusa e troppo radicata per poter essere frutto solo di un malinteso o di una generica demagogia antipolitica. E anche perché è una percezione che colpisce anche me, quando vedo nomine a “pacchett” approvate all’unanimità o ritardi nella copertura di posti direttivi chiaramente finalizzati al raggiungimento del numero magico di quattro. Mi pare più utile, e più interessante, riflettere sulle ragioni del fenomeno, cercare di esplorarne le cause e di individuare i possibili rimedi … In queste settimane, infatti, mi sono chiesto come sia possibile che magistrati seri, irreprensibili, persone di grande livello morale e culturale, giunti al Csm, finiscano per partecipare, più o meno consapevolmente, di tali logiche. Cosa sarebbe: una mutazione genetica legata alla istituzione? Un virus che alligna nel palazzo di Piazza Indipendenza? Oppure è una cosa che ci riguarda (e ci interroga) tutti?… Dobbiamo cioè domandarci quanto di quel virus ci sia anche dentro ognuno di noi e quanto ciò possa contribuire ad alimentare, negli elettori e negli eletti, una malintesa idea della rappresentanza». In quella stessa e-mail Giuseppe Cascini indicava anche quella che, secondo lui, è la strada da percorrere per sconfiggere il virus del correntismo: «anteporre l’interesse dell’Istituzione all’interesse degli aderenti al proprio gruppo e scegliere sempre le persone più adeguate per i posti a concorso, indipendentemente da ogni logica (o pregiudizio) di appartenenza, di territorio, oltre che da ogni pressione o sollecitazione che venga dalla base». In poche parole assumere il “merito” come unico criterio nella scelta del candidato più idoneo a ricoprire un posto direttivo o semi-direttivo, operazione che richiede evidentemente un cambiamento radicale, una rottura netta e visibile delle logiche correntizie.
In questi primi due anni in magistratura ho percepito con assoluta chiarezza che per le nuove leve della magistratura è proprio questo il terreno sul quale i gruppi associativi si giocano la loro credibilità. Sebbene, infatti, i giovani magistrati, quantomeno per motivi anagrafici, non siano interessati in modo diretto dalle nomine dei dirigenti degli uffici giudiziari non potendovi concorrere, tuttavia gli stessi sin da subito, nel rapportarsi con il dirigente dell’ufficio di prima destinazione (sia esso il procuratore o il presidente del Tribunale) hanno modo di cogliere l’importanza che la scelta dei dirigenti degli uffici riveste per il buon funzionamento degli uffici stessi e di conseguenza per il loro lavoro. Il superamento di logiche correntizie che mortificano il merito si impone, pertanto, come un imperativo categorico. In questa direzione sembra muoversi il nuovo «Testo unico sulla dirigenza giudiziaria»[3]. Si tratta adesso di vedere come dalle parole si passerà ai fatti, nella consapevolezza che su questo terreno le “correnti”si giocano la sfida più importante, perché la gestione corretta e trasparente dell’autogoverno è l’unica strada per ristabilire, su basi nuove, il dialogo con i giovani magistrati e per costruire un futuro credibile per tutta la magistratura.