Introduzione: Il valore del dissenso
1. Se Rosa Parks o Martin Luther King – e molti altri con loro – avessero chiesto ai bianchi di garantire “per favore” i diritti degli afroamericani, con tutta probabilità, nessuno avrebbe prestato loro ascolto. È stato necessario – in quell’epoca, come in altre – levare forte la voce del dissenso ad un assetto legale e sociale che, sino a quel momento, nessuno voleva mettere in discussione.
Se – nella sua Lettera ai cappellani militari – don Lorenzo Milani non avesse levato forte la voce a tutela dell’obiezione di coscienza – giungendo perfino a dire (lui, un sacerdote, un educatore!) che «l’obbedienza non è più una virtù» - forse il cammino degli obiettori di coscienza sarebbe stato molto più lungo.
Certo. Quelle – ed altre – manifestazioni di dissenso ebbero dei costi. Per chi disobbedì, subendo critiche, processi e perfino privazioni della libertà. Per le istituzioni, fortemente messe in discussione da un’opinione contraria, radicale e intransigente. Per la società, attraversata da conflitti – purtroppo non sempre limitati al livello verbale e ideologico –che ne hanno minato la tranquillità.
Ma è altrettanto certo che – a chi levò quelle (ed altre) parole di dissenso – oggi noi non possiamo che rivolgere un devoto ringraziamento.
2. Le democrazie moderne e contemporanee – nelle loro carte costituzionali – garantiscono larghissimo spazio alla manifestazione del pensiero. Ne sono un esempio il primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America, l’art. 10 e l’art. 11 della Dichiarazionedei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 e – più di recente – il nostro art. 21 della Costituzione, l’art. 10 della Convenzione Edu, l’art. 11 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Ma, troppo spesso, la garanzia si ferma alla proclamazione sulla carta.
3. È questa la ragione per cui Questione giustizia ha deciso di occuparsi del dissenso. E la proposta è quella di esaminarne i molti campi in cui si gioca la partita del confronto di opinioni. Il tema del dissenso, infatti, attraversa molti ambiti, dai luoghi della politica e delle istituzioni di governo, ai Tribunali sino ai luoghi sociali. Ed è interessante rilevare come, al di là delle declamazioni di principio, il controllo e la governabilità del dissenso – diremmo: il suo contenimento – siano una tendenza sempre più marcata della nostra democrazia. In epoca contemporanea le democrazie faticano sempre più a tollerare il dissenso. Premono la crisi, le esigenze dell’economia, la necessità di governare tempestivamente i fenomeni, di avere una democrazia che decide.
In questo quadro, il dissenso è un inciampo, un freno, un ostacolo; e chi si frappone alle aspettative della maggioranza, talora, diventa perfino un nemico.
È allora interessante tentare di registrare i fenomeni, cercare di considerare quali siano i punti di equilibrio tra principio di maggioranza e tutela delle posizioni minoritarie, quali le forme di controllo (e repressione) che si vanno affermando. E, fattore non secondario, quali le matrici culturali che ispirano determinati fenomeni.
4. Sul piano dell’architettura costituzionale e istituzionale, si registra ogni giorno la tendenza ad accentrare nelle mani di pochi (l’amministratore delegato, il segretario di partito, il premier, sempre più capo del governo)i percorsi decisionali. Ne sono testimonianza – come efficacemente messo in luce nel contributo di Roberto Zaccaria – la (non) riforma del sistema di governace del servizio pubblico radiotelevisivo (in cui l’amministratore delegato diventa una sorta di «monarca assoluto») e la riforma elettorale; quest’ultima, all’evidenza – con il meccanismo del premio di maggioranza e il sistema del ballottaggio concepito così come lo prevede il cd Italicum – privilegia in modo estremamente significativo le esigenze di governabilità (e di fedeltà interne alla leadership di partito), a discapito di una più ampia rappresentanza di posizioni in Parlamento. Il che, fatalmente, spinge verso la creazione di «due blocchi consolidati», trascurando che «un vero sistema democratico è quello basato sul principio dell’alternanza e sulla possibilità che movimenti minoritari possano crescere fino a diventare maggioranza». Una simile legge elettorale avrà l’effetto di concentrare molto potere in chi governa i partiti di maggioranza relativa (creando un’ulteriore ingessatura nella dialettica interna ai partiti che ambiscono a posizioni di governo).
Ma la riforma costituzionale farà in modo che – quelle stesse forze politiche, una volta vinte le elezioni – siano prive di autentici contrappesi nella conduzione dell’attività di governo. Eliminato il bicameralismo paritario; semplificate le procedure legislative, garantendo al Governo la possibilità di essere dominus quasi incontrastato dell’attività parlamentare; possibilità per le forze di maggioranza di incidere in modo pressoché determinante sull’investitura degli organi di garanzia. Un concentrato di potere che – anche per l’assenza di un efficace statuto delle minoranze – lascerà ben poco spazio a chi, all’interno delle istituzioni politiche, tenterà di discostarsi dalle opinioni maggioritarie.
5. E costituiscono precise anticipazioni di questa tendenza anche piccoli segnali linguistici, denotati dal qualificare i parlamentari non perfettamente allineati alla linea come dissenzienti, se non addirittura dissidenti.
Già oggi – e prima della pratica verifica delle conseguenze dell’Italicum e prima della definitiva approvazione della cd riforma costituzionale – si intravedono significative mutazioni nella vita politica, così come concretamente praticata nelle istituzioni rappresentative.
È infatti da registrare – come un dato di fatto – la tendenza, sempre più forte, a superare le pastoie del dibattito parlamentare, tacitando i dissidenti, strozzando le discussioni a colpi di questioni di fiducia, maxi-emendamenti, emendamenti cd super-canguro, etc.
Il contributo di Massimo Villone prende in esame proprio alcuni di questi nuovi strumenti di controllo della macchina parlamentare, evocando vari casi consegnatici dalle recenti cronache parlamentari: sostituzione di parlamentari e membri di commissione non fedeli alla linea;questioni di fiducia poste su leggi elettorali (unico precedente: la questione di fiducia posta da De Gasperi nel 1953 per l’approvazione della cd legge truffa); maxi emendamenti (che non sempre potrebbero essere considerati tali in senso tecnico) che hanno l’effetto di far decadere tutti gli altri emendamenti (quelli veri): il cd super-canguro.
6. Gli spazi di libera espressione del dissenso si riducono non solo nei palazzi della politica. Essi si riducono – forse più drammaticamente – anche sul piano sociale. Si pensi al mondo del lavoro, con la sperimentazione di un nuovo sistema di relazioni sindacali, con la maggiore industria manifatturiera italiana che inaugura la stagione degli accordi separati (con la dichiarata intenzione di isolare i sindacati – pur ampiamente rappresentativi – ritenuti scomodi) e che giunge ad abbandonare Confindustria (con la – anche qui dichiarata – intenzione di avere le mani maggiormente libere) e che, allorquando interpella l’opinione dei lavoratori, pone gli stessi di fronte ad una esplicita, quanto drammatica, alternativa: o il referendum passa con il risultato che l’azienda desidera, oppure l’azienda trasferisce altrove la produzione[1].
Il percorso di progressiva erosione degli spazi di espressione di un pensiero libero di lavoratori e sindacati non è il frutto di rivoluzioni epocali, ma di una progressiva mutazione culturale degli attori in campo: i regolatori, i sindacati, l’accademia, gli interpreti. Ciascuno di tali attori sta mutando la percezione del proprio ruolo; e – con loro – si sta modificando profondamente la stessa percezione di cosa sia e cosa possa essere il diritto del lavoro oggi. Per adempiere alla sua funzione di garanzia, il diritto del lavoro deve godere di consenso nella società, nelle istituzioni e nell’accademia. Ma una società sempre più stretta dalla crisi, un’accademia sempre meno incline a riconoscere la speciale autonomia del diritto del lavoro non sembrano in grado di garantire questa base di consenso. E ciò si riflette sia sui percorsi normativi che sugli orientamenti interpretativi.
Questa mutazione culturale è al centro della preoccupata riflessione di Umberto Romagnoli, di cui – per la sua forza espressiva – è necessario riportare sin d’ora almeno un’anticipazione: «il lavoro ha potuto rompere un millenario silenzio a condizione di metabolizzare il divieto di non alzare troppo la voce».
7. Non può mancare ad una riflessione come quella contenuta in questo obiettivo un contributo che indaghi il tema dei rapporti tra libertà di manifestare il proprio pensiero e repressione del dissenso attraverso lo strumento penale.
È il tema della riflessione di Marco Pelissero, che attraversa le numerose interferenze tra espressione del pensiero – anche del pensiero più sgradevole – e strumento penale e ne misura, fattispecie per fattispecie,la necessità costituzionale; e, nel contributo, si constata, anzitutto, come la categoria dei reati di opinione attinga a criteri valutativi pregiuridici, tanto nella definizione dei suoi confini, quanto nella sua pratica applicazione; si registra poi – come un dato di fatto sul quale è difficile non convenire – una sostanziale continuità riscontrabile tra l’assetto ereditato dal regime fascista e norme sul controllo penale del dissenso vigenti in epoca repubblicana, alle quali sembra non potersi proprio rinunciare.
Ma l’analisi delle interferenze tra dissenso e strumento penale non si può fermare alla sola dimensione del fenomeno normativo, dovendosi riflettere anche quali siano gli atteggiamenti della giurisdizione penale di fronte a chi manifesta pensieri ostili. Ci si limita qua a proporre due spunti di riflessione.
Come noto, la Corte costituzionale, sin dagli anni ’70, ha proposto una lettura costituzionalmente orientata di alcuni reati di opinione, ritenendo necessaria una concreta idoneità della manifestazione del pensiero a sollecitare la commissione di reati; solo l’esistenza di un pericolo per il bene giuridico tutelato legittima la compatibilità tra le fattispecie incriminatrici dei reati di apologia e l’art. 21 della Costituzione. Orbene, il delicato punto di equilibrio, troppo spesso, rischia di essere sviato dal suo autentico significato di garanzia; basti pensare a come talora – nei giudizi di merito – i criteri di accertamento del pericolo concreto si risolvono in pseudo-motivazioni o frettolosi richiami a massime di esperienza prive di autentico significato selettivo.
Un altro spunto di riflessione è, forse, ancora più preoccupante. Capita talora di leggere – soprattutto in provvedimenti cautelari in procedimenti per reati “di piazza” o di resistenza a pubblico ufficiale – che un determinato indagato è persona da ritenere socialmente pericolosa (e dunque da “custodire”) perché militante dell’area antagonista (o anarchica, o fascista, ecc.), o perché già identificata in precedenti manifestazioni del medesimo movimento (senza che, però, in quelle manifestazioni, si siano verificati reati; dato che, altrimenti, sarebbe stato sicuramente valorizzato)[2]. In simili casi, la semplificazione del percorso motivazionale è evidente e sin troppo scoperta: il pericolo di reiterazione del reato si dovrebbe ricavare da fatti e da condotte, non da appartenenze ideologiche non sfociate in episodi illeciti … .Il risultato, però, è uno: in simili casi (per fortuna non così frequenti), l’avere frequentato in passato un’area ove si coltiva il dissenso– anche senza averlo praticato in modo violento – comporta il pagamento di un prezzo: vale a dire, il rischio di vedere giudicati con maggior rigore i fatti di oggi, per le proprie idee di ieri.
8. In questo obiettivo si cerca di gettare lo sguardo oltre l’oceano, nella democrazia occidentale che – nelle proclamazioni – offre il più ampio livello di tutela alla manifestazione del diritto di manifestare le proprie opinioni. Anche qua, però, è possibile registrare che la proclamazione del diritto garantito dal primo emendamento talora rischia di rivestire una funzione puramente retorica. Il contributo di Elisabetta Grande – attraverso una intelligente lettura degli orientamenti giurisprudenziali condotta in parallelo con gli eventi della storia – ripercorre le grandi decisioni della Corte suprema degli Stati Uniti, prendendo in considerazione tanto le decisioni che hanno proclamato – e concretamente garantito – la pratica del dissenso, quanto le decisioni che, apparentemente fedeli al primo emendamento, ricorrendo a strumenti interpretativi talora raffinati (talora no), hanno compresso la formazione e l’espressione di opinioni minoritarie.
9. Ci è sembrato poi utile affrontare il tema dell’opinione minoritaria e del dissenso anche in relazione all’esercizio della funzione giurisdizionale.Il tema può essere declinato quantomeno sotto due profili: quello del pluralismo interpretativo e della possibilità di affermazione di diversi indirizzi giurisprudenziali; quello della pubblicità – o meno – della pluralità di opinioni all’interno di un collegio (vale a dire, il tema della dissenting opinion).
Quanto al primo tema, occorre prendere atto del fatto che, oggi, alla giurisdizione si chiede la capacità di «cogliere e prevedere le conseguenze delle proprie decisioni», e che essa «orienti sempre più le sue decisioni alla consapevolezza dell’incidenza sistemica della giurisprudenza», essendo necessario che «ciascuno dei poteri, quindi anche quello giudiziario, possa concorrere, con il necessario rigore costituzionale, alla ripresa del Paese»[3]. Autorevoli voci lamentano l’esistenza di «un processo giudiziario imprevedibile», che ostacola «la formazione di assetti economici stabili», proponendo ricette che, se non altro, hanno il pregio della schiettezza: «la storia che viviamo pone la compatibilità dei diritti individuali con le realtà economiche», (…) «cosicché il fisiologico disordine del potere diffuso diventa un problema di efficacia dell’azione di governo»[4]. E – si badi – simili richieste di consonanza della giurisdizione alle esigenze del sistema produttivo e simili richieste di adeguamento degli orientamenti giurisprudenziali a quelli maggioritari non provengono solo dalle istituzioni di Governo, ma da molte e autorevoli voci interne allo stesso sistema giudiziario. Le opinioni poco sopra riportate – provenienti dal Vice presidente in carica del Csm e da un presidente di sezione della Corte di cassazione (già membro del Csm e oggi nominato commissario alla Consob) – costituiscono una efficace dimostrazione della diffusione di tale esigenza di consonanza.
Sul punto, poche – forse banali – osservazioni. Indubbiamente l’uniformità della giurisprudenza e la prevedibiltà delle sue decisioni costituiscono un fattore di razionalità e anche una garanzia di uguale trattamento dei cittadini di fronte alla legge.
Provocatoriamente, però, si potrebbe porre una questione ai tanti teorici della “sapienza” del mercato e dell’equilibrio garantito – per chi vi crede – dalla “mano invisibile”, che, però, si lamentano della imprevedibilità degli esiti dei processi. Perché costoro – che hanno accettato per secoli il dogma per cui «moneta buona scaccia moneta cattiva» – non credono che «interpretazione buona, scacci interpretazione cattiva»? Certo, la vitalità derivante dal pluralismo interpretativo deve trovare un limite in rilevanti esigenze di prevedibilità e conoscibilità del diritto. Ma è bene ricordare che il pluralismo interpretativo assicura anche effetti positivi. Solo per fare un esempio remoto (e politicamente innocuo), in assenza di pluralismo interpretativo e di un (sano) conflitto giurisprudenziale, ancor oggi non sarebbe risarcito il danno biologico; è stato necessario che qualche piccolo giudice di primo grado – contro la giurisprudenza allora granitica della Cassazione – insistesse ostinatamente a riconoscere tale diritto per vederne infine affermata la tutela. Ove quel piccolo giudice si fosse adagiato sulla giurisprudenza della Cassazione, forse, saremmo ancora qua, in paziente attesa. E molti altri potrebbero essere gli esempi: negli anni settanta in materia di diritti sociali, oggi su temi economici, ma anche etici[5].
La funzione che la Costituzione assegna alla giurisdizione è anzitutto quella di garantire diritti, non – come auspicato da alcuni – «l’efficacia dell’azione di Governo». Quest’ultima è una responsabilità della politica – che deve dare le regole e fare le scelte – non della giurisdizione (che deve solo verificare – nella discrezionalità interpretativa oggi riconosciuta – il rispetto di quelle regole nel processo e la conformità di quelle scelte alla Costituzione). Altrimenti sì che, contrariamente agli auspici di molti, si avrebbe una giustizia politicizzata; per dirla con Bobbio, «dove tutti sono liberisti, si può anche dire che essere liberisti significa non fare politica; ma dove i liberisti si scontrano quotidianamente con i non liberisti, è perfettamente naturale dire che fanno politica tutti e due». E, allora, la pretesa di omogeneità e sintonia della giurisdizione con l’azione di Governo rischia di trascinare i giudici da una sola parte: quella della contingente maggioranza politica. Con un’ulteriore compressione del pluralismo istituzionale.
Un secondo intreccio tra tema dell’opinione minoritaria e esercizio dell’attività giurisdizionale è costituito dalla annosa questione della dissenting opinion. Si tratta di un istituto vitale e riconosciuto in molte giurisdizioni (si pensi alla Corte suprema degli Stati Uniti o alla Corte Edu), che, tuttavia, non si è sino ad ora affermato in Italia (esso trapela implicitamente solo allorquando si nota – nelle decisioni della Corte costituzionale o delle sentenze della giurisdizione ordinaria esercitata in forma collegiale – che l’estensore non coincide con il relatore). Il tema è di estremo rilievo. La dissenting opinion può rafforzare la trasparenza dell’istituzione giudiziaria (evitando i pietosi retroscena sulle maggioranze formatesi nelle Camere di consiglio che trapelano sui quotidiani) e costituire altresì un fattore di accrescimento della stessa legittimazione della sentenza (esplicandosi la autorevolezza di una decisione nel trasparente confronto di argomenti)[6]. Oppure – per converso – nell’affermazione della dissenting opinion si può intravedere un elemento di indebolimento dell’istituzione, delegittimazione interna della decisione stessa (trasportando ad una logica di “forza dei numeri” una questione di diritto, magari costituzionale)[7].
In questo obiettivo pubblichiamo il contributo di Silvia Niccolai che – prendendo come un dato di fatto la mancata affermazione della dissenting opinion nelle nostre istituzioni giudiziarie – ragiona sulle ragioni culturali profonde di tale ritrosia. Ripercorrendo vari filoni di pensiero (storico-comparatistico e costituzionalistico), Silvia Niccolai giunge ad ipotizzare che – dietro la scelta (o non scelta) di non introdurre nel nostro sistema la dissenting opinion – si celi una precisa visione dei rapporti tra legge e diritto (con il prevalere di una visione imperativistica e esclusivamente legalistica del diritto) e della stessa funzione del giudice (anche costituzionale): mero esecutore della legge o creatore (con il legislatore) del diritto.
10. Questo obiettivo si chiude con due contributi – quello di Giovanni Palombarini e Gianfranco Viglietta, da un lato, e quello di Daniela Piana e Leonardo Morlino, dall’altro – che, per certi versi, possono apparire eccentrici rispetto all’obiettivo. Ma eccentrici non sono, perché costringono ad interrogarsi sulle dinamiche che si vanno affermando nel corpo della magistratura e intorno ad esso.
Daniela Piana e Leonardo Morlino, dopo avere delineato sul piano teorico le (buone) ragioni del pluralismo istituzionale e quelle del pluralismo all’interno delle istituzioni giudiziarie, giungono a registrare un dato – il calo di fiducia nella magistratura – che, per certi versi, può essere messo in relazione – tra l’altro – con la conflittualità inter istituzionale e con lo spazio garantito al dissenso intra-istituzionale (inteso come pluralismo interno alla magistratura); dato che, certamente, suscita una qualche preoccupazione, posto che, quasi paradossalmente, il dissenso – pur prezioso fattore di autocorrezione e auto-mutamento all’interno del regime democratico – rischia di avere, su di esso, un impatto negativo e delegittimante. Una delle proposte di Piana e Morlino è che il dissenso – quale sia l’ambito in cui esso emerge – possa esplicare efficacemente la propria funzione positiva ove «le sue manifestazioni si mantengano entro limiti moderati», essendo necessario «fare uscire la magistratura da un “gioco istituzionale”, quello del conflitto, nel quale essa, avendo il ruolo di risolvere legittimamente i conflitti, mai si deve porre».
Diversa – diremmo: più militante – è la prospettiva che propongono Giovanni Palombarini e Gianfranco Viglietta nel rievocare l’esperienza di Magistratura democratica a fianco del dissenso. I due autori ripercorrono la storia degli esordi di Magistratura democratica, evidenziando come – tra i suoi elementi fondativi – vi sia stata la scelta di campo in favore di un garantismo di impronta liberaldemocratica e una caparbia attenzione alla tutela della manifestazione del pensiero; scelte di campo che imponevano di contrastare – dall’interno dell’istituzione giudiziaria – l’ideologia della neutralità. E fu un’azione di contrasto che implicò una forte esposizione degli aderenti a quel gruppo di magistrati associati, estremamente attivo nella critica dei provvedimenti giudiziari (basti pensare alla nota vicenda dell’ordine del giorno Tolin), ma anche all’impegno diretto di Magistratura democratica nella campagna referendaria per l’abrogazione dei reati di opinione. Impegno attivo che molti aderenti a Magistratura democratica pagarono con procedimenti penali (legati alla manifestazione di opinioni difficili in anni difficili) e a procedimenti disciplinari.
Un’azione dura, che, sicuramente, oggi sarebbe vissuta come delegittimante l’ordine giudiziario. Un’azione che, però, ha reso l’istituzione giudiziaria un luogo probabilmente più democratico.
È impossibile non rievocare sul punto Giuseppe Borrè: «una delle cose più importanti nella produzione culturale di Md una delle tracce più profonde che essa ha lasciato, (è) stata la demistificazione. La rottura di miti antichi, autorevoli, mai posti in dubbio. (…) Occorreva consumare uno scisma entro la cittadella della giurisdizione»[8].
11. Qualche nota conclusiva. Non si ignora che garantire ampio spazio all’espressione di opinioni minoritarie e all’esercizio del dissenso comporti dei costi sul piano istituzionale e sociale; né si intende negare la necessità di una sintesi tra due direttrici divergenti (tutela del dissenso e contendibilità delle istituzioni vs. principio di maggioranza ed efficacia dell'azione e di governo). Tale sintesi è indispensabile – ce lo ricorda l’art. 2 della Costituzione e il principio solidaristico – per costruire un tessuto sociale degno di tale nome, senza rassegnarsi a vivere non in una società, ma in un’accozzaglia di individui, ciascuno con la sua opinione.
Tuttavia, l’attuale tendenza a circoscrivere il perimetro dell’opinione minoritaria – sino a volerla rinchiudere in una folcloristica riserva indiana – è preoccupante e, in fondo, quasi paradossale. Proprio chi – oggi classe dirigente – si proclama liberal-democratico e professa la fuga dalle ideologie tenta di sottrarsi ad un confronto franco e aperto con chi dissente; ignorando – o volendo deliberatamente ignorare –che la democrazia si nutre di confronto continuo; che essa rifugge verità precostituite e verità di Stato. E che, in tale prospettiva, ampio spazio deve essere garantito al pluralismo.
Lo ha insegnato Popper: ogni verità –e, dunque, anche la verità storica, politica o economica – per potere essere affermata come tale (come verità) deve sottoporsi alla possibilità di falsificazione; e ciò implica la necessaria accettazione del confronto. Lo sostengono i padri della micro-economia: moneta buona scaccia moneta cattiva. Perché rifiutare l’idea che – dal confronto di idee – possa derivare che «idea buona scacci idea cattiva»?
È vero. Talora, il dissenso veicola pensieri inaccettabili. Ma – crediamo – che l’unica risposta possibile, in una democrazia matura, sia quella della battaglia e della sconfitta del pensiero “inaccettabile” sul piano dialettico. Per dirla con Bobbio, «può valere la pena di mettere a repentaglio la libertà, facendo beneficiare di essa anche il suo nemico, se l’unica possibile alternativa è di restringerla sino a rischiare di soffocarla o per lo meno di non permetterle di dare tutti i suoi frutti. Meglio una libertà sempre in pericolo ma espansiva che una libertà protetta ma incapace di rinnovarsi. Solo una libertà in pericolo è capace di rinnovarsi. Una libertà incapace di rinnovarsi si trasforma presto o tardi in una nuova schiavitù»[9].
[1] Tra i molti possibili riferimenti, cfr. C. Ponterio-R. Sanlorenzo, E lo chiamano lavoro, ed. Gruppo Abele, Torino, 2014, pp. 91 e ss.; in senso più ampio, sulle strategie complessive della Fiat, P. Griseri, La Fiat di Marchionne. Da Torino a Detroit, ed. Einaudi, Torino, 2012; per la vicenda referendaria, v. pp. 186 e ss.; si veda, per un punto di vista dichiaratamente laburista, anche G. Airaudo, La solitudine dei lavoratori, ed. Einaudi, Torino, 2012.
[2] Per un esempio, L. Pepino, Movimenti e repressione penale: il caso TAV, in Il Ponte, nn. 5-6 del 2015 (numero monografico, (a cura di)L. Pepino,Qualegiustizia), p. 127.
[3] Così G. Legnini, Giustizia e imprese. Le toghe valutino gli effetti delle scelte, Corriere della Sera, 5 luglio 2015, p. 25.
[4] Così G. M. Berruti, La riforma per superare una giustizia assente, Corriere della Sera, 6 agosto 2014, p. 33.
[5] Sempre attuali le riflessioni di G. Borrè – P. Martinelli – L. Rovelli, Unità e varietà nella giurisprudenza. A proposito della cd rotazione in Cassazione, in Foro Italiano, 1971, V, 45 e ora in L. Pepino (a cura di), L’eresia di magistratura democratica, Viaggio negli scritti di Giuseppe Borrè, Milano 2001, pag. 53: ««sino a che le posizioni “politiche” (cioè le diverse opinioni sui problemi che le scelte di indirizzo politico sono chiamate a risolvere) dei magistrati non esorbitano dall’indirizzo costituzionale (potremmo dire: sino a che, per es., i magistrati non pretendono di sottrarsi alla soggezione alla legge, reclamando un potere autonomo che il sistema di reclutamento non legittima) la varietà di posizioni rispetto all’indirizzo politico di maggioranza (e potremmo dire: rispetto ai problemi posti dall’interpretazione di leggi nate dalla dialettica parlamentare e specialmente dal concorso tra disegno di maggioranza e emendamenti delle opposizioni) appare non solo legittima, ma persino necessaria e postulata dalla Carta costituzionale per risolvere i problemi interpretativi in una sede fornita di una certa rappresentatività che ne legittima l’intervento ma non fornita di una autonomia politica vera e propria, che potrebbe provocarne la sovrapposizione rispetto alle sedi proprie del dibattito politico»
[6] Cfr., per esempio, S. Cassese, Una lezione sulla cosiddetta opinione dissenziente, in Quaderni costituzionali, 2009, p. 973 ss. Ora Id, Dentro la Corte, Il Mulino, Bologna, 2015 (a favore dell’introduzione dell’opinione dissenziente in nome della trasparenza).
[7] Si veda, per esempio, G. Zagrebelsky, Principi e voti. La Corte costituzionale e la politica, ed. Einaudi, Torino, 2005, p. 67 e ss.; si legge a pp. 75 e s.: «la logica che muove la Corte non è escludente (…). Non si tratta mai di assolutizzare un principio, con esclusione di tutti gli altri. Un simile modo di ragionare dividerebbe ed esigerebbe la conta tra i giudici, cioè il voto decidente. E, cosa assai più grave, dividerebbe la Costituzione (…). La logica che muove le decisioni della Corte, invece, è quella orizzontale, compositiva e includente ogni possibile ragione costituzionale: una logica che, alla fine, per lo più unisce, senza bisogno di contarsi, senza resa dei conti (…). Quanto ciò si opponga alla politicizzazione (…) della Corte costituzionale, è chiaro e risulta ancor più evidente considerando che le opinioni individuali potrebbero “liberare” eventuali posizioni politiche dei singoli giudici, dando loro una consistenza che, invece, nell’operare dello spirito collegiale e nell’amalgama che ne deriva, è destinata a stemperarsi». Il tema è trattato – sempre in modo problematico – anche da G. Zagrebelsky-V. Marcenò, Giustizia costituzionale, ed. Il Mulino, Bologna, 2012, pp. 152-156 (e ivi riferimenti bibliografici).
[8] G. Borrè, Le scelte di Magistratura democratica, in N. Rossi (a cura di), Giudici e democrazia. La magistratura progressista nel mutamento istituzionale, ed. Franco Angeli, 1994, p. 41
[9] N. Bobbio, Le ragioni della tolleranza, in L’età dei diritti, ed. Einaudi, Torino, 1990, pp. 249 e ss.