Un sogno proibito, ma legittimo
Gli interessi del datore di lavoro e quelli del lavoratore non sempre coincidono e – nel rapporto di lavoro – esiste una parte forte e una categoria sottoprotetta. In questo contributo, l’Autore segue la traiettoria del diritto del lavoro, dalla legislazione corporativa alle speranze indotte dalla Carta costituzionale, sino alla constatazione del fatto che, oggi, tornano a prevalere le logiche economiche. E qui si innesta una riflessione sul senso profondo di una disciplina – quella del diritto del lavoro – che sempre più sembra faticare a trovare una propria missione. Per adempiere alla sua funzione di garanzia, il diritto del lavoro deve godere di consenso nella società, nelle istituzioni e nell’accademia. Ma una società sempre più stretta dalla crisi, un’accademia sempre meno incline a riconoscere la speciale autonomia del diritto del lavoro non sembrano in grado di garantire questa base di consenso. Per dirla con l’Autore, sembra che «il lavoro abbia potuto rompere un millenario silenzio a condizione di metabolizzare il divieto di non alzare troppo la voce».
1. Riempiva di sé il mondo reale; ma, per millenni, la sua insignificanza culturale si sommava all’ininfluenza politica. Per questo, dal punto di vista giuridico, il lavoro non poteva che essere irrilevante. Diversamente, non si spiegherebbe perché la tradizione giuridica del lavoro impallidisca al confronto con quella della proprietà il cui antichissimo diritto ha costituito la spina dorsale delle grandi codificazioni dell’età moderna.
In effetti, la prima differisce dalla seconda per durata, ampiezza e profilo. Nella forma più familiare ai contemporanei, il lavoro dipendente incontra il diritto soltanto in seguito all’avvento dell’industrializzazione e il “suo” diritto, destinato a restare il più eurocentrico dei diritti nazionali, è venuto al mondo con la sola pretesa di aggiustarlo un po’. Niente di più, perché è un diritto a misura d’uomo. Ma questo è un minimalismo che, sonora come una frustata, la sua denominazione accademica dissimula. Facendo cadere l’accento su un vincolo di appartenenza indimostrato e indimostrabile, tende all’iperbole. Infatti, quello del lavoro è un diritto che dal lavoro ha preso convenzionalmente il nome, ma soltanto in parte anche le ragioni. Pertanto, si può seguitare a parlare di diritto del lavoro purché si sappia, e non si perda mai di vista, che bisognerebbe accompagnare la locuzione con un ammiccamento (il corsivo o le virgolette, se usata per iscritto o un colpetto di tosse o di gomito, se pronunciata) suscettibile di evocare una prospettiva di senso meno mistificante di quella che traspare. La verità è che questo diritto è del lavoro non più di quanto sia contemporaneamente del capitale. Però, poiché la bipolarità (o, se si preferisce, l’ambivalenza od anche l’ambiguità) è l’insopprimibile caratteristica strutturale del diritto del lavoro nella misura in cui ne fa uno strumento di emancipazione ed insieme di repressione, non possono non considerarsi modificabili i compromessi via via raggiunti. La contesa rimane costantemente aperta, probabilmente non si esaurirà mai e l’ultimo compromesso sarà rinegoziato. Ecco il punto-chiave: la reversibilità delle soluzioni adottate. Gérard Lyon-Caen diceva che il diritto del lavoro «c’est Pénélope devenue juriste». Per quanto impietosa, la rappresentazione è condivisibile, perché è la storia a dirci che il lavoro ha potuto rompere un millenario silenzio a condizione di metabolizzare il divieto di non alzare troppo la voce.
Il divieto ha lo scopo di proteggere l’aspettativa del datore di lavoro di poter contare su una manodopera non solo docile e ubbidiente, ma anche pronta a identificare il proprio interesse in quello dell’impresa.
È senz’altro vero che è un’aspettativa di derivazione proprietaria e dunque rispecchia l’etica degli affari delle origini. Malgrado il suo primitivismo, però, a nessuno verrebbe in mente di considerarla un inelegante anacronismo solamente perché si è smesso di chiamare “padrone” il soggetto che ne è titolare. Per certo, essa non ha perduto la centralità che una compatta elaborazione giurisprudenziale di lungo periodo le ha assegnato nell’impianto del diritto del lavoro. È noto infatti che la giurisprudenza corporativa diede il meglio di sé fertilizzando il terreno, arato peraltro dalla giurisprudenza probivirale, nel quale affondano le proprie radici alcuni concetti-base ad elevato rendimento emotivo dei quali si sarebbe appropriato il codice civile del ’42: il lavoratore ha l’obbligo di collaborare con l’imprenditore, di non tradirne la fiducia e di essergli fedele. Nondimeno, l’aspettativa tutelata dal corrispondente nucleo normativo non solo non si è affievolita; casomai, si è acuminata.
Pochi anni fa, l’ha manifestata senza falsi pudori l’amministratore delegato di una multinazionale in una lettera indirizzata agli occupati negli stabilimenti italiani. Nell’informarli che, a causa della spietatezza della concorrenza internazionale, il loro datore di lavoro è in guerra col resto del mondo, li esortava a considerarsi nel medesimo stato d’eccezione dei soldati in trincea e li avvertiva che, proprio per questo, non avrebbe potuto tollerarne atteggiamenti critici né a fortiori atti di indisciplina. D’altra parte, è un sintomo del medesimo clima la pervasiva ossessività con cui la più recente contrattazione collettiva ha reinventatola parola “esigibilità”, senza che né gli agenti contrattuali né i commentatori abbiano finora saputo chiarire con precisione cosa sia esigibile e nei confronti di chi. D’acchito, però, si direbbe che ha per oggetto la governance del dopo-contratto per renderla più arcigna – a cominciare dal controllo della conflittualità sindacale – e retro-agisce sui lavoratori più nella loro qualità di debitori di una prestazione contrattuale che in quella di titolari di diritti – la giustiziabilità dei quali, peraltro,è compromessa da un legislatore insofferente nei confronti del potere giurisdizionale.
Accertato che l’aspettativa comune alla generalità degli imprenditori è senza tempo, sarebbe una deplorevole reticenza limitarsi ad osservare che è figlia di un sogno proibito nell’accezione praticata nel linguaggio corrente. In effetti, non si è in presenza dell’innocuo prodotto di una fantasia desiderante od anche farneticante. Tutt’al contrario, il sogno ha trovato un principio di materializzazione nel diritto vigente in epoca fascista sotto l’egida della Carta del lavoro pubblicata nel 1927 sulla Gazzetta Ufficiale, alla quale i giuristi di regime assegnavano il rango di una super-legge. È l’epoca nella quale, in cambio dell’inderogabilità se non in melius degli standard protettivi fissati da leggi e contratti collettivi provvisti di efficacia erga omnes, il legislatore garantiva l’insindacabilità del potere aziendale, anzitutto concedendo la licenza di licenziare.
Naturalmente, sarebbe altrettanto deplorevole tacere che nel 1945 spuntò l’alba che, come poetizza una canzone di successo, a molti sembrò capace di portarselo via con sé, il sogno.
Tuttavia, adesso che – con buona pace della Carta di Nizza e persino delle dichiarazioni dei diritti universali dell’uomo – la legislazione degli Stati membri dell’UE ha ri-mercificato il lavoro e ripristinato il potere di comando unilaterale in azienda sia facilitando i licenziamenti sia emarginando la tutela giudiziaria dei diritti, il sogno proibito se ne è giovato in termini di legittimità giuridica e, stavolta, senza che venissero contestualmente ingessati i sindacati e senza criminalizzare lo sciopero, bensì in un contesto rispettoso delle forme democratiche. Ciò non toglie che la gestione politica della crisi economica esplosa nella seconda metà della prima decade del terzo millennio l’ha trasformata in un episodio della lotta di classe che vede chi sta in alto dirigerla verso chi sta in basso:per ora vittoriosamente – perché gli argini di contenimento, eretti in passato dalla socialdemocrazia, sono crollati e gli spiriti animaleschi del capitalismo hanno straripato.
Come dire che, essendo facilmente documentabile che, non appena la situazione lo permetta, il legislatore è lesto a tradurre in modelli vincolanti di comportamento l’ideal-tipo del lavoratore dipendente, il sogno non è illegittimo, per proibito che possa essere.
2. Per questo, in occasione di un recente incontro con amici laboralistas latino-americani, mi è venuto spontaneo raccontare che, le ultime volte che mi ero recato nei loro Paesi, l’avere in tasca il biglietto del volo di ritorno non mi procurava più la sensazione di possedere una specie di garanzia che sarei tornato nell’angolo di mondo chiamato Europa, dove il diritto del lavoro è un elemento costitutivo dei sistemi giuridici ed è possibile continuare a credere nell’intangibilità dei valori propri cui si richiama la concezione del diritto del lavoro che ho insegnato per cinquant’anni ai miei studenti. Esattamente questo, invece, provavo e pensavo la prima volta che andai in America Latina, sul finire degli anni ’80. Non che fosse errata la persuasione di avere viaggiato più attraverso il tempo che nello spazio. Sbagliavo però a ritenere di avere compiuto un balzo all’indietro di svariati decenni. Il fatto è che un ingiustificato senso di superiorità al limite della supponenza mi impediva di capire di essere sbarcato nel futuro prossimo della stessa Europa. Oggi, devo non solo riconoscere che era un errore; devo altresì dichiarare di esserne stato prigioniero più a lungo del lecito. Infatti, nella relazione d’apertura della journée d’étude à la memoire de Gérard Lyon-Caen organizzata dall’associazione dei giuristi del lavoro francesi – eravamo nel maggio del 2005 – non mi trattenni dall’osservare come l’economia che, quasi pentendosi di aver provocato la nascita del diritto del lavoro, pretendeva di assumerne il pieno controllo dava «l’impressione di dover superare le medesime difficoltà di chi pretendesse di rimettere il dentifricio dentro il tubetto».Viceversa, già allora ciò che stava cambiando era l’idea di diritto del lavoro, proprio nei suoi territori d’elezione. Difatti, l’idea che ha finito per prevalere non è distante da quella che non è mai uscita dall’esperienza latino-americana e che m’illudevo non sarebbe mai entrata nell’esperienza europea, pur sapendo che nemmeno qui era stata cancellata, ma sopravviveva sottotraccia, nelle profondità di un ordinamento giuridico del lavoro mai completamente de-fascistizzato. Comunque, è innegabile che già allora lo stesso lavoro aveva perduto la cifra identitaria e l’unità spazio-temporale che aveva in precedenza: da maiuscolo e tendenzialmente omogeneo, come era stato, stava diventando sempre più minuscolo ed eterogeneo. Insomma, stava cambiando lo statuto epistemologico di un’intera disciplina giuridica e quindi nemmeno il suo futuro non avrebbe più potuto essere quello d’una volta.
3. Ormai, è un luogo comune che, dopo aver suscitato le più grandi speranze, il diritto del lavoro del ‘900 le ha soddisfatte solo parzialmente. Tuttavia, pur essendo turbati dalla rottura del suo paradigma, abbiamo l’obbligo (morale prima ancora che professionale) di elaborarne uno nuovo, recuperando ritardi e accantonando nostalgie.
Sono due i modi di comportarsi dinanzi allo sgretolarsi di granitiche certezze. Si può piangerci sopra; ma così si rimane fermi al punto in cui ci si trova. Oppure, si coglie il significato nascosto della parola che si usa di frequente per descrivere l’amarezza del momento. La parola è “disincanto”. Essa non esprime soltanto delusione. Nel dire che l’incanto non c’è più, al tempo stesso suggerisce che l’incanto, chissà, può tornare. Per questo, secondo Claudio Magris,designa «una forma agguerrita della speranza». Agguerrita, ma non necessariamente misericordiosa.
Per realizzarla, nel nostro caso, potremmo essere obbligati a rimettere in discussione, accanto alla funzione del diritto del lavoro, il ruolo del giurista che, stufo di montare la guardia ad un diritto che sta sparendo, sia intenzionato a rompere l’isolamento da autoreferenzialità nel quale è caduto. In proposito, però, è bene premettere che ciò non lo autorizza a mettersi a correre a perdifiato dietro ai fatti. Se lo facesse, assomiglierebbe al “pattinatore principiante” di Kafka «che, oltretutto, si esercita dove è proibito» o, peggio ancora, al personaggio di un celebre film di Quentin Tarantino che ai compari si presenta così: «sono il signor Wolf e risolvo problemi». In effetti, occorre un’inaudita arroganza per fingere di non sapere che i fatti da inseguire sono gli stessi che sono oggetto di una vergognosa manipolazione. Della quale, a tacer d’altro, costituisce un esemplare prodotto la furoreggiante teorizzazione di una ostilità (presuntivamente) genetica del diritto del lavoro nei confronti del diritto al lavoro enunciato dalla Costituzione. Ma è una sciocchezza. Non inferiore a quella che commetterebbe un maniaco della rottamazione che proponesse l’abolizione del semaforo perché gli incidenti stradali non calano quanto sarebbe auspicabile. Infatti, come l’abolizione dell’ordinario strumento regolativo del traffico aumenta la pericolosità del medesimo, così la demolizione del diritto del lavoro non fa diminuire la disoccupazione: piuttosto, aumenta la de-regolazione del poco lavoro che c’è.
Come dire che ripensare il diritto del lavoro è un atto dovuto, ma non equivale a considerare fatale l’adesione al pensiero dominante.
Tuttavia, il dissenso è un’erba che stenta a crescere in terreni inariditi da logiche emergenziali nemiche della democrazia. Ed è in questi paraggi che s’incontrano le maggiori difficoltà. In primo luogo, la difficoltà di raggiungere affidabili certezze in ordine alla sussistenza, ed all’ampiezza, di una effettiva condivisione dell’idea di diritto del lavoro trasmessa dalla legislazione vigente. Dopotutto, poco meno della metà degli elettori in quanto cittadini non va a votare; molto di più della metà dei cittadini in quanto lavoratori non può o non sa farsi ascoltare dai soggetti della contrattazione collettiva; moltitudini di giovani e di irregolari dell’economia sommersa non hanno mai potuto stabilire contatti con la legislazione che tutela le condizioni di lavoro. Nemmeno il monitoraggio delle manifestazioni del dissenso provenienti dagli strati della popolazione più direttamente colpiti dal peggioramento degli standard protettivi può fornire solidi elementi di giudizio. Infatti, la scarsità di mobilitazioni collettive non costituisce di per sé un indizio univoco: anziché accettazione convinta dell’esistente, può significare apatia, sfiducia, rassegnazione, conformismo, paura. Soprattutto, paura. Quella che si genera e si diffonde allorché si è esposti al ricatto occupazionale e anche un lavoro scandalosamente de-valorizzato sul piano del trattamento economico-normativo è preferibile allo scandalo del non-lavoro.
Stando così le cose, l’interrogativo più inquietante consiste nel sapere se tutto ciò (ed altro ancora, perché la lista delle disgrazie è lunga) abbia potuto succedere nell’ultimo quarto di secolo al di fuori di un macro-processo di mutazione antropologico-culturale.
Per scomodo che possa apparire, bisogna porselo, perché – come pensava anche Gino Giugni – «il diritto del lavoro evolve più attraverso giudizi che mediante leggi». Come dire che, in nessuna delle sue molte stagioni e in nessun Paese, il diritto del lavoro vivente ha potuto fare a meno di una base di consenso: non è per caso che si situa in cima alla speciale classifica dei diritti d’ispirazione nazional-popolare.
4. Immancabilmente e dappertutto, infatti, è determinante la pressione esercitata – sia sul legislatore che sugli addetti all’applicazione della normativa – dall’abito mentale non solo della gente che, avendone la possibilità, ha la volontà di scendere sulla strada e gremire le piazze, ma anche e soprattutto di maggioranze silenziose abituate a comprare le opinioni come il latte in base ad un elementare principio di buon senso: può darsi che l’alimento non sia genuino, ma costa meno acquistarlo dal lattaio che tenere una mucca nel giardino.
Indipendentemente dall’idioma che parlano, gli esperti della materia possono infatti testimoniare che l’evoluzione delle regole del lavoro è sostenuta solo in parte dalla creatività legislativa e, se fossero in vena di raccontare senza infingimenti il mestiere che fanno, potrebbero tranquillamente ammettere che nessuno di loro crede nella possibilità di trasferire dal piano mistico-religioso a quello giuridico la leggenda creazionista ed è disposto a giurare che «come un dio creò l’universo, così il legislatore crea il diritto», quello del lavoro incluso. Perciò, anche il cambiamento degli scenari del diritto del lavoro nel secolo in cui siamo appena entrati è realistico farlo dipendere soprattutto dal molecolare e ininterrotto lavorio di un’infinità di persuasori più o meno occulti che, quando non sono assistiti dalla buona fede, all’hegeliana “fatica del concetto” preferiscono il piacere di mistificarlo. Alludo, come si può agevolmente intuire, ai centri più rinomati dell’autoregolazione sociale che, in materia di lavoro, è da sempre la fonte di produzione normativa più funzionante, segnatamente nel nostro Paese; alle autorità pubbliche cui spetta istituzionalmente il compito di garantire la corretta applicazione delle regole del lavoro – a cominciare dai giudici; all’industria dell’informazione – a cominciare dalla TV, che sforna programmi a misura dello spettatore-medio che gli autori dei palinsesti suppongono in possesso di un’età mentale da adolescente; all’industria dello spettacolo – a cominciare da quello cinematografico, dove un maestro come Ken Loach non ha numerosi allievi; ai responsabili della formazione scolastica, non solo universitaria – tra i quali, come è ovvio, primeggiano i professionisti dell’interpretazione giuridica, i cui discorsi possiedono una valenza prescrittiva malgrado l’intonazione apparentemente descrittiva.
Non ho certo l’intenzione di sopravvalutare il ruolo del ceto professionale indicato da ultimo. Tuttavia, in questa sede non posso non soffermarmi su di esso; e non solo perché questa è la sede adatta, ma anche perché so di cosa sto parlando.
Le ricerche storico-giuridiche che svolgo da una vita mi hanno consentito di scoprire perché l’esperienza giuridica reca raramente la traccia del prodursi, con l’immediatezza del caffè liofilizzato, di rotture epocali concentrate in un solo evento, come l’entrata in vigore di una Costituzione che polemizza apertamente col passato. Infatti, l’evoluzione del diritto vivente è saldamente presidiato da una cabina di regia affollata da interpreti che in altra occasione ho chiamato “tessitori”. Li ho chiamati così perché sono inclini a riannodare piuttosto che a tagliare i fili del discorso giuridico; il che ha finito per alimentare una vera e propria vocazione di ceto la cui condivisione – nonostante i gap generazionali e i differenti contesti di appartenenza – induce gli operatori giuridici ad azionare la spola in modo che il loro avvicendarsi al telaio non provochi brusche lacerazioni nella trama dell’ordito. Infatti, non è sufficiente affermare che il lavoro, una volta issato nelle zone alpine della carta costituzionale come è successo da noi in forma particolarmente intensa, ha visto il suo diritto diventare maggiorenne. Resta il fatto che gli è stata negatala chance di dimostrare cosa poteva dare da grande perché, subito dopo aver raggiunto l’età adulta, è stato scaraventato in una durissima fase recessiva. Come dire che, sebbene la nostra Costituzione abbia segnato più marcatamente di altre un nuovo inizio del diritto del lavoro, è un errore enfatizzare l’evento. La verità è che il nuovo inizio ha avuto una fine precoce. Infatti, il diritto del lavoro non ha cessato di soggiornare in territori assiduamente frequentati dalla mono-cultura della giusprivatistica, secondo la quale il lavoro avrebbe bussato alla porta della storia giuridica per farsi avvolgere nel cellophane delle categorie tecnico-concettuali del diritto dei contratti tra privati.
5. Per questo, i giuristi – mica tanti, peraltro – che nel dopoguerra si aspettavano un diritto del lavoro al passo con la Costituzione, e alla sua altezza, l’hanno condannato a consegnarsi alla storia come un diritto con un grande futuro alle spalle, pur essendo certi del contrario. Questa è una contraddizione di fondo ed è su di essa che bisogna interrogarsi per spiegare come mai seguitassero ad attribuirgli la dirompente potenzialità che non possedeva né poteva possedere in ragione della sua matrice compromissoria – oltretutto in una situazione di persistente (tranne brevi tratti) squilibrio dei rapporti di forza.
La contraddizione era dovuta ad una imperfezione ottica generata dalla loro formazione culturale e anzi dalla loro stessa biografia. Era infatti una specie di strabismo che li portava a guardare altrove, e pensare ad altro,soprattutto quando parlavano di diritto del lavoro. Come dire:l’oggetto stesso dei loro discorsi li incentivava a valorizzarne la connessione con l’azione, che essi giudicavano benefica, dei suoi artefici e garanti e – per effetto di un transfert, non solo né sempre subliminale – attribuivano al diritto del lavoro la valenza di segno positivo che, invece, a loro avviso era l’attributo dell’azione dei partiti di massa della sinistra e dei sindacati i quali, assicurando al lavoro la rappresentanza a struttura binaria idonea a metterlo nella condizione di competere col capitale, avevano sponsorizzato e avviato alla maturità il “suo” diritto. Un diritto la cui prossimità con l’ambiente esterno, nell’impossibilità di esercitare un’actio finium regundorum in grado di tracciare netti confini, se non sospinge l’interprete alla militanza, certamente gli impedisce di occultare la sua collocazione politica, sia essa di sinistra o di destra. Così, non è un dettaglio che a Gino Giugni, il quale diceva spesso di sé: «non saprò mai se sono un giurista prestato alla politica o un politico prestato al diritto», nel 2000 io abbia dedicato uno scritto col titolo Elogio del compagno professore. Né è secondario che, nel tentativo (peraltro, riuscitissimo) di tracciare l’orizzonte di senso di un’intera esperienza esistenziale, un intellettuale dell’area giuridica come Luigi Mariucci abbia rilasciato alla sua rivista una confessione d’inusuale franchezza: «per me, il diritto del lavoro ha costituito un succedaneo della mia inclinazione alla politica», anche se «ha funzionato come può funzionare il metadone per un tossico-dipendente».
Adesso, ad ogni modo, la sinistra politica ha fatto la fine del giovane arruolato allo scoppio della guerra, spedito al fronte e mai tornato a casa: c’è chi dice che sia morto e c’è chi dice che sia caduto ostaggio del nemico, ma è diffusa anche l’opinione che abbia disertato. Mentre dalla residua rappresentanza sociale giunge – non solo per limiti propri, ma (come in Italia) anche a causa della sua interna rissosità – un confuso vociare intraducibile in un’idea capace di illuminare il cammino della transizione che stanno compiendo il lavoro e il suo diritto.
6. Ecco, esposte in rapida sintesi, le ragioni che vietano di stupirsi se, nel mutato contesto politico-sindacale e culturale, anche nel mondo del lavoro il dissenso è non solo minoritario – come, del resto,tendenzialmente è sempre stato – ma anche balbettante.