Magistratura democratica

Vietato dissentire: alle radici della rappresentanza politica

di Massimo Villone

In questo contributo, l’Autore ragiona sulle recenti trasformazioni della vita parlamentare e di quella all’interno dei partiti; l’Autore rileva dunque – da una pluralità di elementi – che, anche nelle istituzioni rappresentative, abitate da parlamentari eletti senza vincolo di mandato, sempre più si tende a tacitare chi non aderisce “perfettamente” alla linea dettata dalle leadership parlamentari o di partito o chi – dai banchi dell’opposizione (o da quelli di una maggioranza “critica”) tenta di emendare disegni di riforma proposti dal Governo. E così il dissenso spesso viene soffocato con la sostituzione di membri di una commissione parlamentare, proliferare di questioni di fiducia (poste anche su temi che riguardano “le regole del gioco”), proposizione di maxi-emendamenti (sino al caso del «maxi-canguro») che hanno l’effetto di far decadere tutti gli altri (tra i quali, spesso, quelli “scomodi”).

1. Sulle riforme il Governo ha sempre ragione

Nel linguaggio comune, il dissenso indica la posizione individuale o collettiva che si pone in contrasto o comunque si allontana da una posizione prevalente. In sé considerato, può mostrarsi come esercizio di una libertà di espressione e di manifestazione del pensiero. Ma nel contesto della politica e delle istituzioni assume la ben diversa funzione di elemento del decision making process.

Un tempo, verso il dissenso sarebbe stata cercata la mediazione e la sintesi politica. Da ultimo, invece, il dissenso si stronca, sia nel rapporto tra le forze politiche, sia all’interno di quelle forze. Si tenta di contenerne o impedirne la manifestazione e gli effetti. Ciò è accaduto in particolare per le riforme messe in campo nella XVII legislatura, in corso.

Ciò anzitutto accade per avere posto le riforme come elemento del programma di Governo, e dunque espressione di scelte di indirizzo politico di maggioranza. Tale premessa ha inevitabilmente un effetto divisivo, che definisce il campo di chi beneficia dalla riforma, e chi invece ne riceve un danno. Diviene allora difficile o impossibile il conseguimento del più ampio consenso tra forze politiche diverse e inevitabilmente in competizione. E segue all’inserimento del progetto nel contesto nel rapporto maggioranza-opposizione anche l’affermazione cogente dei principi della disciplina di gruppo.

Il progetto riformatore come elemento di un indirizzo politico di Governo toglie le riforme dal campo della piena sovranità parlamentare, dove l’antica prassi invece le collocava. Nel 1993 il presidente del Consiglio Ciampi nel discorso programmatico[1] impegnò il Governo nell’attuazione della volontà popolare espressa nel referendum del 18 aprile di quell’anno. Ma l’iniziativa dei disegni di legge che si tradussero poi nelle leggi 276 e 277 del 1993 (Mattarellum) rimase parlamentare. Invece nel 1999 il Governo, con la firma del presidente D’Alema e del ministro Amato, presentò l’AC 5830, recante «Ordinamento federale della Repubblica» che divenne poi il nuovo Titolo V della parte II della Costituzione. La motivazione allora addotta per l’abbandono dell’antica prassi fu che si riprendeva la proposta approvata dalla Commissione Bicamerale per le riforme, e poi sepolta dal cambio di strategia di Berlusconi[2]. In ogni caso, che fosse una riforma esclusivamente di maggioranza, approvata con il contrasto frontale dell’opposizione, è dimostrato dal fatto che in seconda deliberazione con la maggioranza assoluta a 312 i voti favorevoli furono solo 316[3]. Analogamente, nel 2003 fu presentato dal Governo l’AS 2644, recante una vasta modifica della Parte II della Costituzione[4]. Il disegno di legge giunse alla definitiva approvazione in un contrasto frontale tra maggioranza e opposizioni e con ripetute minacce di crisi di Governo da parte della Lega nel caso di fallimento.

Nella XVII legislatura il Governo Letta esplicitamente ha legato la propria permanenza in carica alle riforme[5]. Ha preso l’iniziativa con un disegno di legge costituzionale volto a disegnare un procedimento speciale di revisione[6], che si è intrecciato con un percorso parallelo di elaborazione da parte di “saggi”, prima ad opera del presidente della Repubblica[7], e poi da parte dello stesso Governo[8]. Lo scopo di tali iniziative era quello di vestire di un’apparente neutralità il tema delle riforme, in qualche modo rendendo al governo più agevole avanzare una propria proposta e orientare su questa i successivi lavori parlamentari. Ma questo non poteva togliere la riforma ad iniziativa dell’esecutivo dall’orbita dell’indirizzo politico di governo. E nemmeno rilevava a tal fine che il governo Letta potesse considerarsi un esecutivo tecnico o del Presidente, poiché anche un siffatto governo è politicamente responsabile, e lo è certo per la presentazione di una proposta riformatrice.

Con il governo Renzi l’iniziativa dell’esecutivo sulle riforme istituzionali è stata ribadita[9], insieme al legame con la permanenza in carica. Il contenuto delle riforme è stato stabilito in un accordo (il cd patto del Nazareno) introdotto nel dibattito sulla legge elettorale già in corso alla Camera attraverso un testo unificato presentato il 21 gennaio 2014 dal relatore on. Sisto[10].E l’8 aprile 2014 è stato presentato in Senato il ddl di riforma della parte II della Costituzione, a firma del presidente Renzi e del ministro Boschi[11]. Il patto si è dissolto con l’elezione di Mattarella alla carica di Presidente della Repubblica, per la querelle sul punto che il patto stesso comprendesse o meno per il Quirinale una scelta diversa. Ma intanto il percorso delle riforme era avviato.

In un contesto di frammentazione e di contrasto frontale sono cruciali la coesione della maggioranza e la disciplina di gruppo, insieme agli strumenti regolamentari che possono essere utilizzati per mantenere nelle mani del Governo e della maggioranza il controllo dei tempi e dell’agenda parlamentare. Risultato che si può alla fine ottenere solo reprimendo il dissenso interno alle forze politiche, e limitando il dibattito in Commissione e Aula. Dunque, anche comprimendo il libero esercizio delle proprie funzioni da parte del parlamentare, e l’effettiva capacità di rappresentare la Nazione senza vincolo di mandato, come l’art. 67 della Costituzione prescrive. Ne vediamo alcuni casi emblematici.

2. Chiudere il microfono ai dissenzienti: la sostituzione forzosa di componenti nelle commissioni

Nel maggio 2014 è in discussione presso la Commissione affari costituzionali del Senato l’AS 1429, di riforma della Parte II della Costituzione. Il ddl riflette l’orientamento per un Senato non eletto direttamente. Almeno tre senatori della maggioranza – Chiti (PD), Mauro (PI) e Mineo (PD) - sono contrari alla proposta, e mancando il loro voto si potrebbe arrivare in Aula con modifiche sostanziali e sgradite al Governo. Un segnale viene il 6 maggio 2014, con l’adozione come testo base in Commissione affari costituzionali della proposta governativa di Senato non elettivo, insieme all’approvazione di un odg Calderoli di segno esattamente opposto[12]. I gruppi di maggioranza procedono allora d’autorità alla sostituzione di Mauro e Mineo[13].

Analoga vicenda si svolge qualche tempo dopo alla Camera per la legge elettorale. Il 20 aprile 2015 l’Ufficio di presidenza del gruppo parlamentare PD decide la sostituzione nella Commissione affari costituzionali della camera di ben dieci componenti, tutti appartenenti alla minoranza del partito, per il dissenso manifestato sulla proposta in discussione. La sostituzione vuole – secondo l’indicazione del Governo – evitare che la Commissione modifichi il testo uscito dal Senato. La sostituzione vale per la sola proposta di legge elettorale, e non è stata né richiesta né consentita dagli interessati, che anzi la rifiutano. Dunque, una rimozione forzosa mirata a determinare l’esito dell’esame in Commissione[14].

La prassi in entrambe le Camere conosce la sostituzione temporanea di componenti nelle Commissioni per una o più sedute[15], ad esempio quando il tema in discussione richieda una competenza specialistica che altro parlamentare possiede. Ma si tratta ovviamente di sostituzioni concordate, e la rimozione forzosa è altra cosa. Al tempo stesso, la Costituzione stabilisce che le Commissioni siano composte in modo da riflettere il rapporto tra i gruppi parlamentari. Da ciò si evince che ciascun gruppo ha il diritto di vedere espresse nelle Commissioni posizioni coerenti con quelle assunte dal gruppo stesso sulle materie in discussione. Ed è su questa premessa che i regolamenti parlamentari assegnano ai gruppi il potere di indicare per ciascun proprio componente la Commissione di appartenenza[16].

Ma la domanda è: una volta che la scelta sia stata fatta, si può – attraverso una nuova designazione – rimuovere temporaneamente o definitivamente il parlamentare dall’incarico prima assegnato? In altre parole, la sostituzione può considerarsi un ordinario e fisiologico nuovo esercizio del potere di designazione spettante al gruppo? O comunque esercizio di un potere di rimozione necessariamente complementare al potere di designazione?

La risposta è negativa, per molteplici ragioni. Un primo ordine di argomentazioni è fondato sull’art. 67 della Costituzione, norma cui la regola parlamentare deve comunque prestare osservanza.

Non è infatti dubbio che il divieto di mandato imperativo comporti per l’eletto la libertà di determinarsi nei comportamenti, nelle opinioni e nei voti. Né e dubbio che tale libertà sia data all’eletto anche all’interno dell’ordinamento parlamentare. Per questo la disciplina di gruppo pone problemi spesso delicati e complessi. È ben vero che un gruppo deve poter tutelare la propria composizione, compattezza e capacità di formulare e attuare un indirizzo. Sarebbe sin troppo facile in caso contrario a una quinta colonna operare dall’interno recando grave danno all’immagine e alla capacità di azione politica. Ma la disciplina di gruppo di certo incontra dei limiti. Ad esempio, non sembra dubbio debba comunque arrestarsi di fronte al caso di coscienza. Nozione, questa, da intendersi in senso lato, come estensibile a questioni di particolarissimo rilievo come certo sono quelle che in vario modo toccano la natura stessa dell’istituzione di cui si fa parte.

Gli stessi regolamenti interni dei gruppi danno rilievo al pluralismo interno e al dissenso[17]. La rimozione forzosa di parlamentari dissenzienti non trova solidi fondamenti. Emerge un conflitto tra la tutela accordata sia alla libertà del singolo parlamentare, sia all’identità politica del gruppo di appartenenza. Se la composizione in sede politica fallisce – come nei casi richiamati – bisogna in principio perseguire la soluzione che sia meno lesiva per entrambi i beni protetti. E qui, oltre all’argomento fondato sull’art. 67 Cost., troviamo una seconda argomentazione di ordine sistematico.

Vediamo infatti che il bavaglio imposto al parlamentare con l’estromissione forzosa dalla Commissione non era l’unica via percorribile. Sia per i senatori che per i deputati il dissenso era dichiaratamente mirato alla singola questione, e non volto in via generale alle politiche del gruppo. E qualunque esito non gradito della votazione in Commissione sulla legge elettorale o sulla riforma costituzionale avrebbe potuto essere agevolmente corretto in Aula in via emendativa. Solo se ci si fosse trovati in Commissione in sede deliberante – ma tale non era il caso – la linea politica del gruppo avrebbe potuto eventualmente mostrarsi irreparabilmente distorta dal voto espresso dal singolo parlamentare in dissenso dal gruppo medesimo.

Certo, il gruppo avrebbe subito un costo politico dal dissenso. Ma, se fosse stato ritenuto intollerabile, ci sarebbe stata un’alternativa. E qui troviamo il terzo argomento. Sarebbe stata infatti possibile la espulsione dal gruppo, cui sarebbe seguita la sostituzione definitiva in Commissione con un parlamentare espressione del gruppo. Qui vediamo il modo corretto di affrontare la rottura non recuperabile dell’idem sentire tra parlamentare e gruppo di appartenenza. Espulsione dal gruppo, e conseguente estromissione del parlamentare dissenziente dalla Commissione non per le opinioni manifestate o i voti espressi in dissenso, ma in applicazione del principio costituzionalmente sancito di corrispondenza tra la composizione della Commissione e il rapporto tra i gruppi parlamentari.

La sostituzione forzosa in Commissione per il singolo affare nel caso di dissenso non sembra invece essere la soluzione corretta. Ancor più se adottata per grandi numeri, come è stato nella Camera dei deputati, indicando ciò che il problema sarebbe più appropriatamente collocato in una sede di partito.

C’era rimedio per la sostituzione d’autorità? Il regolamento del gruppo PD prevede che contro le sanzioni è ammesso il ricorso all’assemblea del gruppo. Ma in un caso come quello in esame è un rimedio inefficace, essendo il dissenso volto contro la linea che il gruppo sostiene a larga maggioranza.

Nella specie, si può ritenere che le presidenze delle assemblee avrebbero potuto e dovuto intervenire per bloccare la sostituzione. I regolamenti parlamentari non riconoscono ai presidenti poteri specifici sulle decisioni dei gruppi. Non potrebbero certo opporsi, ad esempio, all’espulsione di un componente dal gruppo parlamentare motivata con la connivenza con l’avversario politico. Ma è anche vero che il Presidente è in termini di principio garante del rispetto delle regole - in primis quelle costituzionali - nell’ambito dell’ordinamento particolare dell’istituzione. Da questo punto di vista, non può rimanere indifferente rispetto a possibili violazioni dei diritti costituzionalmente garantiti del singolo parlamentare. E dunque un intervento del Presidente, volto a bloccare la sostituzione forzosa di un parlamentare unicamente motivata sul dissenso e volta a modificare gli equilibri esistenti in Commissione in vista di uno specifico voto, avrebbe potuto ipotizzarsi.

3. Il “maxi-canguro” contro ostruzionismi e dissensi

Il 21 gennaio 2015 in Senato nel corso della discussione sugli AS 1385 e 1449 viene approvato l’emendamento 01.103, a firma Esposito – oggi, art. 1 della legge 52/2015. L’emendamento premette all’art. 1 dell’Italicum un articolo 01 recante in sintesi gli indirizzi generali desumibili dall’intera proposta, e fa decadere migliaia di emendamenti[18]. In pratica, un solo emendamento decisivamente contribuisce a imbavagliare ostruzionismi e dissensi.

Si dice sia stata applicata una tecnica – il “canguro” – ben nota alla prassi parlamentare. Ma non è così. Il principio alla base del “canguro” è che l’assemblea non può essere chiamata a votare nuovamente su quello che ha già deciso. Quindi, se un emendamento viene rigettato, il voto travolge anche gli altri emendamenti di contenuto sovrapponibile al primo, assumendo tra l’altro che uguale volontà esprimerebbe l’Aula votandoli uno a uno. Si salta all’emendamento successivo, e da qui il nome. Ma è corretto ritenere che il voto negativo su un emendamento ne travolga altri solo fino a quando si può assumere che in tutti gli emendamenti vi sia una parte coincidente, e che questa sia assorbente per il merito dell’emendamento nel complesso[19]. E va nella specie ricordato che per l’art. 72 Cost. la legge elettorale è necessariamente discussa e approvata in assemblea articolo per articolo. Per l’art. 100 del regolamento Senato gli emendamenti seguono la stessa logica.

L’emendamento in questione non richiamava altri articoli, commi, emendamenti, e non ne toccava quindi il contenuto normativo specifico. Nemmeno poneva norme autonomamente applicabili. Né infine rispettava il principio della discussione e approvazione articolo per articolo, come è provato proprio dalla decadenza di emendamenti a molteplici articoli del disegno di legge. Come è stato detto in Aula, al più avrebbe potuto configurarsi come ordine del giorno.

Seguendo la logica dell’emendamento Esposito basterebbe — sotto le mentite spoglie di emendamento — anteporre a qualsiasi disegno di legge un riassunto dei suoi contenuti e approvarlo per far ritenere preclusi tutti gli emendamenti. Un bavaglio istantaneo e, se fatto dal Governo, una sostanziale ghigliottina disponibile in ogni momento, con effetti di fatto analoghi a quelli ottenibili attraverso una questione di fiducia, ma senza l’attivazione dello speciale procedimento a tal fine previsto e senza l’assunzione di una specifica responsabilità. Ciò prova il tradimento della lettera e dello spirito della Costituzione e del regolamento. Nel caso specifico, in una materia cruciale, come è quella elettorale.

È del tutto ovvio che una tecnica emendativa come quella descritta può essere utilizzata in modo mirato e con efficacia per sterilizzare il dissenso interno ai gruppi parlamentari, evitando che giungano al voto gli emendamenti sui quali componenti del gruppo annuncerebbero in Aula il proprio voto in dissenso. Rimanendo quegli emendamenti preclusi, il dissenso viene reso invisibile, e dunque politicamente irrilevante.

L’emendamento 01.103 avrebbe dovuto essere dichiarato inammissibile, in quanto privo di «reale portata modificativa» (art. 100.8 reg. sen.).

4. Questioni di fiducia sulla legge elettorale

Nel dibattito nella Camera dei deputati il 28 aprile 2015 il Governo ha posto la fiducia sugli artt. 1, 2, 4 della proposta di legge elettorale in discussione[20]. Tale iniziativa avrebbe dovuto essere preclusa, ai sensi degli artt. 49 e 116 del regolamento. La presidente Boldrini ha ritenuto diversamente.

Per l’art. 49 il voto è palese, salvo che per alcune materie enumerate in cui è necessariamente segreto, e per alcune altre in cui è segreto a richiesta di almeno 30 deputati (art. 51). Tra queste ultime - voto segreto a richiesta - troviamo appunto la legge elettorale. Per l’art. 116 la questione di fiducia non può essere posta «su tutti quegli argomenti per i quali il Regolamento prescrive votazioni per alzata di mano o per scrutinio segreto». Il che è ovvio, visto che la fiducia si vota per appello nominale. La domanda dunque è: lo scrutinio segreto a richiesta sulla legge elettorale ex art. 49 si configura come voto segreto «prescritto» ai sensi dell’art. 116? O deve considerarsi «prescritto» solo il voto «necessariamente» segreto, e cioè segreto anche in assenza di richiesta?

La risposta corretta è che anche il voto segreto a richiesta - beninteso, una volta che la richiesta sia stata avanzata - deve considerarsi «prescritto» ai sensi dell’art. 116, e dunque idoneo a determinare la preclusione della questione di fiducia. Bisogna partire dalla considerazione che la modalità di votazione in ambito parlamentare non è mai oggetto di valutazione discrezionale. Che il voto sia segreto o palese non discende da una scelta di opportunità, ma dal dettato regolamentare. Ciò per ovvi motivi di garanzia dei singoli parlamentari e delle forze politiche, in specie di minoranza.

Ci può essere un «dubbio sull’oggetto della deliberazione», cioè un dubbio interpretativo se una fattispecie rientri o meno nelle materie per cui il voto è segreto o palese. Ma, sciolto il dubbio da parte della presidenza dell’assemblea, eventualmente con il parere della Giunta per il regolamento, il voto è obbligatoriamente determinato dalla norma regolamentare. Quindi, la modalità di votazione è sempre «prescritta».

Nel caso, non c’era alcuna possibilità di dubbio interpretativo, poiché la legge elettorale è esplicitamente inclusa nell’elenco delle materie per cui il voto è segreto a richiesta. E pertanto la questione di fiducia avrebbe dovuto considerarsi preclusa ai sensi dell’art. ll6, laddove il voto segreto fosse stato richiesto (come è accaduto).

Anche i precedenti suggerivano che lo strumento della fiducia non poteva essere utilizzato. Nel gennaio 2014 la Camera discuteva la legge elettorale. Sulla pregiudiziale di costituzionalità a prima firma Migliore (allora capogruppo di SEL, ora Pd) si votò a scrutinio segreto, su richiesta dello stesso Migliore[21]. Nessuno parlò di fiducia.

Quanto alla fiducia posta sugli articoli della legge elettorale, un precedente si trova con De Gasperi e la cd legge truffa. Lo stesso De Gasperi, intervenendo alla Camera il 17 gennaio 1953, difese la richiesta di fiducia argomentando che l’iniziativa del governo sulla legge elettorale era giustificata dall’intento di rafforzare il centro politico contro il rischio per la democrazia posto da una possibile saldatura tra le ali estreme e anti-sistema. Ma sottolineò che il premio sarebbe scattato solo se voluto dalla maggioranza assoluta degli elettori[22]. Ribadì poi questa caratteristica nel porre la fiducia in Senato nella seduta dell’8 marzo[23]. Il Presidente dell’assemblea tenne a precisare che la richiesta di fiducia non costituiva precedente[24]. E la questione di fiducia fu definita una «mostruosità»[25] dall’allora senatore Pertini, futuro Presidente della Repubblica.

Più in generale, va considerato che la validità di un richiamo al precedente non è data soltanto dalla mera ripetizione di un comportamento tenuto in passato. Il precedente va visto anche nel contesto in cui il comportamento si colloca.

In termini generali, dopo la sentenza 1/2014 qualsiasi precedente avrebbe dovuto essere valutato con estrema cautela. La sentenza poteva anche - secondo l’opinione prevalente e il suggerimento della stessa Corte - non inficiare la legittimità formale del Parlamento in carica. Ma certo determinava una situazione eccezionale e priva di riscontro nel passato. Ne veniva ineluttabilmente che il rapporto tra le forze politiche era falsato dall’indebito vantaggio nei numeri parlamentari concesso ad alcune di esse dal premio di maggioranza dichiarato illegittimo. Questo avrebbe dovuto togliere peso e significato ai precedenti volti a garantire un dominio maggioritario dei lavori in Commissione e in Aula. Il fulmine che colpisce la maggioranza nel suo momento genetico colpisce fatalmente al tempo stesso il suo diritto a governare.

Le presidenze delle Assemblee avrebbero dovuto interpretare regolamenti, prassi e precedenti con intelligenza istituzionale volta a tenere conto di tale eccezionalità. Al contrario, l’esperienza parlamentare recente ha conosciuto un uso mai visto prima di strumenti volti a comprimere la dialettica parlamentare. Proprio nel momento in cui ne veniva colpito il fondamento con la sentenza 1/2014, alla maggioranza numerica in Parlamento sono stati consentiti strumenti di ampiezza inusitata rispetto al passato.

Se quanto è accaduto dovesse consolidarsi in precedenti e prassi[26], il Parlamento scivolerebbe verso uno scenario di dittatura di maggioranza, contribuendo in tal modo ad aggravare ulteriormente il deficit di rappresentatività che le riforme – quella elettorale già approvata e quella costituzionale in itinere – decisivamente prefigurano. Mentre la libertà nella dialettica tra le forze politiche e nell’espletamento del mandato elettivo da parte dei singoli parlamentari si mostra elemento necessario per la vitalità, oggi quanto mai necessaria, dell’istituzione parlamentare.

[1] «… La questione elettorale è la priorità assoluta… L’indicazione referendaria inequivocabilmente chiara, la consapevolezza del danno per ogni aspetto della vita del Paese che deriverebbe dal non provvedere, consentono, impongono, al Governo di uscire da quella che, in altre stagioni politiche, era intesa come una neutralità dovuta sulle questioni elettorali. … Il Governo faciliterà e solleciterà per quanto ad esso compete … l’attività parlamentare volta all’approvazione di una nuova normativa elettorale». Camera dei deputati, XI leg., 6 maggio 1993.

[2] Come dimostra l’attacco portato al progetto approvato: Camera dei deputati, XIII leg., 28 gen. 1998.

[3] Camera dei deputati, XIII leg., 28 febbraio 2001,.

[4] Il ddl recava le firme di Berlusconi, Fini, Bossi, Buttiglione, Pisanu e La Loggia.

[5] «… fra diciotto mesi verificherò se il progetto sarà avviato verso un porto sicuro. Se avrò una ragionevole certezza che il processo di revisione della Costituzione potrà avere successo, allora il nostro lavoro potrà continuare. In caso contrario, … non avrei esitazione a trarne immediatamente le conseguenze». Così Letta il 29 aprile 2013, nel discorso programmatico nella Camera dei deputati, in cui avanza anche la proposta, poi abbandonata, di istituire una Convenzione aperta anche alla partecipazione di esperti non parlamentari, che avrebbe dovuto partire dalle conclusioni del Comitato dei saggi istituito dal Presidente della Repubblica.

[6]XVII leg., AS 813, Istituzione del Comitato parlamentare per le riforme costituzionali, presentato il 10 giugno 2013, in http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/00703332.pdf. Il ddl reca le firme di Letta, di Quagliariello, ministro per le riforme costituzionali, e di Franceschini, ministro per i rapporti con il Parlamento. Il ddl viene poi abbandonato in seguito alla mutata situazione politica che vede il PDL frantumarsi, con la formazione dei gruppi NCD che rimangono nella maggioranza e nel Governo. Letta prende atto della necessità di tornare al procedimento di revisione ex art. 138 intervenendo in Senato nel dibattito su una questione di fiducia l’11 dicembre 2013.

[7] Il gruppo di “saggi” istituito dal presidente Napolitano era composto da Mauro, Onida, Quagliariello e Violante. La Relazione Finale si trova in http://www.quirinale.it/qrnw/statico/attivita/consultazioni/c_20mar2013/gruppi_lavoro/2013-04-12_relazione_finale.pdf.

[8] Per la istituzione e la composizione della Commissione istituita dal Governo v. http://www.governo.it/AmministrazioneTrasparente/DisposizioniGenerali/AttiGenerali/OrdinamentoPCM/OrganizzazioneInterna/DPCM_20130611_Comm_rif_istituz.pdf. La relazione finale si legge a http://riformecostituzionali.gov.it/primo-piano/283-disponibile-il-volume-per-una-democrazia-migliore-relazione-finale-e-documentazione-in-formato-digitale.html.

[9] Nel discorso programmatico in Senato il 24 febbraio 2014 Renzi assume l’insieme delle riforme tra le priorità del Governo: «… esiste un nesso netto tra l’accordo sulla legge elettorale, la riforma del Senato e la riforma del Titolo V: sono tre parti della stessa faccia» http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=Resaula&leg=17&id=00750049&part=doc_dc-ressten_rs-gentit_cdpdcdmecd&parse=no.

[10]http://documenti.camera.it/leg17/resoconti/commissioni/bollettini/pdf/2014/01/21/leg.17.bol0161.data20140121.pdf.

[11] AS 1429, «Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte seconda della Costituzione».

[12] http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=SommComm&leg=17&id=764862.

[13] Per Chiti la situazione sembrava presentarsi almeno formalmente diversa, in ragione della sua titolarità di altri incarichi parlamentari. Riforme istituzionali: Mario Mauro sostituito in commissione al Senato. Corradino Mineo ago della bilancia, in Huffingtonpost.it, 10 giugno 2014.

[14]http://www.repubblica.it/politica/2015/04/20/news/italicum_in_commissione_135_emendamenti_11_sono_del_pd-112396104/.

[15] Possibilità espressamente prevista dai regolamenti: v. art. 19.3 reg. Camera, e 31.2 reg. Senato.

[16] La disciplina di dettaglio si trova nei regolamenti interni dei gruppi. Ad esempio, il regolamento del gruppo PD[16] Senato dispone (art. 7, co. 4, lett. e) che il direttivo designa i senatori per le Commissioni permanenti e per gli altri incarichi parlamentari. Quindi non è dubbio che la scelta della Commissione è rimessa alla volontà del gruppo, e non a quella del singolo parlamentare.

[17] Il regolamento PD Senato all’art. 2 dispone che: il gruppo riconosce e valorizza il pluralismo interno (co. 1); riconosce e garantisce la libertà di coscienza dei Senatori (co. 3); su questioni che riguardano i principi fondamentali della Costituzione repubblicana e le convinzioni etiche di ciascuno, i singoli Senatori possono votare in modo difforme dalle deliberazioni dell’Assemblea del Gruppo ed esprimere eventuali posizioni dissenzienti nell’Assemblea del Senato a titolo personale (co. 5). Coerentemente, per le sanzioni – art. 13: richiamo orale; richiamo scritto; sospensione dalle cariche interne al gruppo o dalla partecipazione all’assemblea del gruppo; esclusione dal gruppo - il regolamento non menziona il dissenso. Bisognerebbe si trattasse di un dissenso sufficientemente grave o ripetuto, tale da rientrare in una delle fattispecie indicate, e da non poter essere riportato nelle tutele di cui all’art. 2 prima citato.

Il gruppo PD della Camera dei deputati ha uno “Statuto” approvato per la XVII legislatura il 25 marzo 2013: http://www.camera.it/application/xmanager/projects/leg17/file/documenti/statuto_pd.pdf. Per l’art. 1.4 «4. Il pluralismo è elemento fondante del Gruppo e suo principio costitutivo. Esso si basa sul rispetto e la valorizzazione del contributo personale di ogni parlamentare alla vita del Gruppo, nel quadro di una leale collaborazione e nel rispetto delle norme del presente Statuto». Per l’art. 2.2 «Ogni aderente al Gruppo nello svolgimento della sua attività parlamentare si attiene agli indirizzi deliberati dagli organi del Gruppo, che sono vincolanti».

[18] Per l’elenco degli emendamenti preclusi http://www.senato.it/leg/17/BGT/Testi/Allegati/00000184.pdf.

[19] Un esempio. Primo emendamento: «è rinviato l’inizio del procedimento per …». Secondo: «è rinviato l’inizio dell’anno scolastico …». Terzo: «è rinviato l’inizio della stagione venatoria …». Non sarebbe una corretta applicazione del canguro mettere in votazione per il primo le parole «è rinviato l’inizio», e assumere che il voto negativo travolga anche gli altri due. Ovviamente, non si potrebbe desumere dal rigetto che l’assemblea sia contraria ad ogni rinvio, di qualsiasi oggetto o finalità. Ugualmente scorretto sarebbe mettere in votazione il rinvio come principio unificante, e trarre dal voto negativo il rigetto.

[20]http://www.camera.it/leg17/410?idSeduta=0417&tipo=stenografico#sed0417.stenografico.tit00070.sub00020.

[21] Camera dei deputati, XVII leg., 31.01.2014, p. 9-11.

[22] Camera dei deputati, I leg. 17 gennaio 1953, p. 45485 e 45488: «Egregi colleghi, qualunque sia il vostro giudizio sulla legge, potete chiamarla come volete voi, ma non potete negare questo: che la decisione viene presa a maggioranza assoluta, ci vuole la maggioranza per lo schieramento, e che solo lo schieramento che raggiunge la maggioranza assoluta avrà una maggiorazione dei propri seggi … abbiamo introdotto una maggioranza ridotta in favore dello schieramento che nella Nazione avrà raggiunto la maggioranza assoluta dei voti …». http://legislature.camera.it/_dati/leg01/lavori/stenografici/sed1074/sed1074.pdf.

[23] Senato della Repubblica, I leg., 8 marzo 1953, p. 3923: «… la legge, nella sua applicazione, dipende infine dal voto popolare, giacché sarà la maggioranza degli elettori che deciderà se il premio funzionale verrà raggiunto o meno e in qual misura esso risulti …». http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/487882.pdf.

[24] Ibidem.

[25] Senato della Repubblica, I leg., 10 marzo 1953, p. 39351, http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/487886.pdf.

[26] Per considerazioni ulteriori v. il mio Italicum. Un danno è per sempre, in Il Manifesto, 6 maggio 2015, p. 1.