Magistratura democratica

La riforma processuale e i principi della Corte Edu in materia

di Francesco Buffa

Il capitolo studia le problematiche giuridiche connesse con l’applicazione dell’art. 6 Cedu (e con i suoi riflessi sulle garanzie del giusto processo tributario, sull’indipendenza dei giudici, sul diritto al silenzio del contribuente, ed altri profili) e con il divieto di bis in idem nel rapporto tra il processo sanzionatorio tributario e penale.

1. L’applicazione dell’art. 6 e le garanzie del giusto processo tributario / 2. Indipendenza dei giudici / 3. Tutela di altri beni / 4. L’oralità delle prove all’udienza / 5. Il diritto al silenzio / 6. Valutazione di prove ottenute in violazione di altri diritti previsti dalla Cedu / 7. Il diritto di accesso al tribunale in relazione alla rilevanza della condotta del contribuente verso l’amministrazione fiscale / 8. L’impugnazione immediata di atti istruttori / 9. La rilevanza del processo penale / 10. Il divieto di bis in idem

 

1. L’applicazione dell’art. 6 e le garanzie del giusto processo tributario

L’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo prevede una serie di garanzie procedurali per i casi in cui vi sia una contestazione su «diritti e doveri di carattere civile» ovvero si verta «sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata» nei confronti della persona. 

In un primo momento, la Corte Edu aveva escluso la materia tributaria dall’applicazione dell’art. 6 nel suo volet civile, nella sentenza Ferrazzini c. Italia (ove si lamentava la lunghezza dei procedimenti fiscali), ritenendo che la materia fa parte del “nucleo duro” delle prerogative delle autorità pubbliche, con conseguente natura pubblicistica del rapporto tra il contribuente e l’amministrazione finanziaria[1]

La soluzione aveva suscitato già dissenso al tempo della sua emissione: come affermato nella opinione dissenziente del giudice Lorenzen, l’obbligo di pagare le tasse incide direttamente e sostanzialmente sugli interessi pecuniari dei cittadini e, in una società democratica, la tassazione si basa sull’applicazione delle norme legali (e non sulla discrezionalità delle autorità). Pertanto, a tali controversie dovrebbe applicarsi l’articolo 6, a meno che non vi siano circostanze particolari che giustifichino la conclusione che l’obbligo di pagare le imposte non dovrebbe essere considerato “civile” ai sensi di tale disposizione. 

Altro ambito di applicazione dell’art. 6 riguarda quelle controversie tra il privato e l’a.f. che hanno un carattere civile e non tributario, pur riguardando la ripetizione di un’imposta.

Nel caso National & Provincial Building Society, Leeds Permanent Building Society e Yorkshire Building Society c. Regno Unito, del 23 ottobre 1997, i ricorrenti hanno presentato richieste di recupero delle somme versate in base a disposizioni fiscali invalidate da una sopravvenuta normativa retroattiva. Nel pronunciarsi sull’ammissibilità del caso, la Commissione, ai parr. 98-102 della sentenza, ha osservato che il procedimento in questione non era stato avviato contro un contribuente per recuperare un’imposta o da un contribuente per contestare un accertamento d’imposta, né implicava una denuncia circa l’equità di una particolare imposta nei suoi effetti sui diritti di proprietà del ricorrente. Il procedimento di restituzione era stato avviato per recuperare determinate somme versate dal ricorrente in seguito alla richiesta delle autorità ritenuta ultra vires. Si trattava quindi di classiche azioni di diritto privato, nonostante la loro origine fiscale, e ad esse si applicava l’art. 6 della Convenzione.

Nel caso D.C. c. Italia, del 16 novembre 2000, la ricorrente aveva intentato un’azione per recuperare i crediti d’imposta sul reddito che le spettavano. L’azione è durata otto anni e tre mesi per un reclamo e sei anni e due mesi per un altro. La ricorrente lamentava, così, l’eccessiva durata di due procedimenti dinanzi ai giudici tributari nazionali. La Commissione ha osservato che la ricorrente aveva cercato di recuperare un credito nei confronti dello Stato e ha ritenuto che il «carattere particolare» di tale credito non poteva privare il diritto della ricorrente del suo «carattere civile». Il procedimento in questione rientrava quindi nell’ambito di applicazione dell’art. 6 della Convenzione.

Nel caso Filippello c. Italia, del 9 novembre 2000, il ricorrente aveva chiesto l’annullamento dell’avviso relativo all’imposta sul reddito, in quanto l’aveva già pagata, nonché il rimborso dell’importo versato a seguito di tale secondo accertamento fiscale, lamentandosi della durata del procedimento – cinque anni e quattro mesi. La Commissione ha concluso che l’azione implicava la determinazione dei diritti e degli obblighi civili, e che si era verificato un ritardo irragionevole.

La giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha poi presto ripensato anche la soluzione cd. “Ferrazzini” e ha affermato in via generale l’applicabilità dell’art. 6 Cedu alla materia tributaria.

Nella sentenza Vegotex International SA c. Belgio, del 3 novembre 2022 (Grande Camera), la Corte Edu si è occupata del caso di un procedimento di accertamento fiscale in cui la società ricorrente era stata condannata a pagare circa 298.813 euro, più una soprattassa del 10%; la società ricorrente si era lamentata, tra l’altro, dell’intervento del legislatore nel corso del procedimento e aveva lamentato una violazione del suo diritto al contraddittorio dinanzi alla Corte di cassazione e del suo diritto a vedere il suo caso esaminato entro un termine ragionevole. In questo caso, la Corte ha ritenuto che non vi era stata violazione dell’articolo 6, § 1 (diritto a un equo processo) della Convenzione, a causa dell’intervento del legislatore nel corso del procedimento, e che, cercando di combattere la frode fiscale su larga scala, evitare discriminazioni arbitrarie tra contribuenti e compensare gli effetti di sentenza intervenuta in corso di causa al fine di ripristinare la certezza del diritto ristabilendo la prassi amministrativa consolidata – riflessa, peraltro, nella prevalente giurisprudenza dei giudici di merito in materia –, il prevedibile intervento del legislatore era stato giustificato da imperativi motivi di interesse generale. La Corte ha, inoltre, ritenuto che non vi era stata violazione dell’articolo 6, § 1 (diritto di accesso a un tribunale) della Convenzione, ritenendo che la società ricorrente non era stata privata del diritto a un’udienza da parte del giudice poiché aveva avuto la possibilità di far valere le proprie argomentazioni in merito al motivo sollevato d’ufficio dalla Corte di cassazione. Infine, la Corte ha ritenuto che vi fosse stata violazione dell’articolo 6, § 1 (durata del procedimento) della Convenzione, a causa del mancato rispetto del termine ragionevole, poiché il procedimento era durato più di 13 anni e sei mesi. 

Per tutti gli indicati profili, tuttavia, non si è più dubitato dell’applicabilità dell’art. 6 alla materia tributaria, salva la verifica, nel merito, della configurabilità o meno della violazione di volta in volta denunciata. L’aspetto che più rileva ai fini della nostra trattazione è dunque l’affermata applicabilità – sottostante a ciascuno dei surriferiti constat – dell’art. 6 alla materia.

Peraltro, una volta affermata tale applicabilità, discendono varie conseguenze sul piano giuridico[2].

 

2. Indipendenza dei giudici

Il primo profilo che discende dall’applicazione dell’art. 6 riguarda l’indipendenza e imparzialità dei giudici.

Nella giurisprudenza consolidata della Corte Edu, invero, dall’art. 6 della Convenzione discende l’affermazione della necessità del rispetto dei canoni di imparzialità e indipendenza dei giudici. Si tratta di distinti requisiti: in particolare, mentre l’imparzialità concerne una condizione del giudice come persona verso la singola controversia, l’indipendenza attiene a una condizione del giudice come organo, rispetto ad altre istituzioni ed organi: secondo la giurisprudenza europea, l’indipendenza va testata, verificando in primo luogo: a) le modalità di selezione del giudicante; b) la durata del mandato; c) l’esistenza di protezioni contro le pressioni esterne e d) l’apparenza di indipendenza. 

La riforma segna l’allontanamento definitivo dal modello di giustizia di prossimità che era all’origine della giurisdizione speciale, proprio in relazione al tipo di controversie che sono sempre contro lo Stato, e per le quali non è indifferente se a giudicare la controversia sia un giudice statale o un giudice anche proveniente dalla comunità dei cittadini/contribuenti. La riforma ha fatto la scelta della professionalità del giudice, anche al fine di garantire la migliore qualità delle decisioni, salvaguardando al tempo le garanzie di indipendenza e imparzialità di questo.

Il contesto ordinamentale dettato dalla riforma evidenzia una posizione dei giudici tributari in linea con le prescrizioni della Cedu quanto alla selezione dei giudici, alla durata e alla inamovibilità dei giudici, all’indipendenza esterna e interna dei giudici, mentre potrebbero porsi profili problematici soprattutto con riguardo alla gestione finanziaria e al trattamento economico dei giudici tributari.

Quanto alla selezione dei giudici, invero, nel sistema della riforma la stessa avviene solo per concorso o per passaggio da altra giurisdizione avente garanzie di indipendenza sufficienti secondo la giurisprudenza. Rimangono a esaurimento i giudici laici, è vero, ma, secondo la Corte Edu, non è incompatibile con l’indipendenza la presenza di “componenti laici” negli organi giudicanti, soggetti esperti estranei all’organo giudiziario chiamati a integrarne le competenze con conoscenze speciali (3 maggio 2005, Thaler c. Austria, e 28 gennaio 2010, Puchstein c. Austria). 

Quanto alla durata del mandato, la riforma prevede giudici a tempo indeterminato sul cui status veglia il CPGT, è in linea con la giurisprudenza della Corte Edu, ove si è attribuita importanza all’inamovibilità del giudice (Corte Edu: 3 marzo 2005, Brudnicka e al. c. Polonia; 10 gennaio 2012, Pohoska c. Polonia, § 34, e 21 giugno 2011, Fruni c. Slovacchia; 25 ottobre 1997, Findlay c. Regno Unito; 3 maggio 2011, Sutyagin c. Russia). 

All’immodificabilità del giudice nel processo tributario provvede poi l’art. 35 d.lgs n. 546/1992, che richiama gli artt. 276 ss. del codice di procedura civile. Al riguardo, Cass., sez. V, sentenza n. 15374 del 05 dicembre 2001 (Rv. 550874 - 01) ha affermato che anche nel processo tributario il principio dell’immutabilità del giudice, volto ad assicurare che i giudici che pronunciano la sentenza siano gli stessi che hanno assistito alla discussione della causa, è rispettato quando il collegio, dopo una prima udienza di discussione, partecipi, in diversa composizione, a una nuova discussione, assumendo definitivamente la causa in decisione. Nel medesimo senso, sez. V, 27 agosto 2001, n. 11269 (Rv. 549075 - 01) ha poi precisato che il principio, desumibile dalla disciplina del processo civile, secondo il quale la sentenza di un giudice collegiale è nulla allorquando la partecipazione del terzo giudice, oltre al presidente e al relatore, non sia desumibile in alcun modo dalla sentenza stessa e dal verbale di udienza, è applicabile anche al nuovo processo tributario, con la conseguenza che l’impossibilità di individuare dal contenuto della sentenza della commissione tributaria e dal processo verbale di udienza il terzo componente del collegio giudicante, determina, ove ritualmente dedotta come motivo di impugnazione, la nullità insanabile della sentenza medesima per vizio di costituzione del giudice.

Il Consiglio di presidenza ha previsto la periodica rotazione dei magistrati tra le varie sezioni della commissione di appartenenza ogni cinque anni, al fine (invero solo parzialmente raggiunto, visto che i membri dei collegi possono a volte ruotare insieme) di evitare una stabilizzazione dei collegi in piccole realtà locali.

Quanto all’assegnazione delle cause, la Corte Edu non ha ritenuto che violi, di per sé, il canone di imparzialità un criterio di assegnazione delle cause non predeterminato e obiettivo, ma affidato alla discrezionalità del presidente (9 ottobre 2008, Moyseiev c. Russia). Peraltro, in una recente delibera del Consiglio di presidenza sull’organizzazione del servizio del 2023, si è precisato che l’assegnazione delle cause tra le sezioni e, poi, ai giudici all’interno di ciascuna sezione deve avvenire secondo un criterio automatico predeterminato, che assicura peraltro l’equilibrata assegnazione delle cause tra tutti i giudici.

Sotto il profilo dell’adeguatezza del compenso, rammentato che è stato ritenuto contrario al principio di indipendenza che elementi decisivi per il mantenimento di un tenore di vita decoroso del giudice dipendessero da scelte gestionali della autorità governativa (Corte Edu, 27 novembre 2008, Miroshnik c. Ucraina), appare evidente che la corresponsione ai giudici tributari di compensi non adeguati mette a serio rischio l’immagine di relativa indipendenza e, soprattutto, imparzialità verso l’esterno. Oggi la riforma incide su tali aspetti, prevedendo un compenso fisso, determinato per legge, adeguato, in linea con le retribuzioni delle altre magistrature.

La Corte Edu ha, altresì, valorizzato talvolta l’impatto sull’indipendenza del conferimento (già conseguito o auspicato) di incarichi extragiudiziari, rilevando come possa inficiare quantomeno l’apparenza di imparzialità (e indipendenza) il fatto che il giudice ottenga un incarico presso un’autorità politica in un contesto temporale prossimo all’adozione di una significativa decisione che tale autorità concerna, o comunque, quando il giudice si occupi di rilevante contenzioso cui l’autorità è interessata (9 novembre 2006, Sacilor-Lormies c. Francia, § 69).

Su tali profili, il Consiglio di presidenza della giustizia tributaria è posto a garanzia dell’indipendenza esterna dei giudici e alla loro protezione da pressioni esterne e dall’ingerenza del potere esecutivo o legislativo nella singola controversia. La Corte Edu ha, in proposito, attribuito importanza alla funzione di presidio dell’indipendenza del giudiziario attribuibile agli organi di autogoverno della magistratura, rilevando come tale indipendenza sia garantita quando tali organi siano disciplinati dalla legge, che ne preveda i criteri di composizione, le immunità, le cause di cessazione dalle funzioni, le procedure e se sono ad esso assegnate risorse finanziarie autonome e autonomamente gestite (3 febbraio 2009, Dauti c. Albania; 5 febbraio 2009, Olujić c. Croazia).

La Corte ha ritenuto incompatibile con l’indipendenza del giudice l’ingerenza del potere esecutivo o legislativo nella singola controversia, manifestatasi con l’invio di “lettere” contenenti l’invito ad assumere determinate decisioni da parte di appartenenti ad assemblee legislative o ad organi di governo (6 ottobre 2001, Agrokompleks c. Ucraina, § 133). 

La Corte Edu riconosce che la garanzia di indipendenza, sotto il profilo dell’esclusione di pressioni “anomale” sul giudicante, si esplica anche all’interno del corpo giudiziario come indipendenza interna, tutelando il singolo giudice e la sua libertà di apprezzamento anche nei confronti di altri organi pur appartenenti all’ordine giudiziario. Si deve pertanto escludere che sussista un tribunale indipendente quando il giudicante sia esposto ad ordini o direttive di capi degli uffici: si può affermare che lo stesso concetto di supremazia gerarchica è incompatibile con il concetto di indipendenza (6 ottobre 2011, Agrokompleks c. Ucraina, § 137). Con l’indipendenza interna non è incompatibile il semplice riconoscimento di un potere di vigilanza disciplinare del presidente della commissione (art. 15 d.lgs n. 545/1992), mentre potrebbe essere un attentato all’indipendenza il malgoverno, illegale, di tale potere da parte del presidente (19 aprile 2001, Khrykin c. Russia). Anche qui, i capi degli uffici possono rendere pareri in ordine alla professionalità e laboriosità dei magistrati in relazione alle loro domande di trasferimento o di progressione di carriera, ma si tratta solo di elementi conoscitivi a uso dell’organo competente, il CPGT, che garantisce l’indipendenza interna dei giudici.

La riforma, peraltro, non è esente da criticità, specie in ordine all’inquadramento dei giudici tributari.

Se infatti la riforma rafforza il Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, resta il fatto che i giudici tributari sono inquadrati nell’ambito di un’amministrazione alla quale fanno capo sostanzialmente i soggetti che, in gran parte dei casi, compaiono davanti al giudice tributario nella veste di parti, spesso convenute per l’impugnazione dei loro atti amministrativi. La riforma del 2023, che pure nella prima versione preparatoria aveva previsto il passaggio dei giudici tributari alla dipendenza della Presidenza del Consiglio dei ministri, non incide su tale profilo, e i giudici tributari (anche quelli di nuova assunzione ai sensi della legge) restano inquadrati alle dipendenze del Ministero dell’economia e finanze.

In particolare, sono state evidenziate dalla dottrina i seguenti profili: la giustizia tributaria è resa da magistrati che dipendono dal Ministero dell’economia e delle finanze e dallo stesso sono retribuiti; lo stesso Ministero organizza i concorsi pubblici per l’accesso a tale magistratura; i giudici tributari saranno soggetti al controllo di un ufficio ispettivo, che pur operando nell’ambito del Consiglio di presidenza è presso il Ministero dell’economia e delle finanze; le cancellerie di questi giudici sono anche le segreterie del Ministero, il quale terrà la banca dati dei precedenti giurisprudenziali, sia pure alimentata dal lavoro di un ufficio composto da magistrati come quello del Massimario – e tuttavia quest’ultimo non è costituito presso la Cassazione (cui compete il potere nomofilattico) né presenta garanzie di autonomia predefinite –; viene prevista la creazione di un software (il sistema “Prodigit”) ad opera del Ministero quale primo algoritmo di intelligenza artificiale della giustizia predittiva in ambito fiscale, che consentirà anche di valutare la fondatezza o meno di un ricorso tributario e, quindi, di orientare financo le scelte processuali dei contribuenti. 

Il problema della compatibilità dell’inquadramento dei giudici tributari con i principi, oltre che costituzionali, della Cedu non sembra allora del tutto risolto, sebbene vi sia spazio per ulteriori interventi, in particolare dello stesso Consiglio di presidenza, al fine di porre rimedio alle criticità più vistose. 

 

3. Tutela di altri beni

La ormai superata affermazione dell’esclusione (contenuta in Ferrazzini) dell’applicabilità dell’art. 6 della Convenzione al processo tributario non escludeva l’applicazione dell’art. 6 e delle garanzie del giusto processo tutte le volte in cui vicenda tributaria avesse inciso su interessi che, al di là dell’aspetto patrimoniale, riguardavano altri diritti di carattere civile della Convenzione. È il caso, ad esempio, dell’art. 8, in relazione alla tutela del domicilio, che permette anche l’applicazione dell’art. 6 Cedu – dunque delle garanzie, ivi previste, del giusto processo.

Nel caso Ravon e al. c. Francia (n. 18497/2003, 21 febbraio 2008; vds. sulla stessa questione anche, tra le altre: Kandler e al. c. Francia, n. 18659/2005, 18 settembre 2008; Maschino c. Francia, n. 10447/2003, 16 ottobre 2008), l’amministrazione fiscale, nel quadro di una procedura di accertamento del pagamento dell’IVA da parte di una società e su autorizzazione del tribunale, aveva effettuato una perquisizione nella sua sede legale e sequestrato alcuni documenti[3]

Poiché la sede della società rientra nel concetto di «domicilio» ai sensi dell’art. 8 (vds., ad esempio, Société Colas Est e al. c. Francia, n. 37971/1997, §§ 40-42, CEDH 2002 III; per quanto riguarda il domicilio professionale di imprenditori: i, 28 aprile 2005, e, più in generale, di professionisti: Niemietz c. Germania, 16 dicembre 1992, serie A, n. 251 B), la sua tutela acquista carattere civile e, di conseguenza, l’art. 6 entra in gioco. Nel caso concreto, la Corte ha esaminato se il diritto interno fornisca un controllo giurisdizionale effettivo a coloro che subiscono una perquisizione ai fini fiscali. Ciò significa che il ricorso disponibile deve permettere al giudice di decidere sia in fatto che in diritto e, qualora constati un’irregolarità, sia competente a farla cessare e a fornire all’interessato una riparazione adeguata (Ravon, § 28). Nel caso concreto, benché la perquisizione fosse stata autorizzata da un giudice, si fosse svolta sotto il controllo di un giudice e fosse previsto il ricorso in Cassazione per contestarne la legittimità, la Corte ha accertato la violazione dell’art. 6 (accesso al tribunale). In primo luogo, la procedura di autorizzazione della perquisizione da parte di un giudice non è di per sé conforme all’art. 6, non essendo prevista una procedura nel contradittorio tra le parti; in secondo luogo, il fatto che la perquisizione si fosse svolta sotto il controllo di un giudice non equivale a un controllo indipendente sulla legittimità dell’atto e, quindi, della regolarità della stessa autorizzazione; inoltre, la legge non prevedeva la necessità della presenza dei ricorrenti, ma solo di due testimoni terzi alla procedura; infine, il ricorso in Cassazione non permette un riesame in fatto, ma solo in diritto (Ravon, §§ 30-31). La Corte sottolinea, inoltre, che non è sufficiente prevedere una procedura ex post di risarcimento del danno conseguente a una perquisizione irregolare, in quanto tale procedura non permette una valutazione della legittimità dell’autorizzazione (Ravon, § 33). In seguito all’introduzione di un nuovo rimedio interno da parte della Francia per contestare in fatto e in diritto la legittimità dell’autorizzazione della perquisizione, la Corte ha concluso per la non violazione dell’art. 8 (SAS Arcadia c. Francia, n. 33088/2008, 31 agosto 2010; Etoc et Borot c. Francia, n. 40954/2008, 7 dicembre 2010).

Nel caso K. c. Svezia, n. 13800/1988, Commissione, 1° luglio 1991, l’ufficio di polizia fiscale aveva sequestrato i beni e il denaro della ricorrente per le tasse non pagate dal suo ex marito. La Commissione ha concluso che l’azione diretta all’annullamento del sequestro costituiva una causa civile alla quale si applicava l’art. 6 della Convenzione. Allo stesso modo, nel caso S. c. Austria, n. 18778/1991, Commissione, 1° dicembre 1993, una banca ha intentato un’azione per la restituzione dei gioielli depositati presso la banca e sequestrati dall’a.f. per imposte non pagate dal depositante. Secondo la Commissione, il caso non riguardava l’obbligo fiscale del ricorrente, ma piuttosto i suoi diritti civili derivanti da un pegno di beni.

 

4. L’oralità delle prove all’udienza

Il vecchio divieto di prova testimoniale nel giudizio tributario non contrasta neppure con l’art. 6 della Convenzione, atteso che la Corte europea dei diritti dell’uomo ne ha accertato la compatibilità con il principio del giusto processo, qualora da esso non derivi alla parte un grave pregiudizio sul piano probatorio non altrimenti rimediabile. 

La Corte costituzionale italiana ha ripetutamente dichiarato manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate riguardo al divieto di prova testimoniale nel processo tributario, sia con riferimento all’art. 35, comma 5, dPR n. 636/1972 (ordd. nn. 506/1987, 91/1989, 6/1991, 328/1992), sia con riferimento all’attuale art. 7, comma 4, d.lgs n. 546/1992 (sent. n. 18/2000), atteso che non è possibile riconoscere un principio di necessaria uniformità tra i diversi tipi di processo, le cui regole devono conformarsi alle peculiari caratteristiche dei singoli procedimenti e degli interessi alla cui tutela sono apprestati. Invero, il processo tributario è, «sia sotto il profilo probatorio che difensivo», un «processo documentale», che «si svolge attraverso scritti mediante i quali le parti provano le rispettive pretese o spiegano le loro difese» (Corte cost., n. 141/1998). Il che non contrasta neppure con l’art. 6 Cedu, atteso che Corte europea dei diritti dell’uomo ha chiarito che il divieto di testimonianza è compatibile col principio del giusto processo, se non ne deriva un grave pregiudizio per la parte sul piano probatorio non altrimenti rimediabile (23 novembre 2006, n. 73053/2001). Invece, nel pieno rispetto della “parità di armi” tra fisco e contribuente, il diritto vivente ammette l’introduzione indiziaria nel processo tributario di dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale (Corte cost., n. 18/2000; cfr. Cass., n. 20028/2011), sebbene esse non siano assunte o verbalizzate in contraddittorio da nessuna norma richiesto (Cass., n. 21812/2012, nonché nn. 960 e 961/2015). 

Nella giurisprudenza della Corte Edu si richiama soprattutto il leading case Jussila c. Finlandia [GC], n. 73053/2001, 23 novembre 2006. In quel caso, un ufficio delle imposte aveva imposto al ricorrente soprattasse fiscali pari al 10% del suo debito fiscale rivalutato; le maggiorazioni ammontavano all’epoca a 1836 marchi finlandesi (circa 300 euro) e si basavano sul fatto che le sue dichiarazioni IVA nel 1994-1995 erano incomplete. Il contribuente aveva presentato ricorso al tribunale amministrativo di primo grado, chiedendo un’udienza in cui potessero essere sentiti come testimoni un ispettore fiscale e un esperto. Il tribunale amministrativo aveva invitato i due a presentare osservazioni scritte e, alla fine, aveva ritenuto manifestamente superflua un’udienza orale poiché entrambe le parti avevano presentato per iscritto tutte le informazioni necessarie. Dinanzi alla Corte il contribuente ha lamentato di non aver ricevuto un’equa udienza nel procedimento in cui era stata imposta una soprattassa fiscale, poiché non vi era stata alcuna udienza orale. La Corte ha ritenuto che, sebbene le soprattasse nel caso facessero parte del regime fiscale, esse erano state imposte da una norma il cui scopo era deterrente e punitivo. Il fatto era quindi “penale” ai sensi dell’art. 6 (diritto a un equo processo) della Convenzione, e la Corte ha ritenuto che l’art. 6 fosse applicabile al caso del ricorrente. La Grande Camera ha affermato che la lieve entità della sanzione non costituisce, di per sé, un elemento atto a privare la misura del carattere penale, qualora sia evidente il suo carattere deterrente e repressivo. La Grande Camera ha, quindi, ritenuto che le maggiorazioni d’imposta o, più in generale, le sanzioni fiscali ricadano nell’ambito applicativo dell’art. 6, atteso che la rimozione delle salvaguardie procedurali rispetto a sanzioni fiscali di natura sostanzialmente penale non è necessaria al fine di garantire l’effettività del sistema fiscale o, in ogni caso, non è conforme allo spirito e allo scopo della Convenzione (Cecchetti c. San Marino, n. 40174/2008, 9 aprile 2013). Notando, tuttavia, che al ricorrente era stata data ampia opportunità di esporre il suo caso per iscritto e di commentare le argomentazioni dell’amministrazione fiscale, la Corte ha ritenuto che i requisiti di equità fossero stati rispettati e che, date le particolari circostanze del caso, non necessitavano di un’udienza orale. Ha pertanto ritenuto che non vi era stata violazione dell’articolo 6, § 1 della Convenzione.

In Chap Ltd c. Armenia, 2 maggio 2017, si trattava di un procedimento per evasione fiscale avviato contro un’emittente televisiva regionale. La società aveva lamentato di non aver potuto esaminare i testimoni (nel caso, il capo della Commissione nazionale per la televisione e la radio e alcuni uomini d’affari), le cui prove erano state utilizzate contro di essa nel procedimento. 

La Corte ha ritenuto che vi fosse stata violazione dell’art. 6, § 1, in combinato disposto con l’art. 6, § 3, lett. d (diritto a un giusto processo e diritto a ottenere la convocazione e l’esame dei testimoni) della Convenzione, ritenendo che la restrizione al diritto della società richiedente di esaminare questi testimoni era stato irragionevole. In particolare, i tribunali avevano rifiutato di accogliere la richiesta della società ricorrente di citare tali testimoni, ritenendo le loro prove irrilevanti, nonostante il fatto che le stesse prove fossero state considerate decisive per imporre soprattasse e ammende alla società ricorrente nel procedimento contro di essa.

Qui la decisione prescinde dall’applicazione dell’art. 6 nel suo volet penale e si sofferma sul diritto all’escussione dei testi in contraddittorio all’udienza, tutte le volte in cui le relative dichiarazioni rese fuori del processo siano state utilizzate dall’amministrazione finanziaria. 

La riforma, come noto, ha inciso solo in parte sul vecchio divieto e oggi, nel processo tributario, è ammessa la testimonianza scritta. Si prevede, in particolare, che il giudice possa ammettere la prova testimoniale, assunta con le forme di cui all’art. 257-bis cpc. Nei casi in cui la pretesa tributaria sia fondata su verbali o altri atti facenti fede fino a querela di falso, la prova è ammessa soltanto su circostanze di fatto diverse da quelle attestate dal pubblico ufficiale. In deroga all’art. 103-bis disp. att. cpc, se il testimone è in possesso di firma digitale, il difensore della parte che lo ha citato deposita telematicamente il modulo di deposizione trasmessogli dal testimone dopo che lo stesso lo abbia compilato e sottoscritto in ogni sua parte, con firma digitale apposta in base a un certificato di firma qualificato la cui validità non sia scaduta ovvero che non sia stato revocato o sospeso al momento della sottoscrizione.

 

5. Il diritto al silenzio

La Corte ha più volte affermato che, nonostante l’assenza di riferimenti nell’art. 6 sul punto, il diritto al silenzio e alla non-autoincriminazione costituisce il cuore del diritto a un equo processo. In particolare, tali diritti presuppongono che le autorità, nel determinare la responsabilità degli individui, non ricorrano a elementi di prova ottenuti attraverso la minaccia di sanzioni o in forza di pressioni nei confronti dell’accusato (Funke c. Francia, 25 febbraio 1993; John Murray c. Regno Unito, 8 febbraio 1996, § 45; Saunders c. Regno Unito, 17 dicembre 1996, §§ 68-69). 

La Corte ha applicato tali principi in materia tributaria, tra gli altri, nel caso Chambaz c. Svizzera (n. 11663/2004, §§ 42-43, 5 aprile 2012). In seguito a controlli dai quali emergeva una sproporzione tra i redditi dichiarati e il patrimonio accertato, l’amministrazione finanziaria emanava un atto di accertamento nei confronti del ricorrente. Nel corso del procedimento instaurato da quest’ultimo per contestare l’atto di accertamento, la commissione tributaria richiedeva al ricorrente di produrre un insieme di documenti necessari all’esame della controversia. Poiché il ricorrente si era rifiutato di depositare tali documenti, era stato condannato a una sanzione pecuniaria. 

Lo stesso principio è stato adottato, sempre in materia tributaria, in un caso nel quale il ricorrente è stato obbligato a fornire dei documenti nel quadro di una procedura amministrativa che poteva portare all’erogazione di una sanzione di natura sostanzialmente penale (J.B. c. Svizzera, n. 31827/1996).

Il principio del diritto al silenzio del contribuente assume particolare rilievo una volta considerato che, nell’ordinamento italiano, sostanzialmente non si ammette che il contribuente non risponda alle richieste dell’a.f. Sono, anzi, previste da varie norme, a fronte di un eventuale rifiuto alla collaborazione da parte del contribuente, effettive sanzioni: si pensi all’art. 9, comma 2, d.lgs n. 471/1997, il quale prevede una sanzione pecuniaria per «chi, nel corso degli accessi eseguiti ai fini dell’accertamento in materia di imposte dirette e di imposta sul valore aggiunto, rifiuta di esibire o dichiara di non possedere o comunque sottrae all’ispezione e alla verifica i documenti, i registri e le scritture indicati nel medesimo comma ovvero altri registri, documenti e scritture, ancorché non obbligatori, dei quali risulti con certezza l’esistenza». Si pensi, altresì, all’art. 11 dl n. 201/2011, che configura sanzioni penali a carico di «chiunque a seguito delle richieste effettuate nell’esercizio dei poteri di cui agli articoli 32 e 33 dpr 600/73 e 51 e 52 dpr 633/72 esibisce o trasmette atti o documenti falsi in tutto o in parte ovvero fornisce dati e notizie non rispondenti al vero».

Tali norme possono apparire problematiche rispetto alla Convenzione, in quanto la loro applicazione finisce per contrastare con il principio della parità delle armi, posto alla base del giusto processo, e con il nemo tenetur se detegere, principio che, come si vedrà, la Corte ritiene direttamente applicabile con riferimento alle misure tributarie che possano essere qualificate come “penali”, secondo la valutazione autonoma da essa effettuata in base a criteri giurisprudenziali consolidati.

In argomento, si richiama nel nostro ordinamento l’ulteriore sanzione dell’inutilizzabilità prevista dall’art. 52, comma 5, dPR 26 ottobre 1972, n. 633, il quale esclude la possibilità di prendere in considerazione a favore del contribuente, in sede amministrativa e contenziosa, i documenti (libri, scritture, registri, etc.) che non siano stati acquisiti durante gli accessi perché il contribuente ha rifiutato di esibirli o ha dichiarato di non possederli, o perché li ha comunque sottratti al controllo. Per un’interpretazione della norma costituzionalmente orientata, vds. Cass., sez. V civ., 14 luglio 2010, n. 16536, secondo cui la norma fa eccezione a regole generali, e perciò non può essere applicata oltre i casi e i tempi da essa considerati, e deve essere interpretata, in coerenza e alla luce dei principi affermati dagli artt. 24 e 53 Cost., in modo da non comprimere il diritto alla difesa e da obbligare il contribuente all’effettuazione di pagamenti non dovuti: quindi nel senso che, per essere sanzionato con la perdita della facoltà di produrre i libri e le altre scritture, il contribuente stesso deve aver tenuto un comportamento diretto a sottrarsi alla prova e, dunque, capace di far fondatamente dubitare della genuinità di documenti che affiorino soltanto in seguito, nel corso di giudizio. Più di recente, invece, il diverso principio affermato da Cass., sez. V civ., 12 aprile 2017, n. 9487, secondo la quale il divieto in discorso opera non solo nell’ipotesi di rifiuto (per definizione “doloso”) dell’esibizione, ma anche nei casi in cui il contribuente dichiari, contrariamente al vero, di non possedere i documenti in suo possesso, o li sottragga all’ispezione non allo scopo di impedire la verifica, ma per errore non scusabile, di diritto o di fatto (dovuto a dimenticanza, disattenzione, carenze amministrative, etc.).

 

6. Valutazione di prove ottenute in violazione di altri diritti previsti dalla Cedu

La Corte ha sempre ribadito che non le compete entrare nel merito di errori di fatto o di diritto compiuti dalle autorità nazionali, a meno che tali errori incidano sulla protezione dei diritti previsti dalla Convenzione. Con riferimento all’art. 6, la Corte ha chiarito che dal diritto a un equo processo non discendono specifiche regole sull’ammissibilità delle prove, essendo questa valutazione principalmente di competenza dei tribunali nazionali (Schenk c. Svizzera, 12 luglio 1988, §§ 45-46; Teixeira de Castro c. Portogallo, 9 giugno 1998, § 34). Ciò che deve valutare la Corte è se il processo, esaminato nella sua interezza (inclusa la modalità di assunzione delle prove), sia stato equo (Allan c. Regno Unito, n. 48539/1999, § 42). In particolare, rileva esaminare se l’assunzione di una prova abbia violato un altro articolo della Convenzione. In questo caso sarà necessario valutare il tipo di diritto in gioco e la natura della violazione (Khan, §§ 25-28; P.G. e J.H. c. Regno Unito, n. 44787/1998, §§ 37-38; Bykov c. Russia, §§ 94-105).

La Corte ha operato una distinzione a seconda che le prove fossero assunte in violazione dell’art. 3 o dell’art. 8.

In caso di testimonianze assunte attraverso l’uso della tortura o di un trattamento inumano o degradante (art. 3), la Corte ha ritenuto che l’utilizzabilità di tali prove comporta automaticamente una violazione del diritto a un equo processo. Qualora, invece, prove materiali siano raccolte attraverso l’uso di trattamenti inumani e degradanti, fattori quali la gravità del reato e il valore probatorio dell’elemento in questione devono essere presi in considerazione al fine di determinare se l’art. 6 sia stato rispettato (El Haski c. Belgio, n. 649/2008, 25 settembre 2012).

Quanto ai principi che presiedono all’acquisizione delle prove, secondo la Corte, l’autorità, nel determinare la responsabilità degli individui, non deve ricorrere a elementi di prova ottenuti attraverso minacce di sanzioni o in forza di pressioni nei confronti dell’accusato (Chambaz c. Svizzera, cit.), essendo ritenuta tra queste, ad esempio, la sanzione pecuniaria per ogni giorno di ritardo nella produzione richiesta, applicata a fronte del rifiuto del contribuente di fornire i documenti richiesti dal fisco (Funke c. Francia, cit.).

In caso di violazione dell’art. 8, invece, è necessario prendere in esame le circostanze specifiche del caso, valutare se i diritti della difesa sono stati rispettati ed esaminare la qualità e l’importanza degli elementi probatori in questione. In particolare, è necessario verificare che l’accusato abbia avuto la possibilità di contestare l’autenticità delle prove e di opporsi alla sua utilizzabilità. 

La Corte assegna un’importanza particolare al ruolo più o meno decisivo che la prova ha avuto nella determinazione della responsabilità dell’imputato (o comunque condannato a una sanzione di natura sostanzialmente penale). Inoltre, le prove devono essere assunte nel contraddittorio tra le parti e, di norma, in udienza pubblica. In principio, l’art. 6, §§ 1 e 3 d, richiede che il presunto autore dell’illecito abbia un’adeguata e sufficiente occasione per contestare una testimonianza a carico e che possa interrogare il teste (El Haski c. Belgio, cit.).

Le garanzie procedurali dell’art. 8 svolgono dunque una funzione diversa rispetto a quella riconosciuta dall’art. 6. Mentre queste ultime sono finalizzate alla garanzia di un accesso al tribunale, di un equo processo e di un diritto all’esecuzione delle sentenze definitive, le garanzie procedurali ex art. 8 sono funzionali alla valutazione della giustificazione della limitazione dei diritti che tale disposizione riconosce. Tale differenza emerge chiaramente dai numerosi casi contro la Francia, nei quali le stesse circostanze che hanno condotto la Corte a concludere per la violazione dell’art. 6 – mancanza di contraddittorio nella fase di autorizzazione, presenza degli interessati durante la perquisizione non necessaria, assenza di un controllo sulla legittimità dell’autorizzazione da parte di un tribunale competente in fatto e in diritto, etc. – hanno portato a una decisione di non violazione dell’art. 8 (vds. Keslassy c. Francia, dec. n. 51578/1999, e Maschino c. Francia, cit.).

Nel caso Rousk c. Svezia (n. 27183/2004, 25 luglio 2013), la Corte ha dovuto esaminare la legittimità del pignoramento e vendita all’asta dell’abitazione del ricorrente che non aveva ottemperato al pagamento di un debito di natura fiscale. Anche in questo caso, la Corte ha esaminato gli aspetti legati alla tutela procedurale del diritto sostanziale e, tenendo anche conto della sproporzione tra il debito nei confronti dell’amministrazione e il valore del bene di cui è stato privato, ha concluso per la violazione sia dell’art. 8 che dell’art. 1 Protocollo n. 1. Nonostante il silenzio di quest’ultimo in materia di esigenze procedurali, in caso di ingerenza nell’esercizio del diritto di proprietà, lo Stato deve prevedere delle procedure che permettano all’interessato di esporre la sua causa davanti alle autorità competenti al fine di contestare in maniera effettiva le misure che sono all’origine di tale ingerenza (Jokela c. Finlandia, n. 28856/1995, § 45; Kotov c. Russia [GC], n. 54522/2000, 3 aprile 2012). Non sono quindi compatibili con la Convenzione ingerenze in assenza di una procedura svolta in contraddittorio tra le parti e rispettosa del principio della parità delle armi e che permetta di discutere degli aspetti principali della controversia (AGOSI c. Regno Unito, 24 ottobre 1986, § 55; Sociedad Anónima del Ucieza c. Spagna, n. 38963/2008, § 74, 4 novembre 2014).

Nel caso Microintelect OOD c. Bulgaria (n. 34129/2003, 4 marzo 2014), la Corte ha considerato in violazione dell’art. 1 Prot. 1 una confisca di prodotti alcolici perché i soggetti che li somministravano erano privi di licenza. La società ricorrente era proprietaria dei locali gestiti dai soggetti condannati. Essa si era impegnata, tra l’altro, a fornire i prodotti alcolici e, a questo fine, aveva ottenuto le licenze previste per legge. Durante il procedimento instaurato nei confronti dei gestori, la società ha provato a intervenire sostenendo di essere proprietaria dei beni confiscati, ma la sua domanda di intervento è stata rigettata, in quanto il diritto interno non prevedeva la partecipazione alla procedura da parte di soggetti terzi rispetto ai responsabili dell’illecito. In ogni caso, la confisca era prevista automaticamente in relazione ai beni strumento dell’illecito. La Corte ha ritenuto che l’impossibilità di ottenere un controllo giurisdizionale pieno da parte della società ricorrente era contraria alla Convenzione.

 

7. Il diritto di accesso al tribunale in relazione alla rilevanza della condotta del contribuente verso l’amministrazione fiscale

In Janosevic c. Svezia e Västberga Taxi Aktiebolag e Vulic c. Svezia, 23 luglio 2002, l’a.f. aveva esaminato la posizione di due compagnie di taxi e aveva applicato delle sovratasse in ragione della falsità delle informazioni fornite dalle compagnie in sede di verifica delle dichiarazioni fiscali. 

Le società avevano quindi affermato che era contrario al diritto a un giusto processo eseguire la decisione delle autorità fiscali prima che una sentenza definitiva del tribunale avesse stabilito le loro responsabilità. Essi lamentavano, inoltre, che il procedimento fiscale non si era concluso entro un termine ragionevole e che erano stati privati del diritto alla presunzione di innocenza fino alla prova della loro colpevolezza secondo la legge.

La Corte ha ritenuto che il carattere generale delle disposizioni giuridiche sulle soprattasse e la finalità delle sanzioni, che erano al tempo stesso dissuasive e punitive, dimostravano che, ai fini dell’articolo 6 (diritto a un equo processo) della Convenzione, i ricorrenti erano stati accusati di un illecito con natura sostanzialmente penale. Il carattere penale dell’illecito era stato ulteriormente evidenziato dalla severità della sanzione potenziale ed effettiva. La Corte ha quindi ritenuto che vi fosse stata violazione dell’articolo 6, § 1 della Convenzione, relativo al diritto di accesso al tribunale dei ricorrenti. 

Rilevando, nel primo caso, che erano state adottate misure esecutive contro il ricorrente e che la sospensione dell’esecuzione era stata rifiutata, la Corte ha concluso che le decisioni dell’a.f. relative a tasse e soprattasse avevano avuto gravi implicazioni per il ricorrente, comportavano conseguenze suscettibili di diventare più gravi man mano che il procedimento procedeva e sarebbero state difficili da valutare e riparare riuscendo egli a far sì che le decisioni fossero annullate. Era quindi indispensabile, per avere un effettivo accesso ai tribunali, che le procedure avviate fossero condotte tempestivamente. 

La Corte ha ritenuto che, impiegando quasi tre anni per decidere sulle richieste del ricorrente di riesame degli accertamenti, l’autorità fiscale non aveva agito con l’urgenza richiesta dalle circostanze del caso e quindi aveva indebitamente ritardato una decisione del tribunale sulle principali questioni riguardanti l’imposizione di tasse aggiuntive e soprattasse. 

Nel secondo caso, la Corte ha ritenuto che l’autorità fiscale e il tribunale amministrativo della contea non avevano agito con l’urgenza richiesta dalle circostanze dei casi e, quindi, avevano indebitamente ritardato le decisioni del tribunale sulle principali questioni riguardanti l’imposizione di tasse aggiuntive e soprattasse fiscali. In entrambi i casi, la Corte ha inoltre ritenuto che vi fosse stata violazione dell’art. 6, § 1, a causa della durata del procedimento. Infine, in entrambi i casi la Corte ha valutato che non vi era stata violazione dell’art. 6, § 2 (diritto a un giusto processo – presunzione di innocenza) della Convenzione. 

 

8. L’impugnazione immediata di atti istruttori

Va evidenziata la mancanza, nell’ordinamento italiano, di forme di tutela immediata contro le violazioni delle norme relative alla formazione della prova rilevante in sede tributaria. Infatti, il contribuente che si trovi a subire un’attività istruttoria illegittima da parte dell’a.f. non ha a disposizione, nell’immediato, alcuno strumento di difesa (vds., in tema, Cass., sez. unite, 16 marzo 2009, n. 6315).

La problematica trova le sue radici nell’art. 19 d.lgs n. 546/1992, che, nell’annoverare gli atti impugnabili davanti al giudice tributario, non cita gli atti istruttori. Si delinea così per il contribuente solo quella che viene definita “tutela differita”.

In presenza di un’istruttoria illegittima, si ha un’unica possibilità: impugnare il successivo atto di accertamento. Solo ove il procedimento di verifica non si sia concluso con l’emanazione di un atto impositivo – o se tale atto non è stato impugnato – l’illegittimità dell’atto prodromico sarà impugnabile davanti al giudice ordinario, in quanto lesiva del diritto soggettivo del contribuente a non subire verifiche fiscali al di fuori dei casi previsti dalla legge (Cass., sez. unite, 2 maggio 2016, n. 8587).

In presenza di accertamento, l’impugnazione dello stesso per vizi della perquisizione prodromica è doppiamente condizionata: da un lato, invero, l’avviso deve essere effettivamente emanato al contribuente leso (eventualità non scontata: si ponga il caso che da indagini illegittime non derivi alcuna contestazione o, diversamente, che l’avviso scaturito da indagini illegittime riguardi un soggetto diverso da quello concretamente leso); dall’altro, l’avviso deve essere fondato sugli elementi probatori acquisti con le modalità illegittime contestate; il vizio, infatti, secondo la teoria che prevale in giurisprudenza, è di inutilizzabilità dell’atto viziato e non di invalidità derivata dell’atto di accertamento, il quale ben può sopravvivere se fondato su altri elementi diversi da quello viziato.

 

9. La rilevanza del processo penale

L’art. 21 della legge n. 4/1929 stabiliva il principio della “pregiudiziale tributaria”, sancendo la subordinazione del procedimento penale alla definitività dell’avviso di accertamento e, quindi, al giudicato formatosi all’esito del giudizio tributario, prevedendo che, per i reati previsti dalle legge sui tributi diretti, l’azione penale ha corso dopo che l’accertamento dell’ imposta e della relativa sovraimposta sia divenuto definitivo a norma delle leggi regolanti tale materia. L’art. 12 della legge n. 516/1982 (cd. “manette agli evasori”) rovesciò interamente la precedente gerarchia fra le giurisdizioni, cancellando la pregiudiziale tributaria e introducendo il principio secondo il quale l’azione penale poteva essere iniziata senza attendere l’esito finale del contenzioso tributario, il quale pure poteva liberamente proseguire senza dover essere sospeso a causa della pendenza del procedimento penale, in deroga all’art. 3 cpp. L’art. 20 d.lgs n. 74/2000 ha rafforzato il sistema del doppio binario con la completa autonomia dei due giudizi, nei quali il giudice penale e il giudice tributario sono chiamati all’accertamento del medesimo fatto, potendo conseguentemente addivenire a conclusioni differenti e finanche del tutto contrastanti: la norma prevede che «il procedimento amministrativo di accertamento ed il processo tributario non possono essere sospesi per la pendenza del procedimento penale avente ad oggetto i medesimi fatti o fatti dal cui accertamento comunque dipende la relativa definizione» (e specularmente accade per quello penale in relazione a quello tributario, ex artt. 3 e 479 cpp).

Oggi, dunque, vi è una reciproca autonomia del procedimento penale per l’accertamento dei reati tributari rispetto al processo tributario e all’accertamento tributario (fatta esclusione della possibilità di trasmigrazione di atti istruttori e documenti dalla sede amministrativa a quella penale e viceversa, assicurata all’art. 23 del medesimo decreto), e il giudice tributario non deve né attendere, né tanto meno è vincolato a una pronunzia definitiva in sede penale e viceversa. 

Risulta peraltro evidente che avere escluso in modo esplicito la sospensione dell’accertamento tributario a causa della pendenza del processo penale significa aver disciplinato soltanto una delle possibili interferenze, ignorando le altre, tra le quali quelle in tema di prove e di partecipazione dei soggetti, nonché in relazione al regime d’antecedenza e sospensione dei procedimenti e all’efficacia da riconoscere al giudicato. Il legislatore appare totalmente indifferente all’eventualità, tutt’altro che remota e invero non trascurabile, del verificarsi di un conflitto tra i giudicati amministrativo e penale, tanto più a fronte della diversità delle regole che governano l’uno e l’altro processo in punto di formazione della prova: unica disciplina applicabile sarà, pertanto, quella generale prevista per i rapporti tra il processo penale e gli altri procedimenti civili o amministrativi indicata nel codice di rito. In particolare, l’art. 654 cpp prevede che nei confronti dell’imputato, della parte civile e del responsabile civile che si sia costituito o che sia intervenuto nel processo penale, la sentenza penale irrevocabile di condanna o di assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo, quando in questo si controverte intorno a un diritto o a un interesse legittimo il cui riconoscimento dipende dall’accertamento degli stessi fatti materiali che furono oggetto del giudizio penale, purché i fatti accertati siano stati ritenuti rilevanti ai fini della decisione penale e purché la legge civile non ponga limitazioni alla prova della posizione soggettiva controversa (situazione, quest’ultima, che probabilmente può dirsi ormai definitivamente superata nel processo tributario all’esito della riforma e dell’ammissione delle prove testimoniali). 

La Corte Edu ha esaminato problematiche rilevanti per i detti profili nel caso Melo Tadeu c. Portogallo, del 23 ottobre 2014, ove si trattava di un procedimento di esecuzione forzata avviato nei confronti della ricorrente per riscuotere un debito fiscale nei confronti di una società di cui lei era considerata amministratore di fatto, procedimento che era proseguito nonostante la sua assoluzione in un procedimento penale per frode fiscale ed era sfociato nel pignoramento di una partecipazione azionaria da lei detenuta in un’altra società. La ricorrente lamentava di essere stata trattata, nell’ambito di un procedimento di esecuzione fiscale, come colpevole di un reato per il quale era stata assolta e aveva dedotto che il sequestro della sua partecipazione nell’altra società costituiva un’ingiustificata interferenza con il suo diritto al tranquillo godimento dei suoi beni. La Corte ha ritenuto che vi era stata violazione dell’art. 6, § 2 (diritto a un giusto processo – presunzione di innocenza) della Convenzione, in quanto l’a.f. e i tribunali amministrativi investiti del caso avevano ignorato l’assoluzione della ricorrente nel procedimento penale, in modo incompatibile con il suo diritto alla presunzione di innocenza. La Corte ha, inoltre, ritenuto che vi era stata violazione dell’art. 1 (tutela della proprietà) del Protocollo n. 1, affermando che, rifiutandosi di liberare dal pignoramento gli interessi della ricorrente in un’altra società, nonostante la sua assoluzione nel procedimento penale, le autorità portoghesi non erano riuscite a trovare un giusto equilibrio tra la tutela del diritto della ricorrente al godimento dei suoi beni e le esigenze di interesse generale.

 

10. Il divieto di bis in idem

Il diritto a non essere processato o punito due volte è previsto dall’articolo 4 del Protocollo n. 7, che prevede che «Nessuno può essere perseguito e condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale sia già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva, conformemente alla legge e alla procedura penale di tale Stato»[4]

Difficoltà non lievi sorgono in relazione alla precisazione del campo di applicazione della norma, tanto più che, così come le nozioni di “diritti e doveri di carattere civile”, anche la “materia penale” costituisce una nozione autonoma, che la Corte europea precisa secondo le sue valutazioni, che prescindono dalle qualificazioni giuridiche date dai singoli ordinamenti nazionali.

I principi generali per la qualificazione come “penale” della rilevanza penale di un fatto sono fissati nella sentenza Engel e al. c. Paesi Bassi (8 giugno 1976), nella quale la Corte ha stabilito i seguenti criteri :

- la qualificazione giuridica della misura da parte del diritto interno;

- la natura stessa di quest’ultima;

- la natura e il grado di severità della sanzione (da valutare prendendo in considerazione il massimo previsto per legge e non la sanzione effettivamente comminata).

Tali criteri non sono cumulativi ma alternativi, essendo sufficiente la presenza di uno solo dei tre per definire come “penale” l’illecito in questione (Jussila c. Finlandia [GC], cit.). Tuttavia, è possibile adottare un approccio cumulativo qualora l’analisi separata dei criteri non permetta di giungere a una conclusione chiara in merito all’esistenza di un’accusa in materia penale (ivi; vds. anche Bendenoun c. Francia, 24 febbraio 1994).

Nel leading case Jussila c. Finlandia, la Grande Camera ha trasposto tali principi al contenzioso fiscale. La Grande Camera ha sottolineato, in particolare, come la lieve entità della sanzione (terzo criterio) non costituisca di per sé un elemento atto a privare la misura del carattere penale, qualora sia evidente il suo carattere deterrente e repressivo (secondo criterio). In particolare, la Corte si era posta il problema delle maggiorazioni d’imposta in materia di IVA: poiché esse perseguono uno scopo deterrente e retributivo, diventa irrilevante la modicità della somma richiesta (in quel caso, la somma richiesta era di circa 300 euro). Tale approccio è stato confermato dalla giurisprudenza successiva, dove le sanzioni comminate erano ancora più lievi. Si pensi, ad esempio, al caso Cecchetti c. San Marino (n. 40174/2008, 9 aprile 2013) nel quale la Corte ha ritenuto applicabile l’art. 6 nel suo aspetto penale in relazione a una condanna al pagamento della porzione di tassa non pagata, pari ad euro 13,91 , e della relativa sanzione, che ammontava a 3,48 euro.

La Grande Camera ha quindi ritenuto che le maggiorazioni di imposta o, più in generale, le sanzioni fiscali non debbano essere escluse dal campo di applicazione dell’art. 6. Infatti, secondo la Corte, benché non ci siano dubbi sulla necessità di possedere un efficiente sistema di imposizione fiscale al fine di garantire un effettivo funzionamento dello Stato, la rimozione delle salvaguardie procedurali rispetto a sanzioni fiscali di natura sostanzialmente penale non è necessaria al fine di garantire l’effettività del sistema fiscale o, in ogni caso, non è conforme allo spirito e allo scopo della Convenzione (Cecchetti c. San Marino, cit.).

Inoltre, affinché l’articolo 6 trovi applicazione, non è necessario che una sanzione o una maggiorazione siano state effettivamente inflitte; è sufficiente che la procedura finalizzata alla determinazione delle somme da pagare a titolo di imposta possa dare luogo, anche solo potenzialmente, a tale sanzione, e ciò anche qualora quest’ultima non sia concretamente applicata nel caso concreto (Chambaz c. Svizzera, cit., § 40).

La Corte ha ritenuto che l’applicazione esclusivamente degli interessi di mora e non, invece, di una maggiorazione non comporta l’applicazione dell’art. 6. La ratio, secondo la Corte, risiede principalmente nel carattere non punitivo della misura, che si rifletterebbe, tra l’altro, nella diversa entità della somma da pagare e nel fatto che la condanna al pagamento dei soli interessi di mora rivelerebbe la buona fede dell’interessato («A cet égard, la Cour rappelle que de simples intérêts de retard, qui impliquent que la bonne foi du contribuable est admise, ne constituent pas une accusation en matière pénale au sens de l’article 6 § 1», Poniatowski c. Francia, dec. n. 29494/2008, 6 ottobre 2009, e - più risalente - J.B. c. Francia, dec. n. 33634/1996, 14 settembre 1999). Tuttavia, la Corte svolge sempre una valutazione in concreto. Per questo motivo, anche qualora gli interessi al cui pagamento la persona è stata condannata costituiscano formalmente una diversa categoria rispetto agli interessi di mora e presuppongano la commissione di un reato, questi possono comunque essere considerati di natura non penale se, alla luce degli elementi della fattispecie concreta, svolgono una funzione meramente risarcitoria e non anche deterrente o retributiva (Mayer c. Germania, dec. n. 77792/2001, 16 marzo 2006).

La giurisprudenza pretoria della Corte di Strasburgo tende ad estendere, come detto, l’applicabilità delle garanzie di matrice penale anche a fattispecie sanzionatorie amministrative, non reputando decisiva la definizione di illecito, penale o amministrativo, attribuita dal singolo ordinamento.

L’equiparazione della sanzione amministrativa a quella penale, enunciata dalla Corte Edu con riferimento a fattispecie concrete, rileva per una pluralità di profili: la riserva assoluta di legge per le norme penali (art. 25 Cost.) potrebbe comportare l’illegittimità di ogni sanzione afflittiva di matrice regolamentare; la presunzione di non colpevolezza (pure affermata in Corte Edu, Grayson e Barnham c. Regno Unito, 23 settembre 2008) potrebbe rendere illegittima la provvisoria esecutività di condanne pecuniarie, normale in materia extrapenale. Soprattutto, l’assimilazione quoad effectum delle fattispecie punitive comporterebbe, di necessità, il divieto di retroattività della sanzione amministrativa, da un lato; dall’altro, l’opposta retroattività della lex mitior (patrocinata da parte della dottrina), a somiglianza dell’abolitio criminis o dell’attenuazione della pena in senso stretto (art. 2, commi 2 e 3, cp). 

L’affermazione del divieto di bis in idem, unitamente alla considerazione autonoma del carattere penale di una sanzione, può comportare rilevanti problemi in considerazione del sistema del cd. “doppio binario” previsto in varie materie: le condotte possono essere punite sia con sanzione penale, sia con sanzione amministrativa. Il divieto di concorso reale di sanzioni produrrebbe, infatti, effetti processuali inammissibili nel nostro ordinamento: l’eventuale irrogazione di una sanzione amministrativa dovrebbe precludere l’esercizio successivo dell’azione penale per un fatto da considerarsi identico secondo il metro di giudizio della Corte europea, sebbene esso sia prescritto come obbligatorio da norma di rango costituzionale (art. 112 Cost.): così da porre un problema di controlimiti all’eventuale equiparazione, a tutti gli effetti, tra illecito penale e amministrativo con identità di oggetto.

È rimasto famoso il caso Grande Stevens e al. c. Italia (Corte Edu, sez. II, n. 18640/2010, 4 marzo 2014), ove il divieto di bis in idem è stato declinato addirittura in chiave processuale, culminando nell’ordine giudiziale, reso dalla sentenza della Corte, di chiudere il procedimento penale avviato per il fatto già sanzionato in sede amministrativa. 

In quella circostanza, la Corte di Strasburgo aveva affermato a chiare lettere, e fugando ogni possibile dubbio, che la garanzia sancita dall’art. 4 Protocollo n. 7 «entra in gioco quando viene avviato un nuovo procedimento e la precedente decisione di assoluzione o di condanna è già passata in giudicato» e che, pertanto, essa fosse baluardo «contro nuove azioni penali o contro il rischio di tali azioni», a prescindere dal divieto di una seconda condanna o di una seconda assoluzione (Grande Stevens, § 220).

In Ruotsalainen c. Finlandia, 16 giugno 2009, il ricorrente utilizzava il suo furgone con carburante tassato in modo più indulgente rispetto al gasolio che avrebbe dovuto utilizzare, senza pagare l’imposta aggiuntiva. Gli è stata comminata una multa dell’equivalente di circa 120 euro per piccola frode fiscale, attraverso un provvedimento penale sommario. Nel successivo procedimento amministrativo, è stato condannato a pagare circa 15.000 euro, corrispondenti alla differenza tra l’imposta effettivamente pagata e quella che avrebbe dovuto pagare, moltiplicata per tre perché non aveva informato le autorità competenti. Ha presentato ricorso contro tale decisione, ma senza alcun risultato. Il ricorrente lamentava di essere stato punito due volte per lo stesso reato fiscale sul carburante degli autoveicoli.

La Corte ha ritenuto che si trattasse di una violazione dell’art. 4 (diritto a non essere processato o punito due volte) del Protocollo n. 7 della Convenzione. In primo luogo, ha osservato che entrambe le sanzioni imposte avevano carattere penale: la prima serie di procedimenti era penale secondo la classificazione giuridica finlandese, e il successivo procedimento, pur inquadrato nell’ambito del regime fiscale e quindi amministrativo, non poteva considerarsi meramente risarcitorio, visto che la differenza di carico tributario era stata triplicata come mezzo di punizione e deterrenza alla recidiva, caratteristica di una sanzione penale. Inoltre, i fatti alla base dei due procedimenti contro il ricorrente erano sostanzialmente gli stessi: entrambi riguardavano l’uso di carburante tassato in modo più indulgente rispetto al gasolio. L’unica differenza era stata la nozione di dolo nel primo procedimento. In sintesi, la seconda sanzione sarebbe nata dagli stessi fatti della prima e vi sarebbe stata quindi una duplicazione di procedimenti. Né il secondo procedimento conteneva eccezioni, quali nuove prove o fatti, o un vizio fondamentale del procedimento precedente, che avrebbero potuto influenzare l’esito della causa, come previsto dal secondo comma dell’articolo 4 del Protocollo n. 7.

In Lucky Dev c. Svezia, 27 novembre 2014, le autorità fiscali svedesi avviarono un procedimento contro la ricorrente riguardo alle sue dichiarazioni dei redditi e dell’IVA per il 2002, e le ordinarono di pagare imposte aggiuntive e soprattasse. La ricorrente ha impugnato tale ordinanza dinanzi al giudice. È stata inoltre perseguita per reati contabili e fiscali derivanti dalla stessa dichiarazione dei redditi. Sebbene sia stata condannata per reati contabili, è stata assolta dal reato fiscale. Il procedimento fiscale è continuato per altri nove mesi e mezzo dopo la data in cui la sua assoluzione è diventata definitiva. La ricorrente lamentava che, essendo stata perseguita e condannata a pagare soprattasse fiscali per gli stessi fatti, era stata processata e punita due volte per lo stesso reato.

Nel merito della causa, la Corte ha ritenuto che vi era stata violazione dell’art. 4 (diritto a non essere processato o punito due volte) del Protocollo n. 7, ritenendo che la ricorrente fosse stata nuovamente processata per un reato fiscale per il quale era già stata definitivamente assolta, poiché il procedimento fiscale contro di lei non era stato chiuso e le soprattasse non annullate, anche quando il procedimento penale contro di lei per un reato fiscale correlato era diventato definitivo.

La giurisprudenza è, però, significativamente mutata all’esito della decisione A. e B. c. Norvegia (Grande Camera, nn. 24130 e 29758/2011), 15 novembre 2016.

Il caso riguardava due contribuenti che sostenevano di essere stati perseguiti e puniti due volte – in procedimenti amministrativi e penali – per lo stesso reato. I ricorrenti hanno affermato, più in particolare, di essere stati sentiti dal pubblico ministero come imputati e poi incriminati, di aver ricevuto sanzioni fiscali da parte dell’amministrazione finanziaria, che avevano pagato, e di essere stati successivamente giudicati colpevoli e condannati in un procedimento penale.

La Grande Camera ha ritenuto che non vi era stata violazione dell’art. 4 (diritto a non essere processato o punito due volte) del Protocollo n. 7. Essa ha, anzitutto, osservato di non avere motivo di mettere in dubbio le ragioni per cui il legislatore norvegese aveva scelto di disciplinare il comportamento socialmente dannoso del mancato pagamento delle imposte mediante un doppio processo integrato (amministrativo/penale). Né metteva in discussione le ragioni per cui le autorità norvegesi avevano scelto di trattare separatamente l’aspetto più grave e socialmente riprovevole della frode nell’ambito di un procedimento penale piuttosto che in un procedimento amministrativo ordinario. La Corte ha poi ritenuto che lo svolgimento di un doppio procedimento, con la possibilità di una combinazione di sanzioni diverse, era prevedibile per i ricorrenti, i quali dovevano sapere fin dall’inizio che era possibile, o addirittura probabile, un procedimento penale nonché l’irrogazione di sanzioni tributarie sui fatti dei loro casi. La Grande Camera ha, inoltre, osservato che il procedimento amministrativo e quello penale si erano svolti parallelamente ed erano interconnessi. I fatti accertati in uno dei gradi di giudizio erano stati dedotti nell’altro e, quanto alla proporzionalità della pena complessiva, la sentenza inflitta nel processo penale aveva tenuto conto della sanzione tributaria. La Grande Camera era quindi convinta che, sebbene sanzioni diverse fossero state irrogate da due autorità diverse nell’ambito di procedimenti diversi, esistesse tuttavia tra loro un nesso sufficientemente stretto, sia nella sostanza che nel tempo, da poter essere considerate come costituenti parte di un sistema complessivo di sanzioni ai sensi della legge norvegese.

Il cambio di prospettiva è notevole: mentre in forza della precedente giurisprudenza Cedu il ne bis in idem ruotava essenzialmente intorno a una (automatica) preclusione di tipo processuale (divieto di duplicazione dei procedimenti per il medesimo fatto, ancorché diversamente qualificato), dopo A e B c. Norvegia il divieto parrebbe operare prevalentemente (se non esclusivamente) sul piano sostanziale: finalizzato, cioè, ad assicurare la complessiva proporzionalità delle diverse sanzioni inflitte nei procedimenti duplicati (“tollerati”, a differenza del passato) e divenendo così, alla fine, metro dell’entità della sanzione “integrata” complessivamente irrogata. 

In Johannesson e al. c. Islanda, 18 maggio 2017, i ricorrenti, due persone fisiche e una società, lamentavano di essere stati processati due volte per la stessa condotta, consistente nel non aver reso dichiarazioni accurate ai fini dell’accertamento fiscale. In una fattispecie di reati fiscali per omissioni nella denuncia dei redditi, relativamente a entrate derivanti da pagamenti di prestazioni, fringe benefits, plusvalenze e altre fonti di reddito non emerse nelle relative dichiarazioni, i ricorrenti erano stati sottoposti dapprima a un procedimento di accertamento dell’illecito tributario con applicazione di una sovrattassa (calcolata nell’importo del 25% dell’imposta evasa) e, quindi, del procedimento penale (relativo alla medesima violazione). La Corte ha ritenuto che vi era stata violazione dell’art. 4 (diritto a non essere processati o puniti due volte) del Prot. n. 7 nei confronti dei due singoli ricorrenti, ritenendo che fossero stati processati e puniti due volte per la stessa condotta. In particolare, ciò è dovuto al fatto che i due procedimenti avevano entrambi natura “penale”, si basavano sostanzialmente sugli stessi fatti e non erano stati sufficientemente interconnessi per poter ritenere che le autorità avessero evitato una duplicazione dei procedimenti. Sebbene l’art. 4 Prot. n. 7 non escluda lo svolgimento di procedimenti amministrativi e penali paralleli in relazione alla stessa condotta illecita, i due procedimenti devono avere un collegamento sostanziale e temporale sufficientemente stretto da evitare duplicazioni. La Corte ha ritenuto che, nel caso di specie, non vi fosse stato un collegamento sufficientemente stretto tra i procedimenti. In quel caso, la Suprema corte islandese aveva dedotto dalla pena comminata nel procedimento penale la sovrattassa formalmente amministrativa irrogata in precedenza; ma i giudici di Strasburgo hanno, nondimeno, ritenuto la violazione “processuale” del divieto, per la prosecuzione di uno dei procedimenti (in questo caso, quello penale) dopo la definizione irrevocabile del primo (duplication of proceedings) e per l’assenza di stretta connessione degli stessi, tale da determinare una indebita duplicazione probatoria.

La Corte Edu è tornata sull’argomento di recente nella sentenza della II sezione, 14 novembre 2023, C.Y. c. Belgio, n. 19961/2017. Il caso riguardava un’infermiera accusata di aver addebitato al regime di assicurazione obbligatoria delle assicurazioni sanitarie e previdenziali prestazioni non pagate ovvero non conformi ai requisiti di legge: il relativo procedimento penale (per falso, uso di atto falso e frode) si concludeva con la condanna, sospesa, a un anno di reclusione e multa di 550 euro, con riserva sulle statuizioni civili; in appello, nel 2015, la ricorrente veniva assolta per mancanza di prova dell’intento fraudolento. Parallelamente alla denuncia penale, il Servizio di valutazione e controllo medico si rivolgeva alla “Camera di prima istanza” per ottenere il rimborso dell’indebito e l’irrogazione delle sanzioni amministrative. In primo grado, la ricorrente veniva condannata al rimborso dell’indebito (124.902,23 euro) e al pagamento delle sanzioni amministrative (243.850,40 e 4.465,54 euro). In appello, dopo la sospensione in attesa del procedimento penale, i giudici rigettavano l’eccezione di ne bis in idem rilevando la diversità dei fatti contestati nei due procedimenti (falso e frode nel procedimento penale, mera difformità delle fatturazioni nel procedimento amministrativo) e confermavano la condanna della ricorrente. La sentenza era confermata in ultima istanza. Adita dal privato per asserita violazione del principio di ne bis in idem ai sensi dell’art. 4 Prot. 7, la Corte ha respinto il ricorso, escludendo la violazione e confermando i criteri della propria precedente giurisprudenza (e, in particolare, quelli scolpiti in A e B c. Norvegia, §§ 130-134). 

In particolare, la Corte ricorda che, sebbene la disposizione sia intesa a prevenire l’ingiustizia che rappresenterebbe per una persona l’essere perseguita o punita due volte per la stessa condotta criminosa, essa non vieta tuttavia ordinamenti giuridici che trattano il danno lesivo alla società in questione in modo “integrato”, in particolare attraverso una repressione in fasi parallele, attuate da autorità diverse e per scopi diversi («les systèmes juridiques qui traitent de manière “intégrée” le méfait néfaste pour la société en question, notamment en réprimant celui-ci dans le cadre de phases parallèles, menées par des autorités différentes et à des fins différentes»). In un simile scenario, lo Stato convenuto deve dimostrare in modo conclusivo che le procedure miste in questione fossero accomunate da un «nesso materiale e temporale sufficientemente stretto». In altre parole, bisogna dimostrare che questi sono stati combinati in modo tale da integrarsi in un insieme coerente. Ciò significa non solo che gli scopi perseguiti e i mezzi utilizzati per conseguirli devono essere sostanzialmente complementari e presentare un nesso temporale, ma anche che le possibili conseguenze derivanti da una siffatta organizzazione del trattamento giuridico della condotta in questione devono essere proporzionate e prevedibili per la parte in causa. 

Gli elementi rilevanti per pronunciarsi sull’esistenza di un legame sufficientemente stretto dal punto di vista materiale sono, in particolare, i seguenti:

- la questione se i diversi procedimenti mirino a finalità complementari e riguardino quindi, non solo in astratto ma anche in concreto, aspetti diversi dell’atto dannoso per la società interessata;

- se il mix di procedure in questione sia conseguenza prevedibile, sia in diritto che in fatto, dello stesso comportamento represso;

- se le procedure in questione siano state condotte in modo da evitare, per quanto possibile, qualsiasi ripetizione nella raccolta e nella valutazione delle prove, in particolare attraverso un’adeguata interazione tra le diverse autorità competenti, facendo apparire che l’accertamento dei fatti effettuato in una delle procedure è stata ripetuta nell’altra;

- e, soprattutto, la questione se la sanzione irrogata al termine del procedimento terminato per primo sia stata presa in considerazione nel procedimento conclusosi per ultimo, per non finire per gravare eccessivamente sull’interessato, essendo il rischio che ciò accada meno probabile se esiste un meccanismo compensativo volto a garantire che l’importo complessivo di tutte le condanne inflitte sia proporzionato.

Nella sentenza, la Corte specifica l’importanza di verificare i caratteri del procedimento amministrativo di natura “penale” (§ 58): quanto più il procedimento amministrativo presenta caratteristiche “infamanti” che lo avvicinano in larga misura a un procedimento penale ordinario, tanto più le finalità sociali perseguite dalla sanzione delle condotte illecite nei diversi procedimenti rischiano di ripetersi (“bis”) invece di integrarsi l’una con l’altra. 

Infine, specifica la Corte al § 59, la condizione del collegamento temporale non richiede necessariamente che i due procedimenti siano eseguiti simultaneamente dall’inizio alla fine. Lo Stato deve avere la possibilità di optare per lo svolgimento graduale del procedimento se tale processo è giustificato da una preoccupazione di efficienza e di buona amministrazione della giustizia, persegue finalità sociali diverse e non arreca un danno sproporzionato all’interessato. Tuttavia, deve sempre sussistere un nesso temporale sufficientemente stretto affinché il contendente non sia soggetto a incertezze e ritardi, e affinché i procedimenti non si estendano troppo a lungo, anche nell’ipotesi in cui la normativa nazionale di riferimento preveda un meccanismo “integrato” costituito da una separata componente amministrativa e da una componente penale. Quanto più labile è il nesso temporale, tanto più lo Stato dovrà spiegare e giustificare i ritardi di cui potrebbe essere responsabile nello svolgimento dei procedimenti.

La Cassazione ha dato (parziale) attuazione ai detti principi nella sua giurisprudenza. In tema, nella giurisprudenza nazionale tributaria di legittimità, Cass., sez. V, ord. n. 9076 del 1° aprile 2021 (Rv. 661211 - 03) ha affermato che, in tema di rapporti tra la sanzione penale e sanzione tributaria, il divieto di bis in idem postula l’applicazione alla medesima condotta di sanzioni penali e amministrative o tributarie; pertanto, anche alla luce delle precisazioni fornite dalla Corte Edu nella sentenza del 15 novembre 2016 (ricc. nn. 24130 e 29758/2011) A. e B. c. Norvegia, detto divieto non è violato qualora un soggetto sia sanzionato in sede penale e tributaria in relazione a condotte diverse e lesive di interessi diversi (nella specie, la Suprema corte ha espresso il principio in giudizio in cui, al soggetto sanzionato penalmente per aver esercitato abusivamente la professione di odontoiatra, è stata contestata anche una condotta fraudolenta diretta a evadere gli obblighi tributari).

La sentenza ha opportunamente precisato, richiamando Cass., sez. V, sent. n. 24470 del 5 ottobre 2018, che il divieto di bis in idem non opera rispetto agli atti impositivi in quanto postula, anche in virtù dei principi enunciati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e dalla Corte costituzionale, che un soggetto sia stato sottoposto a processo penale e che, per conseguire effetti deterrenti, gli sia stata irrogata un’ulteriore misura, finalizzata alla punizione del medesimo fatto, che, al di là dalla qualificazione giuridica operata dalla legislazione nazionale, sia da ritenere di natura penale per la gravità delle conseguenze da essa derivanti: detti caratteri non sono ascrivibili alla pretesa impositiva, atteso che con la stessa l’a.f. si limita a recuperare l’imposta non versata; invero, presupposto di base per l’applicazione dei principi richiamati dal ricorrente e delle disposizioni sovranazionali invocate è quello della applicazione alla medesima condotta di sanzioni penali e amministrative o tributarie.

Riguardo alle sanzioni, può accadere che i due procedimenti (quello penale e quello tributario) perseguano finalità diverse nella politica dello Stato diretta a reprimere condotte non consentite; in tal caso, la sentenza A e B ha precisato che il principio del ne bis in idem sancito dall’art. 4 Prot. 7 non impedisce, di per sé, agli Stati contraenti di configurare un “doppio binario sanzionatorio” (amministrativo e penale) con riferimento agli illeciti fiscali: «the object of Article 4 of Protocol No. 7 is to prevent the injustice of a person’s being prosecuted or punished twice for the same criminalised conduct. It does not, however, outlaw legal systems which take an “integrated” approach to the social wrongdoing in question, and in particular an approach involving parallel stages of legal response to the wrongdoing by different authorities and for different purposes» (§ 123: «l’art. 4 Prot. n. 7 ha lo scopo di prevenire l’ingiustizia che una persona sia perseguita o punita due volte per la stessa condotta penalmente rilevante. Esso non vieta, tuttava, i sistemi giuridici che adottano un approccio “integrato” all’illecito sociale in questione, e in particolare un approccio che prevede fasi parallele di risposta giuridica all’illecito da parte di autorità diverse e per scopi diversi»). Nondimeno, come emerge dal corpo della motivazione, tale “doppio binario sanzionatorio” deve essere valutato alla luce dei criteri elaborati dalla giurisprudenza della Corte (in particolare, nei casi R.T. c. Svizzera, Nilsson c. Svezia e Nyknen c. Finlandia), che costituiscono una guida «for situating the fair balance to be struck between duly safeguarding the interests of the individual protected by the ne bis in idem principle, on the one hand, and accommodating the particular interest of the community in being able to take a calibrated regulatory approach in the area concerned, on the other» (§ 124: «per individuare il giusto equilibrio da raggiungere tra la debita salvaguardia degli interessi dell’individuo tutelati dal principio del ne bis in idem, da un lato, e dall’altro la soddisfazione dell’interesse particolare della collettività ad adottare un approccio normativo calibrato nel settore interessato»). In particolare, a giudizio della Corte, al fine di escludere la violazione del ne bis in idem occorre verificare se i due procedimenti – quello amministrativo e quello penale – siano «sufficientemente connessi nella sostanza e nel tempo» («sufficiently connected in substance and in time», § 131). A tal proposito, la pronuncia nazionale italiana fornisce un elenco esemplificativo di criteri, tra i quali quello degli scopi in concreto perseguiti dai due procedimenti, della prevedibilità dello sdoppiamento delle procedure, della presenza di meccanismi di coordinamento procedurale e sostanziale tra le autorità intervenienti (§ 132). Quanto a tale ultimo, fondamentale aspetto, la Corte sottolinea la necessità che sul piano procedurale si eviti una duplicazione nella raccolta e nella valutazione delle prove e che, sul piano sostanziale, la sanzione imposta dal primo giudice sia presa in debita considerazione dal secondo giudice, «so as to prevent that the individual concerned is in the end made to bear an excessive burden, this latter risk being least likely to be present where there is in place an offsetting mechanism designed to ensure that the overall amount of any penalties imposed is proportionate» (§ 132: «in modo da prevenire che l’individuo interessato sia infine costretto a sopportare un onere eccessivo, rischio quest’ultimo che è meno probabile qualora sussista un meccanismo di compensazione destinato a garantire che l’importo globale delle sanzioni imposte sia proporzionato»).

In parte diverso, invece, il principio affermato da sez. V, sent. n. 37366 del 30 novembre 2021 (Rv. 663144 - 01), secondo la quale, in tema di violazioni tributarie, il dd.lgss nn. 471 e 472/1997 qualificano le relative sanzioni “di natura amministrativa”, considerato che esse hanno ad oggetto una obbligazione di carattere civile, che spiega efficacia sul patrimonio del trasgressore obbligandolo al pagamento di una somma di denaro. Non può, infatti, fondarsi l’eventuale natura penale di tali sanzioni in ragione dell’entità delle stesse in concreto irrogata, assumendo all’uopo rilievo, secondo la giurisprudenza della Corte Edu, il massimo edittale applicabile a priori e la funzione afflittiva e deterrente della sanzione rispetto a quella compensativa del danno erariale. Non è, poi, possibile dedurre dall’art. 4 Prot. n. 7 Cedu un divieto assoluto per gli Stati di imporre una sanzione amministrativa, ancorché qualificabile come «sostanzialmente penale», per quei fatti di evasione fiscale in cui è possibile, altresì, perseguire e condannare penalmente il soggetto, in relazione a un elemento ulteriore rispetto al mero mancato pagamento del tributo, come una condotta fraudolenta, alla quale non potrebbe dare risposta sanzionatoria adeguata la mera procedura amministrativa (nella specie, la Suprema corte ha ritenuto infondata la censura circa la natura penale delle sanzioni irrogate a una società per l’utilizzo di fatture soggettivamente inesistenti dedotta in ragione dell’entità della sanzione conseguente al cumulo giuridico derivante da una pluralità di violazioni, peraltro non analiticamente indicate nel ricorso).

 

 

1. Per un esame delle principali pronunce in materia tributaria da parte della Corte Edu, si fa rinvio ad Aa.Vv., Il nostro sistema tributario all’esame della Cedu. Le questioni ancora aperte (collana diretta da F. Buffa, “Il diritto in Europa oggi”), atti del convegno organizzato presso la Corte di cassazione dall’Ufficio dei referenti per la formazione decentrata della Scuola superiore della magistratura, Roma, 22 settembre 2015, Key, Milano, 2016, p. 113; F. Giuliani e G. Chiarizia, Diritto tributario, CEDU e diritti fondamentali dell’UE, Giuffrè, Milano, 2017; A.-M. Perrino e F.Buffa, Il diritto tributario europeo (collana “Il diritto in Europa oggi”), Key, Milano, 2017; A. Marcheselli, Il giusto processo tributario europeo. Efficienza e giustizia nel diritto finanziario d’Europa (collana “Il diritto in Europa oggi”), Key, Milano, 2016; A.F. Uricchio, CEDU e diritto tributario. Le garanzie del giusto processo, in Aa.Vv., Istanze costituzionali e sovranazionali nel diritto tributario (collana “Il diritto in Europa oggi”), Key, Milano, 2016.; F. Buffa, Le principali questioni in materia tributaria, in F. Buffa e M.G. Civinini (a cura di), La Corte di Strasburgo, Speciale di Questione giustizia, aprile 2019, pp. 522-528 (www.questionegiustizia.it/data/speciale/articoli/777/qg-speciale_2019-1_73.pdf), pubblicato anche da Key, Milano, 2019.

2. Per la letteratura sull’argomento in lingua straniera, V. Berger, Les évolutions récentes du droit fiscal et l’impact des règles européennes, intervento al seminario di formazione presso la Cour de Cassation, Parigi, 19 giugno 2009; G. Kofler - M. Poiares Maduro - P. Pistone (a cura di), Human Rights and Taxation in Europe and the World, IBFD, ottobre 2011. Vds. anche, sul sito della Corte, la fiche di giurisprudenza Taxation and the European Convention on Human Rights, settembre 2018 (www.echr.coe.int/Documents/FS_Taxation_ENG.pdf). 

3. S. Muleo, L’applicazione dell’art. 6 Cedu anche all’istruttoria tributaria a seguito della sentenza del 21 febbraio 2008 della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel caso Ravon e altri c. Francia e le ricadute sullo schema processuale vigente, in Riv. dir. trib., vol. IV, nn. 7-8/2008, p. 198.

4. R. Bernabai, Dialogo tra le corti e giurisprudenze a confronto sulla controversa natura delle sanzioni amministrative, e P. Gaeta, Appunti su ne bis in idem e sanzione autonoma, entrambi in F. Buffa e M.G. Civinini, La Corte, op. cit.