Magistratura democratica

I principi fondamentali a tutela del contribuente

di Francesco Viggiani

La legge delega n. 111/2023 e il d.lgs n. 220/2023 di riforma attuano il «giusto processo tributario», prevedendo nuove tutele a favore del contribuente. L’articolo propone un’analisi approfondita del sistema, soffermandosi anche sulla tutela in sede di esecuzione e sulla tutela cautelare.

1. Il giusto processo tributario / 2. La legge delega n. 111/2023 e il decreto legislativo n. 220/2023 di riforma del processo / 3. I “banchi di prova” della pienezza di tutela del contribuente / 3.1. La tutela in sede di esecuzione / 3.2. La tutela cautelare / 4. Conclusioni

 

1. Il giusto processo tributario

Pur non addentrandosi in tutti i passaggi storici che ne hanno caratterizzato il percorso evolutivo, si può rammentare, senza pretesa di esaustività, che le commissioni tributarie nacquero come appendice dell’attività impositiva, con caratteristiche quindi eminentemente amministrative[1]

Nella prima metà del secolo scorso, la dottrina più avanzata iniziò ad affermare la natura giurisdizionale delle commissioni[2], mentre la giurisprudenza costituzionale resto però per molto tempo ondivaga nella qualificazione delle stesse[3].

Fu solo con la grande riforma degli anni settanta del secolo scorso che si pervenne a una giurisdizionalizzazione[4] del processo tributario, poi compiuta con la riforma del 1992, allorquando si è introdotto il sintagma “giurisdizione tributaria”[5].

La giurisdizionalizzazione delle commissioni tributarie non ha, però, condotto a un immediato adeguamento delle norme processuali. 

Procedendo a grandi falcate, un ulteriore stimolo all’indagine sui principi di tutela nel processo tributario derivò, nel primo decennio del 2000, dalla riforma dell’art. 111 Cost., novella che condusse l’accademia a interrogarsi sul tema del “giusto processo tributario”[6].

Affermata, infatti, la giurisdizionalizzazione delle allora commissioni tributarie, non poteva più eludersi che i parametri con i quali misurare la pienezza della tutela offerta al contribuente dall’ordinamento fossero i principi cardine del diritto di azione dell’art. 24 Cost., del contraddittorio fra le parti, delle condizioni di parità, della terzietà del giudice, della motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, tutti esplicitati dal nuovo art. 111 Cost.[7]

A conforto delle tesi sulla ormai ineludibile necessità di garantire la parità delle parti, anche la giurisprudenza, sin dall’inizio degli anni duemila, ha iniziato ad affermare espressamente la vigenza, nel modello processuale tributario, dei principi costituzionali della parità delle parti nel processo[8], del giusto processo[9] e della effettività del diritto di difesa[10].

Affermata la validità, anche per il processo tributario, dei principi del giusto processo, si deve indagare in cosa questa possa consistere in concreto o, in altri termini, quali siano le conseguenze pratiche dell’affermazione del principio rispetto ai mezzi a disposizione delle parti in giudizio.

Prima però di passare alla disamina dei singoli istituti processuali, è opportuna una precisazione sistematica sulla portata di uno dei principi cardine del giusto processo, estremamente rilevante nel processo tributario: la parità delle parti.

È riduttivo confinare la parità delle parti a un principio meramente formalistico, traducendolo con la mera affermazione che alle parti debbano essere conferiti identici poteri formali. Nell’ottica costituzionale è, invece, opportuno verificare che gli strumenti dall’ordinamento processuale offerti impediscano, nella sostanza, che ad alcuna delle parti sia riconosciuta una posizione di prevalenza sostanziale[11].

Garantire l’effettività del principio di parità comporterebbe quindi che, a fronte di una diseguale posizione sostanziale tra le parti, sia opportuno ricercare un “riequilibrio” sul piano processuale.

Il diritto sostanziale tributario è caratterizzato da innumerevoli norme di squilibrio in favore dell’erario: basti pensare alla genetica esecutività degli atti impositivi, alle presunzioni che presidiano la formazione della pretesa impositiva, alle preclusioni processuali derivanti dalla mancata partecipazione all’attività amministrativa. 

In quest’ottica il processo tributario, per assolvere correttamente al principio di parità delle parti, dovrebbe consentire un riequilibrio del favor fisci sostanziale, non essendo sufficiente un’astratta equiparazione dei poteri processuali. 

 

2. La legge delega n. 111/2023 e il decreto legislativo n. 220/2023 di riforma del processo

Analizzando i principi di indirizzo offerti dalla legge delega, si può facilmente constatare come le linee-guida indicate non lascino trasparire la consapevolezza del legislatore di muoversi nell’ambito della giurisdizione.

Già sotto il profilo lessicale, infatti, l’art. 19 della delega detta i criteri direttivi per la revisione del “contenzioso tributario”, tornando quindi alla definizione antecedente alla riforma del 1992, utilizzando un’espressione antica che richiama la natura amministrativa delle commissioni, abbandonando così la pregnante definizione di “giurisdizione tributaria”.

Scorrendo poi gli indirizzi offerti al legislatore delegato, si può scorgere come dei principi derivanti dal giusto processo si faccia menzione solo alla lett. i dell’art. 19, laddove si prevede che «al fine di assicurare la parità delle parti e il diritto di difesa», venga istituita una banca dati della giurisprudenza tributaria gestita dal Ministero e accessibile a tutti i cittadini.

I principi del giusto processo, nel tenore letterale della delega, si esauriscono a questo.

Uscendo, però, dallo stretto ambito lessicale delle disposizioni, alcune delle modifiche dettate dalla delega toccano nervi scoperti del processo tributario, introducendo novità la cui rispondenza ai principi costituzionali merita di essere analizzata.

Così, la lett. c della delega indica al legislatore delegato di introdurre la possibilità di proporre opposizioni alle esecuzioni e agli atti esecutivi innanzi al giudice tributario e nelle forme del processo tributario laddove il contribuente assuma la omessa notifica dell’atto prodromico all’esecuzione.

Le lettere f e g incidevano sulla fase cautelare, indicando l’esigenza di accelerarne la trattazione e, soprattutto, di consentire uno strumento di impugnazione del provvedimento cautelare.

Tenendo fuori dall’analisi le questioni ordinamentali, i due aspetti della tutela del contribuente nella fase di esecuzione e della tutela cautelare sono i profili rispetto ai quali è facile verificare la rispondenza delle norme processual-tributarie a principi costituzionali in materia di giurisdizione.

 

3. I “banchi di prova” della pienezza di tutela del contribuente

 

3.1. La tutela in sede di esecuzione

Il primo banco di prova dell’adeguatezza degli strumenti di tutela offerti al contribuente è quindi costituito dalle garanzie offerte in sede di esecuzione.

Il raffronto della posizione e degli strumenti di cui gode il debitore esecutato rispetto a quanto l’ordinamento offre al contribuente sottoposto a riscossione coattiva, rende manifesto il dubbio di una non piena realizzazione della garanzia di effettività della tutela giurisdizionale del contribuente. 

L’art. 57 dPR n. 602/1973 ammette oggi la proposizione dell’opposizione all’esecuzione limitatamente alle questioni di pignorabilità dei beni, e l’opposizione agli atti esecutivi, a esclusione di quelli relative alla regolarità formale ed alla notificazione del titolo esecutivo. 

L’orientamento giurisprudenziale[12] tradizionale affermava graniticamente che il contribuente nei cui confronti fosse stato eseguito da parte dell’agente della riscossione un pignoramento mobiliare, immobiliare o presso terzi, fosse comunque legittimato a proporre opposizione agli atti esecutivi davanti al giudice ordinario nelle forme di cui all’art. 617 cpc, pur con le esclusioni dell’art. 57.

Tale orientamento pareva porsi in contrasto con altre pronunce che, al contrario, affermavano la legittimazione a proporre ricorso al giudice tributario, escludendo l’opposizione innanzi al giudice ordinario in quanto l’oggetto della stessa è limitato dalla legittimità del titolo e della sua notificazione[13].

A dirimere l’apparente contrasto intervennero due pronunce delle sezioni unite, la n. 13913 e la n. 13916, entrambe pubblicate il 5 giugno 2017, per affermare l’innovativo principio di diritto secondo il quale l’opposizione agli atti esecutivi riguardante l’atto di pignoramento, che si assume viziato per l’omessa o invalida notificazione della cartella di pagamento o degli atti presupposti del pignoramento, va proposta, ai sensi degli artt. 2, comma 1, secondo periodo, 19 d.lgs n. 546/1992, 57 dPR n. 602/1973 e 617 cpc, davanti al giudice tributario, del quale sussiste la giurisdizione, ove venga impugnata anche la prodromica cartella di pagamento per vizio di notifica.

A distanza di pochi mesi, la sezione VI si pronunciava, però, in senso diametralmente opposto. Con la sent. 7 settembre 2017, n. 20928, la Corte, argomentando che l’ammissibilità dell’opposizione agli atti esecutivi dipende dall’atto impugnato e non dal vizio dedotto, affermava che mentre il contribuente non può impugnare dinanzi al giudice ordinario la cartella di pagamento o l’avviso di mora, la cui cognizione è riservata al giudice tributario, può proporre opposizione avverso il pignoramento, oltre che per vizi suoi propri, anche per far valere la nullità derivata, conseguente all’omessa notificazione degli atti presupposti e, cioè, della cartella di pagamento o dell’intimazione ad adempiere.

Ancora dopo un mese intervenivano le sezioni unite per riaffermare la sussistenza della giurisdizione del giudice tributario nel caso di opposizione riguardante l’atto di precetto, che si assume viziato per l’omessa o invalida notificazione della cartella di pagamento di natura tributaria.

Il rapido susseguirsi di pronunce tanto innovative lasciava alla dottrina il compito di ricondurre a sistema i principi affermati[14]. Salvo rare aperture, le pronunce furono oggetto di dura critica[15] tanto per gli argomenti utilizzati quanto per gli approdi cui questi conducevano.

La stessa dottrina coglieva, quindi, l’occasione per svolgere delle considerazioni di sistema sul doppio binario di tutela e sulla paventata opportunità di ipotizzare un’unica via di tutela, in capo al giudice tributario, individuando però nella differenza di poteri di cui è dotato il giudice ordinario rispetto a quello tributario l’argomento per rigettare tale ipotesi. 

Un tassello nuovo nel complicato mosaico del confine fra la giurisdizione tributaria e quella ordinaria veniva poi posto dalla Corte costituzionale, con la sentenza n. 118 del 2018[16], con la quale veniva dichiarato incostituzionale l’art. 57, comma 1, lett. a, dPR n. 602/1973, nella parte in cui non prevede che, nelle controversie riguardanti gli atti dell’esecuzione forzata tributaria successivi alla notifica della cartella di pagamento o dell’intimazione, siano ammesse le opposizioni regolate dall’art. 615 cpc. 

La Corte costituzionale colmava così quel vuoto di tutela rappresentato da quei motivi sino ad allora non denunciabili né davanti al giudice tributario, perché non rientranti nell’oggetto della giurisdizione tributaria, né in sede di opposizione all’esecuzione, stante il divieto di cui al citato art. 57, che l’ammetteva soltanto con riguardo a questioni relative alla pignorabilità dei beni.

La pronuncia è di estremo interesse perché compie una ricostruzione dell’evoluzione della disciplina processual-tributaria. In primo luogo, la Corte, seppur a fatica, riconosce come nel sistema normativo ante riforma del 1992 la tutela del contribuente fosse limitata. Riconosce poi la Corte come, con l’introduzione della nuova disciplina del contenzioso tributario (d.lgs n. 546/1992) e con quella della riscossione mediante ruolo (d.lgs n. 46/1999), il quadro normativo muti radicalmente in termini di maggior tutela per il contribuente. 

Passando alla valutazione della conformità al dettato costituzionale della disposizione denunciata (art. 57 dPR n. 602/1973), la Corte afferma che in essa convivono due norme, delle quali una conforme al dettato costituzionale e l’altra no.

La norma è contraria ai canoni costituzionali nella parte in cui preclude l’opposizione all’esecuzione ex art. 615 cpc anche per le fattispecie in cui la giurisdizione del giudice tributario non sia affatto configurabile e non venga in rilievo perché l’oggetto dell’opposizione si pone a valle dell’area di quest’ultima. 

Si tratta di una serie di ipotesi nelle quali, sussistendo la giurisdizione del giudice ordinario – perché la controversia si colloca a valle della giurisdizione del giudice tributario ex art. 2 d.lgs n. 546/1992 e qualificandosi l’azione esercitata dal contribuente assoggettato alla riscossione come opposizione all’esecuzione ex art. 615 cpc, contestandosi il diritto di procedere a riscossione coattiva –, c’è una carenza di tutela giurisdizionale: il censurato art. 57 non ammette siffatta opposizione innanzi al giudice dell’esecuzione e non sarebbe possibile il ricorso al giudice tributario perché, in tesi, carente di giurisdizione.

Per converso, gli stessi argomenti conducono a ritenere conforme al dettato costituzionale l’art. 57 nella parte in cui preclude l’opposizione all’esecuzione per tutti quei casi in cui venga contestato il titolo della riscossione coattiva. La predetta controversia appartiene infatti alla giurisdizione del giudice tributario e l’atto processuale di impulso è il ricorso ex art. 19 d.lgs n. 546/1992, proponibile avverso il ruolo e la cartella di pagamento, e non già l’opposizione all’esecuzione ex art. 615 cpc.

Non esisterebbe quindi, in questo caso, un vuoto di tutela derivante dalla prevista inammissibilità dell’opposizione agli atti esecutivi riguardante la regolarità formale e la notificazione del titolo esecutivo. La norma costituisce solo una puntualizzazione del criterio di riparto della giurisdizione. Analogamente, la prevista inammissibilità dell’opposizione all’esecuzione, quando riguarda atti che radicano la giurisdizione del giudice tributario, non segna una carenza di tutela del contribuente assoggettato a riscossione esattoriale – questa esiste comunque innanzi ad un giudice, quello tributario. L’inammissibilità dell’opposizione ex art. 615 cpc si collega e si salda, in “simmetria complementare”, con la proponibilità del ricorso ex art. 19 d.lgs n. 546/1992, assicurando in questa parte la continuità della tutela giurisdizionale. D’altra parte, argomenta la Corte, l’opposizione all’esecuzione ex art. 615 cpc – che non è soggetta a termine di decadenza – non può assurgere a una funzione recuperatoria di un ricorso ex art. 19 d.lgs n. 546/1992 non proposto affatto, o non proposto nel prescritto termine di decadenza di 60 giorni.

Ancora, un altro recente passo verso la definizione del confine fra la giurisdizione tributaria e quella ordinaria è stato compiuto dalle sezioni unite con la pronuncia n. 34447/2019[17].

In quell’occasione, il massimo consesso del giudice di legittimità ha enunciato il principio di diritto secondo il quale, qualora in sede di ammissione al passivo fallimentare sia eccepita, da parte del curatore, la prescrizione del credito tributario maturato successivamente alla cartella di pagamento, di essa debbano conoscere il giudice delegato in sede di verifica dei crediti e il tribunale in sede di opposizione allo stato passivo e d’insinuazione tardiva, e non il giudice tributario.

Autorevole dottrina[18] ha offerto una lettura della pronuncia che va oltre il principio di diritto enunciato, limitato alla sola materia delle procedure concorsuali, per farne un prisma per una lettura a più ampio raggio, volto a individuare con maggior precisione i confini fra la giurisdizione tributaria e quella ordinaria.

Così, in primo luogo, si è affermato che la pronuncia in commento individua un confine preciso, costituito dall’avvio dell’esecuzione e, quindi, del pignoramento. Tanto premesso, l’autore ricorda come il pignoramento sia fattispecie composita e generatrice di una vastissima e densissima sfera di effetti giuridici, di natura processuale e sostanziale, in grado di incidere non solo nei confronti del debitore esecutato, ma anche di terzi.

Questa “trama di effetti giuridici”, trascendendo la sfera della mera correlazione binaria tra ente impositore e contribuente in termini di potere e di interesse legittimo e incidendo nella oggettiva presenza di un groviglio di diritti soggettivi di proprietà, di altri diritti reali e di situazioni possessorie del debitore e di altri soggetti ancora, conduce a che le controversie che ne possano sorgere non possono, de plano, essere lasciate al giudice speciale, ma debbono essere demandate, in ragione dell’incidenza su questi effetti e sulle situazioni soggettive che vi sono correlate, al giudice dei diritti, e cioè al giudice ordinario e, in specie, al giudice ordinario che si occupa dell’esecuzione forzata.

Ad appena pochi mesi di distanza, però, le sezioni unite sono tornate sul tema e, con l’ordinanza 14 aprile 2020, n. 7822 hanno rovesciato ancora i termini della questione, ritornando ad avvalorare l’orientamento inaugurato da Cass., n. 13913/2017. La pronuncia, complessa e densa di argomenti stratificati, pare ambire a essere un manifesto dei criteri in base ai quali decidere le questioni di giurisdizione in materia di riscossione.

Il Supremo giudice avvia il proprio impianto argomentativo con un inquadramento programmatico basato sull’affermata sussistenza, nel caso scrutinato, di un cumulo condizionale di domande.

Mettendo da parte il tema del cumulo di domande, quanto alla centrale questione del riparto di giurisdizione, la Corte qui afferma che qualsivoglia vizio afferente il procedimento notificatorio degli atti preliminari all’esecuzione vada dedotto in sede di impugnazione dell’atto, davanti al giudice tributario, nel termine di 60 giorni dal pignoramento, svolgendo la domanda del contribuente una funzione simile a quella del rimedio di cui all’art. 617 cpc, ma rientrante nel paradigma dell’impugnazione degli atti di cui all’art. 19 d.lgs n. 546/1992. 

Argomento in tal senso sarebbe offerto da una lettura a contrario dell’art. 2, secondo la quale sono inclusi nella giurisdizione tributaria tutti gli atti funzionali all’esecuzione fino alla notifica della cartella (e dell’intimazione di pagamento). In tale prospettiva, l’avvenuta notifica del primo atto esecutivo non muta l’individuazione del giudice fornito di giurisdizione, in quanto è solo dal momento della notifica che si possono far valere vizi formali o sostanziali dell’azione esecutiva. 

Rispetto a tale iter argomentativo, si è criticamente argomentato[19] come la tesi della Corte trascuri l’oggetto dell’opposizione del contribuente, la quale è rivolta al pignoramento con il fine di ottenerne la cancellazione. L’interesse a far valere il vizio della notificazione sorge, infatti, per effetto dell’aggressione esecutiva e non per l’astratto illegittimo svolgimento delle attività preparatorie.

Quanto poi alle questioni proponibili ex art. 615 cpc, la pronuncia in rassegna le individua nei: a) fatti successivi alla notificazione della cartella o dell’intimazione di pagamento, ove ovviamente una valida notificazione vi sia stata; b) fatti incidenti sulla pretesa tributaria dedotti dal contribuente che si verifichino in una situazione di mancanza, nullità, inesistenza della notifica della cartella e dunque di avvenuta conoscenza di tali atti solo a seguito del compimento di un atto esecutivo, purché il fatto estintivo, modificativo o impeditivo del diritto di agire in via esecutiva sia indipendente dall’accertamento del vizio della notifica. Ciò significa che, secondo la Corte, se il debitore eccepisce la prescrizione maturata al momento del pignoramento, ma per effetto di un vizio della notifica della cartella, la giurisdizione non può che spettare al giudice tributario. Al contrario, la giurisdizione è del giudice ordinario se il vizio si manifesta a valle del corretto formarsi della pretesa impositiva.

Infine, quale ulteriore elemento di recentissima novità e complicazione nel rapporto fra le due giurisdizioni, si pone la recente previsione di una forte limitazione alla possibilità di impugnare il ruolo, introdotta nel 2021[20].

La norma, nata dell’evidente tentativo di limitare l’accesso alla tutela giurisdizionale[21], mette in evidente crisi il criterio cardine del riparto offerto dalla Corte di cassazione, impedendo – o, quantomeno, fortemente limitando – al contribuente che non versi nelle situazioni legittimanti l’impugnazione del ruolo, di poter accedere alla tutela giurisdizionale in relazione a un atto impositivo che assuma invalidamente notificato. Per altro verso, la preclusione rispetto all’ammissibilità dell’opposizione all’esecuzione per motivi di merito ha suscitato in dottrina sospetti di incostituzionalità della previsione[22] e ha condotto in più occasioni alla rimessione della questione di legittimità alla Consulta[23].

D’altra parte, che la previsione delle opposizioni all’esecuzione e agli atti esecutivi fosse, nella prospettiva del legislatore, ultronea è confermato dalla Relazione illustrativa al d.lgs n. 46/1999, laddove è testualmente affermato che «l’impugnazione innanzi alle Commissioni tributarie rende inutile la previsione di un’opposizione ex art. 615 c.p.c. o ex art. 617».

La limitata tutela riconosciuta al debitore tributario nell’ambito della riscossione esattoriale accresce non poco le possibilità che questi sia assoggettato a un’esecuzione ingiusta e rende evidente uno squilibrio rispetto agli ordinari canoni processuali difficilmente giustificabile.

Le forti limitazioni alla tutela in sede esecutiva del contribuente dovrebbero trovare ratio e giustificazione nell’argomento che egli ha facoltà e onere, prima che si giunga alla fase della riscossione coattiva, di adire il giudice speciale impugnando il provvedimento che contiene la pretesa fiscale e i successivi atti prodromici all’espropriazione forzata di talché, una volta avviata l’esecuzione, non residuerebbero margini di tutela.

Pare, però, doveroso interrogarsi sulla conformità ai principi costituzionali di una tutela differenziata per situazioni giuridiche “omogenee”, solo perché avanzata dinanzi a giudici diversi.

La risposta potrebbe essere affermativa, facendo leva sulla facoltà del legislatore di approntare discipline diverse per diversi modelli processuali secondo il principio, affermato dalla Corte costituzionale, della «non necessaria uniformità» tra differenti tipi di giudizio.

È risalente e consolidata, nella giurisprudenza della Consulta, l’affermazione del principio per cui l’ossequio al disposto dell’art. 24 Cost. non implica la necessaria uniformità delle regole procedurali tra differenti tipi di giudizio. I diritti di difesa e di tutela giurisdizionale, sanciti dall’art. 24 Cost., possono ricevere una differente regolamentazione da parte del legislatore in considerazione della situazione sostanziale da regolare e delle caratteristiche strutturali dei singoli procedimenti[24].

È quindi pacifico il principio secondo il quale è consentito al legislatore, valutando la diversa struttura dei procedimenti, i diritti e gli interessi in gioco, le peculiari finalità dei vari stati e gradi della procedura, dettare specifiche modalità per l’esercizio del diritto di difesa.

La giustificazione della differenziazione nelle forme di tutela può quindi ricercarsi: nella diversità della situazione sostanziale da regolare, nella peculiarità della struttura di un modello processuale ovvero nel diverso esito del bilanciamento di diritti e interessi in gioco.

La legittimità di una differente regolamentazione dovrebbe quindi essere correttamente ricollegata a una oggettiva diversità di alcuna delle menzionate condizioni, emergente dal raffronto delle fattispecie considerate.

Nell’analisi delle differenze di tutela accordata al debitore comune esecutato rispetto al contribuente sottoposto a riscossione, si potrebbe provare, al fine di affermare la legittimità costituzionale della differenziazione, a individuare la diversità delle due fattispecie nella differente natura del credito in contestazione.

Si potrebbe quindi provare a sostenere che la differente natura del credito possa dare luogo a rapporti differenti, tali da giustificare un trattamento differenziato che non si ponga in contrasto con principi costituzionali. Argomentare in tal senso equivarrebbe però ad affermare che le differenti regole procedurali per diversi modelli processuali sarebbero giustificate, avendo riguardo alla presenza in concreto di un interesse “prevalente” costituito dal preteso pagamento di crediti di natura tributaria – ancora, il cd. “interesse fiscale”.

A parere di chi scrive, però, il pur legittimo interesse pubblico alla stabile riscossione delle entrate tributarie può imporre un contemperamento con quello del contribuente a un’adeguata tutela giudiziale, ma non certo una riduzione di quest’ultimo a favore del primo.

Pur ammettendo una prevalenza dell’interesse dell’amministrazione finanziaria che legittima, sotto il profilo della disciplina del rapporto sostanziale, una differenziazione in senso più favorevole rispetto agli strumenti di recupero del credito garantiti al creditore privato, tale prevalenza deve restare fuori dalla porta del processo. Varcata la porta della giurisdizione, l’ordinamento deve garantire alle parti di poter “giocare ad armi pari”, offrendo strumenti di difesa adeguati, se del caso, anche a ribilanciare lo squilibrio – legittimo – nella disciplina sostanziale del rapporto.

Il rispetto del principio costituzionale della parità delle parti nell’ambito della giurisdizione potrebbe in quest’ottica rendere “inoperante”, una volta giunti alla sede processuale, il criterio della comparazione tra “diritti e interessi in gioco”, il quale, per conseguenza, non sarebbe parametro idoneo a valutare la diversità di tutele accordate.

Esclusa la rilevanza degli interessi in gioco nell’ambito processuale, resta da indagare se vi sia una effettiva diversità di posizioni giuridiche soggettive tale da legittimare la differenziazione di tutela nel processo tributario rispetto a quanto avviene negli altri rami dell’ordinamento.

Tanto che si propenda per la qualificazione dell’oggetto del giudizio tributario sotto la categoria dei diritti soggettivi, quanto che invece si propenda per la categoria degli interessi legittimi, la differenziazione di tutela pare ingiustificata.

Abbracciando la prima delle qualificazioni prospettate, e concludendo quindi che oggetto del processo tributario siano diritti soggettivi, iscrivibili nello schema diritto-obbligo, si deve rilevare che, ove non esistesse la giurisdizione del giudice speciale, questi sarebbero senz’altro di spettanza del giudice ordinario. Da ciò discenderebbe quindi la manifesta arbitrarietà della differenziazione degli strumenti di tutela per rapporti giuridici analoghi, sol perché affidati alla giurisdizione del giudice speciale.

Accogliendo invece la qualificazione delle posizioni soggettive nel processo tributario in termini di interessi legittimi, solo apparentemente tale opzione interpretativa potrebbe condurre ad affermare come ragionevole la differenziazione degli strumenti di tutela cautelare.

Infatti, guardando all’evoluzione che ha caratterizzato il processo amministrativo, sembra potersi inferire come, oggi, le garanzie processuali offerte dall’ordinamento ai portatori di interessi legittimi non sia affatto diverse e deteriori rispetto a chi sia titolare di una posizione di diritto soggettivo e che, a prescindere della situazione giuridica di cui si domandi la tutela, non può negarsi che al ricorrente sia accordata una protezione piena[25].

In definitiva, prescindendo dall’adesione all’una o all’altra delle teorie relative all’oggetto del processo tributario, non sembrerebbe “reggere” la giustificazione di una differente protezione in sede di esecuzione.

Con la legge delega, il legislatore sembra finalmente essersi avveduto di tale vuoto di tutela, aprendo una breccia, con l’art. 19, lett. c, alla tutela in sede di esecuzione, seppur limitata alla sola ipotesi di omessa notifica dell’atto presupposto. 

In questa parte la delega non ha ancora trovato attuazione, per la verosimile ragione che, incidendo sull’art. 57 dPR n. 602/1973 in materia di riscossione, e non sul d.lgs n. 546/1992 sul processo tributario, la novella verrà adottata nell’emanando decreto di riforma della riscossione, ma i principi riformatori dettati paiono rispondere solo in parte all’esigenza di pienezza di tutela del contribuente esecutato[26]

 

3.2. La tutela cautelare

Il secondo dei banchi di prova della pienezza della tutela giurisdizionale nel processo tributario è rappresentato dalla tutela cautelare.

Tale istituto è quello che, nel corso degli ultimi trent’anni, è stato più innovato nell’ambito del processo tributario.

Sino all’inizio degli anni novanta non era previsto alcuno strumento cautelare nel processo tributario. Anche dopo la riforma tributaria adottata col dPR 26 ottobre 1972, n. 636, il legislatore non introdusse alcuna disposizione volta a disciplinare la sospensione della riscossione da parte delle commissioni tributarie.

Ciò nonostante parte della giurisprudenza[27], sorretta dalla dottrina[28], aveva provato a supplire al vuoto normativo affermando che l’inesistenza, nella normativa allora vigente, di preclusioni a un intervento cautelare da parte dei nuovi giudici tributari consentisse l’introduzione analogica della disciplina della cautela anche nel processo tributario.

Lo slancio verso l’introduzione in via analogica di una tutela cautelare non prevista dal diritto positivo venne però stroncato, dapprima dalla Corte di cassazione[29] e, in seguito, dalla Corte costituzionale[30]

In particolare, le sezioni unite, criticate dalla dottrina[31], negarono qualsiasi potere cautelare in materia tributaria, sia per le commissioni che per il giudice ordinario.

La Corte argomentò la decisione sul presupposto che le norme costituzionali avrebbero garantito l’accesso alla giurisdizione, ma non determinato in maniera assoluta i poteri dei giudici o la tipologia dei loro provvedimenti. Sarebbe sussistita, pertanto, la possibilità per il legislatore di prevedere procedure differenziate in ragione delle differenti peculiarità delle singole situazioni sostanziali in considerazione.

Con medesimi argomenti la Consulta escluse che la potestà cautelare costituisse una componente essenziale della tutela giurisdizionale ex art. 24 Cost., affermando pertanto che la scelta sulla sua previsione e disciplina fosse demandata alla legislazione ordinaria. “Effettività della tutela giurisdizionale”, argomentava la Corte, non significa che necessariamente debba essere consentito di anticipare le conseguenze di una pronuncia solo eventualmente favorevole, ma vuol dire che la pretesa fatta valere in giudizio, se fondata, debba poter trovare concreta soddisfazione, il che sarebbe assicurato mediante la successiva reintegrazione. 

Tale interpretazione evidenziava l’assoluto sbilanciamento dell’interesse fiscale rispetto all’interesse cautelare del contribuente, obliterando tutte quelle situazioni in cui il ristoro delle imposte illegittimamente riscosse non fosse sufficiente a sanare il danno generato dalla riscossione nelle more del giudizio.

La netta chiusura rispetto alla possibilità di ottenere tutela cautelare da parte del giudice tributario indusse a spostare ancora lo sguardo verso la possibilità di rivolgersi al giudice ordinario.

Una giurisprudenza innovativa[32] riconobbe l’esistenza dei presupposti per l’applicazione della normativa di cui all’art. 700 cpc, al fine di ottenere dal giudice ordinario, nell’imminenza di un danno grave e irreparabile, la sospensione cautelare dell’efficacia esecutiva di un ruolo esattoriale. Sotto quel prisma, il riconoscimento di una competenza generalizzata del giudice ordinario in materia cautelare trovava giustificazione in quell’orientamento dottrinale che aveva riconosciuto in essa un diritto soggettivo autonomo rispetto a quello fatto valere nel giudizio di merito, un’autonoma azione o pretesa, disgiunta da quella principale e, come tale, scindibile appunto dal giudizio di merito.

Questa tendenza, pur animata dal pregevole intento di sopperire a quella che pareva già allora essere una lacuna del nostro ordinamento, si scontrava, però, tanto con il principio di strumentalità di ogni misura cautelare rispetto al giudizio di merito, quanto con la carenza di giurisdizione del giudice ordinario rispetto a quello speciale[33].

Esclusa la possibilità di ottenere tutela cautelare dal giudice tributario e dal giudice ordinario, non residuava che la possibilità di tentare di agire in via amministrativa, chiedendo la sospensione dell’atto impositivo all’intendente di finanza e, semmai, di adire il giudice amministrativo avverso l’eventuale provvedimento declinatorio dell’intendente. Si trattava di una possibilità assai poco pregnante, atteso che l’eventuale provvedimento favorevole del giudice amministrativo non conduceva ad alcun effetto pratico rispetto all’atto impositivo, che avrebbe continuato a spiegare i propri effetti. La sola conseguenza della pronuncia di accoglimento del giudice amministrativo sarebbe stata il ricostituirsi dell’obbligo dell’intendente di pronunciarsi sulla richiesta di sospensione amministrativa osservando le censure poste dalla pronuncia giurisdizionale. Era evidente come tale possibilità non offrisse adeguata tutela e, pertanto, a partire dagli anni ottanta del secolo scorso, alcune pronunce del giudice amministrativo[34] iniziarono ad ammettere, ai sensi dell’art. 24 l. n. 1034/1971, la sospensione del provvedimento impositivo e, conseguentemente, della riscossione. 

Ciò nonostante, un ostacolo all’ esercizio della tutela cautelare da parte del giudice amministrativo era ancora rappresentato dal rapporto tra cautela e merito. Il sindacato del giudice amministrativo sui provvedimenti dell’intendente era esercitato da un giudice che non era il giudice del merito. La delibazione del fumus dell’istanza cautelare da parte del giudice amministrativo era destinata ad arrestarsi alla regolarità formale del provvedimento intendentizio e non estendersi all’esame dell’effettiva doverosità dell’imposta pretesa, essendo quest’ultima materia rimessa alla giurisdizione esclusiva del giudice tributario[35]. L’oggetto del giudizio innanzi al giudice amministrativo era limitato quindi alla correttezza dell’iter logico-giuridico risultante dalla motivazione dell’intendente, alla regolarità formale dello stesso, precludendo al giudice amministrativo, ove il provvedimento apparisse congruamente motivato, una delibazione nel merito della debenza del tributo[36].

In questo quadro, la dottrina[37] affermava come l’attribuzione del potere cautelare costituisse il corollario per il definitivo riconoscimento della giurisdizionalità delle commissioni, che altrimenti non avrebbero potuto essere qualificate come organi giurisdizionali in senso stretto, a causa della mancanza di un elemento essenziale per assicurare la tutela effettiva del contribuente. Veniva inoltre rilevato come la stratificazione dei diversi orientamenti giurisprudenziali avesse condotto a un riconoscimento della tutela cautelare in materia tributaria “a macchia di leopardo”[38], affidando le sorti del contribuente alla precaria fortuna di ricadere o meno nell’ambito territoriale di competenza di un giudice, ordinario o amministrativo, convinto di essere titolare del potere cautelare in campo tributario.

Era evidente come fosse necessario un intervento normativo per ovviare a siffatta situazione e, nel quadro di un complessivo riordino del processo tributario, il legislatore del 1991 provvedeva a dettare i criteri per la riforma del contenzioso e imponeva al legislatore delegato la previsione di un procedimento incidentale ai fini della sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato, disposta mediante provvedimento motivato, con efficacia temporale limitata a non oltre la decisione di primo grado[39]. Si muoveva così un primo passo verso il superamento di un assetto tutto sbilanciato a favore dell’interesse fiscale, riconoscendo uno spazio alla tutela cautelare nel processo tributario, seppur limitato al primo grado. 

Il legislatore delegato disciplinava così, per la prima volta, il procedimento cautelare innanzi alle commissioni tributarie provinciali[40]. La stessa legge di riforma del processo tributario prevedeva poi, in materia di impugnazioni, l’applicabilità, per quanto non previsto dalla legge speciale, delle norme sulle impugnazioni dettate dal codice di procedura civile, con esclusione della norma in forza della quale la sentenza impugnata non è sospesa dell’impugnazione, salvi i casi di sospensione disposti dal giudice e separatamente disciplinati per le singole impugnazioni[41]

Con detta disposizione il legislatore delegato escludeva quindi ogni ipotesi di tutela cautelare oltre il primo grado del giudizio tributario e, d’altra parte, chiara era stata l’indicazione della legge delega in tal senso. Su tale aspetto si concentrarono le prime critiche della dottrina[42], sottolineando come la limitazione al solo primo grado precludesse una compiuta tutela cautelare.

Davanti alle prime ordinanze di rimessione delle disposizioni che precludevano l’accesso alla tutela cautelare oltre il primo grado di giudizio, la Consulta rigettava però ogni censura di costituzionalità. Mutando, seppur di poco, l’orientamento esposto un decennio prima, la Corte affermava in questa occasione che la tutela cautelare è sì corollario dell’art. 24 Cost., ma che, come tale, riguarda la fase precedente all’emanazione di una pronuncia mentre, a seguito del provvedimento giurisdizionale, eventuali ulteriori strumenti di tutela cautelare sono rimessi alla discrezionalità del legislatore[43]

Dopo un decennio dalle prime pronunce, la Corte costituzionale, pur perseverando nella declaratoria di inammissibilità della questione di costituzionalità della norma censurata, con una storica sentenza[44] esponeva, attraverso un complesso ragionamento ermeneutico, un’interpretazione costituzionalmente orientata che conduceva ad ammettere la tutela cautelare processual-civilistica oltre il primo grado di giudizio.

La Corte affermava che il divieto di applicabilità della regola in forza della quale l’impugnazione non sospende l’esecutività della sentenza, non comporti necessariamente un divieto di applicabilità delle eccezioni alla medesima regola, ovvero la possibilità del giudice dell’impugnazione di sospendere l’efficacia della sentenza gravata, aprendo così la via a una tutela cautelare anche oltre il primo grado di giudizio attraverso l’applicazione delle norme processual-civilistiche.

A tale primo arresto seguirono altre pronunce della Corte costituzionale[45] e della Cassazione[46], tutte nel senso dell’applicabilità delle regole del processo civile in materia di sospensione giudiziale della sentenza impugnata.

La pronuncia della Corte veniva però criticata dalla dottrina[47], che sottolineava come la stessa, pur animata dal lodevole intento di estendere la tutela cautelare oltre i limiti legislativamente previsti, scontasse l’errore logico di non considerare che nel giudizio tributario il titolo per l’esecuzione non è mai la sentenza del giudice, ma è e resta sempre l’atto impugnato e che, pertanto, resta di difficile adattamento lo schema concettuale offerto dal codice di procedura civile.

Il legislatore, preso atto del quadro venutosi a creare a seguito delle pronunce costituzionali e di legittimità, nel 2014 interveniva con una nuova legge delega per la revisione del contenzioso tributario, con la quale si prevedeva, tra l’altro, la delega a uniformare e generalizzare la tutela cautelare nei diversi gradi del processo tributario[48]. Il legislatore delegato provvedeva quindi, nel 2015, a riscrivere le norme sul processo tributario introducendo una generalizzata tutela cautelare e disciplinando espressamente la stessa per ogni grado del giudizio[49].

All’esito della riforma del 2015, residuavano quindi due temi aperti in materia cautelare: l’assenza di uno strumento cautelare atipico, l’assenza di tutela cautelare ante causam e la non impugnabilità dell’ordinanza cautelare.

Per quanto attiene quest’ultimo profilo, oggi oggetto della riforma, la non impugnabilità risultava essere un unicum del processo tributario rispetto a quello civile e amministrativo e, pertanto, induceva all’interrogativo sulla conformità ai principi costituzionali l’assenza di un doppio grado cautelare o, più correttamente, di un vaglio rispetto ai provvedimenti cautelari adottati. 

La giurisprudenza della Consulta afferma il costante principio della «non necessaria previsione di un doppio grado di merito per la realizzazione del diritto di difesa»[50]. L’affermazione, pur se formulata in termini generali, pare suscettiva di essere agevolmente estesa alle misure cautelari.

Con specifico riferimento alla materia cautelare e allo strumento del reclamo civilistico, la Corte ha affermato[51]: che esso si concreta in una revisio prioris instantiae, che consente, da parte di un giudice diverso, il controllo sugli errores in procedendo e in iudicando eventualmente commessi dal giudice della cautela; che tra i rimedi del reclamo cautelare e della riproposizione dell’istanza cautelare non vi è rapporto di equivalenza in termini di garanzia, posto che sul reclamo è chiamato a decidere un giudice diverso da quello che ha pronunziato il provvedimento impugnato, mentre la riproposizione dell’istanza si rivolge al medesimo giudice che ha già respinto la richiesta di misura cautelare; che i rimedi della reclamabilità e della riproponibilità (nei limiti sopra esposti) dell’istanza cautelare operano su piani diversi, non sovrapponibili ma complementari, sì che la disponibilità del secondo non esclude la necessità di riconoscere la funzione di riequilibrio dei poteri delle parti che opera il primo.

Il reclamo, per la Corte, attribuisce maggiori garanzie rispetto alla mera possibilità di riproporre l’istanza, e non è rimedio a questa “sovrapponibile”, ma “complementare”. Inoltre, la riproponibilità dell’istanza non esclude la necessità di riconoscere la funzione di riequilibrio dei poteri delle parti, riequilibrio operato dal reclamo.

Si potrebbe far derivare dalle parole della Corte l’affermazione del principio per il quale la mancanza dello strumento del reclamo non è compensabile con la previsione della riproponibilità dell’istanza cautelare.

Il che equivarrebbe, forse, ad affermare la necessità della previsione – anche – dello strumento del reclamo quando sia solo prevista la possibilità di riproporre l’istanza cautelare. Il principio così derivato sarebbe utilmente trasponibile al processo tributario, dove appunto è prevista la possibilità di chiedere la revoca o modifica della misura cautelare, la riproponibilità dell’istanza, ma è posto divieto di impugnazione avverso il provvedimento cautelare. L’operazione parrebbe, tuttavia, una forzatura.

Invero, la Consulta non sembra affermare affatto la necessità del reclamo tout court, ma piuttosto la sua necessità nella misura in cui occorra ad operare un riequilibrio dei poteri delle parti che, nel processo civile, si deve ritenere imposto dalla posizione di parità tra le parti medesime.

La posizione di parità tra le parti del processo imporrebbe dunque di garantire, ex artt. 3 e 24 Cost., un equilibrio tra i poteri processuali riconosciuti alle stesse.

Il principio della necessaria corrispondenza tra condizione paritaria delle parti in giudizio e uguaglianza dei poteri processuali a queste accordate potrebbe non operare, dunque, quando una delle due parti non sia già in condizione di parità con l’altra: in tal caso, sarebbe giustificata una disciplina differenziata quanto all’attribuzione dei mezzi processuali esperibili dalle parti – pare di intendere – nel rispetto di un criterio di ragionevolezza.

Occorre domandarsi se tale principio possa riportarsi anche al processo tributario.

In questo quadro, pare non trovare agevole giustificazione l’attribuzione all’amministrazione finanziaria o all’agente della riscossione di una posizione di privilegio, in sede processuale, sul richiamo all’ossequio di un preteso principio dell’interesse fiscale alla riscossione delle imposte[52], che non potrebbe affatto essere considerato prevalente rispetto all’interesse del contribuente anche in sede contenziosa.

Con specifico riferimento alla reclamabilità dell’ordinanza cautelare nel processo tributario, l’operatività del principio della parità delle parti dovrebbe condurre ad affermare la necessità della previsione dello strumento del reclamo dell’ordinanza cautelare pronunciata ai sensi dell’art. 47 d.lgs n. 546/1992.

Andrebbe, cioè, riconosciuto al contribuente il rimedio del reclamo avverso l’ordinanza cautelare che rigetti l’istanza di sospensiva, consentendo di riequilibrare la posizione delle parti in giudizio non già sotto il profilo dello strumentario cautelare, ma sotto lo specifico profilo della disparità in punto di riscossione parziale dell’imposta in via amministrativa. La disparità di partenza si constata infatti nella disciplina della riscossione del tributo sin dalla fase amministrativa e la conseguente necessità di ristabilire la parità delle parti all’interno del giudizio ove le garanzie per il contribuente siano costituite da un doppio grado cautelare.

La legge delega interviene accogliendo l’esigenza di uno strumento di gravame avverso l’ordinanza cautelare e indica al legislatore delegato, con l’art. 19, lett. g, di prevedere l’impugnabilità dell’ordinanza che accoglie o respinge l’istanza di sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato.

Il legislatore delegato ha così provveduto a riformare il quarto comma dell’art. 47 d.lgs n. 546/1992, prevedendo l’impugnabilità dell’ordinanza cautelare, seppur limitatamente al primo grado. Parrebbe quindi che, in questa previsione, il legislatore abbia guardato al processo civile e alla non reclamabilità delle ordinanze ex artt. 283 e 373 cpc[53].

Introdotta oggi la reclamabilità delle ordinanze cautelari in primo grado, residua lo spazio di indagine circa l’assenza nel processo tributario di uno strumento cautelare atipico e ante causam.

Guardando cosa è accaduto in altri rami dell’ordinamento, si può facilmente constatare come il processo amministrativo abbia abbracciato i principi processual-civilistici circa l’atipicità del provvedimento cautelare e l’esperibilità della domanda cautelare ante causam. L’art. 61 cpa, ha introdotto nel processo amministrativo una previsione “analoga” a quella contenuta nell’art. 700 cpc, consentendo oggi di domandare una misura cautelare anche atipica prima della proposizione del ricorso, sussistendo le condizioni stabilite dalla norma.

La portata del menzionato art. 61 pare oltrepassare i limiti del processo amministrativo per assurgere a un ruolo sistematico, avendo per la prima volta offerto una protezione cautelare atipica e ante causam generalizzata ai portatori di interessi legittimi, prima assente nell’ordinamento, superando la dottrina tradizionale secondo la quale era esclusa dalla portata dell’art. 700 cpc la tutela di posizioni giuridiche soggettive diverse dai diritti[54]

L’introduzione dell’art. 61 cpa consente quindi di affermare che la tutela cautelare atipica e ante causam è accordata anche ai portatori di interessi legittimi, nel processo amministrativo, a prescindere dall’azione in concreto esperita. Sempre sotto il profilo sistematico, ulteriore portato dell’art. 61 è l’affermazione di una tutela cautelare ante causam rispetto a giudizi a carattere costitutivo e di accertamento.

Dal complessivo quadro disegnato dal legislatore per il processo amministrativo con il codice, pare di potere derivare che in quel giudizio, a prescindere dalla situazione giuridica di cui si domandi tutela, che sia diritto soggettivo o interesse legittimo, e dalla qualificazione dell’azione esperita come di accertamento o costitutiva, al ricorrente sia accordata una protezione cautelare “piena”, comprensiva di misure atipiche e d’urgenza ante causam.

Ciò posto, l’interrogativo si sposta sulla rilevanza delle osservazioni svolte con riferimento al processo amministrativo rispetto a quello tributario, ovvero a verificare se la asserita portata sistematica dell’art. 61 cpa possa in qualche modo rilevare ai fini dell’indagine sul procedimento cautelare tributario.

In primo luogo, l’assenza di una tutela cautelare atipica e ante causam in campo tributario non potrebbe più trovare valide giustificazioni nel fatto che non sarebbe ammessa, più in generale, nel nostro ordinamento siffatta protezione quando si domandi la tutela di interessi legittimi, oppure quando sia da introdurre un giudizio costitutivo o di accertamento.

In altri termini, che si intenda aderire alla costruzione teorica del processo tributario come giudizio di annullamento per la protezione di situazioni giuridiche di interesse legittimo oppure a quella che lo concepisce come giudizio di accertamento di situazioni di diritto soggettivo, non sembra in ogni caso possibile escludere la possibilità di forme di tutela cautelare atipica e ante causam.

Inoltre, è opportuno notare come l’introduzione, nel processo amministrativo, della tutela cautelare ante causam e la conferma della possibilità di ricorrere a misure a contenuto atipico appaiano come “espressione” e diretta conseguenza dei principi della effettività e del giusto processo che hanno modellato la novella[55].

Pare, dunque, possa dirsi che la previsione di una forma di protezione cautelare atipica e ante causam nel processo amministrativo risponda all’esigenza, preannunziata nell’incipit del codice, di garantire un processo giusto, in condizioni di parità, e la possibilità di conseguire per il ricorrente una tutela piena ed effettiva, in attuazione dell’art. 111, comma 2 della Costituzione[56].

Se ne potrebbe inferire che, derivando da principi costituzionali in materia di processo, la medesima ampiezza della protezione cautelare sia da assicurare in ogni modello processuale e, dunque, anche nel processo tributario.

Argomentando a contrario, si finirebbe costretti a dover affermare che per il solo processo tributario non operino i principi del giusto processo, della parità delle parti e della effettività della tutela giurisdizionale che si riconosce invece operare nei modelli processuali civile e amministrativo.

È evidente come un esito di questo tipo sia irricevibile, e come un trattamento “differenziato” per il solo modello tributario possa dirsi conforme a Costituzione soltanto nella misura in cui tale differenziazione non appaia manifestamente irragionevole o palesemente arbitraria. La ragionevolezza della differenziazione dei modelli processuali potrebbe trovare giustificazione esclusivamente nella necessità di proteggere un interesse costituzionalmente rilevante, tale da degradare i principi della parità delle parti, del giusto processo e della effettività della tutela.

A parere di chi scrive, l’interesse pubblico a una stabile riscossione delle imposte, seppur costituzionalmente rilevante, come visto in precedenza, non può espandersi al punto da soffocare l’interesse del contribuente a una parità delle armi non meramente formale, ma sostanziale ed effettiva, nell’ambito del processo.

Non si rinvengono, in sostanza, ragioni idonee a giustificare l’assenza di una forma di tutela cautelare atipica e ante causam nel processo tributario; anzi, al contrario, il raffronto con gli altri modelli processuali del nostro ordinamento rende manifesto come il riconoscimento delle predette forme di protezione cautelare discenda e trovi radice costituzionale nei principi del giusto processo, della parità delle parti e dell’effettività della tutela giurisdizionale affermati dall’art. 111, comma 2, Costituzione.

 

4. Conclusioni

La delega e il successivo decreto legislativo scontano un peccato originale: quello di trattare la materia del processo tributario ancora come meramente contenziosa e non giurisdizionale. Gli interventi predisposti, senza mai fare espresso richiamo ai principi costituzionali del giusto processo per la riforma degli istituti processuali, anche nella parte in cui mirano ad ampliare le garanzie, appaiono scoordinati e ancora distanti dagli standard di tutela di un modello che possa dirsi di “giusto processo tributario”, così che, almeno per quanto riguarda il processo, la grande riforma con forza invocata dalla dottrina[57] e annunciata con enfasi dal legislatore non pare essersi compiuta.

 

 

1. A norma dell’art. 22 r.d.l. 7 agosto 1936, n. 1639, «La risoluzione in via amministrativa delle controversie tra l’amministrazione finanziaria ed i contribuenti relative all’applicazione delle imposte dirette, esclusa quella sui terreni, è demandata in prima istanza a commissioni distrettuali ed in appello a commissioni provinciali.
Nei casi contemplati dalla legge, contro le decisioni delle commissioni provinciali, è ammesso ricorso alla commissione centrale delle imposte dirette.
È mantenuta la competenza dell’autorità giudiziaria ai sensi dell’art. 6 della legge 20 marzo 1865, allegato E, su ogni controversia che non si riferisca a semplice estimazione di redditi (…)».
In dottrina, sulla natura amministrativa delle commissioni tributarie: A.D. Giannini, Il rapporto giuridico d’imposta, Giuffrè, Milano, 1937; M. Pugliese, Istituzioni di diritto finanziario, CEDAM, Padova, 1937; G. Ingrosso, Istituzioni di diritto finanziario, vol. II, Jovene, Napoli, 1937; G. Tesoro, Principi di diritto tributario, Macri, Bari, 1938.

2. E. Allorio, Diritto processuale tributario, Giuffrè, Milano, 1942.

3. Nel senso della giurisdizionalità delle commissioni, vds. Corte cost., 16 gennaio 1957, n. 12, in Giur. it., 1957, I, 1, p. 131; nel senso opposto, Corte cost., 6 e 10 febbraio 1969, nn. 6 e 10, ivi, 1969, I, 1, p. 1027.

4. Alla giurisdizionalizzazione delle commissioni prevista con l’emanazione del dPR 26 ottobre 1972, n. 636 conseguì tra l’altro l’applicazione, come norma di rinvio, delle disposizioni processual-civilistiche limitatamente al libro I del codice di procedura civile.

5. A norma dell’art. 1 d.lgs 31 dicembre 1992, n. 546, «La giurisdizione tributaria è esercitata dalle commissioni tributarie provinciali e dalle commissioni tributarie regionali di cui all’art. 1 del decreto del Presidente della Repubblica 31 dicembre 1992, n. 545.
I giudici tributari applicano le norme del presente decreto e, per quanto da esse non disposto e con esse compatibili, le norme del Codice di procedura civile».

6. E. Manzon, Processo tributario e Costituzione. Riflessioni circa l’incidenza della novella dell’art. 111 della Costituzione sul diritto processuale tributario, in Riv. dir. trib., n. 11/2001, p. 1095; F. Gallo, Verso un “giusto processo” tributario, in Rass. trib., n. 1/2003, p. 11; P. Russo, Il giusto processo tributario, ivi, n. 1/2004, p. 11; L. Del Federico, Il giusto processo tributario: tra art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo ed art. 111 Cost., in GT, n. 2/2005, p. 154; F. Tesauro, Giusto processo tributario, in Rass. trib., n. 1/2006, p. 11.

7. E. Grassi, La ricercata, e non ancora raggiunta, parità delle parti nel processo tributario, in Rass. trib., n. 4/2003, p. 1176; G. Falsitta, Abuso di interpretazione autentica, obiter dictum e rispetto della “parità delle parti” sancita dai principi del “giusto processo”, in Riv. dir. trib., n 12/2006, p. 900; A. Turchi, La disciplina della costituzione in giudizio altera le condizioni di parità delle parti nel processo tributario, in GT, n. 7/2009, p. 625.

8. C. 30 settembre 2011, n. 20028, in Giust. civ., Mass., 2011, 9, p. 1376; 28 ottobre 2009, n. 22769, in Dir. e giustizia, 2009; 9 giugno 2009, n. 13201, in Dir. e giustizia, 2009, con nota di Iannaccone; 12 marzo 2009, n. 5926, in Dir. e giustizia, 2009; 22 settembre 2006, n. 20526, in Giust. civ., 2007, 3, I, p. 612; 16 maggio 2005, n. 10267, in Giust. civ., Mass., 2005, 5; 15 aprile 2003, n. 5957, in Giust. civ., Mass., 2003, 4, e in GT, 2003, p. 1049; 26 marzo 2003, n. 4423, in Giust. civ., Mass., 2003, p. 602; 25 marzo 2002, n. 4269, in Giust. civ., Mass., 2002, p. 517, e in Corr. trib., 2002, p. 3366, con nota di Pace.

9. C. 2 marzo 2012, n. 3277, in Giust. civ., Mass., 2012, 3, p. 260; 30 settembre 2011, n. 20028; 31 maggio 2011, n. 11986, in Giust. civ., Mass., 2011, 5, p. 830; 14 maggio 2010, n. 11785, in Giust. civ., Mass., 2010, 5, p. 752; 7 agosto 2009, n. 18139, in Giust. civ., Mass., 2009, pp. 7-8; 16 maggio 2007, n. 11221, in Dir. e giustizia, 2007, e in Boll. trib., 2008, 2, p. 156, con nota di Iannaccone; sez. unite, 22 febbraio 2007, n. 4109, in Guida al diritto, 2007, 13, p. 94, con nota di M. Finocchiaro; 15 aprile 2003, n. 5957, cit.; 25 marzo 2002, n. 4269.

10. C. 14 maggio 2010, n. 11785; 16 maggio 2007, n. 11221; 25 marzo 2002, n. 4269.

11. N. Rascio, Contraddittorio tra le parti, condizioni di parità, giudice terzo e imparziale, in Riv. dir. civ., n. 5/2001, p. 610.

12. Cass.: sez. unite, 29 aprile 2015, n. 8618; sez. III, 7 maggio 2015, n. 9246; sez. III, 27 novembre 2015, n. 24235; sez. unite, 27 ottobre 2016, n. 21690.

13. Cass.: sez. unite, 5 luglio 2011, n. 14667; sez. V (tributaria), 6 dicembre 2016, n. 24915.

14. M. Basilavecchia, Anche il pignoramento può essere atto impugnabile, in Corr. trib., n. 30/2017, p. 2388; G. Tabet, In tema di pignoramento “a sorpresa”, in Rass. trib., n. 4/2017, p. 1120; C. Glendi, Le Sezioni Unite della Cassazione “stravolgono” i confini tra giurisdizione tributaria e giurisdizione ordinaria sul versante dell’esecuzione forzata, in GT, n. 10/2017, p. 762; D. Carnimeo, È devoluta al giudice tributario la cognizione dell’opposizione avverso un atto di pignoramento non preceduto dalla notifica della presupposta cartella di pagamento, in Boll. trib., n. 1/2017, p. 1443; F. Russo, Atto di pignoramento e giurisdizione tributaria, in Dir. prat. trib., n. 1/2018, p. 368.

15. C. Glendi, Disorientamenti giurisprudenziali al vertice sull’opposizione agli atti esecutivi in materia tributaria, in Corr. giur., n. 5/2018, p. 677.

16. In Dir. prat. trib., n. 6/2018, p. 2675, con nota di S. Dalla Bontà, La Corte costituzionale rivede i limiti all’opposizione all’esecuzione nella riscossione tributaria. La felice risposta ad un lungo assedio.

17. In Corr. trib., n. 3/2020, p. 275, con nota di G. Glendi, Eccezione di prescrizione in sede fallimentare tra giurisdizione tributaria e ordinaria; in Dir. prat. trib., n. 3/2020, p. 1150, con nota di A. Bambino, Il riparto di giurisdizione tra giudice tributario e giudice ordinario in tema di prescrizione dell’obbligazione tributaria in ambito fallimentare: il revirement delle Sezioni Unite.

18. C. Glendi, Dei naturali confini della giurisdizione special tributaria sul versante dell’esecuzione forzata, in Corr. giur., n. 5/2020, p. 659.

19. A. Scala, Riscossione coattiva, riparto di giurisdizione, motivi dell’opposizione; parlano (ma non convincono) le sezioni unite (Nota a Cass. civ., sez. unite, 14 aprile 2020, n. 7822, Soc. mastino c. Agenzia demanio), in Foro it., 2020, I, c. 2765. In senso critico anche C. Glendi, Spigolature (minimaliste) attorno ad una (monumentale) ordinanza della SS.UU. (in tema di giurisdizione ed opposizioni esecutive in materia tributaria), in Corr. giur., n. 7/2020, p. 932.

20. L’art. 3-bis dl 21 ottobre 2021, n. 146 testualmente prevede che: 
«All’articolo 12 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, dopo il comma 4 è aggiunto il seguente:
“4-bis. L’estratto di ruolo non è impugnabile. Il ruolo e la cartella di pagamento che si assume invalidamente notificata sono suscettibili di diretta impugnazione nei soli casi in cui il debitore che agisce in giudizio dimostri che dall’iscrizione a ruolo possa derivargli un pregiudizio per la partecipazione a una procedura di appalto, per effetto di quanto previsto nell’articolo 80, comma 4, del codice dei contratti pubblici, di cui al decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, oppure per la riscossione di somme allo stesso dovute dai soggetti pubblici di cui all’articolo 1, comma 1, lettera a), del regolamento di cui al decreto del Ministro dell’economia e delle finanze 18 gennaio 2008, n. 40, per effetto delle verifiche di cui all’articolo 48-bis del presente decreto o infine per la perdita di un beneficio nei rapporti con una pubblica amministrazione”».

21. Lascia sbigottiti a tal proposito la lettura degli atti parlamentari di approvazione della norma e, in particolare, del dossier n. 468/1 dl n. 146/2021 – AS 2426, che lascia pochi dubbi sulla portata di “controriforma”.

22. A. Scala, La tutela del contribuente nella riscossione coattiva, in Rass. trib., n. 5/2008, p. 1299.

23. Corte cost.: 6 luglio 2001, n. 242, in Giur. cost., n. 4/2001; 27 marzo 2009, n. 93, ivi, n. 2/2009, p. 831; 13 aprile 2011, n. 133, ivi, n. 2/2011, p. 1753.

24. Corte cost.: 18 maggio 1972, n. 80; 28 giugno 1985, n. 191; 18 maggio 1989, n. 251; 19 marzo 1996, n. 82; 10 marzo 2006, n. 101; 6 luglio 1972, n. 125; 12 novembre 1974, n. 255; 18 giugno 1979, n. 49.

25. A. Pajno, Il Codice del processo amministrativo ed il superamento del sistema della giustizia amministrativa. Una introduzione al Libro I, in Dir. proc. amm., n. 1/2011, p. 100; G. Costantino, Note a prima lettura sul codice del processo amministrativo. Appio Claudio e l’apprendista stregone, in Foro it., 2010, V, c. 237.

26. Scelta già criticata in dottrina: C. Glendi, Sulla riforma fiscale incombe il “pasticciaccio brutto” delle opposizioni esecutive ai giudici tributari, in Dir. prat. trib., n. 5/2023, p. 1825.

27. Comm. trib. primo grado di Milano, 16 settembre 1977, e di Genova, 2 novembre 1977, in Dir. prat. trib., 1977, pp. 923 ss.

28. C. Glendi, Sulla sospensione cautelare nel processo tributario, in Dir. prat. trib., 1977, p. 919, nota a Comm. trib. primo grado di Milano, 7 febbraio 1977; A.E. Granelli, Ancora sulla sospensione in corso di causa dell’azione esecutiva tributaria, in Boll. trib., 1978, p. 729; C. Magnani, La tutela giurisdizionale contro i provvedimenti sanzionatori dell’Amministrazione finanziaria, in Dir. prat. trib., 1978, p. 1460; F. Tesauro, Sul potere di sospensione cautelare delle commissioni tributarie, in Boll.  trib., 1978, p. 1177; Id., Ancora sul potere di sospensione cautelare delle commissioni tributarie, ivi, 1979, p. 613; Id., Ancora in tema di sospensione della riscossione da parte delle commissioni tributarie, in Giur. it., 1980, III, p. 9.

29. Cass, sez. unite, 5 marzo 1980, nn. 1471, 1472, 1473, rispettivamente in: Riv. dir. fin., 1980, II, p. 101; Dir. prat. trib., 1980, II, p. 432, con nota di C. Glendi, Ancora sulla sospensione cautelare nel processo tributario; Giust. civ., 1980, I, p. 764. Conformi anche Cass., sez. unite, 20 ottobre 1983, n. 6151, in Rass. trib., 1984, I, p. 226, con nota di C. Consolo, Tutela cautelare ed imposizione indiretta: potere inibitorio (almeno) dell’intendente di Finanza?.

30. Corte cost.: 1° aprile 1982, n. 63; 11 marzo 1991, n. 112.

31. V. Uckmar, La rinascita del «solve et repete», e G. Falsitta, Riscossione coattiva dei tributi e garanzia del cittadino, entrambi in F. Moschetti (a cura di), Procedimenti tributari e garanzie del cittadino, CEDAM, Padova, 1984, rispett. pp. 81 ss. e 92 ss.; C. Consolo, Lineamenti per l’elaborazione (specie de iure condendo) di un’inibitoria giurisdizionale in materia tributaria, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1983, p. 710.

32. Pret. Prato, 5 aprile 1982, in Boll. trib., 1982, p. 1581, con nota di F. Maffezzoni, Si ripropone la questione della tutela cautelare nel giudizio tributario; Pret. Scalea, 19 aprile 1984, in Dir. prat. trib., 1985, II, p. 1084, con nota di C. Glendi, Nuove esperienze giurisprudenziali sulla tutela cautelare in materia tributaria; Pret. di Castellamare del Golfo, 3 luglio 1987, in Rass. trib., 1988, II, p. 501, con nota di C. Consolo.

33. Sul legame fra il potere cautelare e la giurisdizione di merito, Cass. civ., 1° ottobre 1980, n. 5336, in Foro it., 1980, I, c. 2391; Cass. civ., 16 marzo 1981, n. 1484, ivi, I, c. 985.

34. Tar Veneto, 31 agosto 1985, n. 786, in Rass. trib., 1986, II, p. 168, con nota di C. Consolo, Recenti prese di posizione in tema di tutela cautelare del contribuente; Tar Napoli, sez. I, 16 gennaio 1985, n. 53, in Sospensive, 1986, p. 111; Tar Lazio, sez. II, 2 luglio 1985, n. 510, in Dir. prat. trib., 1985, II, p. 1103, con nota di C. Glendi, Nuove esperienze giurisprudenziali sulla tutela cautelare; Tar Lombardia, 16 ottobre 1985, n. 470, in Rass. trib., 1986, II, p. 171; Tar Lombardia, sez. I, 29 gennaio 1986, n. 66, in Foro it., 1986, II, c. 291, con nota di G. Albenzio; Tar Emilia-Romagna, 20 febbraio 1986, n. 101, in Sospensive, n. 3/1986; Tar Lombardia, sez. I, 23 settembre 1987, in Boll. trib., n. 22/1987, p. 1735, con nota redazionale; Cons. Stato, sez. IV, 20 dicembre 1985, n. 620, in Rass. trib., 1986, II, pp. 479 ss., con nota di G. Tinelli, Brevi note sulla competenza del giudice amministrativo in materia di sospensione della riscossione dei tributi diretti iscritti a ruolo; Cons. giust. amm. Sicilia, 20 novembre 1986, n. 169, in Foro amm., 1986, pp. 2772 ss., con nota di G. Serio, La tutela cautelare nella riscossione dei tributi.

35. In tal senso C. Glendi, La tutela cautelare in materia tributaria, in Dir. prat. trib., 1985, I, p. 1161.

36. A. Colli Vignarelli, Orientamenti giurisprudenziali vecchi e nuovi in materia di tutela cautelare tributaria, in Rass. trib., 1988, II, p. 708, metteva in risalto il paradosso rappresentato dal fatto che un ricorso tributario manifestamente infondato potesse trovare tutela cautelare innanzi al giudice amministrativo sol perché il provvedimento dell’intendente di finanza fosse sorretto da una motivazione incongrua e, al contrario, un ricorso manifestamente fondato non potesse trovare pari tutela cautelare perché il provvedimento dell’intendente di finanza appariva motivato in modo attento e immune da censure.

37. C. Glendi, L’oggetto del processo tributario, CEDAM, Padova, 1984, p. 834, affermava che le commissioni tributarie non avrebbero potuto considerarsi giudici fino a quando fosse stato negato loro il potere cautelare, inteso come connotato essenziale dell’effettività della giurisdizione.

38. C. Glendi, Nuove esperienze, op. cit., p. 1084; immagine ripresa da C. Consolo, La sospensione della riscossione fiscale. Sguardo retrospettivo ed analisi critica del progetto di legge approvato dal Senato, in Fisco, n. 37/1989, pp. 5755 ss.

39. Art. 30, comma 1, lett. h, legge delega n. 413/1991.

40. Art. 47, d.lgs 31 dicembre 1992, n. 546.

41. L’art. 49 d.lgs 31 dicembre 1992, n. 546 afferma che: «Alle impugnazioni delle sentenze delle commissioni tributarie si applicano le disposizioni del titolo III, capo I, del libro II del codice di procedura civile, escluso l’art. 337 e fatto salvo quanto disposto nel presente decreto»; per completezza, si cita anche l’art. 337, comma 1, cpc: «L’esecuzione della sentenza non è sospesa per effetto dell’impugnazione di essa, salve le disposizioni degli articoli 283, 373, 401 e 407».

42. C. Glendi, La tutela cautelare deve trovare spazio anche nel giudizio di appello, in Corr. trib., n. 36/2005, p. 2864.

43. Corte cost.: 31 maggio 2000, n. 165; 19 giugno 2000, n. 217.

44. Corte cost., 17 giugno 2010, n. 217.

45. Corte cost.: 24 giugno 2012, n. 109; 15 novembre 2012, n. 254.

46. Cass. civ., sez. trib., 24 febbraio 2012, n. 2845.

47. C. Glendi, Nuovi orizzonti per la tutela cautelare del contribuente durante il giudizio contro la decisione del giudice tributario di secondo grado in cassazione (e non solo), in Diritto e fiscalità dell’assicurazione, n. 3/2013, p. 261.

48. Art. 10 l. 11 marzo 2014, n. 23.

49. Art. 9 d.lgs 24 settembre 2015, n. 156.

50. Corte cost., 16 maggio 2008, n. 144, in Foro it., 2009, 10, I, c. 2634; in Guida al dir., n. 22/2008, p. 30, con nota di Sacchettini; in Riv. it. dir. lav., n. 4/2008, p. 778, con nota di Corsini; in Giust. civ., n. 7-8/2008, p. 1599; Corte cost., 20 novembre 1995, n. 487, in Giur. it., 1996, I, p. 457; in Giust. pen., 1996, I, p. 33; in Cass. pen., 1996, p. 1063; in Dir. pen. proc., 1996, p. 32; Corte cost., n. 110/1963.

51. Corte cost., 20 giugno 1994, n. 253.

52. S. Colella, Tutela del contribuente e riscossione dei tributi, in Dir. prat. trib., n. 5/2010, p. 894.

53. Non reclamabilità pur criticata in dottrina: vds. B. Capponi, L’art. 373 c.p.c. sul riflesso dell’art. 283 c.p.c., in Judicium, 11 ottobre 2023.

54. G. Verde, Diritto processuale civile – IV. Procedimenti speciali, Zanichelli, Bologna, 2010, pp. 81 ss.

55. L’art. 1 cpa, rubricato «Effettività», dispone: «La giurisdizione amministrativa assicura una tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo»; l’art. 2 cpa, rubricato «Giusto processo», stabilisce, al comma primo, che «Il processo amministrativo attua i principi della parità delle parti, del contraddittorio e del giusto processo previsto dall’articolo 111, primo comma, della Costituzione».

56. M.A. Sandulli, La fase cautelare, in Dir. proc. amm., n. 4/2010, p. 1130.

57. Per una ricognizione analitica della questione, vds. C. Glendi (a cura di), La riforma della giustizia tributaria, CEDAM (Wolters Kluwer), Milano, 2021.