Magistratura democratica

La novella in materia di onere della prova: una “quasi superfetazione normativa”

di Antonio Ivan Natali

Il presente contributo intende approfondire le novità processuali in tema di onere della prova, soffermandosi sul rapporto con le regole di giudizio degli altri rami dell’ordinamento ed esaminando, tra l’altro, la tesi della ricostruzione del nuovo onere probatorio quale modulato sulle regole che presiedono all’accertamento della responsabilità penale e il criterio della vicinanza alla fonte della prova, come criterio idoneo a determinare lo spostamento del “naturale” riparto della prova. Particolare attenzione è data alle presunzioni legali e al “bando” di quelle cd. “supersemplici”, con disamina anche delle problematiche di diritto intertemporale in relazione al problema della natura retroattiva o meno della norma.

1. Il quadro normativo e interpretativo precedente alla “novella” / 2. Rapporto fra novità normativa e principi generali (già operanti). Considerazioni di carattere sistematico: affinità con le regole di giudizio degli altri rami dell’ordinamento / 2.1. La tesi della ricostruzione del nuovo onere probatorio quale modulato sulle regole che presiedono all’accertamento della responsabilità penale / 3. Il criterio della vicinanza alla fonte della prova come criterio idoneo a determinare lo spostamento del “naturale” riparto della prova / 4. L’impatto della norma sull’istruttoria amministrativa e pre-processuale / 5. Margini di innovatività della novella. La sopravvivenza delle presunzioni legali e il “bando” di quelle cd. “supersemplici” / 6. Implicazioni concrete della novella / 7. Ipotesi sicuramente invariate / 8. La natura retroattiva o meno della norma: le prime applicazioni interpretative / 9. Brevi notazioni conclusive 

 

1. Il quadro normativo e interpretativo precedente alla “novella”

La disciplina del processo tributario non conteneva, nel suo impianto originario[1], una specifica regolamentazione dell’onere della prova, né richiamava espressamente, o anche solo implicitamente, la regola di cui all’art. 2697 cc (che, come noto, conforma l’attività probatoria nel processo civile).

D’altronde, l’art. 1, comma 2, d.lgs n. 546/1992 prevedeva quale fonte, per un’eventuale operazione di eterointegrazione ad opera dell’interprete, la disciplina dettata dal codice di procedura civile[2] e non anche quella del codice “sostanziale”.

Né tale previsione di rinvio abilita alla trasposizione automatica di tutte le norme del processo civile e degli istituti da esse disciplinati, imponendosi sempre una valutazione case by case di compatibilità dell’innesto della singola regola o istituto con la logica (e la peculiarità) del rito tributario.

Orbene, l’art. 2697 cc[3] è contenuto nel codice civile sostanziale, preordinato alla regolazione dei rapporti di diritto comune[4], e non in quello di procedura civile; dunque, a una valutazione “epidermica”, non pareva beneficiare della norma di rinvio. 

Nondimeno, anche in considerazione della natura della suddetta disposizione che, a dispetto della sua sede formale, è processuale, se ne è ritenuta l’applicabilità anche al processo tributario, anche perché norma senz’altro idonea a superare il vaglio di compatibilità logica con il microsistema processuale tributario.

Invero, sotto il profilo storico e dell’evoluzione ordinamentale, il principio onus probandi incumbit ei qui dicit, ab origine è stato previsto espressamente dall’art. 1312 cc del 1865 limitatamente all’esecuzione del rapporto obbligatorio[5], per assurgere a regola positiva generale solo con l’entrata in vigore del codice civile del 1942.

Nondimeno, della sua vocazione a porsi quale regola generalmente applicabile non era dato dubitare[6], anche in considerazione della sua intrinseca conformità al principio di ragionevolezza. 

Al contempo, è evidente la derivazione logico-razionale di quella che può essere definita la duplice funzione del principio in questione[7].

Esso, infatti, rappresenta “regola (di attribuzione del rischio) del fatto incerto” ma, in via logicamente prioritaria, anche criterio di “ripartizione soggettiva della prova”[8].

Sotto il primo profilo, il giudice, in assenza di un’idonea dimostrazione probatoria dei fatti costitutivi o impeditivi, estintivi, in costanza del divieto di non liquet, dovrà rigettare la domanda o l’eccezione proposte anche perché un fatto non provato deve essere ritenuto giuridicamente inesistente ovvero uti non esset.

Da ciò consegue che il rischio della decisione di rigetto incombe sulla parte gravata del correlato onere.

Per quanto concerne il secondo profilo funzionale, è indubbio che il principio de quo valga quale regola di “ripartizione soggettiva della prova”, poiché consente la distribuzione dell’onere probatorio a seconda della natura del fatto costitutivo, impeditivo, modificativo, estintivo, e ciò a prescindere dal ruolo della parte gravata dal relativo onere.

D’altronde, può dirsi principio acquisito al quadro interpretativo quello per cui a venire in rilievo, nonostante la sua proiezione processuale[9], sia un vero e proprio onere.

E ciò in quanto l’attività probatoria delle parti si configura non quale oggetto di un vincolo obbligatorio presidiato dal sorgere di una sanzione o, più semplicemente, di una responsabilità, ma quale insieme di iniziative poste nell’interesse del soggetto, in quanto strumentale al conseguimento del bene giuridico, oggetto del giudizio[10].

Dunque, in suo difetto, la sfera dell’onerato non soggiace all’esercizio di una potestà sanzionatoria oppure all’attivazione dei rimedi dell’inadempimento, ma subirà semplicemente il decremento o la mancata implementazione che consegue, logicamente, alla perdita o alla mancata acquisizione del bene anelato. 

Parimenti, deve ritenersi che l’onere della prova, per come recepito dal nostro ordinamento, abbia una connotazione oggettiva[11] e non soggettiva, e ciò perché non esige che la prova provenga necessariamente dal soggetto onerato, potendo per contro provenire (intenzionalmente o accidentalmente) dalla controparte[12]

 

2. Rapporto fra novità normativa e principi generali (già operanti). Considerazioni di carattere sistematico: affinità con le regole di giudizio degli altri rami dell’ordinamento 

In virtù dell’innovativo disposto dell’art. 6 l. n. 130/2022[13], in materia di riforma del processo tributario ha fatto la sua comparsa, a livello ordinamentale, il comma 5-bis all’art. 7 d.lgs n. 546/1992[14], che regola l’onere probatorio delle parti del processo tributario fornendo, al contempo, una regola di giudizio volta a conformare il potere decisorio del giudice tributario, in dipendenza dell’esito dell’attività allegatoria e probatoria dell’amministrazione finanziaria.

Peraltro, si è affermato che la norma ha costituito ragione di “sorpresa” per gli interpreti, non essendo la stessa contemplata dalla relazione parlamentare[15].

E dalla repentinità della sua introduzione dipenderebbe anche la sua imperfetta formulazione lessicale, che, in ogni caso, sarebbe anche l’esito del compromesso fra le composite forze politiche presenti in Parlamento al momento della sua approvazione.

Testualmente, si prevede che «L’amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato» e, al contempo, che «Il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni».

Dunque, sotto tal ultimo profilo, l’atto impositivo deve essere caducato nelle ipotesi in cui:

a) difetti la prova della fondatezza della pretesa tributaria azionata;

b) la prova vi sia ma risulti affetta da (evidente) contraddittorietà;

c) la prova sia stata fornita, ma in modo incompleto, ragion per cui la stessa risulti inidonea a dimostrare in modo circostanziato e puntuale – comunque, nel rispetto della normativa tributaria sostanziale – le ragioni oggettive poste a fondamento della pretesa impositiva o delle sanzioni irrogate.

Ne consegue che l’amministrazione finanziaria, già di per sé tenuta, in sede di formazione dell’atto impositivo, a motivare adeguatamente la pretesa fiscale – e ciò in applicazione sia di norme puntuali[16] sia del principio generale di trasparenza dell’azione amministrativa ex art. 97 Cost., comma 2[17] –, deve anche fornire una prova rigorosa dei fatti storici posti a fondamento della stessa.

Ciò in perfetta sintonia con l’inveterato insegnamento secondo cui l’amministrazione deve fornire a se stessa la prova della fondatezza dell’atto impositivo, prima ancora della sua emissione[18].

Né i due piani (quello della motivazione e quello della prova) risultano in alcun modo sovrapponibili. Infatti, la motivazione dell’accertamento (richiesta dall’art. 7 l. n. 212/2000) assolve una funzione di garanzia del destinatario, consentendo allo stesso, così come all’eventuale giudice che ne sia investito, di verificarne la conformità al modello legale.

Ciò perché l’a.f. è tenuta a esplicitare, seppur succintamente, l’iter logico-giuridico posto a fondamento della contestazione mossa verso il contribuente (Cass. civ., n. 1905/2007), ponendolo in condizione di conoscere l’an e il quantum della pretesa tributaria, onde poter articolare le proprie difese in sede contenziosa[19]

Per contro, la prova afferisce al «fondamento sostanziale della pretesa tributaria ed al suo accertamento in giudizio in presenza di specifiche contestazioni dello stesso, sicché in definitiva tra l’una e l’altra corre la stessa differenza concettuale che vi è tra allegazione di un fatto costitutivo della pretesa fatta valere in giudizio e prova del fatto medesimo»[20].

Il rigore dell’onere probatorio si ricollega, logicamente, al fatto che la prova deve essere, testualmente, puntuale, circostanziata e non contraddittoria.

L’ultimo segmento normativo è dedicato alle azioni di rimborso, riconducibili alla più ampia categoria dell’azione restitutoria e, quindi, della ripetizione d’indebito, attivabile ogniqualvolta l’importo riscosso, fin dall’inizio o per ragioni sopravvenute (caducazione con efficacia ex tunc dell’atto), risulti essere sine titulo e quindi ingiustificato, perché non sorretto da un titolo idoneo a consentirne il mantenimento presso la sfera giuridica dell’amministrazione finanziaria.

A tal riguardo, nella logica della previsione di una deroga rispetto alla regola generale, si prevede che «spetta comunque al contribuente fornire le ragioni della richiesta di rimborso, quando non sia conseguente al pagamento di somme oggetto di accertamenti». Dunque, l’onere della prova viene a incidere sulla sfera giuridica del contribuente.

Invero, pur in assenza di un’espressa previsione, al medesimo esito interpretativo deve ritenersi che si debba pervenire ogniqualvolta tal ultimo faccia valere circostanze di fatto o giuridiche idonee a escludere la pretesa impositiva (come nell’ipotesi dell’esenzione fiscale o dell’esclusione[21]); oppure a ottenerne una rimodulazione in melius (come quando deduca in giudizio l’esistenza di un’agevolazione).

È chiaro l’allocarsi delle predette ipotesi nel novero dei fatti non costitutivi, ma impeditivi o modificativi, almeno avendo riguardo alla loro preordinazione a contrastare la legittimità degli atti impugnati[22].

S’impone, a tal punto, la disamina del rapporto fra la novella tributaria e i principi generali per verificare se la stessa sia meramente confermativa degli stessi o se ne discosti e, eventualmente, in quale misura.

I principi sono individuabili in quello dell’onere della prova ex art. 2697 cc così come in quello della vicinanza alla fonte della prova. 

Muovendo dal primo, la Suprema corte, seppur non nel suo più autorevole consesso, ha avuto modo di pronunciarsi in modo isolato sui rapporti fra lo stesso e la norma del 2022, affermando che «In tema di onere probatorio gravante in giudizio sull’amministrazione finanziaria in ordine alle violazioni contestate al contribuente, per le quali non vi siano presunzioni legali che comportino l’inversione dell’onere probatorio, l’art. 7, comma 5-bis, del d.lgs. n. 546 del 1992, introdotto dall’art. 6 della l. n. 130 del 2022, non stabilisce un onere probatorio diverso, o più gravoso, rispetto ai principi già vigenti in materia, ma è coerente con le ulteriori modifiche legislative in tema di prova, che assegnano all’istruttoria dibattimentale un ruolo centrale (Cass. 27/10/2022, n. 31878)»[23].

Secondo il giudice della nomofilachia, la norma non avrebbe una portata effettivamente innovativa, limitandosi a cristallizzare l’ordinario criterio di riparto enucleato dall’art. 2697 cc, che consacra il principio generale, già pienamente applicabile al processo tributario, secondo cui determinante ai fini della distribuzione dell’onere della prova è la natura del fatto da provare, così come la sua ascrizione al novero dei fatti costitutivi, impeditivi o estintivi.

Invero, la scelta operata dal codice del 1942, per quanto rispondente a un principio di ragionevolezza, non rappresenta l’unica opzione teoretica prospettata[24].

Secondo tale impostazione ricostruttiva, il ruolo della novella sarebbe comunque rilevante nella misura in cui avrebbe parificato formalmente i due sistemi processuali, mutuando la regola dal rito civile. Ciò, con indubbio vantaggio rispetto a quelle esigenze di certezza e prevedibilità degli effetti giuridici che sono valori imprescindibili per un sistema giuridico moderno e competitivo quale anela ad essere l’ordinamento italiano. 

D’altronde, lo stesso Ufficio del massimario e del ruolo della Corte di cassazione, nell’imminenza dell’entrata in vigore della novella, aveva avuto modo di evidenziare come «la norma mir[i], con ogni evidenza, a cristallizzare e rendere indiscussa una regola che poteva ritenersi già assodata nella materia, posto che attore di fatto è sempre l’ente impositore».

In coerenza con il principio dell’onere della prova, è cioè il ruolo assegnato dal legislatore – e, quindi, dall’ordinamento – al fatto storico nella costruzione delle fattispecie a costituire criterio dirimente ai fini della regolazione dell’onere della prova.

Dunque, bisogna verificare ed esaminare la fattispecie costitutiva del diritto, quale discendente dallo schema – legale o anche socialmente tipico –, per individuarne i singoli elementi costitutivi. Così, ai fini della qualificazione come fatto impeditivo o estintivo, occorre analizzare le eccezioni in senso stretto, quali delineate dal legislatore. 

Ciò nella premessa che l’onere della prova graverà sul convenuto sostanziale-ricorrente formale anche nell’ipotesi in cui, pur in difetto della possibilità di riconduzione a un’eccezione tipica e, dunque, a uno schema normativo predefinito[25], il fatto possa essere qualificato quale oggetto di una mera difesa.

Ovviamente, come noto, la qualificazione come eccezione o quale mera difesa, in genere, nel rito civile rileva ai fini dell’individuazione del regime delle preclusioni processuali, operante solo per le prime.

Nondimeno, in materia di giudizio tributario, che ha natura impugnatoria, la suddetta differenza si svilisce fino ad annullarsi, ove si consideri che lo stesso è retto da una più rigorosa applicazione del principio dispositivo e che il potere di rilievo d’ufficio non trova praticamente attuazione. Al contempo, non sono prefigurabili margini operativi per un’attività di integrazione degli originari motivi di ricorso, e tale vincolo negativo si sposa e si armonizza con il correlato divieto per l’a.f. di integrare l’apparato motivazionale dell’atto impugnato, successivamente alla sua adozione e impugnazione[26]. Divieto che rinviene la propria ragion d’essere nella circostanza che le ragioni fattuali e giuridiche, esternate in sede di motivazione, concorrono a delimitare l’ambito dell’eventuale thema decidendum[27]

Una volta individuate le coordinate concettuali della materia, e quindi individuato il modo di operare del principio dell’onere della prova, che grava sull’attore per i fatti costitutivi e sul convenuto per i fatti impeditivi ed estintivi, deve evidenziarsi come attore nel processo tributario non è chi ricopre la veste formale di ricorrente, bensì l’amministrazione finanziaria autrice dell’atto impugnato. È la logica ricostruttiva propria di ogni giudizio impugnatorio che si basa su una considerazione unitaria della vicenda procedimentale e processuale e non atomistica, ovvero circoscritta al momento della reazione processuale. 

D’altronde, che l’onere della prova dovesse incombere sull’amministrazione[28] costituiva principio consolidato già della riflessione giuridica ante-novella.

Riflessione che aveva preso le mosse da due ordini di considerazioni[29]:

1) il proliferare di presunzioni legali in favore del fisco con conseguente esonero da ogni attività assertiva e probatoria, in relazione agli ambiti materiali connotati dall’operare di tali meccanismi presuntivi. Presunzioni la cui ragion di essere era sollevare l’amministrazione da quell’onere, normalmente, su di essa gravante;

2) il crescente ampliamento dei poteri istruttori riconosciuti all’amministrazione finanziaria, da esercitarsi, peraltro, anche in via “solitaria” e senza l’obbligo dell’instaurazione di un contraddittorio endoprocedimentale. Si pensi, a titolo esemplificativo, ai poteri connessi alle indagini bancarie, che, per quanto sprovviste di espressa previsione, si sono tramutate in usuale mezzo di ricerca della prova, così come ai mezzi di ricerca della prova in sede di indagini penali le cui risultanze possono essere acquisite al processo tributario, se ritualmente formate[30].

Dunque, fatta eccezione per le fattispecie in cui la stessa disciplina legislativa preveda diversamente, costituisce onere dell’ente impositore fornire la prova della fondatezza della pretesa fiscale.

In particolare, gli ermellini hanno costantemente affermato[31] che «In tema di onere probatorio gravante in giudizio sull’amministrazione finanziaria in ordine alle violazioni contestate al contribuente, per le quali non vi siano presunzioni legali che comportino l’inversione dell’onere probatorio, l’art. 7, comma 5-bis, del d.lgs. n. 546 del 1992, introdotto dall’art. 6 della l. n. 130 del 2022, non stabilisce un onere probatorio diverso, o più gravoso, rispetto ai principi già vigenti in materia, ma è coerente con le ulteriori modifiche legislative in tema di prova, che assegnano all’istruttoria dibattimentale un ruolo centrale (Cass. 27/10/2022, n. 31878)»[32].

Non è, dunque, condivisibile l’orientamento, emerso soprattutto nell’ambito della giurisprudenza di merito, secondo cui la novella avrebbe avuto l’effetto di dotare il microsistema tributario di una sua speciale regola di distribuzione dell’onere della prova, di norma – e salvo eccezioni – gravante sempre sull’amministrazione finanziaria.

A tal riguardo, per i suoi toni eloquenti, può richiamarsi Corte di giustizia tributaria di I grado di Siracusa (n. 3856/2022, dep. il 23 novembre 2022), la quale, dissentendo motivatamente dall’anzidetto pronunciamento di legittimità, ha diversamente individuato l’esegesi della norma e affermato che con il ricorso all’espressione «l’amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato» sarebbe stata introdotta nel processo tributario «una nuova regola autonoma sorta per dirimere le questioni in ordine al riparto dell’onere della prova, superando così la portata dell’articolo 2697 del codice civile e con esso la trasposizione, talora impropria, nel processo tributario di dinamiche essenzialmente privatistiche. In base alla nuova regola, dunque, è inequivocabile che sia l’Amministrazione Finanziaria che è tenuta a provare le contestazioni afferenti a tutte le tipologie di violazioni, a prescindere che si controverta di maggiori ricavi o minori costi nel regime d’impresa».

Dunque, alla novella non può riconoscersi tale ruolo innovativo, fatta eccezione per le considerazioni che si vanno a svolgere e che possono sin d’ora sintetizzarsi nella volontà per il legislatore, in una situazione di sostanziale parità di regole fra processo tributario e processo civile, di stigmatizzare, sancendone l’illiceità, alcune prassi giurisprudenziali, di fatto “distorsive” rispetto alla regola normativa astratta. 

Invero, vi è anche chi, sottacendo la pervasività dei principi civilistici e, in particolare, dell’art. 2697 cc, ha affermato che la materia tributaria sarebbe stata retta da una disciplina sua propria, concentrata essenzialmente sulla fase procedimentale e articolata in una pluralità di disposizioni disseminate nell’ambito degli statuti delle singole imposte. Disposizioni tutte connotate dal riconoscimento di un ruolo solitario dell’a.f., dotata di penetranti poteri investigativi, spesso sottratti al contraddittorio nei riguardi del contribuente[33].

Invero, qualche voce isolata era arrivata persino a sostenere l’incompatibilità della regola civilistica con l’impianto della disciplina tributaria[34], valorizzando per conseguenza, in maniera “ipertrofica”, i poteri istruttori del giudice adito.

Peraltro, nell’ambito delle tesi più eccentriche, è stato evidenziato come il tenore della norma sembri richiamare l’uso di espressioni proprie della materia processuale penale; ragione per cui ci si può esprimere in termini di una regola conformativa dell’onere probatorio di carattere “misto”, perché traente la propria fonte sia dalla materia processuale penale, sia da quella civile.

 

2.1. La tesi della ricostruzione del nuovo onere probatorio quale modulato sulle regole che presiedono all’accertamento della responsabilità penale

Secondo altra e diversa ricostruzione, quella introdotta dalla novella sarebbe, invece, una regola processualistica tipicamente penale.

Né si può dubitare della ontologica diversità delle due regole di giudizio, civile e penale. 

In effetti, costituisce principio interpretativo consolidato quello per cui la causalità civile dev’essere declinata ricorrendo all’espressione sintetica del cd. “più probabile che non”, secondo cui un evento antigiuridico può dirsi cagionato dalla condotta umana, ogniqualvolta tal ultimo possa essere ritenuto, sotto il profilo statistico, la più probabile causa in termini di coefficiente percentualistico.

Tale criterio di giudizio viene spesso denominato come “preponderanza dell’evidenza” (preponderance of the evidence)[35].

Per tale giurisprudenza, in particolare, la regola del “più probabile che non”, in particolare – per riprendere tale impostazione dommatica – implica che rispetto a ogni enunciato si consideri l’eventualità che esso possa essere vero o falso, ossia che sul medesimo fatto vi siano un’ipotesi positiva e una speculare ipotesi negativa.

Tra queste due ipotesi alternative, il giudice deve scegliere quella che, in base alle prove disponibili, abbia un grado di “conferma logica” superiore all’altra: sarebbe infatti irrazionale preferire l’ipotesi che sia meno probabile dell’ipotesi inversa. 

In altri termini, l’affermazione della verità dell’enunciato implica che vi siano prove preponderanti a sostegno di essa: ciò accade quando vi sono una o più prove dirette – di cui è sicura la credibilità o l’autenticità – che confermano quell’ipotesi, oppure quando sono individuabili una o più prove indirette dalle quali si possono derivare validamente inferenze convergenti a supporto di essa.

Per parte propria, la regola della “prevalenza relativa” della probabilità rileva – quanto al nesso causale, nel caso di cd. “multifattorialità” nella produzione di un evento dannoso (ovvero quando all’ipotesi, formulata dall’attore, in ordine all’eziologia dell’evento stesso possano affiancarsene altre) – allorché sullo stesso fatto esistano diverse ipotesi, ossia diversi enunciati che narrano il fatto in modi diversi, e queste ipotesi abbiano ricevuto qualche conferma positiva dalle prove acquisite al giudizio, dovendo invero essere prese in considerazione solo le ipotesi che sono risultate “più probabili che non”, poiché le ipotesi negative prevalenti non rilevano. Orbene, ricorrendo tale evenienza, vale a dire se vi sono più enunciati sullo stesso fatto che hanno ricevuto conferma probatoria, la regola della prevalenza relativa – sempre secondo l’impostazione dottrinaria di cui sopra – implica che il giudice scelga come “vero” l’enunciato che ha ricevuto il grado relativamente maggiore di conferma sulla base delle prove disponibili.

Dunque la causalità civile, così sommariamente ricostruita, non si atteggia come quella penale, essendo tal ultima conformata dalla regola di cui all’art. 533 cpp, che subordina la condanna dell’imputato alla circostanza che “al di là di ogni ragionevole dubbio” consti la colpevolezza del soggetto.

Sono note, del resto, le ragioni di tale differenziazione dell’onere probatorio, che risiedono nella diversa funzione delle due tipologie di responsabilità, che si traduce in distinti regimi e garanzie.

Solo in ambito penalistico[36] ricorre la presunzione di innocenza fino a prova contraria di cui all’art. 27 Cost., laddove il modello civile appare pluristrutturato e pluriforme, essendo connotato da plurime ipotesi di responsabilità cd. “speciali” (ex artt. 2051, 2052, 2053 cc, etc.), presunte o di natura oggettiva.

Dunque, in ambito civilistico, la responsabilità può anche essere presunta e non richiedere l’assolvimento dell’onere della prova.

D’altronde, la finalità ispirativa della responsabilità civile è, come noto, differente da quella penale. Ciò perché la prima è preordinata a compensare il danno ingiusto, ripristinando la consistenza originaria della sfera giuridica violata mediante una misura di carattere meramente economico e destinata a incidere, a sua volta, sulla sfera del danneggiante. Per contro, la seconda risponde a un fine di repressione della condotta criminosa mediante l’irrogazione di una sanzione, con finalità punitiva e, in astratto, anche rieducativa, che va a incidere sul bene primario della libertà personale.

La diversità di beni giuridici incisi è a fondamento delle ragioni per cui l’ordinamento, ai fini dell’accertamento della responsabilità civile, esige una soglia probabilistica inferiore a quella penale.

Orbene, volgendo lo sguardo al processo tributario, è evidente come la logica della pretesa impositiva sia accostabile di più a quella civilistica che a quella penale, fatta eccezione per l’ipotesi nella quale a essere oggetto di riscossione siano le sanzioni di cui è evidente la funzione afflittiva.

Per quanto le sanzioni tributarie presentino profili di eterogeneità rispetto a quelle penali, in quanto incidenti sul patrimonio del ricorrente e non sulla sua libertà personale, esiste un movimento culturale e giuridico che ne sostiene l’assimilazione, specie ai fini dell’applicazione delle garanzie convenzionali (Cedu), tra cui il divieto di bis in idem[37]

Ciò per il loro medesimo profilo funzionale, nonché per la loro capacità di incidere su diritti fondamentali della persona, quale, nella logica convenzionale, deve considerarsi anche la proprietà[38]

Così, la diversità di formulazione della novella rispetto alle regole civilistiche non può, in assenza di una specifica volontà legislativa di esclusione, far ritenere l’inoperatività del principio di non contestazione[39].

Anche in virtù del generico richiamo al sistema processuale civile, se ne deve ritenere la piena cittadinanza anche nel rito tributario, in quanto in grado di inverare indubbie esigenze di economia processuale, dotate di rilievo anche costituzionale e convenzionale.

 

3. Il criterio della vicinanza alla fonte della prova come criterio idoneo a determinare lo spostamento del “naturale” riparto della prova

Il criterio della vicinanza alla fonte della prova ha fatto autorevolmente ingresso nel nostro ordinamento a seguito della pronuncia delle sezioni unite, n. 13533 del 2001, in materia di prova dell’inadempimento nella responsabilità contrattuale.

La Suprema corte, evidenziando l’aporia logica della dimostrazione probatoria di una circostanza di contenuto negativo, qual è l’inadempimento della prestazione, pur rientrante fra i fatti costitutivi del diritto (all’adempimento) azionato, ha affermato che l’onere della prova non può non essere «ripartito tenuto conto, in concreto, della possibilità per l’uno o per l’altro soggetto di provare fatti e circostanze che ricadono nelle rispettive sfere di azione»; possibilità che va commisurata alla vicinanza del fatto da provare alla propria sfera giuridica e organizzativa.

Né, secondo l’autorevole consesso, il paradosso di una prova negativa sarebbe superabile dall’argomento per cui la stessa potrebbe essere sempre fornita mediante la prova degli speculari fatti positivi[40].

La pronuncia ha richiamato, a tal riguardo, anche il cd. principio della presunzione di persistenza del diritto, che non è altro che l’elaborazione pretoria di una presunzione semplice o hominis, perché non prevista dal legislatore, ma frutto di un ragionamento interpretativo[41].

Si deve, dunque, verificare se il criterio della vicinanza alla fonte della prova sia idoneo a determinare lo spostamento dell’ordinario riparto della prova, conseguente all’applicazione del principio ex art. 2697 cc, fondato sulla mera natura del fatto e sulla sua allocazione all’interno o all’esterno del fatto costitutivo della pretesa[42]

Secondo un certo approccio interpretativo, il criterio di vicinanza alla fonte della prova, in quanto strumentale al principio dell’effettività della tutela giurisdizionale e del diritto di difesa ex artt. 24 e 113 Cost., di cui costituirebbe corollario sotto il profilo sostanziale, rappresenterebbe un principio di portata generale di rilievo non solo interno (e costituzionale), ma anche sovranazionale, rilevando all’interno sia dell’ordinamento convenzionale (artt. 6 e 13 Cedu) sia di quello eurounitario (art. 47 Cdfue)[43].

A tal riguardo, si è evidenziato come l’eventuale difficoltà incontrata dall’attore nella prova dei propri assunti – e ciò non perché la prova non esista, ma perché la fonte della stessa è lontana dalla propria sfera giuridica, collocandosi altrove – è idonea a condizionare lo stesso conseguimento della tutela agognata, per quanto ad esso dovuta[44].

Al di là della posizione rivestita da tale principio nella gerarchia delle fonti, è indubbio che addossare la prova di un fatto storico in virtù della sua vicinanza a questo o a quel soggetto costituisca scelta razionale, logica e, dunque, applicativa del principio di ragionevolezza.

Principio che costituisce declinazione del correlato principio di eguaglianza ex art. 3 Cost., la conformità al quale rappresenta parametro ai fini del vaglio della costituzionalità delle norme ordinarie sostanziali e processuali[45].

Proprio di recente, autorevole dottrina ha affermato che «l’attuale controllo di costituzionalità è totalmente pervaso dal metodo della ragionevolezza: è un controllo di ragionevolezza», e vi è stato chi, stigmatizzando il ricorso a tale parametro, ha affermato che «la giurisprudenza sulla ragionevolezza appare ormai del tutto ingovernabile, in quanto si è negli anni trasformata in una sorta di valutazione circa la ingiustizia della legge», o che trattasi di una nozione «inafferrabile nel suo contenuto».

D’altronde, a fronte dell’indubbio dinamismo interpretativo indotto dal principio de quo, è innegabile l’indispensabilità di tale categoria: ragionevole è qualunque opzione esegetica sia idonea a realizzare un equo contemperamento degli interessi in gioco, imponendo un sacrificio non sproporzionato agli interessi in gioco.

Il principio di ragionevolezza è, peraltro, ispiratore costante dell’attività esegetica proprio in materia probatoria, come dimostra il già menzionato approdo delle sezioni unite, n. 13533 del 2001, che rinviene il proprio fulcro nel criterio, chiaramente ispirato al principio di ragionevolezza, della vicinanza alla fonte della prova come criterio di distribuzione e selezione dell’onere della prova in relazione alle parti del rapporto contrattuale.

In ciò è evidente la stretta connessione tra ragionevolezza ed equità, cui senza dubbio, nell’attuale assetto ordinamentale e interpretativo, devono riconoscersi spazi operativi ben più ampi di quelli consegnati dalla tradizione giuridica, e che vedevano l’equità confinata alle ipotesi in cui il legislatore consentisse espressamente il ricorso ad essa (cd. equità secundum legem)[46].

Dunque, deve ritenersi che al principio in esame possa riconoscersi un’efficacia (re)distributiva dell’onere della prova, sempre che la sua applicazione risponda a criteri oggettivi, verificabili e condivisi. 

Ciò, peraltro, implicherebbe che il giudice, in presenza di un disaccordo fra le parti circa la prossimità della fonte della prova all’una o all’altra parte, provveda a verificare egli stesso la suddetta circostanza.

Né l’affermazione di tale principio, ovviamente, equivale a riconoscere al giudice alcun discrezionale potere di scelta circa la concreta modulazione dell’onere probatorio, in quanto lo stesso si limiterebbe a una doverosa applicazione della regola, esplicitandola in relazione alla fattispecie concreta e inverandone l’operatività[47].

Il summenzionato riferimento al principio di eguaglianza consente di evocarne quella che né è sostanzialmente la logica declinazione sotto il profilo processuale, ovvero il principio di parità delle armi di cui all’art. 111, comma 2, Cost.[48]

Tale norma, quale corollario, a sua volta, del macro-principio del giusto processo, non consente al legislatore, così come all’interprete di riconoscere alle parti della vicenda processuale posizioni di privilegio, residuo di una visione autoritaria di p.a. che agisce, normalmente, per il tramite di atti unilaterali e imperativi. 

L’amministrazione finanziaria sta in giudizio non come soggetto titolare di poteri amministrativi, che pure le appartengono ma che esercita nella fase procedimentale, ma come parte del processo.

Le coordinate costituzionali della materia della prova non si riducono all’art. 24 Cost., ma si estendono anche ad altre disposizioni, ovvero l’art. 53, comma 1, Cost. e l’art. 97, comma 1, Cost., in materia di imparzialità amministrativa[49]

Per quanto concerne il primo profilo, le fattispecie impositive devono essere strutturate dal legislatore così come ricostruite, in via esegetica, dall’interprete e concretamente applicate, mediante l’attivazione delle singole vicende procedimentali, dall’a.f. così da consentire la tassazione solo delle effettive manifestazioni di capacità contributiva, con esclusione, dunque, di quelle ipotetiche o astratte[50].

Ne consegue che qualunque accertamento fondato su meccanismi presuntivi o standardizzazioni (come nel caso di studi di settore), richiede, a livello di prova procedimentale, la verifica puntuale della tenuta logica di quella semplificazione probatoria, alla luce delle peculiari caratteristiche del caso di specie, avendo riguardo a tutti gli elementi fattuali, anche favorevoli al contribuente, che devono essere adeguatamente ricostruite e accertate in sede istruttoria[51].

 

4. L’impatto della norma sull’istruttoria amministrativa e pre-processuale

La norma in commento evidenzia che la decisione del giudice tributario deve essere fondata «sugli elementi di prova che emergono nel giudizio».

Taluni hanno voluto riconoscere al precetto una valenza ultronea rispetto all’effettiva volontà del legislatore, leggendola come volta a identificare nel processo l’unico luogo deputato alla formazione della prova, con esclusione di qualunque valore all’attività istruttoria compiuta dall’amministrazione finanziaria ai fini dell’emissione degli atti impositivi[52].

In realtà, allo stesso novello precetto deve riconoscersi non una valenza “limitativa”, ma di rafforzamento delle garanzie processuali, mediante l’enucleazione del principio per cui ogni elemento o documento, anche acquisito in sede procedimentale, può esser posto a fondamento della pronuncia giudiziale, solo previo stimolo del contraddittorio fra le parti – tra loro –, da un lato, e tra le parti e il giudice, dall’altro. 

Il processo è il luogo di selezione e vaglio degli elementi rilevanti per la decisione[53].

Ciò anche in conformità a quel modello di giusto processo delineato dall’art. 111 Cost., quale novellato a seguito della legge costituzionale del 1999, anche al fine di assicurare la tenuta convenzionale dell’ordinamento rispetto alle prescrizioni della Cedu, in particolare rispetto all’art. 6.

Dunque, il giudice tributario (collegiale o anche monocratico) non potrà, al di fuori delle massime di comune esperienza, dotate di adeguata diffusione e oggettivamente riscontrabili, trarre il suo convincimento da elementi acquisiti in sede procedimentale che non abbiano trovato ingresso nel processo per essere sottoposti al vaglio giudiziale e delle parti[54]

 

5. Margini di innovatività della novella. La sopravvivenza delle presunzioni legali e il “bando” di quelle cd. “supersemplici”

Invero, l’affermazione giurisprudenziale, riassumibile nell’espressione “nulla di nuovo sotto il sole”, non pare rispondere in toto, nella sua radicalità, all’effettiva realtà del fenomeno giuridico e, in particolare, alla successione delle regole normative nel tempo.

In materia tributaria, così come civile[55], non esiste una graduazione gerarchica delle fonti di prova cd. libera ovvero a efficacia non predeterminata ex lege, ma lasciata alla libera valutazione del giudice[56].

Dunque, deve ritenersi che tutti i tipi di prova abbiano pari dignità senza che sia possibile prefigurare un’eccezione in relazione prova presuntiva[57]

Peraltro, è noto come la presunzione[58] risponda necessariamente a una logica di tipo selettivo, che impone che la stessa non possa essere ammessa in presenza di singole circostanze con valenza indiziaria, atomisticamente considerate, ma richieda il superamento dei criteri qualificanti imposti dall’art. 2729 cc.

Infatti, il modello di prova presuntiva delineato dal codice civile richiede che le circostanze poste a fondamento del ragionamento presuntivo siano gravi, precise e concordanti, ovvero la ricorrenza di una pluralità di elementi fattuali convergenti rispetto al fine dimostrativo.

Inoltre, a completamento di questo quadro riassuntivo in relazione alla cd. prova logica, in via generale, la giurisprudenza di legittimità, nel modulare la struttura e gli effetti della prova presuntiva semplice, ha affermato, seppur in materia risarcitoria ma con enunciazioni suscettibili di assumere portata generale, che:

a) la prova per presunzioni non può ovviare all’eventuale mancata omessa allegazione dei fatti;

b) non occorre che i fatti su cui la presunzione si fonda siano tali da far apparire l’esistenza del fatto ignoto come l’unica conseguenza possibile dei fatti accertati sulla base di una relazione di necessità logica assoluta ed esclusiva. Per contro, è sufficiente che l’inferenza possa essere accertata in virtù di un canone di ragionevole probabilità, quindi in virtù dell’id quod plerumque accidit con riferimento alla connessione degli accadimenti la cui normale sequenza e ricorrenza può verificarsi secondo regole di esperienza. Ovviamente, l’affidabilità del ragionamento presuntivo sarà tanto maggiore quanto più elevata risulti la probabilità che il fatto da provare costituisca conseguenza di quello noto[59];

c) una volta che la presunzione semplice si sia formata, e sia stata rilevata (cioè, una volta che del fatto sul quale si fonda sia stata data o risulti la prova), essa ha la medesima efficacia, in termini di esonero della prova, che deve riconoscersi alla presunzione legale iuris tantum, in quanto l’una e l’altra trasferiscono a colui contro il quale esse depongono l’onere della prova contraria;

d) quando ammessa, la presunzione, in assenza di prova contraria, impone al giudice di ritenere provato il fatto previsto senza consentirgli la valutazione ai sensi dell’art. 116 cpc (Cass., 6 aprile 2011).

D’altronde, è evidente la stretta connessione fra presunzione e obbligo di motivazione giudiziale.

Infatti, il giudice, nell’ esercizio della sua discrezionalità valutativa, è tenuto a esplicitare le ragioni del proprio convincimento osservando un duplice ordine di valutazioni: un primo momento di tipo cd. “analitico”, preordinato a individuare gli elementi e le circostanze astrattamente idonei ad assolvere una funzione dimostrativa; il secondo, di tipo sintetico, che consiste in una valutazione complessiva, unitaria e sintetica di tutti gli elementi, per verificarne la concordanza e l’univocità[60].

Invero, prima della novella, il sistema tributario risultava caratterizzato da due distinte linee evolutive.

In primis, si era assistito a una – forse inconsapevole – smagliatura dei contorni delle fattispecie presuntive che, nella logica del codice del 1942, contenente una disciplina dei profili di maggiore rilevanza della prova indiretta o presuntiva, poneva precisi limiti all’ammissibilità della stessa.

Per come prefigurato dal codice sostanziale[61], il ricorso alla prova presuntiva richiede, infatti, una pluralità di circostanze convergenti verso la dimostrazione di un fatto storico che da esse viene inferito, secondo un criterio di verisimile certezza o, meglio, di ragionevolezza. Il modello di prova presuntiva delineato dal codice esige che le circostanze poste a fondamento del ragionamento presuntivo siano gravi, precise e concordanti.

Sulla base di tali premesse ricostruttive, non può dirsi sufficiente una mera relazione logica di tipo indiziario, in virtù della quale poter affermare che, al darsi di un determinato presupposto, di norma, consegue un certo effetto o una determinata conseguenza.

È necessario, infatti, che quella relazione logica sia corroborata e suffragata da una serie di circostanze ulteriori che convergano nella dimostrazione di un certo assunto probatorio.

Si tratta di una valutazione d’insieme, e non atomistica.

Tali principi sono stati spesso disattesi dalla giurisprudenza di legittimità, che ha voluto semplificare, a volte in modo eccessivo, la logica della prova presuntiva[62], accontentandosi e ritenendo sufficienti mere regole di comune esperienza o supposte tali, spesso non suffragate da un sufficiente coefficiente di verificazione (cd. presunzioni “supersemplici”[63]).

Inoltre, si era radicato[64] il convincimento (erroneo) per cui, nell’ambito della materia tributaria, non avrebbe operato il divieto, logico prima che giuridico, delle presunzioni di secondo grado (cd. praesumptio de praesumpto), secondo cui il fatto noto e non contestato potrebbe costituire la base per inferire un primo fatto ignoto, dal quale a sua volta dedurre un secondo fatto o vicenda, anch’esso non conosciuto/a, ma da ritenersi in via presuntiva[65]. Orbene, alla luce della novella, si deve ritenere che tali “bonarie” manipolazioni interpretative della prova presuntiva non possano più trovare cittadinanza nell’ambito dell’ordinamento processuale tributario.

 

6. Implicazioni concrete della novella

Premessa l’espunzione dal panorama interpretativo delle prove[66] meramente indiziarie o delle prove presuntive “eccessivamente semplificate”, si è messa in evidenza l’attitudine della norma a determinare, di fatto, l’inversione della prassi giudiziaria e probatoria con riguardo ad alcune tematiche specifiche.

Tradizionalmente, si è ritenuto che l’onere della prova della ricorrenza di elementi negativi del reddito, come i costi[67], e della loro concreta deducibilità, perché inerenti[68] e congruenti, gravasse sul contribuente[69]. Secondo il prevalente orientamento interpretativo, «ai fini della deducibilità dei costi sostenuti, il contribuente è tenuto a dimostrarne l’inerenza, intesa in termini qualitativi e dunque di compatibilità, coerenza e correlazione, non già ai ricavi in sé, ma all’attività imprenditoriale svolta, sicché deve provare e documentare l’imponibile maturato, ossia l’esistenza e la natura dei costi, i relativi fatti giustificativi e la loro concreta destinazione alla produzione»[70]

Dunque, movendo dall’ascrizione del fatto economico alla categoria delle componenti positive o, in alternativa, a quella delle negative, era usuale l’affermazione per cui «l’onere di provare la sussistenza dei requisiti di certezza e determinabilità delle componenti del reddito in un determinato esercizio sociale incombe all’Amministrazione finanziaria per quelle positive, ed al contribuente per quelle negative»[71], oltre al fatto di ammettere in sede tributaria l’applicazione del principio di “vicinanza della prova” per l’individuazione del soggetto onerato della prova medesima (Cass. civ., n. 13588/2018). In particolare, per quanto concerne le imposte sui redditi e l’IVA, in sede di contenzioso il contribuente sarebbe stato tenuto non solo a documentare l’effettività di detti costi (ovvero che gli stessi, storicamente, sono stati effettivamente sostenuti), ma anche a dimostrarne i caratteri di certezza e determinabilità[72]

A tal riguardo, in via interpretativa, ai fini del predetto giudizio di inerenza[73], si suole distinguere tra oneri tipicamente necessari alla produzione del reddito, in quanto normalmente riconducibili alla sfera imprenditoriale (come «i costi per l’acquisto di materie prime, o di macchinari o strumenti indispensabili a produrre certi beni, o di manufatti necessari per la loro custodia»), e altri oneri, connessi a operazioni atipiche rispetto alle usuali modalità di mercato.

Ovviamente, nell’ipotesi in cui tali oneri, in termini di evidenziazione formale e riscontrabile dei costi, siano disattesi, verrebbe in rilievo un costo di fatto o “in nero”, ovvero non contabilizzato e, dunque, non deducibile[74].

Dall’inerenza del costo stricto sensu, intesa come riferibilità (in senso strumentale) del bene o del servizio acquistato rispetto all’attività imprenditoriale, si suole distinguere l’inerenza in senso “quantitativo”, da declinarsi come congruità e, quindi, non eccedenza dei costi in rapporto alla produzione del reddito d’impresa[75].

Peraltro, per quanto concerne i profili dell’antieconomicità e dell’incongruità, si ritiene condivisibilmente che essi – se non gli si voglia riconoscere, di per sé, valenza preclusiva della deducibilità degli oneri – possano sempre essere considerati quali indici sintomatici del difetto di inerenza e, dunque, dell’estraneità al circuito imprenditoriale dell’atto che li ha generati[76].

Peraltro, taluni negano che la non congruità del costo possa incidere sul piano della deducibilità, condizionandola, assumendo che la stessa potrebbe «rivelarsi, al più, sintomatica di fenomeni di evasione»[77]

Si pensi, a titolo esemplificativo, alla dimostrazione probatoria della correlazione tra i costi affrontati in occasione della stipula di un contratto di swap e la sua strumentalità all’attività di impresa, in considerazione della sua finalità non di scommessa e di eventuale locupletazione, bensì di copertura del rischio connesso alle operazioni attinenti[78].

In dottrina, all’entrata in vigore della novella, si è evidenziato come la tradizionale ripartizione[79] dell’onere della prova potrebbe non essere più coerente con la tendenziale assolutezza dell’onere della prova della p.a.

Pertanto il ricorrente, nella sua veste di contribuente, non dovrebbe più dimostrare l’inerenza di un costo per conseguirne la deduzione dalla base imponibile, posta a fondamento del calcolo del reddito d’impresa.

In particolare, si afferma che, poiché in virtù dell’art. 7, comma 5-bis, d.lgs n. 546/1992, introdotto dall’art. 5 l. n. 130/2022, l’a.f. deve provare in giudizio «le violazioni contestate con l’atto impugnato», nel contestare un’infedele dichiarazione dovuta alla deduzione di oneri privi di inerenza, la stessa non potrebbe «limitarsi ad allegare fatti e/o a prospettare argomentazioni in ordine alla anormalità degli atti da cui derivano, ma dovrebbe altresì fornire le ragioni per le quali la dedotta anormalità possa essere assunta come indicativa di una carenza di connessione tra questi atti e l’attività imprenditoriale del contribuente». Dovrebbe, cioè, provare non solo l’anormalità, ma anche il difetto di inerenza[80].

Invero, tale soluzione non sembra condivisibile o, comunque, avere quel grado di assolutezza che le si vorrebbe accreditare. 

Ciò per due ordini di ragioni.

Sotto il profilo logico, l’esistenza di un costo si configura quale elemento negativo della consistenza reddituale, costituendo un’ideale posta passiva idonea a deprimere o a azzerare la massa imponibile.

Ragion per cui si deve convenire con chi ritiene che la categoria del reddito d’impresa rappresenta un fatto economico di natura “complessa”, proprio perché costituito da componenti positive e negative[81]. E quale componente negativa per il fisco, non può essere provata da tal ultimo, perché lo stesso sarebbe costretto a una prova diabolica. 

In questo senso depone anche l’univoco dato testuale di cui al comma 1 dell’art. 109 del Tuir n. 917/1986, in virtù del quale «I ricavi, le spese e gli altri componenti positivi e negativi, per i quali le precedenti norme della presente Sezione non dispongono diversamente, concorrono a formare il reddito nell’esercizio di competenza».

Si pone, dunque, quale fatto antagonista alla pretesa tributaria.

Tale ricostruzione appare maggiormente coerente con la sostanza del fenomeno giuridico rispetto a quella posizione interpretativa secondo cui «il sostenimento del costo è un fatto costitutivo del diritto alla sua deduzione, ovvero un fatto impeditivo dell’obbligazione tributaria, per cui è il contribuente a doverne fornire la prova in giudizio». 

Pertanto, non è ascrivibile al novero delle eccezioni in senso stretto, sollevabili dal convenuto; né, per la sua diversità ontologica, può essere qualificato quale agevolazione in senso tecnico – fattispecie derogatoria alla par condicio tra contribuenti e, dunque, al principio di eguaglianza nel trattamento fiscale e, come tale, da considerarsi di stretta interpretazione.

In secondo luogo, anche a voler disconoscere un simile inquadramento, è indubbio che il costo afferisca alla sfera giuridica dell’imprenditore e, in generale, del contribuente che, dunque, per la sua prossimità ad esso, risulta maggiormente idoneo alla sua dimostrazione probatoria.

Pertanto, anche in applicazione del criterio della vicinanza alla fonte della prova, tal ultima dovrebbe ragionevolmente gravare sul ricorrente (sostanziale convenuto). 

D’altra parte, la disciplina sul reddito d’impresa pone in capo al contribuente una serie di obblighi procedimentali di natura contabile, prescrivendo l’idonea documentazione dei costi ai fini della loro deducibilità, così come la loro registrazione in contabilità[82].

Può, pertanto, affermarsi che tali obblighi siano da valutare in una logica dinamica e, dunque, nella prospettiva della eventuale attivazione del contenzioso, traducendosi, seppur indirettamente, nell’obbligo per il contribuente di precostituirsi la prova dell’effettivo sostenimento dello stesso. 

D’altronde, l’art. 61, comma 3, dPR n. 600/1973 vieta la dimostrazione di fatti non evidenziati nelle scritture contabili o contrastanti con le risultanze delle stesse.

Il problema del corretto riparto della prova si pone anche con riguardo alle seguenti problematiche interpretative per le quali la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto, finora, di operare il correlato onere sul ricorrente, con assunzione da parte dello stesso del rischio della mancata prova:

a) l’irrilevanza, ai fini fiscali, dei movimenti bancari posti a fondamento di un accertamento induttivo[83];

b) la ricorrenza delle condizioni fattuali e giuridiche per il riconoscimento della legittimità della detrazione (Cass.: 21 novembre 2019, n. 30366; 17 gennaio 2020, n. 902).

Ci si è chiesto[84] altresì se, all’indomani della novella, nell’ipotesi dei giudizi aventi ad oggetto il fenomeno del transferpricing, l’interprete debba ancora orientarsi per il porre in capo all’a.f. l’onere della prova della difformità del prezzo pattuito nell’ambito della transazione intercompany rispetto al “valore normale”, ovvero determinato alla stregua della logica di un mercato concorrenziale e competitivo[85]

A tal riguardo, il già menzionato principio di “vicinanza alla fonte della prova” deve indurre a ribadire la tradizionale opinione secondo cui l’Agenzia delle entrate non avrebbe le stesse opportunità di accesso agli strumenti idonei a dimostrare la rispondenza della transazione ai «prezzi che sarebbero stati pattuiti tra soggetti indipendenti operanti in condizioni di libera concorrenza e in circostanze comparabili»[86].

Ne deriva che la previsione per cui l’onere della prova sarebbe, normalmente, a carico dell’ente impositore «può finire per provocare tensioni e incertezze allorquando i suoi poteri siano nel concreto affievoliti»[87], così come si verifica allorquando in tutto o in parte la fattispecie impositiva si sia perfezionata all’estero; contingenza che rende, spesso, complesso e inefficiente l’esercizio dei poteri istruttori della p.a.

 

7. Ipotesi sicuramente invariate

In relazione a talune fattispecie, si conviene che la novella non abbia apportato effettivamente alcuna variazione in sede esegetica.

In particolare, si pensi alle società cd. “di comodo”.

Ciò in considerazione della fonte legale della loro previsione. Esse non costituiscono frutto di un’operazione esegetica e puramente interpretativa, ma costituiscono l’oggetto di una previsione legale.

Previsione legale cui, probabilmente, si è pervenuti a seguito di una riflessione interpretativa diffusa, condivisa e sedimentata, dandole veste normativa.

Nondimeno, ciò, ai fini della disamina del fenomeno in questione, non rileva.

Ciò in quanto è la mera corrispondenza a un modello legale che sottrae le società fittizie a qualunque variazione di una disciplina, anche probatoria, che è predefinita dal legislatore e sottratta alle mutevoli scelte dell’interprete.

Queste sono le ragioni logiche e giuridiche per le quali deve ritenersi che la novella non abbia in alcun modo impattato sulle cd. presunzioni legislative, sia relative sia assolute.

Anche in tal caso viene in rilievo una costruzione normativa “indisponibile” da parte dell’interprete; così come la stessa non può considerarsi lambita da una norma che si limita a cristallizzare una regola di ripartizione della prova (e del correlato rischio) senza neutralizzare l’operare delle presunzioni di fonte normativa. Presunzioni le quali, anzi, risultano in piena armonia con la stessa, limitandosi ad esentare l’amministrazione-attore sostanziale dal correlato onere. 

 

8. La natura retroattiva o meno della norma: le prime applicazioni interpretative

Per quanto concerne l’applicazione nel tempo della novella, non può negarsi che il problema della sua retroattività dipenda proprio dal suo porsi quale mera formalizzazione e cristalizzazione di principi già operanti, oppure quale ius novum.

Si è cercato di evidenziare come la norma, al di là di alcune suggestioni panpenalistiche, mutui il principio generale ex art. 2697 cc (con un eventuale aggravamento probatorio solo per la sanzioni), ma si discosti da talune prassi interpretative che minavano la tenuta complessiva del principio, in taluni casi svuotando, di fatto, l’onere probatorio dell’amministrazione.

D’altronde, sotto altro profilo, la sua retroattività discende dalla sua qualificazione in termini di regola processuale e non sostanziale, come tale soggetta al principio “tempus regit actum”.

Da ciò conseguirebbe la sua applicabilità anche ai processi in corso, ogniqualvolta l’atto del decidere e prima ancora la prodromica attività probatoria siano ancora da porre in essere. 

 A tal riguardo, si è pronunciata la Corte di giustizia tributaria di primo grado di Reggio Emilia con la sentenza n. 293, depositata il 30 dicembre 2022, secondo cui «la novella ha natura processuale e, dunque, è applicabile a tutti i processi pendenti alla data del 16 settembre 2022 (…); tale natura discende, in primo luogo, dalla stessa lettera della norma, la quale fa espresso riferimento alla “prova in giudizio” [:] “l’amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato”».

 

9. Brevi notazioni conclusive

Dunque, l’interprete è al cospetto di una norma che, lungi dal porsi quale mero doppione di un principio già operante, ne affina i contorni, adattandolo alla specialità della materia tributaria e alla logica delle pretese erariali, ma soprattutto ne impone una lettura evolutiva al fine di agevolarne il raccordo con altri principi e, in particolare, con quelli (sopravvenuti) di derivazione convenzionale ed eurounitaria[88]

Un’ulteriore conferma, dunque, del ruolo delle regole generali[89] e della loro indubbia funzione non solo esegetica, ma di eterointegrazione del comando, dettato dalle singole specifiche disposizioni.

E principi sono, come evidenziato, non solo quelli desumibili dal codice civile[90], ma anche quelli traibili dalla Costituzione, così come dall’ordinamento comunitario e convenzionale[91], nell’ambito di quella stratificazione e concorrenza di regole, anche nostrane, che è propria di un ordinamento – quale è quello attuale – plurilivello, connotato, peraltro, dal constante e virtuoso dialogo fra le corti[92]

 

 

1. Per una ricostruzione storica della materia, vds. G. Mercuri, Onere della prova: dal contributo di Allorio alla recente riforma del processo tributario, in  Riv. dir. fin., n. 3/2022, p. 324.

2. Peraltro, taluni autori hanno voluto evidenziare come la relatio al codice processuale civile non sia da intendersi quale richiamo integrale dell’impianto normativo, ma quale recezione dei soli principi di diritto processuale comune, di cui il codice di rito civile rappresenta la codificazione.

3. Vds., in generale, G.A. Micheli, L’onere della prova, CEDAM, Padova, 1966 (rist.); G. Verde, L’onere della prova nel processo civile, Jovene, Napoli, 1974; M. Taruffo, Onere della prova, in Dig. civ., vol. XIII, UTET, Torino, 1995, p. 66; E. Vergès - G.Vial - O. Leclerc, Droit de la preuve, PUF, Parigi, 2015, p. 203.

4. In chiave sia suppletiva della regola negoziale, sia imperativa.

5. L. Durello, Appunti sulla regola dell’onere della prova nel diritto processuale civile inglese, in Diritto degli affari, n. 3/2019, p. 420.

6. G.A. Micheli, L’onere della prova, CEDAM, Padova, 1942, pp. 178-190.

7. G. Verde, L’onere della prova, op. cit.; Id., Considerazioni sulla regola di giudizio fondata sull’onere della prova, in Riv. dir. proc., 1972, p. 438; Id., voce “Prova” (diritto processuale civile), in Enc. dir., vol. XXXVII, Giuffrè, Milano, 1988, p. 579.

8. S. Patti, Prove. Disposizioni generali, voce in A. Scialoja e G. Branca (a cura di), Commentario del codice civile, Zanichelli/Il Foro Italiano, Bologna/Roma, 1987, p. 12.

9. In tema. M. Taruffo, Onere della prova, op. cit.

10. M. Taruffo, L’onere come figura processuale, in Riv. trim. dir. proc. civ., n. 2/2012, p. 425.

11. Ciò in virtù del principio dell’acquisizione probatoria, secondo cui ogni prova è utilmente utilizzabile ai fini della dimostrazione di qualunque fatto anche se della sua prova sia onerata un parte diversa da quella che ne ha fornito la prova: vds. M. Taruffo, La valutazione delle prove, in Id. (a cura di), La prova nel processo civile, in A. Cicu - F. Messineo - L. Mengoni - P. Schlesinger, Commentario, Giuffrè, Milano, 2012, p. 248.

12. Vds. G. Cian (a cura di), Commentario breve al codice civile, CEDAM (Wolters Kluwer), Milano, 2016 (XII ed.), sub art. 2967, p. 3477.

13. R. Succio, Riforma processo tributario: l’onere della prova prevista dalla L. 130/2022, in Altalex, 28 settembre 2022.

14. Vds., sul punto, D. Deotto e L. Lovecchio, L’Amministrazione prova in giudizio i rilievi contenuti nell’atto impugnato, in Fisco, n. 39/2022, p. 3714; M. Ligrani e P. Saggese, L’onere della prova nel processo tributario, a seguito della legge 31 agosto 2022, n. 130, Fondazione Nazionale dei Commercialisti, paper, 14 dicembre 2022, p. 11.

15. R. Succio, Riforma, op. cit. Secondo l’A., tale inserimento a sorpresa ne avrebbe determinato la scarsa ponderazione sotto il profilo contenustico.

16. Infatti, l’art. 7 dello Statuto del contribuente così recita:
«Gli atti dell’amministrazione finanziaria sono motivati secondo quanto prescritto dall’articolo 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241, concernente la motivazione dei provvedimenti amministrativi, indicando i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione. Se nella motivazione si fa riferimento ad un altro atto, questo deve essere allegato all’atto che lo richiama. 2. Gli atti dell’amministrazione finanziaria e dei concessionari della riscossione devono tassativamente indicare: a) l’ufficio presso il quale è possibile ottenere informazioni complete in merito all’atto notificato o comunicato e il responsabile del procedimento; b) l’organo o l’autorità amministrativa presso i quali è possibile promuovere un riesame anche nel merito dell’atto in sede di autotutela; c) le modalità, il termine, l’organo giurisdizionale o l’autorità amministrativa cui è possibile ricorrere in caso di atti impugnabili. 3. Sul titolo esecutivo va riportato il riferimento all’eventuale precedente atto di accertamento ovvero, in mancanza, la motivazione della pretesa tributaria. 4. La natura tributaria dell’atto non preclude il ricorso agli organi di giustizia amministrativa, quando ne ricorrano i presupposti».

17. D’altronde, a seguito dell’oramai consolidata riflessione costituzionale, non è dato dubitare della diretta precettività di questa come di altre disposizioni costituzionali.

18. E. Allorio, Diritto processuale tributario, UTET, Torino, 1966, p. 363.

19. Vds. Cass. civ., n. 11284/2022.

20. Cass. civ., nn. 955/2016 e 9810/2014.

21. L’elemento di distinzione fra le esenzioni e le esclusioni risiede, per principio interpretativo consolidato, nel fatto che le prime rappresentano una previsione derogatoria rispetto al regime generale e, dunque, ordinario del tributo, laddove le esclusioni sono lo strumento attraverso cui il legislatore specifica, chiarificandoli, i contorni della fattispecie impositiva al fine di sancire l’inapplicabilità della stessa a fattispecie che, in ogni caso, sono estranee al presupposto impositivo.

22. Tale ricostruzione in termini di fatto impeditivo è posta in crisi da coloro che evidenziano come l’esenzione non dia luogo a una fattispecie autonoma da quella impositiva, in quanto la stessa farebbe parte della stessa norma impositiva.
Invero, la correttezza di tale inquadramento dell’esenzione nella medesima fattispecie impositiva non esclude che la stessa sia annoverabile tra i fatti che ostano all’esercizio del diritto in quanto una cosa è la fonte giuridica del fatto, altra la sua funzione logica e giuridica.

23. Cass., ordd. nn. 17423/2023 e 37985/2022; in dottrina, C. Are, L’onere della prova nel processo tributario: per la Cassazione nihil sub sole novi, commento a Cass., sez. trib., ord. n. 31880 del 25 ottobre 2022, in Fisco, n. 47-48/2022, pp. 4573 ss.

24. Vds. Enciclopedia Treccani, che ricostruisce il pensiero di vari Autori: R.H.Gaskins, Burden of Proof in Modern Discourse, Yale University Press, New Haven/Londra, 1992, p. 23; E. Vergès - G. Vial - O. Leclerc, Droit de la preuve, op. cit., p. 198.
Vi è anche chi attribuisce, genericamente, l’onere probatorio a chi, promuovendo il giudizio, richiede l’intervento dell’autorità giudiziaria: D.A. Nance, The Burdens of Proof. Discriminatory Power, Weight of Evidence and Tenacity of Belief, Cambridge University Press, Cambridge, 2016, p. 3. 
Si è evocata, quale criterio selettivo, anche la deduzione in giudizio di un fatto “anomalo”, perché discostantesi dall’id quod plerumque accidit e, dunque, non supportabile per il tramite di una regola di esperienza: E. Vergès - G. Vial - O. Leclerc, op. ult. cit., pp. 205 e 209; così come un generale dovere di correttezza che impone che chiunque assuma l’esistenza di un fatto o di un accadimento ne dia idonea dimostrazione: P. Grice, Studies in the Ways of Words, Harvard University Press, Cambridge (MA)/Londra, 1989, p. 27.

25. Il riferimento è alle eccezioni in senso stretto, come quelle di compensazione o di prescrizione.

26. Cass., ord. n. 7649, dep. 2 aprile 2020.

27. Cass. civ., n. 17762/2002.

28. R. Bianchi e G. Graziadei, L’onere della prova dopo la riforma del processo tributario, in Fisco e tasse, 28 dicembre 2022.

29. Vds., in tal senso, S. Muleo, Riflessioni sull’onere della prova nel processo tributario, in Riv. trim. dir. trib., n. 3/2021, p. 603.

30. Vds., in specifico, sulla tematica dell’efficacia extrapenale delle prove acquisite in sede penale, S. Loconte e I. Barbieri, La circolazione delle prove tra il processo tributario e il processo penale, in Processo, n. 2/2020, p. 465.

31. Da ultimo, vds. Cass., n. 6772/2023.

32. Cass., ordd. nn. 17423/2023 e 37985/2022.

33. R. Succio, Riforma, op. cit. Secondo l’A., «la prova tributaria era retta da un regime legale suo proprio, principalmente disegnato per la fase procedimentale, nella quale come è noto brilla l’assenza del giudice».

34. C. Glendi, voce “Processo tributario”, in Enc. giur. Treccani, vol. (agg.to) XII, Giuffrè, Milano, 2005, § 5.4.

35. In via interpretativa, di recente, è stato affermato che la cd. preponderanza dell’evidenza deriva dalla combinazione di due regole:
- la regola del “più probabile che non”;
- la regola della “prevalenza relativa” della probabilità.

36. F. Carnelutti, Prove civili e prove penali, in Riv. dir. proc., n. 1/1925 (vol. II), p. 3.

37. M. Allena, Garanzie procedimentali e giurisdizionali alla luce dell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, in Giust. amm., 2012, pp. 1-20; Id., Il caso Grande Stevens c. Italia: le sanzioni CONSOB alla prova dei principi CEDU, in Giornale di diritto amministrativo, n. 11/2014, pp. 1-15; Id., La sanzione amministrativa tra garanzie costituzionali e principi CEDU: il problema della tassatività-determinatezza e prevedibilità, in Federalismi, n. 4/2017 (22 febbraio), pp. 1-28.

38. Vds. M. Allena, La potestà sanzionatoria delle Autorità indipendenti come luogo di emersione di nuove sistemazioni concettuali e di più elevati canoni di tutela dettati dal diritto sovranazionale europeo (I), in Id. e S. Cimini (a cura di), Il potere sanzionatorio delle Autorità amministrative indipendenti, in Diritto dell’economia, fasc. n. 3, Mucchi, Modena, 2013.

39. L’art. 115 cpc prevede che il giudice fondi la sua decisione, oltre che sulle prove prodotte dalle parti e dal pubblico ministero, anche sui «fatti non specificamente contestati dalla parte costituita»; in dottrina, vds. M. Taruffo, Art. 115, in A. Carratta e Id., Poteri del giudice, in S. Chiarloni (a cura di), Commentario del Codice di Procedura Civile, Zanichelli, Bologna, 2011, p. 483; B. Ciaccia Cavallari, La contestazione nel processo civile. I - La contestazione tra norme e sistema, Giuffrè, Milano, 1992, e Id., II - La non contestazione: caratteri ed effetti, ivi, 1993; A. Carratta, Il principio della non contestazione nel processo civile, Giuffrè, Milano, 1995; L.P. Comoglio, Le prove civili, UTET giuridica (WK), Milano, 2010 (III ed.), p. 107.

40. Vds. A. Palmieri, La prova contraria nei giudizi civili: lo stato delle questioni, in Riv. trim. dir. proc. civ., n. 3/2014, p. 1195.

41. Creazione del diritto vivente, il principio di vicinanza sembra aver costituito la ratio ispirativa dell’art. 64 cpa, secondo cui incombe sulle parti l’onere (di allegare e) fornire gli elementi probatori a fondamento delle domande e delle eccezioni proposte in sede giudiziale, che si trovino “nella loro disponibilità”. Ciò nella doverosa premessa che, pur dopo la riforma del 2010, il codice di rito amministrativo, diversamente da quello tributario, continua ad essere fondato sul principio acquisitivo, riconoscendo poteri officiosi per il giudice, da esercitarsi a integrazione e a supporto degli elementi probatori forniti dalle parti.

42. Vds. A. Vozza e M. Sironi, Il principio di “vicinanza alla prova” nei giudizi sul transfer price, in Fisco, n. 36/2022, p. 3445; G. Vanz, Criticità nell’applicazione in ambito tributario della regola giurisprudenziale della vicinanza della prova, in Dir. prat. trib., n. 6/2021, p. 2585.

43. Da tale peculiare collocazione nella gerarchia delle fonti del principio della vicinanza alla fonte della prova, ove l’interprete rilevi un contrasto fra la singola applicazione concreta della novella e il superiore principio, si porrebbe un problema d’incostituzionalità e anche di compatibilità comunitaria, da far valere nei modi e nelle forme previste dall’ordinamento, e dunque, rispettivamente, suscettibile di consentire un sindacato diffuso e accentrato.

44. Vds. S. Muleo, Riflessioni, op. cit.

45. Vds., in generale, S. Patti, Ragionevolezza e clausole generali, Giuffrè, Milano, 2013; E. Del Prato, Ragionevolezza e bilanciamento, in  Riv. dir. civ., n. 1/2010, p. 23. 

46. Ragionevolezza ed equità sono clausole generali che consentono all’ordinamento – unitamente ai principi personalistico e solidaristico ex art. 2 Cost. – di adattarsi alla molteplicità e alla novità delle istanze di tutela, provenienti dal corpo sociale così come dal tessuto costituzionale, smussando il rigore del diritto positivo e assicurandone la tenuta costituzionale. Oppure, più semplicemente, come nel caso di specie, assicurano un equilibrato bilanciamento fra valori confliggenti, individuando di volta in volta modalità di composizione adeguate alla fattispecie di cui si imponga la definizione giudiziale. 

47. Vds., in tal senso, S. Muleo, Riflessioni, op. cit.

48. Vds. R. Succio, Riforma, op. cit.

49. R. Succio, op. ult. cit.

50. Ivi.

51. Cass., sez. V: 3 febbraio 2006, n. 2411; 10 settembre 2007, n. 18983. 

52. Vds. M. Mauro, La prova della deducibilità fiscale dei costi d’impresa nel processo tributario, in Riv. dir. fin., n. 2/2022, p. 193.

53. M. Mauro, op. ult. cit.

54. Vds., per un raffronto con i diversi poteri istruttori riconosciuti al giudice civile, M. Cappelletti, Iniziative probatorie del giudice e basi pregiuridiche della struttura del processo, in Riv. dir. proc., 1967, p. 407.

55. V. Andrioli, voce “Prova” (diritto processuale civile), in Nss. dig. it., vol. XIV, UTET, Torino, 1967, p. 292; G. De Stefano, voce “Onere” (diritto processuale civile), in Enc. dir., vol. XXX, Giuffrè, Milano, 1980, p. 114; G. Chiovenda, Istituzioni di diritto processuale civile, Jovene, Napoli, 1935: vol. I, p. 5, vol. II, p. 318; E. Betti, Diritto processuale civile italiano, Soc. Ed. del Foro Italiano, Roma, 1936 (II ed.), p. 331.

56. Vds., in generale, con riguardo al rito civile, L.P. Comoglio, Le prove civili, op. cit.

57. Cass., sez. I, 8 maggio 2003, n. 6970, in Giur. it., 2004, p. 2070, con nota di Valecchi, Nota in materia di prova per presunzioni.

58. Vds., per una disamina della prova presuntiva, R. Sacco, Presunzione, natura costitutiva o impeditiva del fatto e onere della prova, in Riv. dir. civ., vol. I, 1957, p. 399.

59. Vds., in tal senso, G. Palumbo, ll principio dell’onere della prova nel processo tributario, in Informazione fiscale, 30 maggio 2023.

60. G. Palumbo, op. ult. cit.

61. Vds. L.P. Comoglio, Le prove civili, op. cit., p. 249; M. Taruffo, La valutazione delle prove, in La prova nel processo civile, in A. Cicu - F. Messineo - L. Mengoni - P. Schlesinger (a cura di), Il Codice Civile - Commentario, Giuffrè, Milano, 2012, p. 244.

62. E. Benigni, Presunzioni giurisprudenziali e riparto dell’onere probatorio, Giappichelli, Torino, 2014, p. 7; G.F. Ricci, Questioni controverse in tema di onere della prova, in Riv. dir. proc., n. 2/2014, p. 321.

63. Vds., per una ricostruzione del panorama interpretativo pre-novella: A. Contrino, Appunti in tema di accertamenti induttivi e presunzioni supersemplici, in Riv. dir. fin., n. 1/2018, p. 130.

64. R. Bianchi e G. Graziadei, L’onere della prova, op. cit.

65. Cass. civ.: nn. 20748/2019, 29350/2021, 23860/2020.

66. S. Patti, Le prove. Parte generale, in G. Iudica e P. Zatti (a cura di), Trattato di Diritto Privato, Giuffrè, Milano, 2010, pp. 47 ss.

67. M. Mauro, La prova, op. cit.

68. Sul tema, A. Ballancin, Inerenza, congruità dei costi ed onere della prova, in Rass. trib., n. 3/2013, p. 590; G. Fransoni, La Finanziaria 2008 e i concetti di inerenza e congruità, in Id. (a cura di), Finanziaria 2008, Giuffrè, Milano, 2008, p. 168; L. Peverini, Giudizio di fatto e giudizio di diritto in materia di costi non inerenti all’attività d’impresa, in Riv. dir. trib., n. 1o/2008, p. 917; G.M. Cipolla, La prova tra procedimento e processo tributario, CEDAM, Padova, 2005, p. 599.

69. Vds., ex multis, Cass., 23 agosto 2017, n. 20303.

70. Cass.: 2 marzo 2021, n. 2224; 17 gennaio 2020, n. 902.

71. Cass. civ., sentt. nn.: 15320/2019, 36097/2021, 32280/2018, 28671/2018, 13300/2017, 20521/2006.

72. M. Mauro, La prova, op. cit.

73. Vds., in generale, P. Tarigo, Il giudizio d’inerenza dei costi d’impresa in alcune recenti sentenze della Corte di Cassazione, in Riv. dir. fin., n. 3/2016, p. 423.

74. Su tale specifica problematica, vds. E. Artuso, La deducibilità dei “costi neri” tra disciplina specifica e profili sistematici: brevi spunti di riflessione, in Riv. dir. trib., n. 10/2013, p. 981.

75. Vds., ad esempio, Cass.: nn. 11324/2022 e 27786/2018.

76. Taluna dottrina, in conformità agli arresti giurisprudenziali più recenti, è pervenuta a sostenere che l’una e l’altra potrebbero essere rivelative anche di un’operazione fittizia o, meglio, simulata e, dunque, in frode ai creditori e al fisco. Si afferma testualmente che «l’antieconomicità o l’incongruità dell’onere, quando designa la presenza di una forte divergenza tra il (maggiore) corrispettivo pattuito e il (minore) valore normale del bene o del servizio acquisito, potrebbe operare, a seconda delle circostanze, quale indicatore di una simulazione parziale del corrispettivo, e quindi di una parziale inesistenza dell’onere, oppure quale indicatore di una anomalia, e quindi di una non appartenenza (in tutto o in parte) all’esercizio d’impresa, dell’atto che ha generato l’onere, o, altrimenti detto, del suo carattere (integralmente o parzialmente) erogatorio anziché produttivo» – così V.G. Zizzo, Giurisprudenza e attualità in materia tributaria - Il giudizio di inerenza tra fatto e diritto, in Riv. dei Dottori commercialisti, n. 2/2023 (1° aprile), p. 371.

77. M. Mauro, La prova, op. cit. L’A. afferma che «l’assenza di conflitto di interesse tra le parti nella fissazione del prezzo contrattuale contraddistingue le fattispecie in cui l’incongruità del corrispettivo rispetto a quello di mercato, insieme ad altri elementi concordanti, è in grado di supportare un accertamento presuntivo teso a contrastare l’evasione consistente nel parziale occultamento del prezzo pattuito». 

78. Cass., 26 aprile 2017, n. 1026; 11 gennaio 2018, n. 450; 21 novembre 2019, n. 30366; 5 luglio 2021, n. 18896.

79. In relazione al panorama interpretativo prenovella: A.Vicini Ronchetti, La clausola dell’inerenza nel reddito d’impresa. Inquadramento teorico e profili ricostruttivi, CEDAM (WK), Milano, 2016, pp. 252 ss.

80. G. Zizzo, Giurisprudenza e attualità, op. cit. Ciò sarebbe imprescindibile per tradurre l’esito del giudizio sull’anormalità degli atti in fattore del giudizio sull’inerenza degli oneri (il solo decisivo per la conferma della contestazione), comunque da esperire nella misura in cui il presupposto della contestazione sia (appunto) il difetto di inerenza.

81. M. Mauro, La prova, op. cit.

82. M. Mauro, op. ult. cit.

83. Cass., 15 luglio 2022, n. 22449.

84. Vds. I. Pellecchia e A. Campana, Onere della prova e riforma del processo tributario. Riflessioni a margine delle prime pronunce sul tema, in Diritto bancario, 1° marzo 2023.

85. Per un quadro degli orientamenti interpretativi ante-riforma, G. Palumbo, Rassegna sistematica sull’attuale orientamento della giurisprudenza di legittimità in argomento di transfer pricing (2010-2014), in Riv. dir. trib., n. 7-8/2014, p. 285.

86. Cfr. art. 110, comma 7, dPR n. 917/1986: «I componenti del reddito derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato, che direttamente o indirettamente controllano l’impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società che controlla l’impresa, sono determinati con riferimento alle condizioni e ai prezzi che sarebbero stati pattuiti tra soggetti indipendenti operanti in condizioni di libera concorrenza e in circostanze comparabili, se ne deriva un aumento del reddito».

87. Vds. R. Succio, Riforma, op. cit.

88. Vds. A. von Bogdandy, I principi fondamentali dell’Unione europea. Un contributo allo sviluppo del costituzionalismo europeo, Editoriale Scientifica, Napoli, 2011; T. Tridimas, The General Principles of EU Law, Oxford University Press, Oxford, 1999; N. Reich, General Principles of EU Civil Law, Intersentia, Cambridge/Antwerp/Portland, 2014.

89. Suggerisce una più articolata e sottile distinzione, sulla base di un’analisi complessiva del sistema, M. Libertini, Clausole generali, norme di principio, norme a contenuto indeterminato. Una proposta di distinzione, in Riv. crit. dir. priv., n. 3/2011, p. 360.

90. Vds. A. Iannarelli, I “principi” nel diritto privato tra dogmatica, storia e post-moderno, in Roma e America. Diritto romano comune, n. 34/2013, p. 115.

91. Vds. F. Toriello, La responsabilità civile dello Stato per violazione del diritto comunitario nella giurisprudenza della Corte di Giustizia, in F. Galgano e M. Bin (a cura di), Contratto e impresa/Europa, vol. I, CEDAM, Padova, 1997, p. 657; F. Toriello, I principi generali del diritto comunitario. Una ricerca comparativa, Giuffrè, Milano, 2000.

92. Vds., in generale, R. Cosio e R. Foglia (a cura di), Il diritto europeo nel dialogo delle Corti, Giuffrè, Milano, 2013.