Magistratura democratica

Il contrasto dell’evasione e i reati tributari

di Fabio Di Vizio

Lo studio esamina in modo pratico e completo i fenomeni di evasione di imposta rilevanti per le fattispecie penali, soffermandosi su forme e metodi di evasione tributaria contrastati dalle singole fattispecie di infedeltà e frode fiscale ed analizzando le regole probatorie e le presunzioni tributarie, nonché le problematiche investigative nel contrasto dei reati tributari.

1. Considerazioni introduttive / 2. Il perimetro dell’evasione di imposta rilevante per le fattispecie penali dichiarative del d.lgs n. 74/2000 / 2.1. Premessa: dalla diversità della regola di giudizio alla diversità della regola da applicare / 2.2. Le norme definitorie / 2.2.1. L’art. 1, lett. b e f, d.lgs n. 74/2000: elementi attivi e passivi e imposta evasa nella prospettiva penale “fattuale” / 2.2.2. Le rettifiche di perdite e l’imposta evasa teorica: la ricostruzione della capacità contributiva effettiva / 2.2.3. La nozione settoriale di evasione d’imposta di rilievo penale: l’abuso del diritto / 2.2.3.1. Stock lending agreement / 2.2.3.2. Scissione proporzionale, conferimento di bene e cessione di quote societarie / 2.2.3.3. Scissione parziale, conferimento di beni e cessioni di quote / 2.2.3.4. Conclusioni / 2.2.4. La nozione speciale di evasione d’imposta di rilievo per la dichiarazione infedele: art. 4, commi 1-bis e 1-ter, d.lgs n. 74/2000 / 3. L’accertamento dell’imposta evasa / 3.1. Le presunzioni tributarie e le prove penali / 3.2. L’accertamento induttivo e dati bancari alla prova della specifica e autonoma valutazione da parte del giudice / 3.3. Le condizioni di deducibilità dei costi “neri” / 3.4. La detraibilità dell’IVA assolta per rivalsa sugli acquisti in caso di accertamenti induttivi / 4. Le forme e i metodi di evasione tributaria contrastati dalle singole fattispecie di infedeltà e frode fiscale / 4.1. La dichiarazione infedele / 4.2. La dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici / 4.3. La dichiarazione fraudolenta mediante fatture per operazioni inesistenti / 4.4. Il delitto ex art. 8 d.lgs. n. 74/2000 / 5. L’ultima riforma dei reati tributari: cenni / 5.1. La frode fiscale ex art. 2 d.lgs n. 74/2000 / 5.2. Il delitto di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti ex art. 8 d.lgs n. 74/2000 / 5.3. Altri delitti “inaspriti”: la dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici ex art. 3 d.lgs n. 74/2000, l’occultamento o distruzione di documenti contabili ex art. 10 d.lgs n. 74/2000 e le omesse dichiarazioni ex artt. 5, comma 1, e 5, comma 1-bis, d.lgs n. 74/2000 / 5.4. La dichiarazione infedele ex art. 4 d.lgs n. 74/2000 / 6. Tecniche di indagine / 6.1. I documenti e gli elementi di prova formati fuori del processo penale / 6.1.1. Il verbale di constatazione e le dichiarazioni del funzionario dell’Agenzia delle entrate / 6.1.2. L’accertamento induttivo / 6.1.3. Il precedente giudicato penale / 6.1.4. L’acquisizione al fascicolo processuale della dichiarazione fiscale / 6.2. I mezzi di ricerca della prova / 6.2.1. La perquisizione e il sequestro / 6.2.2. L’estrazione e la lettura dei dati archiviati in un supporto informatico / 6.2.3. Il sequestro di dati in precedenza memorizzati su server stranieri e acquisiti in sede amministrativa con poteri ispettivi dall’organo di polizia tributaria / 6.2.4. La speciale perquisizione locale prevista dall’art. 33 l. n. 4/1929 / 6.2.5. Le intercettazioni di conversazioni e comunicazioni

 

1. Considerazioni introduttive

L’accertamento del fatto e la valutazione della prova nei reati tributari presentano peculiarità sviluppate, ma che non vanno enfatizzate per non scivolare in “particolarismi” normativi dei quali non si avverte alcun bisogno e che finirebbero per esporre a crisi di sistematicità l’intero impianto disciplinare, di per sé già interessato da stress conseguenti alle continue revisioni. Va riconosciuto, piuttosto, che la relazione naturale di interscambio con l’accertamento amministrativo sollecita un’attenzione particolare rispetto alle potenzialità informative che possono trarsi dalle verifiche extra-penali, sollecitando un’organizzazione delle indagini orientata a non disperdere materiale utile, senza trascurarne i profili problematici; ciò conforta l’opinione per cui anche, anzi specialmente nella fase delle indagini preliminari è imprescindibile delineare linee-guida e riconoscere limiti che, nel rispetto della necessità di raccolta del materiale da utilizzare nel momento del giudizio, garantiscano il rispetto dei principi inderogabili del nostro ordinamento. Se risponde a osservazione scontata quella per cui la prospettiva processuale deve essere già ben presente all’inquirente al momento delle indagini, questo non toglie che ciò deve indurre il magistrato inquirente che si confronti con la materia penal-tributaria a compiere scelte capaci di indagare e rappresentare con la massima precisione esigibile, oltre che con elevato livello di persuasività, il fatto criminoso da perseguire, governando le più efficienti tecniche di individuazione, selezione e raccordo degli elementi durante la fase dell’investigazione penale e il loro appropriato “trasferimento” nel confronto dibattimentale, ove le regole di analisi e di elaborazione logica trovano sintesi normativa e guida nei precetti dell’art. 192 cpp. 

Una riflessione sulle tecniche di indagine in materia di reati tributari, dunque, che aspiri a oltrepassare la generica illustrazione degli strumenti a disposizione dell’inquirente (dall’acquisizione di elementi con attitudine probatoria tratti da verifiche e accertamenti svolti in sede amministrativa, da banche dati e applicativi informatici[1], da mezzi di ricerca della prova e dalla collaborazione giudiziaria internazionale sino agli strumenti di contrasto dei patrimoni illeciti e alle misure cautelari attivabili) presuppone la definizione dei fenomeni che inverano l’evasione fiscale nelle forme penalmente tipizzate. Tenendo presente che la politica criminale nazionale in materia tributaria è in preda a repentini ripensamenti sulle stesse strategie di fondo del miglior contrasto dell’evasione fiscale[2]. Per avvedersene basta considerare l’evoluzione intervenuta nel breve volgere di neppure un lustro, tra il 2015 e il 2019. 

Nel quadro di una spiccata sensibilità verso le esigenze della crescita, la relazione illustrativa della revisione del sistema sanzionatorio penale operata con il d.lgs n. 158/2015 sottolineava alcuni obiettivi dell’intervento: (i) la limitazione dell’area di intervento della sanzione penale ai soli casi connotati da un particolare disvalore giuridico, oltre che etico e sociale, identificati in particolare nei comportamenti artificiosi, fraudolenti e simulatori, oggettivamente o soggettivamente inesistenti, ritenuti insidiosi anche rispetto all’attività di controllo; (ii) la riduzione delle fattispecie penali, anche attraverso un ripensamento e una rimodulazione delle soglie di punibilità; (iii) l’individuazione di nuove ipotesi di non punibilità per garantire una più efficace risposta della magistratura ai fatti di reato; (iv) l’attribuzione all’impianto sanzionatorio amministrativo della repressione delle condotte connotate, in linea di principio, da un disvalore minore. Inoltre, nel dialogo privilegiato tra amministrazione finanziaria e contribuenti di maggiori dimensioni, la più intensa interlocuzione tra tali soggetti e il rafforzamento della «certezza» del diritto tributario si delineavano chiaramente quali beni-funzione rispetto a ulteriori vantaggi, con tempi di godimento differenziati: nel breve termine, i medi e grandi contribuenti avrebbero dovuto vedere rafforzata la possibilità di effettuare le scelte economiche in un «contesto caratterizzato da maggiore certezza»; nel medio-lungo termine, l’amministrazione finanziaria aspirava ad accrescere il livello di adeguamento spontaneo degli obblighi fiscali da parte dei suoi contribuenti. Certezza giuridica e sicurezza economica si profilavano quali endiadi indissolubili, con funzionalizzazione della prima alle esigenze della seconda. In questa logica si inquadrava anche l’intervento del d.lgs n. 128/2015 per la parte relativa all’abuso del diritto, codificato come principio del diritto tributario e, a un tempo, depenalizzato per “comando” normativo. Non dissimile ispirazione si respirava in seno al più generale intervento di revisione del sistema sanzionatorio penale tributario ex d.lgs n. 158/2015, ove prioritaria diventava la salvaguardia della libertà di intrapresa economica, introducendo, per le ipotesi di infedeltà non fraudolenta, vaste aree di non punibilità dinanzi alla generalizzata opinabilità di molte regole tributarie. 

La l. n. 157/2019 (legge di conversione del dl 26 ottobre 2019, n. 124) si è mossa nel contesto di un generale accrescimento della severità della risposta sanzionatoria, con svolta consistente nell’impostazione repressiva, contribuendo ad accrescere la centralità della componente tributaria in seno al diritto penale dell’economia e a dotarla di strumenti di reazione maggiormente regolabili rispetto alle diverse forme di evasione. Molteplici sono le direttrici fondamentali che consentono di ricostruire l’intelaiatura dell’intervento: (i) l’innalzamento delle pene edittali, minime e massime, della più parte delle fattispecie penali tributarie, anche quelle a struttura non fraudolenta (pur se, in taluni casi, di importo più contenuto di quanto ipotizzato nel decreto di urgenza), accompagnato talora dall’enucleazione di ipotesi circostanziali attenuate; (ii) l’abbassamento delle soglie di rilevanza penale dell’imposta evasa o dell’imponibile sottratto all’imposizione per il solo delitto di dichiarazione infedele previsto dall’art. 4 d.lgs n. 74/2000, impostazione però derelitta (rispetto all’iniziale dl n. 124 cit.) per i reati di omesso versamento ex artt. 10-bis e 10-ter d.lgs n. 74/2000; (iii) l’abbandono dell’enucleazione di una nuova fattispecie penale collegata all’estensione del reverse charme per contrastare le pratiche di illecita somministrazione di manodopera (come ipotizzato nella versione originaria del dl n. 124/2019), “sostituita” dall’innovativa previsione di una causa di non punibilità ex art. 13, comma 2, d.lgs n. 74/2000 anche per i delitti di frode di cui agli artt. 2 e 3 d.lgs n. 74/2000 (al pari dei reati di cui agli artt. 4 e 5) per effetto dell’art. 39, comma 1, lett. q-bis del dl n. 124/2019; (iv) l’estensione della misura patrimoniale della confisca allargata, prevista dall’art. 240-bis cp, a peculiari figure di reati tributari, delimitati da elementi di ulteriore specificazione indicati dal nuovo art. 12-ter d.lgs 10 marzo 2000, n. 74 (art. 39, lett. q, dl n. 124/2019); (v) l’innesto nel catalogo dei reati presupposto della responsabilità degli enti per illeciti amministrativi dipendenti da reato (nuovo art. 25-quinquiesdecies d.lgs 8 giugno 2001, n. 231) di un novero di delitti tributari, ampliato rispetto all’unico delitto prospettato dal dl n. 124/2019 (l’art. 2 d.lgs n. 74/2000), ora espressamente esteso anche alla forma attenuata ex art. 2, comma 2-bis, d.lgs n. 74/2000, alla dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici ex art. 3 d.lgs n. 74/2000, all’emissione di fatture per operazioni inesistenti ex artt. 8, comma 1, e 2-bis d.lgs n. 74/2000, e alla sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte ex art. 11 d.lgs n. 74/2000.

Da ultimo, l’art. 23 del dl 30 marzo 2023, n. 34 (conv., con mod., dalla l. 26 maggio 2023, n. 56, in G.U. 29 maggio 2023, n. 124), con un intervento che ha registrato alcune ragioni di critica già nella fase della conversione parlamentare[3], ha ancora stabilito che i reati di cui agli artt. 10-bis, 10-ter e 10-quater, comma 1 del d.lgs 10 marzo 2000, n. 74 non sono punibili quando le relative violazioni sono correttamente definite e le somme dovute sono versate integralmente dal contribuente secondo le modalità e nei termini previsti dall’art. 1, commi da 153 a 158 e da 166 a 252 della legge 29 dicembre 2022, n. 197, purché le relative procedure siano definite prima della pronuncia della sentenza di appello.

È stato scritto, ricordando la lezione di Vittorio Occorsio, che «il metodo investigativo deve cambiare a seconda del suo oggetto: non è possibile utilizzare lo stesso strumento investigativo per investigare oggetti diversi»[4]. L’osservazione appare calzante nella materia penal-tributaria, nella quale l’oggetto è l’evasione, fenomeno che evolve incessantemente e si conforma alla specificità delle regole tributarie, un vero coacervo di discipline nel quale i principi generali cedono alla regola del caso e alle ragioni della deroga, tra difesa della ragione fiscale e resa all’impotenza nel garantirne la generalizzata soddisfazione. A questo assetto, poi, si aggiunge la particolarità del funzionamento delle regole tributarie nel contesto penalistico, nel quale le garanzie individuali riemergono, fortunatamente, con forza maggiore rispetto al procedimento amministrativo. Le finalità dei due accertamenti restano sensibilmente diverse: il recupero del quantum evaso nel procedimento tributario; l’accertamento, oltre ogni ragionevole dubbio, dell’attribuibilità o meno della condotta illecita all’imputato, la sua colpevolezza e la sanzionabilità nel processo penale. 

Qualsiasi indagine tributaria retta dall’efficienza presuppone la piena conoscenza del fenomeno da contrastare: ciò presuppone che siano chiari i meccanismi e i dettami che governano l’insorgere del debito erariale di rilievo penale e del suo inadempimento, così come le regole della prova di quest’ultimo, di modo da assicurare la raccolta delle fonti di prova, anzitutto, attraverso la non dispersione di elementi suscettibili di inverarsi in prove processuali. La comprensione di tale necessità permette di accelerare la scoperta delle tracce del debito tributario inadempiuto, senza dissolvere energie e materiali a disposizione. Tanto più in un contesto procedurale come quello attuale nel quale le inchieste, anche quelle più complesse, quali sono tipicamente le indagini tributarie, necessitano di rapidità e di estrema completezza, dovendo consentire di acquisire compendi indiziari di consistenza tale da superare il preliminare vaglio giudiziale sulla probabilità di condanna. Cosicché se l’indagine è richiesta, da subito, di visione probatoria prospettica, le regole probatorie diventano la prima disciplina che conforma le scelte investigative.

Non potendo in questa sede ripercorrere le regole di funzionamento delle specifiche obbligazioni tributarie presidiate penalmente, dal momento della nascita, sino all’adempimento, anche coattivo[5], prima di definire le corrette condizioni di impiego degli strumenti di indagine a disposizione per favorirne la scoperta e la prova (concentrata sui profili problematici più consueti riscontrati nella prassi giudiziaria), si muoverà dalla definizione del perimetro normativo dell’evasione di imposta penalmente rilevante, delle regole probatorie di accertamento e delle diverse forme di evasione presupposte dai reati tributari, almeno di quelli dichiarativi incentrati sull’infedeltà e sulla fraudolenza. È su questi obiettivi e muovendo dalla conoscenza di tali regole, del resto, che potrà essere efficientemente calibrato l’impegno di indagine. Con un’ultima avvertenza: non potrà prescindersi, nel percorso ricostruttivo, da una prioritaria considerazione dell’insegnamento giurisprudenziale, che sebbene non sempre soddisfacente rispetto alle inquietudini sistematiche della esegesi dottrinaria penalistica, appare un riferimento fondamentale nella prospettiva di qualsiasi inchiesta penale. 

 

2. Il perimetro dell’evasione di imposta rilevante per le fattispecie penali dichiarative del d.lgs n. 74/2000

 

2.1. Premessa: dalla diversità della regola di giudizio alla diversità della regola da applicare

L’obbligazione tributaria e, con essa, il debito d’imposta[6] sorgono al verificarsi di situazioni di fatto integranti presupposti oggettivi e soggettivi, di contenuto variabile. 

Il debito d’imposta presidiato dalle fattispecie penali delineate in seno al d.lgs n. 74/2000 afferisce unicamente alle imposte dirette IRPEF e IRES, e all’imposta indiretta sul valore aggiunto. L’IRAP[7] non è un’imposta diretta in senso tecnico e, dunque, il d.lgs n. 74/2000 non conferisce rilevanza penale alla sua evasione[8]. Un’eccezione è rappresentata dalle fattispecie penali dell’indebita compensazione ex art. 10-quater d.lgs n. 74/2000, per le quali la giurisprudenza di legittimità[9], non senza la contrarietà della dottrina, ritiene che a essere presidiato sia lo strumento della compensazione (verticale, riguardante crediti e debiti per tributi di natura omogenea, e orizzontale, concernente crediti e debiti di imposta di natura diversa, anche non afferenti alle imposte dirette o all’IVA) disciplinato dall’art. 17 d.lgs n. 241/1997; ragione per cui la riprovazione penalistica, quindi, si estende a tutti i titoli di debito compensabili con il meccanismo anzidetto, ivi compresi i mancati versamenti di somme per debiti diversi dalle imposte dirette e dall’IVA[10], in quanto l’essenza della condotta non è rappresentata dall’utilizzo o meno del modello F24, dall’omogeneità o eterogeneità delle imposte compensate o dal rispetto del limite temporale della detraibilità del credito, ma dal ricorso a un istituto applicato nonostante l’assenza di un valido titolo, per cui a rilevare, più che la dimensione formale, è la natura sostanziale dell’operazione realizzata.

L’evasione fiscale si realizza in diverse forme ma, al fondo, identifica una comune condizione: quella di chi si sottrae all’adempimento di obblighi tributari, formali e sostanziali, connessi ai presupposti già sorti dell’imposizione[11] e riconosciuti per tali dalla norma tributaria[12]. L’evasione può essere, poi, il risultato di ulteriori comportamenti funzionali a ostacolare l’accertamento di un’obbligazione tributaria già sorta e a indurre in errore l’amministrazione finanziaria. Sono queste le condotte di frode fiscale connotate da un particolare disvalore giuridico, quali comportamenti artificiosi, fraudolenti e simulatori, oggettivamente o soggettivamente inesistenti, ritenuti insidiosi anche rispetto all’attività di controllo, avversate da fattispecie penali che contrastano le diverse forme di inganno all’interesse dello Stato alla percezione del gettito erariale, alla trasparenza fiscale o al corretto funzionamento della procedura di riscossione.

La nozione di evasione fiscale che l’operatore del diritto penal-tributario è chiamato a governare ha contenuti asimmetrici a seconda che vengano in rilievo fattispecie di infedeltà e di frode.

 

2.2. Le norme definitorie

2.2.1. L’art. 1, lett. b e f, d.lgs n. 74/2000: elementi attivi e passivi e imposta evasa nella prospettiva penale “fattuale”

Per delineare la base di definizione dell’imposta evasa di rilievo penale, solo l’art. 1 del d.lgs n. 74/2000, nella versione introdotta dal d.lgs n. 158/2015 (anche allo scopo di chiarire la portata dei termini impiegati nei titoli successivi del decreto), ha precisato compiutamente che nella nozione di «elementi attivi o passivi» (art. 1, lett. b, d.lgs n. 74/2000) si intendono «le componenti, espresse in cifra, che concorrono, in senso positivo o negativo, alla determinazione del reddito o delle basi imponibili rilevanti ai fini dell’applicazione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto e le componenti che incidono sulla determinazione dell’imposta dovuta». L’assenza di tale ultimo inciso aveva persuaso[13] a escludere la rilevanza penale delle condotte afferenti immediatamente alle componenti che incidevano sull’imposta lorda già calcolata, ossia le indebite detrazioni. Era il caso della predisposizione di documenti avvaloranti il pagamento di imposte estere per importi maggiori di quelli reali, l’attribuzione di un credito di imposta sui dividendi non spettante, il rilascio a un fornitore di una dichiarazione liberatoria infondata con applicazione di un’IVA agevolata[14]. Almeno con riferimento ai fatti antecedenti all’entrata in vigore della riforma del 2015, dunque, la precisazione è stata rilevante[15], oltrepassando la semplice chiarificazione.

Il termine «elementi attivi» compare in seno alle fattispecie penali previste dagli artt. 3, 4 e 11, comma 2 del d.lgs n. 74/2000; l’espressione «elementi passivi» è presente nella descrizione delle fattispecie delineate dagli artt. 2, 3 (per le quali è accompagnata dall’aggettivo “fittizi”), 4 d.lgs n. 74/2000 (accompagnata dall’attributo “inesistenti”, quanto a quelli idonei a ridurre la base imponibile, e da quello “reali”, quanto a quelli non inerenti né deducibili, irrilevanti ai fini della determinazione dell’imposta evasa e dell’imponibile). L’espressione «crediti e ritenute fittizi», pur riferendosi a componenti che in via generale dovrebbero ritenersi già comprese nella nozione generale di elementi passivi, è specificamente inserita nella fattispecie ex art. 3 d.lgs n. 74/2000; l’ammontare complessivo dei crediti e delle ritenute fittizie in diminuzione dell’imposta rileva ai fini della fattispecie in esame (solo) in quanto superiore al cinque per cento dell’ammontare dell’imposta medesima o comunque a euro trentamila. 

In base alla previsione dell’art. 1, lett. f, d.lgs n. 74/2000, per «imposta evasa» si intende «la differenza tra l’imposta effettivamente dovuta e quella indicata nella dichiarazione, ovvero l’intera imposta dovuta nel caso di omessa dichiarazione, al netto delle somme versate dal contribuente o da terzi a titolo di acconto, di ritenuta o comunque in pagamento di detta imposta prima della presentazione della dichiarazione o della scadenza del relativo termine».

Va premesso che la nozione penalistica di debito di imposta è solo in parte “figlia” di quella amministrativa; quest’ultima, infatti, opera all’esito di controlli e di formali meccanismi probatori presuntivi e tipici del procedimento tributario, impraticabili nel contesto processual-penalistico. Se il procedimento amministrativo di accertamento e il processo tributario non possono essere sospesi per la pendenza del procedimento penale avente ad oggetto i medesimi fatti, o fatti dal cui accertamento comunque dipende la relativa definizione (art. 20 d.lgs n. 74/2000), la cd. pregiudiziale tributaria, all’inverso, è stata eliminata sin dal 1982[16].

La Cassazione rammenta stabilmente che il dato fattuale delle componenti che concorrono alla determinazione del reddito o delle basi imponibili rilevanti e della gestione sociale deve prevalere sulle classificazioni e sulle qualifiche formali; ciò significa, occorre rimarcarlo, non tanto che esista “un’imposta evasa di invenzione giudiziale” (per la quale sarebbe il giudice a inventare le regole utili alla definizione del presupposto, della base imponibile e del calcolo dell’imposta), ma che nelle vicende penali sussistono limiti all’operatività di regole formali o presuntive rilevanti nel contesto tributario, secondo metodi di accertamento peculiari e principi probatori del tutto caratteristici. È in questo senso, almeno prioritariamente, che viene riproposto, in maniera a volte innegabilmente tralatizia, l’insegnamento per cui l’«imposta evasa» di rilievo penale, come si anticipava, è l’intera imposta dovuta, da determinarsi sulla base della contrapposizione tra ricavi e costi d’esercizio fiscalmente deducibili, in una prospettiva di prevalenza del dato fattuale reale rispetto ai criteri di natura meramente formale che caratterizzano l’ordinamento tributario[17]. Ai fini del superamento della soglia di punibilità di cui all’art. 5 d.lgs n. 74, ancora, è ribadito che «spetta esclusivamente al giudice penale il compito di procedere all’accertamento e alla determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa, attraverso una verifica che può venire a sovrapporsi ed anche a entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata dinanzi al giudice tributario»[18]. Nondimeno, se il giudice penale non è vincolato dalle valutazioni compiute in sede di accertamento tributario, lo stesso può, con adeguata motivazione, apprezzare gli elementi induttivi ivi valorizzati, per trarne elementi probatori, idonei a sorreggere il suo convincimento[19]

Nella sentenza Granata[20], venendo al rapporto tra la regola di giudizio penale e la regola fiscale da applicare, si esclude che il giudice penale sia vincolato ai risultati degli accertamenti effettuati ai sensi dell’art. 39 dPR n. 600/1973 o ai criteri di giudizio previsti dalla legislazione fiscale e civilistica, dovendo ricostruire in modo autonomo e con le regole proprie del processo penale i fatti che danno luogo a responsabilità penale[21]. Il giudice penale, però, non può prescindere dalle specifiche regole stabilite dalla legislazione fiscale per determinare e quantificare l’imponibile dell’imposta sui redditi e quella sul valore aggiunto e, dunque, l’imposta evasa: cambia la regola di giudizio, non la regola da applicare. La diversa regola di giudizio può condizionare l’ambito di applicabilità della norma tributaria, ma impone comunque al giudice penale di tenerne conto[22]. Nondimeno, l’esattezza di questo principio – che per lungo tempo ha rappresentato un architrave del diritto penale tributario e che ha preservato la natura giuridica extra-penale della nozione di evasione – è sempre più esposta a limitazioni, come si cercherà di dettagliare in appresso. 

 

2.2.2. Le rettifiche di perdite e l’imposta evasa teorica: la ricostruzione della capacità contributiva effettiva

La previsione dell’art. 1, lett. f, d.lgs n. 74/2000, introdotta con il d.lgs n. 158/2015, delimita la nozione di imposta evasa ai fini dei reati tributari. Volendo valorizzare l’effettività del danno arrecato all’erario o, se si preferisce, l’ineffettività sostanziale di tale pregiudizio (solo formalmente prospettabile), essa statuisce che «non si considera imposta evasa quella teorica e non effettivamente dovuta collegata a una rettifica in diminuzione di perdite dell’esercizio o di perdite pregresse spettanti e utilizzabili». 

La disposizione evoca la prevalenza della capacità contributiva effettiva, dunque, quale fondamentale principio ispiratore dell’imposizione fiscale, rispetto a errori o mancanze formali. Come osservato in documenti di prassi[23], «con tale integrazione è stato disposto che la determinazione dell’imposta evasa deve riguardare il “reale” risparmio di imposta, dovendosi tener conto, a tal fine, delle perdite effettive conseguite nell’esercizio e/o di quelle maturate negli anni precedenti e ancora utilizzabili». Il riferimento alle perdite rende evidente, anzitutto, che la previsione si applica alle imposte dirette e, in particolare, ai redditi di impresa e di lavoro autonomo; il richiamo, poi, alle perdite pregresse spettanti e utilizzabili limita ulteriormente la portata della previsione ai soggetti che possono beneficiare del riporto di esse. La relazione illustrativa della riforma del 2015 riferisce a tale previsione la volontà di specificare «che non si considera imposta evasa quella teorica collegata sia ad una rettifica in diminuzione di perdite dell’esercizio che all’utilizzo di perdite pregresse spettanti e utilizzabili». Le ipotesi presupposte sono varie. In primo luogo, viene in evidenza il caso in cui nella dichiarazione fiscale venga attestata una perdita fiscale più ingente di quella riconosciuta come effettiva all’esito di una rettifica che lascia, in ogni caso, inalterato il negativo risultato economico del periodo di imposta[24]. Come osservato[25], «ai sensi della novella, l’imposta “teorica” relativa alla maggiore perdita emergente (…) non rileva in sede penale: dunque, il fatto risulta atipico qualora il “vero” risultato del periodo d’imposta sia in ogni caso negativo». 

Il riferimento, poi, come notato dall’Ufficio del massimario della Suprema corte[26], è anche all’ipotesi in cui l’imposta evasa sia «solo teorica perché “assorbita” (o “ridotta” sotto soglia) dalla perdita di esercizio verificata in quel periodo o negli anni precedenti, utilizzabile ai fini del calcolo degli elementi detraibili per l’esercizio in contestazione»[27]. In altri termini, ai fini del calcolo dell’imposta evasa occorre tener conto delle perdite eventualmente conseguite nell’esercizio ovvero di quelle pregresse spettanti e utilizzabili, onde l’imposta evasa non è più quella teorica derivante dalla violazione contestata, ma quella effettiva dopo il computo delle perdite pregresse spettanti e utilizzabili. La perimetrazione della nozione di “imposta evasa” certifica, sul piano normativo, la rilevanza delle “perdite”, verificando il rispetto delle regole tributarie in materia (ovvero se sono «spettanti e utilizzabili») e, subito dopo, se il loro ammontare incide sul calcolo dell’evasione in maniera tale da determinare o meno il superamento delle soglie. Ne consegue, in buona sostanza, che, se a seguito di un accertamento nei confronti di una società viene ripresa a tassazione una base imponibile, prima di ritenere che il reato sia stato commesso deve verificarsi se in quell’esercizio è in perdita e, pertanto, computando il valore negativo, la base imponibile diminuisca al pari dell’imposta evasa sotto la soglia penale. Ancora, potrebbe verificarsi che il contribuente possa utilizzare perdite degli anni precedenti per l’esercizio in contestazione e quindi, per effetto di tale valore negativo, la rettifica si traduca in un’imposta evasa sotto la relativa soglia penale; la modifica, almeno con riferimento alle perdite pregresse, sembra subordinare la norma penale a quella tributaria in quanto fa riferimento alle perdite «spettanti e utilizzabili»[28].

La previsione positivizza anche i risultati dell’orientamento che riferisce alla dichiarazione dei redditi non il valore di atto negoziale[29] ma quello di esternazione di scienza, emendabile[30], cui non sarebbe condizionata la compensabilità delle perdite fiscali pregresse e non ancora utilizzate. La mancata o errata indicazione della perdita in sede di dichiarazione, dunque, non ne preclude l’utilizzo[31]. Parimenti, quest’ultimo può essere esteso allo strumento della dichiarazione integrativa, sostitutiva di quella originaria, e alla sede dell’accertamento. Le perdite pregresse non ancora utilizzate, infatti, possono esserlo qualora emergano in seguito ad attività di accertamento maggiori redditi[32], in adesione al principio del giusto prelievo parametrato all’effettiva forza economica cui deve tendere l’attività accertatrice dell’a.f. (tenuta ad accertare i tributi effettivamente dovuti in osservanza di tutte le disposizioni normative), ivi compreso il riporto a nuovo delle perdite relative a esercizi precedenti già non utilizzate.

 

2.2.3. La nozione settoriale di evasione d’imposta di rilievo penale: l’abuso del diritto

In realtà, le riforme del 2015 hanno accresciuto il carattere settoriale della nozione di evasione d’imposta di rilievo penale, ridimensionando l’insegnamento per cui a mutare sarebbe solo la regola di giudizio penale, ma non la regola fiscale da applicare. L’abbandono di una nozione pan-tributaria, in effetti, è marcato. Il d.lgs n. 128/2015 ha introdotto, anzitutto, una disciplina normativa dell’abuso del diritto, che «in omaggio all’indirizzo giurisprudenziale, ha finito per recepire quali criteri direttivi proprio le soluzioni definitorie sull’abuso del diritto elaborate dalla giurisprudenza»[33]. Una delle più significative novità della riforma del 2015 riposa sulla previsione (art. 10-bis, comma 13, l. n. 212/2000) per cui «le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie» – con ciò contraddicendo il diverso approdo cui era pervenuta, da ultimo, la maggioritaria giurisprudenza penale di legittimità[34]. Con il d.lgs n. 128/2015, la disciplina dell’elusione fiscale e dell’abuso del diritto è stata unificata ed estesa a tutti i tipi di imposte (fatta eccezione per i diritti doganali di cui all’art. 34 dPR n. 43/1973), individuando in detti comportamenti, non opponibili al fisco, la premessa di un’evasione fiscale di mero rilievo amministrativo, che consente all’a.f. di disconoscere i vantaggi determinando i tributi sulla base delle norme e dei principi elusi e d’irrogare anche sanzioni tributarie; situazione, però, non ritenuta meritevole del contrasto offerto dalle leggi penali tributarie[35]

La nozione di abuso del diritto è incentrata sui seguenti elementi: (i) la realizzazione di una o più operazioni prive di sostanza economica che, (ii) pur nel rispetto formale delle norme fiscali, (iii) realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti, (iv) in assenza di valide ragioni extrafiscali, non marginali, anche di ordine organizzativo o gestionale, che rispondano a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa ovvero dell’attività professionale del contribuente. 

Come ricorda la sentenza della Cassazione n. 40272/2015[36],«la norma chiarisce in modo analitico il significato dei termini utilizzati nella definizione sintetica di abuso, specificando cosa debba intendersi per operazioni prive di sostanza economica e per vantaggi fiscali indebiti. In particolare, sono “operazioni prive di sostanza economica” i fatti, gli atti e i contratti, anche tra loro collegati, inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali. A solo titolo esemplificativo, sono indicati due indici di mancanza di sostanza economica: 1) la non coerenza della qualificazione delle singole operazioni con il fondamento giuridico del loro insieme; 2) la non conformità degli strumenti giuridici a normali logiche di mercato. Per “vantaggi fiscali indebiti” si considerano, poi, i benefici, anche non immediati, realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario. Deve sussistere, quindi, la violazione della ratio delle norme o dei principi generali dell’ordinamento e, soprattutto, di quelli della disciplina tributaria in cui sono collocati gli obblighi e divieti elusi. (omissis). Va osservato, altresì, che i vantaggi fiscali indebiti che si realizzano per effetto dell’operazione priva di sostanza economica devono essere fondamentali rispetto a tutti gli altri fini perseguiti dal contribuente, nel senso che il perseguimento di tale vantaggio deve essere stato lo scopo essenziale della condotta stessa, ciò in attuazione del criterio direttivo dell’art. 5, comma 1, lettera b), n. 1), della legge delega. La nuova normativa stabilisce che non si considerano abusive, in ogni caso, le “operazioni giustificate da non marginali ragioni extrafiscali”, anche di ordine organizzativo o gestionale che rispondono a finalità di miglioramento strutturale e funzionale dell’impresa ovvero dell’attività professionale del contribuente. In ossequio a quanto disposto dalla legge delega, il legislatore delegato definisce come ragioni economiche extra fiscali non marginali quelle che, anche di ordine organizzativo o gestionale, rispondono a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa ovvero dell’attività professionale del contribuente. A questo riguardo va osservato che la delega fa riferimento solo al miglioramento organizzativo e funzionale dell’azienda del contribuente: si pone perciò il dubbio che dette esigenze rilevino solo per le attività di tipo imprenditoriale. Per ragioni logiche e sistematiche, il legislatore delegato ha chiarito il dubbio specificando che la norma si applica anche quando l’attività economica del contribuente sia professionale e non imprenditoriale. Vero è che la riconosciuta possibile coesistenza di ragioni economiche extrafiscali con quelle fiscali lascia margini di incertezza sul peso specifico che le une devono assumere rispetto alle altre, affinché possa essere superato il connotato di abusività dell’operazione. Tuttavia, per cogliere la non marginalità delle ragioni extrafiscali occorre guardare all’intrinseca valenza di tali ragioni rispetto al compimento dell’operazione dì cui si sindaca l’abusività. In questo senso, le ragioni economiche extrafiscali non marginali sussistono solo se l’operazione non sarebbe stata realizzata in loro assenza. In altri termini, dunque, sarà necessario dimostrare che l’operazione non sarebbe stata compiuta in assenza di tali ragioni. In aderenza al criterio direttivo dell’art. 5, comma 1, lettera b), della legge delega, si ribadisce il principio generale secondo cui il contribuente può legittimamente perseguire un risparmio di imposta esercitando la propria libertà di iniziativa economica e scegliendo tra gli atti, i fatti e i contratti quelli meno onerosi sotto il profilo impositivo. La norma sottolinea, quindi, che l’unico limite alla suddetta libertà è costituito dal divieto di perseguire un vantaggio fiscale indebito. Di qui la già sottolineata delicatezza dell’individuazione delle rationes delle norme tributarie ai fini della configurazione dell’abuso. Ad esempio, non è possibile configurare una condotta abusiva laddove il contribuente scelga, per dare luogo all’estinzione di una società, di procedere a una fusione anziché alla liquidazione. È vero che la prima operazione è a carattere neutrale e la seconda ha, invece, natura realizzativa, ma nessuna disposizione tributaria mostra “preferenza” per l’una o l’altra operazione: sono due operazioni messe sullo stesso piano, ancorché disciplinate da regole fiscali diverse. Affinché si configuri un abuso andrà, quindi, dimostrato dall’Amministrazione finanziaria il vantaggio fiscale indebito concretamente conseguito e, cioè, l’aggiramento della ratio legis o dei principi dell’ordinamento tributario. È prevista, peraltro, la possibilità per il contribuente di presentare un’istanza di interpello preventivo all’Agenzia delle entrate al fine di conoscere se le operazioni che intende realizzare costituiscano fattispecie di abuso del diritto».

Se l’individuazione del carattere indebito dei vantaggi fiscali impone un’analisi del loro contrasto con le finalità delle norme e dei principi dell’ordinamento tributario, l’assenza di sostanza economica impone un esame anche giuridico delle operazioni secondo meccanismi di riqualificazione assimilabili a quelli che consentono di identificare una simulazione relativa (si considerino gli elementi sintomatici bivalenti della “non coerenza della qualificazione delle singole operazioni con il fondamento giuridico del loro insieme” o della “non conformità dell’utilizzo degli strumenti giuridici a normali logiche di mercato”). Con una differenza che è bene rimarcare: l’abuso del diritto, come definito dalla norma, corrisponde a condotte trasparenti pienamente volute, per tali e proprio in quanto tali. Situazione del tutto diversa da quella delle operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente” quali «operazioni apparenti, (…), poste in essere con la volontà di non realizzarle in tutto o in parte ovvero le operazioni riferite a soggetti fittiziamente interposti».

Con articolata sentenza[37], immediatamente successiva all’entrata in vigore del d.lgs n. 128/2015, i giudici di legittimità hanno affermato i seguenti principi di diritto, rilevanti ai fini delle fattispecie penali ex artt. 3 e 4 d.lgs n. 74/2000: (i) «non è più configurabile il reato di dichiarazione infedele, in presenza di condotte puramente elusive ai fini fiscali, in quanto l’art. 10-bis, comma 13, della legge 27 luglio 2000, n. 212, introdotto dall’art. 1 del D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128, esclude che operazioni esistenti e volute, anche se prive di sostanza economica e tali da realizzare vantaggi fiscali indebiti, possano integrare condotte penalmente rilevanti[38]»; (ii) «la disposizione transitoria di cui all’art. 1, comma quinto, D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128, che prevede l’applicazione dell’art. 10-bis l. 27 luglio 2000, n. 212 anche alle condotte commesse anteriormente alla propria entrata in vigore solo se non sia ancora stato notificato un atto impositivo, non impedisce di ritenere non più penalmente rilevanti le condotte fiscalmente elusive integranti mero abuso del diritto, per effetto del comma 13 del medesimo art. 10-bis, in quanto tale comma, realizzando una sostanziale “abolitio criminis”, deve operare retroattivamente senza condizioni»; (iii) «in tema di violazioni finanziarie, l’istituto dell’abuso del diritto di cui all’art. 10-bis l. 27 luglio 2000, n. 212, che, per effetto della modifica introdotta dall’art. 1 del D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128, esclude ormai la rilevanza penale delle condotte ad esso riconducibili, ha applicazione solo residuale rispetto alle disposizioni concernenti comportamenti fraudolenti, simulatori o comunque finalizzati alla creazione e all’utilizzo di documentazione falsa di cui al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, cosicché esso non viene mai in rilievo quando i fatti in contestazione integrino le fattispecie penali connotate da tali elementi costitutivi». 

Muovendo da queste premesse, non va nascosta la difficoltà di identificare nella fenomenologia delle vicende giudiziarie i connotati autentici dell’operazione di abuso del diritto, divenendo nodale accertare che ad essa corrisponda, oltre che un vantaggio tributario, anche «una effettiva e reale funzione economico-sociale meritevole di tutela per l’ordinamento, tale non potendosi ritenere un’operazione che sia, viceversa, meramente simulata». Ricorre quest’ultimo caso «laddove la operazione costituisca un mero simulacro privo di qualsivoglia effettivo contenuto», situazione che consentirebbe di riconoscere non un’ipotesi di abuso di un pur sussistente e valido negozio giuridico «quanto (…) una vera e propria macchinazione priva di sostanza economica il cui unico scopo, anche attraverso il sapiente utilizzo di strumenti negoziali fra loro collegati, sarebbe quello di raggiungere un indebito vantaggio fiscale»[39]. Così il principio è stato riconosciuto nel caso di una cessione di immobile per prezzo incongruo a una società controllata con perdite, la quale aveva poi rivenduto il compendio a prezzo di mercato, evidenziando una plusvalenza assorbita dalla prima[40]. Non può invocarsi l’irrilevanza penal-tributaria dei comportamenti negoziali intesi a conseguire esclusivamente vantaggi fiscali indebiti e non dovuti, ove la condotta elusiva sia tenuta con modalità fraudolente, occultando l’intenzione di raggiungere finalità diverse da quelle che l’ordinamento riconnette all’esercizio delle facoltà in concreto esercitate o rappresentando in maniera mendace le circostanze in presenza delle quali si pone l’azione, nonché nascondendo le particolari e censurabili modalità con cui è stato esercitato il diritto. La condotta di abuso del diritto conserva penale rilevanza solo quando il comportamento esteriore del soggetto presenta – rispetto a ogni altra generica ipotesi di scorretto esercizio di proprie facoltà giuridiche – una connotazione fraudolenta, ingannatoria, che cela la reale struttura della vicenda in cui si cala il comportamento del singolo, ne camuffa i presupposti e le effettive conseguenze[41].

Alla prova dei fatti, l’abuso del diritto potrebbe rivelarsi condizione di dubbia irrilevanza penale: la necessaria condizione di trasparenza dell’operazione, voluta per tale, collide con la difficoltà di gestire in maniera parimenti limpida quanto può rivelare la finalità che l’ordinamento riconosce indebita, tanto da ricollegarvi sanzioni amministrative; per nascondere tale finalità indebita, non risulterà implausibile che siano occultate, totalmente o parzialmente, l’autentica valenza dell’operazione e la base imponibile. In ogni caso, solo ove non ricorra tale condotta decettiva, ingannatoria e simulatoria l’ordinamento può degradare la riprovazione per una operazione che non ha altro scopo economico se non quello di conseguire un indebito risparmio di imposta. Alcuni esempi potranno dar sostanza a quanto appena osservato, anche se è indubbio che il dettato normativo ha ridimensionato nell’esperienza investigativa le condizioni predisponenti per riconoscere una residua rilevanza penale dell’abuso del diritto tributario “fraudolento”.

 

2.2.3.1. Stock lending agreement[42]

Al legale rappresentante di Srl di diritto italiano veniva contestato il delitto di dichiarazione infedele ex art. 4 d.lgs n. 74/2000 perché, nell’anno 2006, al fine di evadere le imposte sui redditi, aveva indicato nella dichiarazione dei redditi relativa all’anno di imposta 2005 elementi passivi fittizi (euro 8.315.319,31) correlati alla stipula con una società di diritto ceco di un contratto (“lending agreement”) sottoscritto solo per evadere le imposte sui redditi, conseguendone un risparmio di imposta di oltre 2,8 milioni di euro. In particolare, la società di diritto italiano aveva preso in prestito da quella ceca, con accordo siglato in data 18/21 novembre 2005, la partecipazione azionaria (pari al 38%) che quest’ultima aveva in una società portoghese (con sede a Madeira, integralmente partecipata dalla società ceca) il cui patrimonio era costituito dalla partecipazione – una sola azione, acquistata in data 7 ottobre 2005, del valore di 1 euro – in una società avente sede nelle Isole Vergini, valorizzata nel bilancio 2005 della società portoghese per 170.000.000 euro. L’accordo prevedeva che la società italiana, quale “prestataria” del 38% delle azioni della società portoghese, avesse diritto all’incasso dei dividendi ad esse correlati, conservando invece la società ceca, quale titolare e “prestatore” delle azioni, gli altri diritti, tra i quali il diritto di voto. Al prestito non oneroso dei titoli era legata una pattuizione in forza della quale, laddove la società portoghese avesse deliberato nel 2005 la distribuzione di dividendi in misura inferiore a 6.400.000 euro (nella quota del 38% spettante alla società italiana), la società italiana li avrebbe incassati senza nulla dovere a quella ceca; a fronte di dividendi distribuiti in misura superiore, invece, la società italiana avrebbe dovuto versare a quella ceca una “commissione” pari al valore dei dividendi incassati, aumentato di una percentuale (9,328%) su tale importo. La società italiana, nel primo caso, avrebbe guadagnato i dividendi e nulla avrebbe dovuto a quella ceca, che avrebbe registrato una perdita netta; nel secondo caso, non solo non avrebbe guadagnato dividendi (dovendo “girarli” a quella ceca), ma avrebbe dovuto corrispondere la “commissione”. Tale seconda evenienza – non accidentalmente, a giudizio dei giudici di merito – si era verificata alla data del 30 novembre 2005, quando la società portoghese, chiuso il bilancio con utile, aveva deliberato la distribuzione di tutti i dividendi conseguiti per più di 20.000.000 di euro. Alla società italiana, titolare del diritto alla percezione nella misura proporzionale del 38%, andavano 7.605.845 euro, come da comunicazione che, in data 15 dicembre 2005, la società ceca inoltrava alla controparte. In conseguenza di ciò, la società italiana incassava i dividendi relativi alle azioni ricevute in prestito (tassati in Italia solo nella misura del 5%), pari all’importo di 7.605.845 euro sopra indicato, ma retrocedeva alla società ceca la stessa somma aumentata della commissione concordata, per complessivi 8.315.318,31 euro, contabilizzando ed esponendo l’importo nella dichiarazione fiscale, presentata il 25 ottobre 2006, quale voce di costo. Le operazioni in questione erano finanziariamente regolate tutte, in data 21 dicembre 2005, presso una banca di Lugano, sia per l’accredito dei dividendi da parte della società italiana, sia per il pagamento della commissione da questa alla società ceca. I documenti bancari acquisiti nel corso dell’istruttoria dibattimentale davano conto dell’effettiva movimentazione degli importi, ma non della riferibilità alla società portoghese della somma accreditata a quella italiana. Quest’ultima poteva esporre, nella dichiarazione relativa al 2005, costi per le “commissioni” versate alla società ceca (costi ritenuti fittizi dal giudicante di merito) per 8.315.318,31 euro, abbattendo in modo significativo gli utili conseguiti nell’anno e, soprattutto, azzerando un’importante plusvalenza realizzata in tale annualità fiscale, pari a 7.050.727 euro. Dalla stipulazione del contratto di stock lending, la società italiana aveva conseguito un risparmio fiscale di 2.802.646,11 euro a fronte di un esborso che, in sostanza, era stato pari alla percentuale del 9,38% corrisposta alla società ceca (euro 709.473,31), il prezzo dell’illecita collaborazione secondo i giudici di merito: il valore dei dividendi accreditati alla società italiana era infatti retrocesso integralmente alla società ceca come da accordo, sicché nella contenuta misura di poco più di 700.000 euro – notevolmente inferiore al valore del vantaggio fiscale di quasi 3 milioni di euro – si era determinato l’esito dell’operazione per la società italiana, nel contempo significativamente avvantaggiata sul piano fiscale. Secondo quanto argomentato dalla Corte d’appello, sfruttando il regime di tassazione dei dividendi prodotti all’estero all’epoca vigente (solo il 5% in Italia, ex art. 89 TUIR) e di deduzione dei costi connessi alla loro produzione (in forza del quale «le spese e gli altri componenti negativi (…) sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi», ex art. 109, comma 5, TUIR, come modificato nel 2003), la società italiana, attraverso un contratto di “prestito titoli” avente quale controparte la società di diritto ceco e un contratto, ad esso correlato, di “scommessa sui dividendi” con la medesima società solo apparentemente aleatorio – nella prospettazione accusatoria –, aveva esposto nella dichiarazione dei redditi elementi passivi fittizi per oltre 8 milioni di euro, con conseguente risparmio fiscale di circa 3 milioni di euro.

La Cassazione ha rivalutato l’integrazione della fattispecie penale ex art. 4 d.lgs n. 74/2000, alla luce della nuova disciplina del cd. abuso del diritto, come riformulata dall’art. 10-bis del cd. Statuto del contribuente (legge 27 luglio 2000, n. 212), in vigore dal 1° ottobre 2015. La vicenda aveva riguardo a elementi passivi qualificati dai giudici di merito come fittizi, collegati a un’operazione negoziale di cd. stock lending agreement, «seppure non inesistenti in natura, in quanto artificialmente creati al solo scopo di essere esposti nella dichiarazione fiscale, senza che essi facessero riferimento ad un’effettiva operatività». Pur non ritenendo di trovarsi dinanzi a contratti simulati in senso civilistico, posto che il prestito di quote e la “scommessa” erano voluti, quanto dinanzi a un contratto nullo per difetto di causa (l’alea), i giudici di merito avevano osservato che «il sistema intende(va) punire ogni tipo di divergenza tra la realtà commerciale e l’espressione documentale di essa, e non soltanto la mancanza assoluta dell’operazione e la inesistenza “in natura” della voce passiva esposta. Anche ciò che giuridicamente è effettivo, osservano i giudici di merito, può essere senz’altro fraudolento e determinare effetti fittizi se, sul piano economico, non vi è stata affatto l’operazione che le parti di un contratto abbiano convenuto. Ciò che nel caso sarebbe avvenuto, posto che l’esistenza di un «accordo (...) (che nel suo contenuto effettivo, in nulla aleatorio, non corrispondeva allo schema del contratto stipulato) ammantato da un negozio giuridico formalmente ineccepibile, non lo rende meno fittizio». Il giudice di legittimità ha ritenuto che, a seguito dell’entrata in vigore della nuova disciplina prevista dall’art. 10-bis cit., si trattava proprio di un’operazione priva di sostanza economica, formalmente rispettosa delle norme fiscali, esistente, voluta e volta essenzialmente a realizzare un vantaggio fiscale indebito. Essa rientrava, dunque, entro i confini del nuovo art. 10-bis integrando una condotta abusiva “inopponibile” all’a.f. (legittimata a disconoscere i vantaggi conseguiti dal contribuente applicando i tributi secondo le disposizioni eluse), ma non sanzionata con la nullità dei negozi conclusi dal contribuente, resi solo inefficaci ai fini tributari e non punibile ai sensi delle leggi penali tributarie, ma solo suscettibile di sanzioni amministrative tributarie. La Cassazione ha anche rimarcato che la disciplina dell’abuso del diritto ha applicazione solo residuale rispetto alle disposizioni concernenti la simulazione o i reati tributari. In particolare, l’evasione e la frode vanno perseguite con gli strumenti che l’ordinamento già offre e se, ad esempio, una situazione configura fattispecie di frode o simulazione regolate dal d.lgs n. 74/2000, l’abuso non può essere invocato. Difatti, «il nuovo art. 10-bis, dello “Statuto” prevede, anzitutto, che l’abuso del diritto può essere configurato solo se i vantaggi fiscali non possono essere disconosciuti contestando la violazione di disposizioni del d.lgs. n. 74 del 2000, ovvero la violazione di altre disposizioni». Ciò significa, dunque, che l’abuso «per un verso, postula l’assenza, nel comportamento elusivo del contribuente, di tratti riconducibili ai paradigmi, penalmente rilevanti, della simulazione, della falsità o, più in generale, della fraudolenza». Inoltre, «rimane impregiudicata la possibilità di ravvisare illeciti penali – sempre naturalmente, che ne sussistano i presupposti – nelle operazioni contrastanti con disposizioni specifiche che perseguano finalità antielusive (ad esempio, negando deduzioni o benefici fiscali, la cui indebita autoattribuzione da parte del contribuente potrebbe bene integrare taluno dei delitti in dichiarazione). Parimenti rimane salva la possibilità di ritenere, nei congrui casi, che – alla luce delle previsioni della normativa delegata e della possibile formulazione del delitto di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (il cui testo è stato riformulato nello schema di decreto legislativo delegato, approvato dal Consiglio del Ministri del 22 settembre u.s.) – operazioni qualificate in precedenza dalla giurisprudenza come semplicemente elusive integrino ipotesi di vera e propria evasione». 

 

2.2.3.2. Scissione proporzionale, conferimento di bene e cessione di quote societarie[43]

All’amministratore di una Srl veniva contestato il delitto ex art. 3 d.lgs n. 74/2000 per avere indicato, nella dichiarazione fiscale della società, elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo, per euro 12.745.486 ai fini della imposta sui redditi e per euro 66.000.000 ai fini dell’IVA. In dettaglio, secondo l’accusa, nelle scritture contabili della società era stata rappresentata un’operazione di scissione proporzionale simulata, volta a realizzare una struttura societaria interposta, funzionale alla sottrazione all’imposizione di elementi attivi di reddito. Infatti, erano state costituite due nuove società, alle quali poi erano stati conferiti, rispettivamente, tutti gli immobili confluiti nel fondo patrimoniale e un immobile del valore di euro 53.147.749; in seguito, la società di nuova costituzione, dopo aver ceduto l’immobile al prezzo di euro 66.000.000 oltre IVA a una società di leasing (che poi lo aveva concesso in locazione ad altra società), era stata ceduta a una società di diritto statunitense non operativa, con sede nel Delaware, estinguendosi e venendo cancellata dal registro delle imprese. Sia la scissione proporzionale che la successiva cessione delle quote erano state considerate come volte esclusivamente a fornire una veste giuridica simulata al negozio sottostante (la cessione della proprietà dell’immobile), che, se compiuto palesemente, avrebbe determinato l’assoggettamento a imposte diverse e più onerose rispetto a quelle applicate alla scissione e cessione di quote. In particolare, l’immobile, iscritto nel bilancio della società conferente per un valore di euro 53.254514,03, era stato ceduto dalla società conferitaria al prezzo di euro 66.000.000 oltre IVA, con una plusvalenza di euro 12.745.485,97, sulla quale sarebbe stata dovuta un’imposta di euro 4.206.810,00. Secondo l’a.f., la scissione era un’operazione elusiva e un negozio nullo per illiceità della causa, il cui unico scopo era di risparmio fiscale volto a eludere una norma imperativa, in quanto l’operazione di scissione e quelle successive erano volte unicamente a procurare il trasferimento della proprietà del suddetto immobile. Altrettanto avevano ritenuto i giudici di merito, rilevando che la società conferente aveva assunto la decisione di cedere l’immobile già prima del perfezionamento dell’atto di scissione, al prezzo già fissato di euro 66.000.000 oltre IVA (esattamente pari a quello della vendita poi perfezionata): l’operazione, sin dalla costituzione della nuova società, aveva avuto il solo scopo di schermare la vendita dell’immobile ed evitare le imposizioni fiscali conseguenti, occultando la riconducibilità della vendita alla conferente.

La Cassazione[44], ribadendo il confine tra elusione fiscale, di rilievo amministrativo, ed evasione penale con contenuti simulatori, ha qualificato l’operazione economica – consistente nel trasferimento della proprietà dell’immobile, effettuata non con un negozio di compravendita, ma mediante le suddette operazioni di scissione, costituzione della nuova società, cessione a quest’ultima delle quote della conferente e successiva vendita da parte della cessionaria dell’immobile a favore di soggetto che avrebbe dovuto acquistarne direttamente la proprietà dalla conferente – come reale (essa aveva dato luogo a flussi finanziari effettivi e al trasferimento di diritti) sebbene elusiva, strutturata attraverso uno schermo negoziale articolato allo scopo di conseguire un indebito vantaggio fiscale, in relazione, però, a una operazione economica realmente verificatasi. Andava esclusa, per contro, la ricorrenza di una operazione simulata, nel significato fissato dall’art. 1, lett. g-bis del d.lgs n. 74/2000. Secondo tale disposizione, infatti, per «operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente» si intendono le operazioni apparenti, diverse da quelle disciplinate dall’art. 10-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212, poste in essere con la volontà di non realizzarle in tutto o in parte ovvero le operazioni riferite a soggetti fittiziamente interposti». Nella specie, sia pure attraverso le ricordate operazioni, il risultato complessivo del trasferimento della proprietà dell’immobile appartenente in origine alla Srl conferente era stato, effettivamente, conseguito, procurandone l’acquisto a favore della società di leasing, sicché le operazioni poste in essere non potevano essere considerate “simulate” secondo la nuova definizione del citato comma g-bis dell’art. 1 d.lgs n. 74/2000, essendo state realizzate in tutto e non da soggetti fittiziamente interposti; la conferitaria, infatti, dopo la sua costituzione, aveva acquistato effettivamente la proprietà dell’immobile e lo aveva alienato a terzi, percependo il relativo prezzo. 

 

2.2.3.3. Scissione parziale, conferimento di beni e cessioni di quote[45]

Il legale rappresentante di una Srl era stato condannato per il reato previsto dall’art. 4 d.lgs n. 74/2000 perché, al fine di evadere le imposte sui redditi, indicando indebitamente nella dichiarazione dei redditi presentata per l’anno di imposta 2008 una plusvalenza (pari a 2.336.272 euro, conseguita dalla società con l’alienazione dell’intera partecipazione societaria detenuta in altra società) in regime di esenzione parziale (con esenzione pari al 95% della plusvalenza ex art. 87 TUIR) anziché in regime di ordinaria tassazione (quale sarebbe stata soggetta la cessione dei fabbricati e dei terreni agricoli facenti parte del complesso aziendale agricolo della società controllante cedente), ometteva di dichiarare elementi attivi pari a 2.219.458 euro (ossia il 95% della plusvalenza conseguita), con IRES evasa pari a 610.351,00 euro.

La corte territoriale aveva ritenuto la sussistenza degli elementi costitutivi del reato di dichiarazione infedele sul rilievo che la Srl rappresentata dall’imputato, in sede di dichiarazione dei redditi concernenti l’anno di imposta 2008, aveva indicato tra le “variazioni in diminuzione” del risultato economico, in corrispondenza del Rigo RF 46, «Plusvalenze relative a partecipazioni esenti» (art. 87), l’importo di euro 2.219.485,00: tale ammontare costituiva il 95% della plusvalenza patrimoniale (euro 2.336.272,00) conseguita dalla Srl nell’annualità impositiva, con l’alienazione dell’intera partecipazione detenuta nell’altra società. Per contro, tale partecipazione non era meritevole della esenzione prevista dall’art. 87 TUIR, in quanto non sussisteva il necessario requisito previsto dalla lett. d del citato articolo (l’esercizio, da parte della società partecipata, dell’attività di impresa commerciale nel triennio precedente alla cessione della partecipazione)[46]. In realtà, la cessione della partecipazione che la Srl deteneva nella società scissa costituiva la conclusione di una complessa operazione societaria che le parti avevano previsto già nel preliminare di compravendita stipulato in data 21 dicembre 2007, dal quale si evinceva che le parti promittenti acquirenti erano, nel concreto, interessate ad acquistare dalla Srl partecipante solo parte dei fabbricati e terreni agricoli all’epoca posseduti dalla società scissa con i relativi diritti dell’aiuto PAC («Politica Agricola Comune»), ossia erogazioni di contributi comunitari. Il prezzo della cessione corrispondeva al valore bilancistico dei fabbricati e terreni alla data del 31 dicembre 2007, al netto degli ammortamenti contabilizzati nei vari esercizi. Al preliminare era poi seguito il rogito, una volta realizzata la scissione societaria. Le effettive intenzioni degli acquirenti, in sede di preliminare, erano quelle di acquistare gli immobili del complesso aziendale agricolo di proprietà della Srl partecipante, e non quelle di acquistare quote di una società di capitali del gruppo facente capo alla famiglia dell’amministratore. Per evitare l’ordinaria e corretta tassazione della plusvalenza de qua, l’imputato aveva posto in essere l’operazione di scissione parziale della Srl che possedeva gli immobili: tale operazione di scissione era risultata, secondo i giudici d’appello, artatamente studiata in maniera tale da evitare il carico fiscale connesso al conseguimento della plusvalenza patrimoniale a fronte della cessione del complesso immobiliare, così come definito nel preliminare con i promittenti acquirenti: utilizzando la società scissa come mero “contenitore” destinato a far circolare i beni oggetto della trattativa conclusa con i promittenti acquirenti attraverso la successiva cessione delle quote societarie e facendo rientrare la plusvalenza realizzata a seguito della cessione di suddette quote societarie nella disciplina della esenzione parziale (95%) ai fini IRES ex art. 87 TUIR. La corte del merito aveva escluso la ricorrenza di una generica volontà consapevole di avvalersi degli strumenti negoziali previsti dagli artt. 37 e 37-bis dPR 29 settembre 1973, n. 600, per ottenere vantaggi fiscali non dovuti (“dolo di elusione”), ritenendo integrato il dolo specifico di evasione (la deliberata ed esclusiva intenzione di sottrarsi al pagamento delle imposte nella piena consapevolezza della illiceità del fine e del mezzo), l’esenzione fiscale essendo stata ottenuta mediante negozi collegati tra loro non finalizzati a un’effettiva cessione di partecipazione societaria in un’azienda agricola attiva destinata a continuare ad operare. Per ottenere l’esenzione, la plusvalenza era stata indicata tra le tassazioni agevolate, tacendo al fisco la reale natura della cessione (relativa sostanzialmente a beni immobili appartenenti alla società originaria e appositamente scissa). 

La Cassazione[47] ha riconosciuto che l’istituto dell’abuso del diritto di cui all’art. 10-bis l. 27 luglio 2000, n. 212, avendo applicazione solo residuale, non può venire in considerazione quando i fatti integrino gli elementi costitutivi del delitto di dichiarazione infedele per la comprovata esistenza di una falsità ideologica che interessa, nella parte che connota il fatto evasivo, il contenuto della dichiarazione, inficiandone la veridicità per avere come obiettivo principale l’occultamento totale o parziale della base imponibile. La pronuncia ha ricevuto commenti critici in quanto sostenuta da un’interpretazione ritenuta[48], sostanzialmente, abrogativa della riforma dell’art. 10-bis, comma 13 dello Statuo del contribuente. La dichiarazione infedele ex art. 4 d.lgs n. 74/2000, per intrinseca natura, è strutturalmente connotata da una dichiarazione ideologicamente falsa e dunque, con la soluzione proposta dalla Suprema corte, viene ritenuto difficile individuare casi in cui l’abuso del diritto non presenti connotati di falsità ideologica laddove l’operazione riceva rappresentazione in sede di dichiarazione fiscale. 

 

2.2.3.4. Conclusioni

Volendo trarre dalla prassi giudiziaria qualche conclusione rispetto alla individuazione della cd. linea di confine tra l’abuso/elusione non penalmente rilevanti e l’evasione fiscale, la lettura combinata delle nuove fattispecie penali tributarie e dell’art. 10-bis, comma 13, St. contr., consente di avere una prospettiva più chiara circa il significato di quest’ultima norma, soprattutto alla luce del quadro giurisprudenziale che l’ha preceduta: non si è tanto voluto negare che una condotta abusiva possa avere di per sé un rilievo penale, quanto piuttosto, sulla base di una scelta di politica criminale, sottrarre in modo inequivocabile tali fattispecie dall’area di rilevanza penale, nella quale erano state attirate in precedenza[49]. La Suprema corte non ha tardato a esprimersi sul punto, chiarendo come i rapporti fra il campo di applicazione dell’abuso del diritto e quello coperto dal presidio penalistico debbano essere improntati alla mutua esclusione, di talché la fattispecie abusiva non può essere contestata qualora l’operazione perseguita dall’agente sia suscettibile di essere fonte di responsabilità penale (in quanto violazione di una disposizione fiscale e integrante gli estremi di un illecito tributario) e, a sua volta, quest’ultima non può poggiare su una contestazione di abuso/elusione. L’abuso è una categoria diversa dalla simulazione, dalla falsità, dalla fraudolenza, recte da quelle condotte punite penalmente sulla base del d.lgs n. 74/2000, con carattere residuale rispetto alle stesse. La residualità dell’art. 10-bis è stata riaffermata dalla Suprema corte (sentenza 21 aprile 2017, n. 38016) proprio in riferimento all’ipotesi criminosa di cui all’art. 4 d.lgs n. 74/2000 (dichiarazione infedele), la quale è integrata ogni qual volta siano stati realizzati comportamenti simulatori preordinati alla immutatio veri del contenuto della dichiarazione e integranti una falsità ideologica caratterizzante il fatto evasivo. Questi incidono sulla veridicità della stessa dichiarazione per occultare, in tutto o in parte, la base imponibile, non trovando applicazione la disciplina dell’abuso avente portata solo residuale[50]

 

2.2.4. La nozione speciale di evasione d’imposta di rilievo per la dichiarazione infedele: art. 4, commi 1-bis e 1-ter, d.lgs n. 74/2000

La diversità tra le regole fiscali e quelle significative per la definizione dell’imposta evasa di rilievo penale si realizza in maniera paradigmatica rispetto al delitto di dichiarazione infedele ex art. 4 d.lgs n. 74/2000. La novella del 2015 ha interpretato l’esigenza di “alleggerimento” della fattispecie, esprimendo lo sfavore verso il rischio penale a carico del contribuente in relazione a comportamenti dichiarativi non fraudolenti connotati da valutazioni giuridico-tributarie difformi da quelle corrette, «correlato agli ampi margini di opinabilità e di incertezza che connotano i risultati di dette valutazioni: “rischio penale” non sufficientemente circoscritto dalla previsione di un dolo specifico di evasione»[51]. Valutazioni riferite nella relazione illustrativa, che le rafforza segnalando anche ragioni di opportunità sul piano della competizione tra ordinamenti[52]

In virtù dell’art. 4, comma 1-bis, d.lgs n. 74/2000, «ai fini dell’applicazione della disposizione del comma 1, non si tiene conto della non corretta classificazione, della valutazione di elementi attivi o passivi oggettivamente esistenti, rispetto ai quali i criteri concretamente applicati sono stati comunque indicati nel bilancio ovvero in altra documentazione rilevante ai fini fiscali, della violazione dei criteri di determinazione dell’esercizio di competenza, della non inerenza, della non deducibilità di elementi passivi reali». Alla stregua dell’art. 4, comma 1-ter, d.lgs n. 74/2000, come novellato dall’art. 39, comma 1, lett. g, dl 26 ottobre 2019, n. 124, conv., con mod., dalla l. 19 dicembre 2019, n. 15, alla legge di conversione del dl 26 ottobre 2019, n. 124, «Fuori dei casi di cui al comma 1-bis, non danno luogo a fatti punibili le valutazioni che, complessivamente considerate, differiscono in misura inferiore al 10 per cento da quelle corrette. Degli importi compresi in tale percentuale non si tiene conto nella verifica del superamento delle soglie di punibilità previste dal comma 1, lettere a) e b)».

In tal senso, la previsione si inserisce in un quadro della riforma del 2015 che aveva aumentato le soglie d’irrilevanza penale, tanto quanto all’imposta evasa (cresciuta da cinquantamila a centocinquantamila euro, poi con la novella del 2019 ricondotta a centomila euro) quanto all’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi inesistenti (portata a tre milioni di euro, sino a quando, nel 2019, è stata ricondotta agli attuali due milioni di euro). Inoltre, in virtù della lett. d dell’art. 4 d.lgs n. 158/2015, è stata sostituita la locuzione «elementi passivi fittizi», contenuta nel previgente testo dell’art. 4 d.lgs n. 74/2000, con quella di «elementi passivi inesistenti», innovazione rilevante soltanto per il reato di dichiarazione infedele e non per quelli di dichiarazione fraudolenta (di cui agli artt. 2 e 3 del d.lgs n. 74/2000), coerente con il nuovo comma 1-bis, che esclude la rilevanza penale delle componenti negative di reddito esistenti, ma indeducibili per la normativa tributaria. 

Più specificamente, non rilevano ai fini dell’integrazione delle soglie penali fissate dall’art. 4 d.lgs n. 74/2000 i valori corrispondenti a non corrette classificazioni o valutazioni, secondo i parametri tributari, di elementi attivi e passivi oggettivamente esistenti «rispetto ai quali i criteri concretamente applicati sono stati comunque indicati nel bilancio ovvero in altra documentazione rilevante ai fini fiscali». Né possono considerarsi d’interesse penale gli elementi attivi sottratti all’imposizione per l’importo che consegue a violazione dei criteri di determinazione dell’esercizio di competenza, ovvero l’indicazione di elementi passivi non inerenti o non deducibili, secondo le regole tributarie (cfr. art. 109 TUIR), a condizione che essi siano reali. Inoltre, al fuori di tali casi, ai sensi dell’art. 4, comma 1-ter, d.lgs n. 74/2000, non danno luogo a fatti punibili le valutazioni che, complessivamente considerate, differiscono in misura inferiore al 10 per cento da quelle corrette. Degli importi compresi in tale percentuale non si tiene conto nella verifica del superamento delle soglie di punibilità previste dal comma 1, lett. a e b dell’art. 4 citato.

Come ricordato recentemente da Cass., sez. III, n. 381/2023, «all’interno del comma 1-bis possono infatti distinguersi due diverse categorie giuridiche: da un lato, il riferimento alla “non corretta classificazione”, alla “violazione dei criteri di determinazione dell’esercizio di competenza”, alla “non inerenza” e alla “non deducibilità di elementi passivi reali”; dall’altro, il riferimento alla “valutazione di elementi attivi o passivi oggettivamente esistenti, rispetto ai quali i criteri concretamente applicati sono stati comunque indicati nel bilancio ovvero in altra documentazione rilevante ai fini fiscali”. In altre parole, il Legislatore ha inteso enumerare una congerie di elementi negativi del fatto tipico e poi anche trasferire, all’interno dell’art. 4, la causa di non punibilità prima prevista all’art. 7 del D.Lgs. n. 74/2000 (ora abrogato). Delle due categorie appena menzionate, solo la prima compone il fatto tipico del reato, poiché gli elementi elencati concorrono alla determinazione del disvalore che il Legislatore ha inteso sanzionare penalmente. Una volta riconosciuta dunque la natura eterogenea della disposizione di cui al comma 1-bis, potendo dunque declinarsi diverse conformazioni dei rapporti fra la stessa e la disposizione di cui al comma 1, a seconda della differente categoria di esimenti di volta in volta rilevanti (peraltro rilevando come l’interpretazione adottata sia in linea con la Relazione illustrativa al D.lgs. n. 158/2015, che ha introdotto all’art. 4, D. Lgs. n. 74/2000 il nuovo comma 1-bis, ove, a pag. 3, può leggersi come scopo della riforma sia stato quello di “escludere la rilevanza penale delle operazioni di ordine classificatorio”, categoria cui possono essere ricondotte tutte le esclusioni annoverate al comma 1-bis, ad eccezione, proprio, delle sole valutazioni)».

Ponendo ordine all’intricata esposizione normativa, l’assetto della disciplina può essere spiegato nei seguenti termini. Quand’anche determinino evasione fiscale di rilievo amministrativo, gli effetti di alcune scorrette applicazioni di regole tributarie non concorrono a integrare le soglie di punibilità previste dal comma 1, lett. a e b (imposta evasa o l’imponibile sottratto all’imposizione) della fattispecie penale ex art. 4 d.lgs n. 74/2000 nei seguenti casi: i) non corretta classificazione o valutazione di elementi attivi e passivi oggettivamente esistenti, quale che ne sia l’importo o la percentuale di scostamento da quella corretta, purché ricorra la condizione di trasparenza, ossia che l’operazione si svolga secondo criteri comunque indicati nel bilancio ovvero in altra documentazione rilevante ai fini fiscali; ii) non corrette valutazioni di elementi attivi e passivi anche in assenza della ricordata condizione di trasparenza, ove lo scostamento da quelle corrette, complessivamente considerate, sia di lieve entità (ovvero inferiore al 10 per cento); (iii) violazione dei criteri di determinazione dell’esercizio di competenza di elementi attivi e passivi reali; (iv) violazione dei criteri di inerenza o deducibilità di elementi passivi reali. 

Come rileva la circolare dell’Agenzia delle entrate n. 7/E del 28 febbraio 2011, mentre la qualificazione attiene alla “sostanziale” individuazione degli effetti di ciascuna operazione aziendale, le “classificazioni”, invece, costituiscono il passo seguente: una volta individuato il “modello” giuridico-negoziale di riferimento, va chiarito se l’operazione presenti unicamente profili patrimoniali o si manifesti, in tutto o in parte, come fenomeno reddituale. In tal ultimo caso, occorre definire gli specifici effetti che la stessa produce sul reddito e, contestualmente, individuare la specifica appostazione in bilancio dei relativi elementi reddituali e/o patrimoniali. Sotto il profilo reddituale si tratta, in sintesi, di individuare la specifica tipologia (o “classe”) di provento o di onere di ciascuna operazione, eventualmente come qualificata nella rappresentazione IAS compliant. Sotto il profilo strettamente patrimoniale, il “fenomeno classificatorio” riguarda anche le poste iscritte nell’attivo e nel passivo (o “classi” di attività o passività) del bilancio, le quali comunque generano – in fase di valutazione e/o realizzo – componenti di reddito. Il “fenomeno classificatorio” non è scindibile da quello “qualificatorio” e ne costituisce naturale conseguenza, dovendo, in linea di principio, risultare coerente con il primo; un’operazione diversamente qualificata produce, in linea generale, una conseguente diversa classificazione. Gli errori di classificazione possono significativamente incidere sulla quantificazione del reddito: classificare una spesa come di rappresentanza o di pubblicità, come ordinaria o straordinaria ha riflessi reddituali, considerata la diversa rilevanza con cui le stesse possono esprimersi secondo i criteri tributari e concorrere a dimensionare il reddito. Nel rinvio ai criteri di classificazione in bilancio, l’art. 83 TUIR rimanda alle regole formulate dai principi contabili internazionali in ordine al raggruppamento nel bilancio degli effetti finanziari delle operazioni e degli eventi aziendali in classi (le attività, le passività e il patrimonio netto per quanto riguarda lo stato patrimoniale, i ricavi e i costi per quanto riguarda il conto economico) e sottoclassi. Insuperabili ragioni di coerenza del sistema impongono di ritenere che gli errori di classificazione possono considerarsi irrilevanti in termini penal-tributari solo se contenuti entro la medesima macro-classe, dunque, in termini di bilancio, pur sempre all’interno delle stessa sezione dello stato patrimoniale (attivo e passivo) e del conto economico (valore della produzione, costo della produzione, proventi ed oneri finanziari, rettifiche di valore di attività finanziarie e proventi ed oneri straordinari). Immaginare che un elemento positivo del reddito (un ricavo, un corrispettivo, un provento) possa essere classificato come elemento negativo (una spesa) e viceversa, potrebbe dar luogo a manovre strumentali nelle rappresentazioni di bilancio e nelle dichiarazioni fiscali.

Non vi sono evidenze testuali per riservare la portata della previsione alle non corrette classificazioni incidenti sulle imposte sui redditi, escludendo quelle rilevanti sul regime di determinazione dell’IVA; più in dettaglio, le operazioni soggette al campo di applicazione dell’IVA sono suddivisibili in tre categorie: le operazioni imponibili, le operazioni non imponibili, le operazioni esenti[53]

Se la non corretta classificazione è un’operazione giuridica errata dalla quale derivano conseguenze sulla rappresentazione degli elementi attivi in dichiarazione, in via di principio non sembra concetto slegato dalla violazione della norma tributaria, onde la rilevanza dell’esclusione della punibilità dovrebbe restare confinata entro i limiti dell’art. 15 d.lgs n. 74/2000 («Violazioni dipendenti da interpretazione delle norme tributarie»), secondo il quale «non danno luogo a fatti punibili ai sensi del presente decreto le violazioni di norme tributarie dipendenti da obiettive condizioni di incertezza sulla loro portata e sul loro ambito di applicazione». La puntualizzazione, più che spostare sul contribuente l’onere di dimostrare di essere stato indotto a una “non corretta classificazione” in ragione di obiettive condizioni di incertezza sul significato della norma tributaria di definizione dell’imposta, conferma l’indispensabilità dell’indagine sulle condizioni in cui si possa ritenere ragionevole un errore “in buona fede”, vale a dire non precostituito con deliberata volontà evasiva. Il comma 1-bis dell’art. 4 cit., potrebbe dirsi, esemplifica l’ambito in cui può manifestarsi l’errore di lettura della norma tributaria; in altri termini, la “classificazione non corretta” non rileva solo oggettivamente, ma richiede l’analisi dei profili soggettivi che l’abbiano potuta determinare con la comprensione della genesi, dovendosi chiarire se scaturisca da effettiva errata lettura di norme tributarie ovvero da scelta intenzionale del contribuente funzionale a  sottrarsi al  pagamento d’imposta di elementi attivi, volutamente classificati in voci esenti da contribuzione fiscale. Ritenere che la previsione del comma 1-bis dell’art. 4 possa risultare completamente slegata dalle condizioni dell’art. 15 cit. significherebbe rimettere al completo arbitrio del contribuente l’ambito di applicazione della legge penale, innocuizzando, attraverso camuffamenti e sotto l’etichetta di “errori” (grossolani), la portata precettiva delle norme preposte alla definizione di ogni “classificazione” (così come dei “criteri di determinazione dell’esercizio di competenza”, della “ inerenza”, della “deducibilità di elementi passivi reali”, ovvero della “valutazione di elementi attivi o passivi oggettivamente esistenti”). 

In punto di errori di valutazione, meritano d’essere segnalate alcune differenze significative rispetto alle previsioni del vigente art. 7 d.lgs n. 74/2000, abrogato. Quest’ultimo prevedeva cause di non punibilità applicabili anche al delitto di dichiarazione fraudolenta ex art. 3 decreto 74/2000, non al solo delitto di dichiarazione infedele ex art. 4 decreto 74/2000, come ora riservato. Come osserva la relazione illustrativa, «si è peraltro ritenuto che, in rapporto al delitto di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, di cui al nuovo articolo 3 del decreto legislativo n. 74 del 2000 (rispetto al quale le valutazioni conservano invece rilievo), le suddette regole “di garanzia” siano prive di adeguata giustificazione. La circostanza che il contribuente supporti la violazione dei criteri di rilevazione contabile con manovre a carattere fraudolento, idonee ad ostacolarne l’accertamento, fa apparire, in effetti, inopportuno e, almeno per certi versi, contraddittorio il mantenimento delle predette regole di esclusione del dolo di evasione, ferma restando la possibilità, per il giudice, di pervenire alla conclusione dell’insussistenza dell’elemento soggettivo del reato sulla base delle peculiarità dei singoli casi concreti». Inoltre, l’art. 7 citato assumeva che la violazione delle regole tributarie di imputazione delle componenti attive e passive del reddito all’esercizio di competenza non desse luogo a fatti punibili solo ove avvenuta sulla base di «metodi costanti di impostazione contabile», quand’anche non corretti, importanti come tali un differimento nel tempo dell’imposizione e, dunque, non una sottrazione definitiva di materia imponibile. Elemento che la giurisprudenza di legittimità aveva ulteriormente irrigidito, richiedendo una corrispondenza emergente «con chiarezza dalla lettura dei bilanci e delle scritture nella loro interezza e non sulla base di semplici rilievi a campione (Cass., III, 36910/2013)». Si tratta di aspetti (tanto la costanza della difforme impostazione contabile quanto la generalizzata e chiara corrispondenza ad essa delle regole di determinazione dell’esercizio di competenza concretamente seguite, sia pure in deroga rispetto a quelle tributarie) non più previsti nella rimodulazione del novellato articolo 4 d.lgs n. 74/2000. Inoltre, l’art. 7 aveva riguardo alle sole valutazioni estimative, ovvero quelle concernenti il quantum dell’imponibile, di rilievo ex art. 2426 cc (ovvero che riguardavano le immobilizzazioni materiali soggette ad ammortamento, in relazione alla loro residua possibilità di utilizzo, le rimanenze di merci, con riferimento al valore di realizzazione desumibile dall’andamento del mercato, se minore del costo di acquisizione, i crediti, in relazione al valore di verosimile realizzazione, nonché gli accantonamenti ai fondi rischi). Per contro, sebbene appaia plausibile ritenere che risulteranno ancora significative quelle estimative, la riforma non introduce limitazione alcuna nei contenuti e negli importi delle valutazioni scorrette, definite (al ricorrere della condizione di mitigata trasparenza o per il limitato importo) irrilevanti in termini penal-tributari. L’art. 7, comma 1, cit., prevedeva una più precisa e intensa condizione di trasparenza delle scorrette rilevazioni contabili e valutazioni (limitate a quelle estimative), richiedendo che si svolgessero secondo criteri (di stima) comunque indicati nel bilancio (in concreto, per lo più, nella nota integrativa) e non anche, in alternativa, «in altra documentazione rilevante ai fini fiscali», come previsto dalla revisione del 2015, espressione che sembra ammettere anche scritture o carteggi di rilievo tributario sprovvisti di valenza comunicativa esterna. Proprio la più intensa trasparenza esterna costituiva una delle ragioni che, in passato, per evitare di insospettire i verificatori, aveva motivato la ritrosia alla spiegazione dei difformi criteri di valutazione seguiti.

L’irrilevanza, ai fini del delitto in esame, della violazione dei criteri di determinazione dell’esercizio di competenza di elementi attivi e passivi reali è adesso generalizzata e non è più condizionata al collegamento con «metodi costanti di impostazione contabile». L’imputazione di una componente reddituale in violazione del principio di competenza viene trattata come trasgressione meramente formale, al pari della violazione delle regole della più generale disciplina della deducibilità fiscale. Esse ricevono lo stesso trattamento nel disegno della riforma: in quanto attengano a elementi reali, esse sono considerate violazioni formali prive di significato per la fattispecie penale di dichiarazione infedele ex art. 4 d.lgs n. 74/2000. Ciò significa che resta irrilevante l’indeducibilità fiscale di costi dell’impresa, quand’anche privi del requisito temporale della competenza (art. 109/1 TUIR), anche senza una contabilità regolarmente tenuta, purché risulti aliunde la reale esistenza. Ma anche altre cause di indeducibilità, sempre con connotazione formale, perdono rilievo ai fini del delitto di dichiarazione infedele, ove si appuri l’esistenza materiale del costo. Si pensi alla violazione della regola di necessaria imputazione al conto economico dell’esercizio di competenza (art. 109/4 TUIR) che, come visto, soffre alcune eccezioni.

Il fatto tipico, precisato nel modello legale del reato di infedele dichiarazione dei redditi, deve perciò ritenersi integrato dalla presenza di elementi positivi della condotta punibile, ossia dall’indicazione nella dichiarazione di ricavi per un ammontare inferiore a quello effettivo, anche con il ricorso alla tecnica della sotto-fatturazione, o dall’indicazione di costi inesistenti (non più fittizi), con conseguente superamento della soglia di punibilità, e (in aggiunta) dalla contemporanea mancanza di elementi negativi della condotta delittuosa, in quanto rientranti anch’essi (sia pure in negativo) nella dimensione della tipicità (nel senso, cioè, che i ricavi omessi non devono essere stati anticipati o posticipati rispetto all’esercizio di competenza, risolvendosi in ciò, anche alla stregua di elementi negativi del fatto di reato, l’intera condotta punibile)[54].

 

3. L’accertamento dell’imposta evasa

 

3.1. Le presunzioni tributarie e le prove penali

Nel contesto penale, alle presunzioni tributarie non è possibile riferire il valore di prove legali, rappresentando piuttosto indizi con valenza persuasiva diversificata tra la sede cautelare e quella di merito. Al riguardo, la giurisprudenza è univoca nel sostenere che nel processo penale le presunzioni legali previste dalle norme tributarie, pur potendo avere valore indiziario, non possono costituire di per sé fonte di prova della commissione dell’illecito, assumendo il valore di dati di fatto che, unitamente a elementi di riscontro che diano certezza dell’esistenza della condotta criminosa, devono poter essere valutati liberamente dal giudice penale[55]. Il legislatore pone, infatti, un limite al giudizio del materiale probatorio qualora esso si riduca a elementi indiziari, quali sono le presunzioni: l’art. 192, comma 2, cpp stabilisce che, affinché esse possano legittimamente fondare l’esistenza di un fatto, queste dovranno essere gravi, precise e concordanti. Tali differenze evidenziano le diverse finalità perseguite dai due procedimenti: quello tributario mira al recupero del quantum evaso, mentre quello penale è diretto ad accertare, oltre ogni ragionevole dubbio, l’attribuibilità o meno della condotta illecita all’imputato, ergo la sua colpevolezza e sanzionabilità. Ne consegue che gli elementi raccolti da parte della p.a. competente verranno impiegati come meri indizi dal giudice penale, cosicché quanto posto a fondamento dell’iter ricostruttivo condotto dall’ufficio tributario in sede di accertamento non possiederà, nel giudizio penale, la valenza propria di prova legale relativamente al risultato dell’accertamento stesso, dovendo gli stessi essere apprezzati autonomamente dall’organo giudicante nella loro reciproca gravità, precisione e concordanza, e unitamente alla rimanente parte del patrimonio probatorio disponibile. Si deve escludere, dunque, una meccanica trasposizione delle presunzioni tributarie tale da ritenere provato il fatto solo perché il contribuente non è riuscito a fornire la prova necessaria per il superamento del risultato ottenuto mediante il sistema presuntivo[56]. Ulteriore conferma dell’incompatibilità sostanziale tra i due procedimenti si riscontra nella possibilità riconosciuta all’ufficio tributario, sebbene a determinate condizioni, di fondare l’attività accertativa anche su presunzioni cd. semplicissime, ossia non connotate dai requisiti di cui all’art. 2729 cc, le quali ovviamente non potrebbero trovare spazio alcuno nell’iter decisionale del giudice penale. 

In sintesi, è pertanto possibile riconoscere nelle presunzioni tributarie elementi utili a formare, nella disamina completa e critica del compendio probatorio acquisito nel corso del dibattimento, il (libero) convincimento del giudice, non potendo invece costituire via più breve per una condanna, essendo assunte non con l’efficacia di certezza legale, ma come dati aventi valore indiziario che, per assurgere a dignità di prova, dovranno trovare un riscontro oggettivo o in distinti elementi probatori o in altre presunzioni, purché gravi, precise e concordanti[57]. Anche per tali indizi dovrà quindi essere seguito quel procedimento induttivo che consente di inferire con certezza il dato ignoto da quello noto, con la conseguenza che un’affermazione di responsabilità potrà essere fondata su elementi indiziari soltanto se gli stessi, specificamente indicati in motivazione e valutati nel loro nesso logico, permettano l’attribuibilità del fatto all’imputato oltre ogni ragionevole dubbio, nel senso che non solo venga dimostrato che il fatto può essere accaduto nel modo che si assume, ma anche che lo stesso non può essersi ragionevolmente svolto in modo contrario[58].

Così, muovendo dal significato indiziario nel processo penale delle presunzioni tributarie, la giurisprudenza di legittimità ha ribadito «il principio, valevole in generale nel processo tributario ed anche, con delle limitazioni, nel processo penale, secondo cui la prova dell’inesistenza, oggettiva o soggettiva, delle operazioni può essere fornita anche mediante presunzioni (in particolare, ai sensi degli artt. 39, comma primo, lett. d), e 40 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, e 54, comma secondo, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633). Ed invero, l’autonomia del procedimento penale rispetto a quello tributario non esclude che, ai fini della formazione del suo convincimento, il giudice penale possa avvalersi degli stessi elementi che determinano presunzioni secondo la disciplina tributaria, a condizione però che gli stessi siano assunti non con l’efficacia di certezza legale, ma come dati processuali oggetto di libera valutazione ai fini probatori. Inoltre, dette presunzioni hanno il valore di un indizio sicché per assurgere a dignità di prova devono trovare oggettivo riscontro o in distinti elementi di prova ovvero in altre presunzioni, purché siano gravi precise e concordanti»[59]. In presenza di tale compendio indiziario, volto a provare l’inesistenza oggettiva delle operazioni, dunque, diviene «onere dell’imputato fornire elementi idonei a dimostrare invece la realtà effettuale delle operazioni contestate». Il principio per cui «le presunzioni legali previste dalle norme tributarie, pur potendo avere valore indiziario, non possono costituire di per sé fonte di prova della commissione dell’illecito, assumendo il valore di dati di fatto, che devono essere valutati liberamente dal giudice penale unitamente ad elementi di riscontro che diano certezza dell’esistenza della condotta criminosa» è stato rimarcato, precisando[60] che il riscontro può essere fornito da distinti elementi di prova, ma anche da altre presunzioni, purché gravi, precise e concordanti[61]

Consolidato, si diceva, è l’orientamento della Corte che differenzia il valore indiziario nella fase del merito da quella cautelare, riaffermando «il principio che le presunzioni legali previste dalle norme tributarie, pur non potendo costituire di per sé fonte di prova della commissione dei reati previsti dal D.Lgs. n. 74 del 2000, hanno un valore indiziario sufficiente ad integrare il “fumus commissi delicti” idoneo, in assenza di elementi di segno contrario, a giustificare l’applicazione di una misura cautelare reale»[62]. Infatti, se nel giudizio di merito deve ritenersi inutilizzabile la presunzione contenuta nell’art. 32 dPR n. 600/1973, che configura come ricavi sia i prelevamenti che i versamenti operati su conti correnti bancari[63], nella prospettiva cautelare, invece, «proprio per la loro natura di dati di fatto aventi valore indiziario, le presunzioni legali previste dalle norme tributarie ben possono essere poste a fondamento di un provvedimento cautelare reale. In proposito va ricordato, infatti, che, ai fini della applicazione della cautela reale, non occorre che il compendio indiziario si configuri come grave ai sensi dell’art. 273 cod. proc. pen., essendo sufficiente l’esistenza del “fumus delicti” in concreto[64], dovendosi cioè verificare in modo puntuale e coerente la serietà degli elementi in base ai quali il giudice ritenga concretamente esistente il reato configurato e la conseguente possibilità di sussumere la fattispecie in quella astratta, tenendo anche conto delle concrete risultanze processuali e della effettiva situazione emergente dagli elementi forniti dalle parti». Le presunzioni legali previste dalle norme tributarie, pur non potendo costituire di per sé fonte di prova della commissione dei reati previsti dal d.lgs n. 74 del 2000, hanno dunque un valore indiziario sufficiente a integrare il fumus commissi delicti idoneo, in assenza di elementi di segno contrario, a giustificare l’applicazione di una misura cautelare reale[65]

Più in particolare, ai fini della applicazione della cautela reale, non occorre che il compendio indiziario si configuri come «grave» ai sensi dell’art. 273 cpp, essendo sufficiente l’esistenza del fumus delicti in concreto[66], dovendosi verificare in modo puntuale e coerente la serietà degli elementi in base ai quali il giudice ritenga concretamente esistente il reato configurato e la conseguente possibilità di sussumere la fattispecie in quella astratta, tenendo anche conto delle concrete risultanze processuali e della effettiva situazione emergente dagli elementi forniti dalle parti. Sebbene il giudice non possa, in generale, far ricorso in sede di giudizio alle presunzioni tributarie semplici che, comportando l’inversione dell’onere della prova, sovvertono alla radice il principio della presunzione di innocenza dell’imputato, tuttavia, ai fini della cautela reale è sufficiente la oggettiva sussistenza indiziaria del reato, a prescindere da qualsiasi profilo che riguardi la colpevolezza del suo autore (che potrebbe anche essere ignoto)[67]. La radicale diversità del criterio di giudizio, dunque, legittima il ricorso alle presunzioni tributarie[68]. Il principio è stato ricordato in una fattispecie nella quale la metodologia utilizzata per ricostruire il reddito sottratto a tassazione dalla società esterovestita rispondeva a un metodo di accertamento analitico induttivo, comunemente utilizzato per il transfer pricing, fondato sull’analisi comparativa delle operazioni di trasferimento di quote di reddito tra consociate e che fa riferimento a elementi indicativi di capacità contributiva elaborati nel rispetto della disciplina normativa e, comunque, rigorosamente previsti dalla legge che ne disciplina i presupposti metodologici (art. 39, comma 1, lett. d, dPR n. 600/1973 e art. 54, comma 2, dPR n. 600/1973). Ora, poiché, con riferimento al metodo di accertamento tributario cd. induttivo, in tema di reati tributari il giudice può legittimamente basarsi, per accertare la penale responsabilità dell’indagato per le omesse annotazioni obbligatorie ai fini delle imposte dirette e dell’IVA, sull’informativa della Guardia di Finanza che abbia fatto ricorso a una verifica delle percentuali di ricarico attraverso un’indagine sui dati di mercato, e ricorrere anche all’accertamento induttivo dell’imponibile quando la contabilità imposta dalla legge sia stata tenuta irregolarmente[69], è stata disattesa la statuizione del tribunale del riesame che si era limitato a osservare che l’accertamento analitico-induttivo è inidoneo a consentire la determinazione del reddito imponibile anche ai fini della cautela reale, non essendo fondato neppure su presunzioni legali, e aveva omesso qualsivoglia considerazione (incorrendo nel vizio di omessa motivazione, da apprezzarsi sotto il profilo della violazione di legge) in ordine alla valutazione in concreto della possibile rilevanza probatoria degli elementi presuntivi semplici che ne sono alla base. 

 

3.2. L’accertamento induttivo e dati bancari alla prova della specifica e autonoma valutazione da parte del giudice

La Cassazione ha anche confermato che «l’accertamento induttivo compiuto dagli uffici finanziari può rappresentare un valido elemento di indagine per stabilire, in sede penale, se vi sia stata evasione e se questa abbia raggiunto le soglie di punibilità previste dalla legge, a condizione che il Giudice non si limiti a constatarne l’esistenza e non faccia apodittico richiamo agli elementi in essi evidenziati, ma proceda a specifica autonoma valutazione degli elementi nello stesso descritti comparandoli con quelli eventualmente acquisiti “aliunde”»[70]. Così, in tema di reati tributari, per il principio di atipicità dei mezzi di prova nel processo penale, di cui è espressione l’art. 189 cpp, il giudice può avvalersi dell’accertamento induttivo, compiuto mediante gli studi di settore dagli uffici finanziari, per la determinazione dell’imposta dovuta, ferma restando l’autonoma valutazione degli elementi emersi secondo i criteri generali previsti dall’art. 192, comma 1, cpp[71]. Nella fattispecie, inerente alla determinazione dell’imposta evasa, la Corte ha reputato immune da censure il rigetto della richiesta di riesame proposta avverso il provvedimento di sequestro del profitto del reato fondato sull’accertamento analitico-induttivo dell’Agenzia delle entrate, non avendo la società del ricorrente prodotto alcuna documentazione contabile di segno contrario[72]. È richiesta un’autonoma valutazione critica degli elementi contenuti nell’accertamento tributario induttivo e di qualsiasi comparazione con le altre risultanze processuali[73]. Rispetto alla contestata omessa dichiarazione ex art. 5 d.lgs n. 74/2000, in tema di rilevanza delle presunzioni tributarie offerte dalle risultanze dei dati bancari ex art. 32 dPR n. 600/1973 e dall’accertamento induttivo in relazione alle determinazione dell’imposta evasa, nella fase dibattimentale, affidata all’autonomia attribuita al giudice penale, la Cassazione ha stimato «non autosufficienti a fini di prova le risultanze, neutre ed asettiche in assenza di concreta esplicazione dei loro contenuti descrittivi, degli accertamenti bancari», non potendo, a presunzione di cui all’art. 32 dPR n. 600/1973, rappresentare ex se idoneo elemento di prova a sorreggere la tesi dell’accusa, non corroborabile con il silenzio serbato dal contribuente – imputato che, a fronte delle contestazioni mossegli in sede tributaria e in sede penale, non fornisca giustificazioni alternative rispetto a tali emergenze documentali[74]

In particolare, la Cassazione ha osservato che, se è vero che «in tema di reati tributari, ai fini della prova del reato di dichiarazione infedele, il giudice può fare legittimamente ricorso ai verbali di constatazione redatti dalla Guardia di Finanza ai fini della determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa, nonché ricorrere all’accertamento induttivo dell’imponibile quando le scritture contabili imposte dalla legge siano state irregolarmente tenute[75] e, dall’altro, che il giudice può legittimamente fondare il proprio convincimento, in tema di responsabilità dell’imputato per omessa annotazione di ricavi, sia sull’informativa della G.d.F. che abbia fatto riferimento a percentuali di ricarico attraverso una indagine sui dati mercato, che sull’accertamento induttivo dell’imponibile operato dall’ufficio finanziario quando la contabilità imposta dalla legge non sia stata tenuta regolarmente», è altresì necessario «che il giudice non si limiti a constatarne l’esistenza e non faccia apodittico richiamo agli elementi in esso evidenziati, ma proceda a specifica, autonoma valutazione degli elementi nello stesso descritti comparandoli con quelli eventualmente acquisiti “aliunde”»[76]. Una volta attribuita limitata rilevanza in chiave probatoria alla presunzione tributaria di cui all’art. 32, dPR n. 600/1973 (che configura come ricavi sia i prelevamenti che i versamenti operati su conti correnti bancari) – «inutilizzabile in base al principio secondo cui le presunzioni legali previste dalle norme tributarie, pur potendo avere valore indiziario, non possono costituire di per sé fonte di prova della commissione del reato, assumendo esclusivamente il valore di dati di fatto, che devono essere valutati liberamente dal giudice penale unitamente ad elementi di riscontro che diano certezza dell’esistenza della condotta criminosa[77]» –, è indispensabile la verifica di elementi oggettivi di riscontro rispetto alle emergenze dei dati bancari e un’autonoma loro valutazione, non avvalorate né da dichiarazioni che si limitino alla loro illustrazione in funzione della determinazione dell’imponibile e dell’imposta evasa sulla base dell’accertamento induttivo, né dal silenzio serbato dal contribuente-imputato, prima, in sede di contraddittorio con l’a.f. e, poi, in sede penale.

Ai fini della configurabilità del reato di omessa dichiarazione IRPEF o IVA, il giudice, nel determinare l’ammontare dell’imposta evasa sulla base della contrapposizione tra ricavi e costi di esercizio detraibili, può far ricorso alle risultanze delle indagini bancarie svolte nella fase dell’accertamento tributario, a condizione che proceda ad autonoma verifica di tali dati indiziari unitamente ad elementi di riscontro, eventualmente acquisiti anche aliunde, che diano certezza dell’esistenza della condotta criminosa, privilegiando il dato fattuale reale rispetto a quello di natura meramente formale che caratterizza l’ordinamento fiscale[78].

 

3.3. Le condizioni di deducibilità dei costi “neri”

La possibilità di considerare significativi, ai fini della base imponibile per le imposte dirette[79], i costi di produzione effettivamente sostenuti, ancorché non documentati e registrati (cd. “costi sostenuti al nero”), non costituisce prerogativa dell’accertamento penale. Ai sensi dell’art. 109, comma 4, lett. b, TUIR, in tema di redditi di impresa, «le spese e gli oneri specificamente afferenti i ricavi e gli altri proventi, che pur non risultando imputati al conto economico concorrono a formare il reddito, sono ammessi in deduzione se e nella misura in cui risultano da elementi certi e precisi». Il principio delinea una concezione economico-fattuale del reddito imponibile prevalente rispetto a quella giuridico-formale. Proprio in relazione a tale previsione, la Suprema corte ha fissato il principio per cui, «ai fini del superamento delle soglie normative di punibilità nei reati tributari, le spese e gli oneri afferenti i ricavi e gli altri proventi, concorrono a formare il reddito, sono ammessi in deduzione se e nella misura in cui risultano da elementi certi e precisi anche quando non sono indicati nelle scritture contabili». Nel valutare i costi sostenuti al nero, il giudice di merito ha l’onere di procedere a una «disamina analitica dei documenti dai quali essi sono fatti derivare, non potendosi far coincidere la mancanza di elementi certi e precisi relativi a detti costi con l’irregolarità, anche macroscopica, della tenuta della contabilità»[80]. Infatti, l’art. 109, comma 4, TUIR intende consentire «la deduzione dei costi sostenuti al nero anche ove tali costi – come è ovvio – non risultino dalle scritture contabili, ma da altri elementi, a condizione che questi ultimi siano “certi e precisi”». Per escludere l’applicabilità della disposizione in questione non è, perciò, sufficiente affermare che i costi riportati in deduzione non risultano dalle scritture contabili, perché, qualora si abbia contezza degli stessi, ad esempio desumendone l’esistenza dalle fatture di acquisto di beni e servizi acquisite nel corso dell’accertamento ispettivo, è necessario procedere comunque alla loro valutazione, quanto meno al fine di evidenziare la mancanza del requisito della certezza e della precisione della documentazione dalla quale essi emergono. La certezza e la precisione richieste dalla stessa relativamente ai costi sostenuti al nero non sono escluse per il solo fatto che l’imputato non abbia mai fornito una benché minima ragionevole giustificazione della mancata annotazione in contabilità di detti costi, né per la presenza di irregolarità, sia pure macroscopiche, nella tenuta delle scritture contabili. Né può essere ritenuta insufficiente a tal fine la circostanza che la produzione difensiva abbia per oggetto una quantità indiscriminata e scarsamente controllabile di fatture per acquisti, documentazione facente parte anch’essa delle scritture contabili, da ritenersi a loro volta inattendibili. Se è vero, dunque, che in tema di reati tributari, per accertare l’ammontare dell’imposta evasa ai fini della verifica del superamento delle soglie di punibilità, le regole stabilite dalla legislazione fiscale per quantificare l’imponibile subiscono limitazioni che derivano dalla diversa finalità dell’accertamento tributario, va anche ricordato che «i costi non contabilizzati debbono essere considerati solo in presenza di allegazioni fattuali da cui si desuma la certezza o comunque il ragionevole dubbio della loro esistenza»[81].

In relazione all’evenienza della ricostruzione del reddito incrociando la contabilità di impresa con quella “in nero”, è stato affermato che corrisponde a preciso onere del contribuente indicare gli ulteriori costi non contabilizzati effettivamente sostenuti per il conseguimento dei maggiori ricavi a loro volta non contabilizzati[82]. Non sussiste, infatti, alcuna automatica correlazione tra ricavi non contabilizzati ed eventuali costi parimenti non contabilizzati. La mancata contabilizzazione di ricavi, insomma, non necessariamente comporta che i costi sostenuti per ottenerli non siano stati a loro volta annotati nei registri. Le spese e gli altri componenti negativi, infatti, concorrono a formare il reddito nell’esercizio di competenza solo se certi o comunque determinabili in modo obiettivo (art. 109, comma 1, dPR 22 dicembre 1986, n. 917)[83] e non possono essere puramente e semplicemente presunti.

Ancora di recente, esaminando la questione della individuazione dei criteri di determinazione dei costi in presenza di ricavi documentalmente accertati sulla base delle risultanze delle registrazioni contabili e dei bonifici in entrata, è stato ribadito[84] che, secondo la convergente giurisprudenza penale di legittimità, in tema di reati tributari, al fine di determinare l’ammontare della imposta evasa, il giudice deve operare una verifica che, pur non potendo prescindere dai criteri di accertamento dell’imponibile stabiliti dalla legislazione fiscale, subisce le limitazioni che derivano dalla diversa finalità dell’accertamento penale e dalle regole che lo governano, con la conseguenza che i costi deducibili non contabilizzati vanno considerati solo in presenza, quanto meno, di allegazioni fattuali da cui desumere la certezza o comunque il ragionevole dubbio della loro esistenza (cfr., per tutte, sez. V, n. 40412 del 13 giugno 2019, Tirozzi, Rv. 277120 - 01, e Sez. III, n. 37094 del 29 maggio 2015, Granata, Rv. 265160 - 01). In linea di principio, questo indirizzo ermeneutico può sembrare non del tutto convergente con quello elaborato dalla giurisprudenza civile di legittimità. Più decisioni delle sezioni civili della Corte di cassazione, infatti, hanno affermato che in tema di accertamento delle imposte sui redditi, nel caso di omessa dichiarazione da parte del contribuente, l’a.f., i cui poteri trovano fondamento non già nell’art. 38 (accertamento sintetico) o nell’art. 39 (accertamento induttivo), bensì nell’art. 41 dPR n. 600/1973 (cd. “accertamento d’ufficio”), può ricorrere a presunzioni cd. “supersemplici”, anche prive, cioè, dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, che comportano l’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, ma deve, comunque, determinare, sia pure induttivamente, i costi relativi ai maggiori ricavi accertati, senza che possano operare le limitazioni previste dall’art. 75 (ora 109) dPR n. 917/1986 in tema di accertamento dei costi, disciplinando tale norma la diversa ipotesi in cui una dichiarazione dei redditi, ancorché infedele, sia comunque sussistente[85]. Secondo la Cassazione civile, la determinazione del reddito di impresa – nel caso di accertamento induttivo – presuppone l’individuazione e il computo dei costi che, nella ricostruzione del reddito, valgono a bilanciare i ricavi accertati in via presuntiva. E infatti, in materia di imposte sui redditi inerenti ad attività di impresa, il principio sancito dal dPR n. 917 del 1986, art. 75 (e ribadito dal dl n. 90 del 1990, art. 6-bis), secondo cui le spese sono deducibili se e nella misura in cui siano annotate nelle scritture contabili, non si applica in caso di rettifica induttiva, in cui alla ricostruzione dei ricavi deve corrispondere un’incidenza percentualizzata dei costi[86]

Più in dettaglio, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, nel caso di omessa dichiarazione da parte del contribuente, il potere-dovere dell’amministrazione è disciplinato non già dell’art. 39, bensì dall’art. 41 dPR n. 600/1973, ai sensi del quale, sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza, l’ufficio determina il reddito complessivo del contribuente medesimo; a tal fine, l’ufficio può utilizzare qualsiasi elemento probatorio e può fare ricorso al metodo induttivo, avvalendosi anche di presunzioni cd. supersemplici (cioè prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza di cui all’art. 38, comma 3 del dPR), le quali determinano un’inversione dell’onere della prova, ponendo a carico del contribuente la deduzione di elementi contrari intesi a dimostrare che il reddito (risultante dalla somma algebrica di costi e ricavi) non è stato prodotto o è stato prodotto in misura inferiore a quella indicata dall’ufficio[87]. In caso di accertamento induttivo di ufficio innescato dall’omissione integrale della dichiarazione della parte del contribuente, dovendo procedere alla ricostruzione della situazione reddituale complessiva del contribuente, l’a.f. deve tenere conto anche delle componenti negative del reddito comunque emerse dagli accertamenti compiuti. Nell’ipotesi considerata, infatti, non possono trovare applicazione le limitazioni previste dall’art. 74, commi secondo e terzo del dPR 29 settembre 1973, n. 597 o quelle dell’art 75 TUIR, in tema di prova dei costi e degli oneri ai fini dell’accertamento con metodo analitico induttivo, in quanto tale norma disciplina la diversa ipotesi in cui una dichiarazione dei redditi, ancorché infedele, sia comunque sussistente. Diversamente, d’altronde, si assoggetterebbe a imposta, come reddito d’impresa, il profitto lordo, anziché quello netto, in contrasto con l’art. 53 Cost.[88]. Se si facesse coincidere, a titolo di sanzione (in relazione all’inopponibilità di poste passive non contabilizzate regolarmente), il profitto lordo con quello netto, si andrebbe addirittura al di là della ratio sanzionatoria della disposizione, in quanto si assoggetterebbe a imposta, come reddito d’impresa, quanto, secondo lo stesso accertamento dell’ufficio, reddito non è risultato (cfr. Corte cost., n. 143/1982; vds. anche Cass., sez. V, nn. 3995/2009 e 28028/2008). Le norme in materia di accertamento richiedono che, in caso di accertamento induttivo, gli uffici accertino l’imponibile e quindi il reddito effettivo dei contribuenti e non solo i ricavi, ciò comportando che, qualora per determinati proventi non sia possibile addivenire ai costi, questi possono essere determinati induttivamente sulla base degli accertamenti compiuti. 

Da tali premesse scaturiscono importanti conseguenze che la Cassazione ha delineato in rapporto alla necessità di procedere alla ricostruzione della situazione reddituale complessiva del contribuente in seno all’accertamento induttivo, tenendo conto anche delle componenti negative del reddito comunque emerse dagli accertamenti compiuti ovvero indicate e dimostrate dal contribuente: (i) qualora per alcuni proventi non sia possibile accertare i costi, questi possono essere determinati induttivamente, perché diversamente si assoggetterebbe a imposta, come reddito d’impresa, il profitto lordo, anziché quello netto, in contrasto con il parametro costituzionale della capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost.[89]; in tale evenienza, i costi devono essere identificati coordinando l’accertamento anche con il principio di continuità dei valori di bilancio, per cui le rimanenze finali di un esercizio costituiscono esistenze iniziali dell’esercizio successivo e le reciproche variazioni concorrono a formare il reddito di esercizio[90]; (ii) deve escludersi l’automatica inclusione, fra le componenti negative, delle operazioni di prelievo effettuate dal contribuente dai conti correnti a lui riconducibili, in quanto le operazioni sui conti medesimi, sia attive che passive, vanno considerate ricavi, essendo posto a carico del contribuente l’onere di indicare e provare eventuali specifici costi deducibili[91].

Detto quanto precede, il principio dell’incidenza percentualizzata dei costi non contabilizzati effettivamente sostenuti per il conseguimento dei maggiori ricavi a loro volta non contabilizzati[92] è applicabile in caso di rettifica induttiva e non già di accertamento conseguente a indagine bancaria, regolamentato dagli artt. 32 dPR 29 settembre 1973, n. 600, e 51, comma 2, n. 2 dPR 26 ottobre 1972, n. 633, in base al quale incombe sul contribuente l’onere di provare, rispetto alla presunzione legale emergente dai dati delle movimentazioni bancarie, che detti elementi non siano riferibili a operazioni imponibili (in particolare, che i versamenti siano registrati in contabilità e che i prelevamenti siano serviti per pagare determinati beneficiari, anziché costituire acquisizione di utili), mentre l’onere probatorio dell’amministrazione è soddisfatto, per legge, attraverso i dati e gli elementi risultanti dai conti predetti[93]. In altri termini, il riconoscimento automatico dei costi attraverso la considerazione dell’incidenza percentualizzata dei costi corrispondenti alla ricostruzione dei ricavi non è applicabile alle rettifiche fondate su indagini bancarie, atteso che, in questa ipotesi, ai sensi dell’art. 32 dPR n. 600/1973 (e, per l’IVA, dell’art. 51, comma 2, n. 2, dPR n. 633/1972), opera a favore dell’amministrazione finanziaria una presunzione legale rispetto ai dati emergenti dalle movimentazioni bancarie, che il contribuente ha l’onere di superare[94]. Più esattamente, le decisioni “favorevoli all’incidenza percentualizzata” della giurisprudenza civile di legittimità, come emerge dalle relative motivazioni, riguardano l’accertamento di ricavi determinati induttivamente o presuntivamente ricostruiti sulla base dei prelievi effettuati dal conto corrente del contribuente, e si fondano sulle considerazioni della sentenza della Corte costituzionale n. 225/2005, che ha avuto specificamente ad oggetto la questione della «legittimità costituzionale dell’art. 32, primo comma, numero 2), del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), nella parte in cui prevede che i prelevamenti effettuati nell’ambito dei rapporti bancari siano posti, come ricavi, a base delle rettifiche ed accertamenti dell’amministrazione finanziaria, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e sempreché non risultino dalle scritture contabili»[95] (enfasi aggiunta). Da quanto esposto, la Suprema corte ha ritenuto che l’eventuale dissonanza tra indirizzo ermeneutico della giurisprudenza penale e indirizzo ermeneutico della giurisprudenza civile di legittimità concerne la specifica ipotesi dei ricavi accertati induttivamente sulla base dei prelievi ingiustificati che un imprenditore effettua dai conti correnti bancari[96]. Diversa, però, è la situazione in cui i ricavi sono accertati sulla base delle registrazioni regolarmente operate nelle scritture contabili o, comunque, di entrate registrate nei conti correnti, ma non anche nella contabilità. In questi casi, infatti, l’entità dei ricavi è certa e documentalmente provata. Si può quindi ribadire che, almeno quando i ricavi non indicati nelle dichiarazioni fiscali obbligatorie sono individuati sulla base di entrate registrate puntualmente nelle scritture contabili o nei conti correnti bancari, e quindi sulla base non di presunzioni, ma di precisi elementi documentali, i correlativi costi possono essere riconosciuti solo in presenza di allegazioni fattuali da cui desumere la certezza o comunque il ragionevole dubbio della loro esistenza[97]. Dei costi non contabilizzati, dunque, deve sussistere la prova, diretta o indiziaria. Sicché, ove a fronte dell’esistenza certa di ricavi non dichiarati la persona sottoposta alle indagini lamenti la mancata deduzione dei costi ad essi inerenti, deve provarne l’esistenza (artt. 187 e 190 cpp), o comunque allegare i dati dai quali l’esistenza di tali costi poteva essere desunta e dei quali né il pubblico ministero né il giudice hanno tenuto conto. Non è perciò legittimo, nemmeno in sede penale, presumere l’esistenza di costi deducibili in assenza quantomeno di allegazioni fattuali che rendano almeno legittimo il dubbio in ordine alla loro sussistenza[98]. È corretta, dunque, la quantificazione dell’imposta evasa realizzata contabilizzando i maggiori ricavi conseguiti senza dedurre i costi non contabilizzati in ordine alla cui esistenza effettiva (o anche solo al ragionevole dubbio in ordine alla loro esistenza) manchino specifiche deduzioni o allegazioni. Infatti nessun criterio di giudizio legittima la deduzione di costi non contabilizzati in base a presunzioni sganciate da qualsiasi dato fattuale che renderebbe irragionevole il dubbio sulla loro esistenza e arbitraria persino la loro quantificazione.

 

3.4. La detraibilità dell’IVA assolta per rivalsa sugli acquisti in caso di accertamenti induttivi

In sede civile, è consolidato l’insegnamento secondo il quale, «in tema di IVA ed ai fini della determinazione dell’imponibile in via induttiva, nel caso di mancata presentazione della dichiarazione annuale, il D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 55 – il quale ha carattere sanzionatorio dell’obbligo di presentare tale dichiarazione – consente di computare in detrazione (oltre ai versamenti eventualmente eseguiti dal contribuente) solo le imposte, detraibili ai sensi dell’art. 19, che risultino dalle dichiarazioni mensili e trimestrali»; cosicché, «in difetto delle stesse, restava irrilevante che il pagamento di tali imposte [fosse] evincibile da altra documentazione, inclusa la contabilità d’impresa»[99]. Tale limite è stato in parte dilatato[100] ammettendo che, in tema di IVA, l’accertamento induttivo ex art. 55 dPR n. 633/1972 non determina l’automatica perdita del diritto alla detrazione dell’imposta assolta per rivalsa sugli acquisti di beni e servizi, atteso che l’onere di provare i crediti vantati, se non risultanti dalle dichiarazioni periodiche, può essere adempiuto con le modalità di cui all’art. 2724 cc, ove l’allegata impossibilità di dimostrare con i mezzi ordinari l’IVA assolta in rivalsa sia conseguenza di un comportamento incolpevole[101]. Tenuto conto di quanto sopra riepilogato, occorre riconoscere che la parte contribuente deve offrire prova adeguata dell’IVA assolta, con le dichiarazioni mensili e trimestrali, con le diverse forme previste dall’art. 2724 cc, laddove ricorra l’impossibilità di dimostrare con i mezzi ordinari l’IVA assolta in rivalsa quale conseguenza di un comportamento incolpevole. 

In sede penale, ai fini del calcolo dell’imposta sul valore aggiunto, è stata esclusa la rilevanza dei costi sostenuti per l’esercizio dell’impresa, limitandola all’imposta eventualmente assolta o dovuta dal soggetto passivo o a quella a lui addebitata a titolo di rivalsa (ex art. 18, dPR n. 633/1972) in relazione ai beni e ai servizi importati o acquistati nell’esercizio dell’impresa, arte o professione. La base imponibile dell’IVA è, in generale, costituita dall’ammontare complessivo dei corrispettivi dovuti al cedente o prestatore, «compresi gli oneri e le spese inerenti all’esecuzione e i debiti o altri oneri verso terzi accollati al cessionario o al committente» (art. 13 dPR n. 633/1972), e il volume di affari si calcola in base all’ammontare complessivo delle cessioni dei beni e delle prestazioni di servizi effettuate, registrate o soggette a registrazione nell’anno solare (ivi, art. 20). La giurisprudenza delle sezioni civili della Corte di cassazione spiega, nel suo più autorevole consesso, che la neutralità dell’imposizione armonizzata sul valore aggiunto comporta che, pur in mancanza di dichiarazione annuale per il periodo di maturazione, l’eccedenza d’imposta, che risulti da dichiarazioni periodiche e regolari versamenti per un anno e sia dedotta entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui il diritto è sorto, va riconosciuta dal giudice tributario se il contribuente abbia rispettato tutti i requisiti sostanziali per la detrazione, sicché, in tal caso, nel giudizio d’impugnazione della cartella emessa dal fisco a seguito di controllo formale automatizzato non può essere negato il diritto alla detrazione se sia dimostrato in concreto, ovvero non sia controverso, che si tratti di acquisti compiuti da un soggetto passivo d’imposta, assoggettati ad IVA e finalizzati a operazioni imponibili[102].

Ferma l’opinione penalistica per cui non deve tenersi conto, ai fini IVA, di costi non documentati, secondo quanto già rilevato nella giurisprudenza di legittimità ai fini della configurabilità dei reati in materia di IVA, la determinazione della base imponibile e della relativa imposta evasa deve avvenire solo sulla base dei costi effettivamente documentati, non rilevando l’eventuale sussistenza di costi non documentati[103]. La Cassazione, anche di recente[104], ha condiviso questa soluzione, perché, come affermato nel precedente richiamato, l’IVA è collocata in un sistema chiuso di rilevanza sovranazionale, che prevede la tracciabilità di tutte le fatture, attive e passive, emesse nei traffici commerciali, a nulla rilevando l’eventuale sussistenza di costi effettivi non registrati, i quali, invece, possono essere considerati con riferimento alle imposte dirette, non vincolate al rispetto di stringenti oneri documentali. Infatti, «in materia di omessa dichiarazione dell’imposta sul valore aggiunto, è rimesso al giudice penale il compito di accertare l’ammontare dell’imposta evasa, da determinarsi sulla base della contrapposizione tra l’I.V.A. risultante dalle fatture emesse e l’I.V.A. detraibile sulla base delle fatture ricevute, mediante una verifica che sia volta a privilegiare il dato fattuale reale rispetto ai criteri di natura meramente formale che caratterizzano l’ordinamento fiscale, che non può, pertanto, ritenersi inficiata dal difetto di allegazione di eventuali fatture passive incombente sull’imputato»[105].

 

4. Le forme e i metodi di evasione tributaria contrastati dalle singole fattispecie di infedeltà e frode fiscale

Oltre a diverse nozioni di debito di imposta, in corrispondenza delle diverse fattispecie penali tributarie esistono diverse fenomenologie di evasione tributaria. 

 

4.1. La dichiarazione infedele

Il delitto di dichiarazione infedele ex art. 4 d.lgs n. 74/2000, come ricorda la Suprema corte[106], è stato ridisegnato incentrando la condotta punibile su falsità ideologiche prive di qualsiasi connotato fraudolento. Tale condotta si materializza, alternativamente: (i) nella mancata indicazione in dichiarazione di componenti positive del reddito registrate per ammontare inferiore a quello reale, nelle diverse forme dell’omessa fatturazione e annotazione nelle scritture contabili, e della sotto-fatturazione, ovvero l’indicazione in fattura di un importo inferiore a quello reale (arg. ex art. 3, comma 3, d.lgs n. 74/2000)[107]; (ii) nell’indicazione, all’interno della dichiarazione, di elementi passivi inesistenti (e non semplicemente fittizi), ossia di componenti negativi del reddito mai venuti ad esistenza in rerum natura, con conseguente indebita riduzione dell’imponibile; ulteriore requisito negativo, è che le componenti negative inesistenti non siano documentate da fatture o altri documenti aventi rilievo probatorio analogo in base alle norme tributarie (circostanza che importerebbe la configurabilità del diverso reato ex art. 2 d.lgs n. 74/2000).

Il delitto di infedele dichiarazione ha natura residuale rispetto ai delitti di cui agli artt. 2 e 3 d.lgs n. 74 del 2000 e ora il comma 3 dell’art. 3 (reato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici) chiarisce che «ai fini dell’applicazione della disposizione del comma 1, non costituiscono mezzi fraudolenti la mera violazione degli obblighi di fatturazione e di annotazione degli elementi attivi nelle scritture contabili o la sola indicazione nelle fatture o nelle annotazioni di elementi attivi inferiori a quelli reali». Dalla tipicità del fatto di reato è invece «eccettuata [«(…) non si tiene conto (…)»], essendone stata ritagliata una porzione, la divergenza tra gli importi indicati in dichiarazione e quelli effettivamente percepiti (elementi attivi per un importo inferiore a quello effettivo), quando la discrasia sia frutto della violazione della regola cronologica relativa all’esercizio di competenza o della non inerenza, ma l’elemento attivo, seppur impropriamente collocato nel tempo, sia reale e ontologicamente esistente, ossia riconoscibile in rerum natura; il che vale per gli elementi attivi perché, quanto a quelli passivi, è sufficiente la loro esistenza per escludere la tipicità». L’affermazione, contenuta nella citata sentenza n. 30686/2017, desta qualche perplessità, almeno quanto alla nozione di inerenza, tipicamente espressiva di un collegamento tra componenti passive (siano interessi passivi, spese, oneri o costi) e attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi (arg. ex art. 109, comma 5, TUIR). Questo, in conclusione, il principio di diritto affermato dalla Cassazione nella sentenza n. 30686/2017: «il fatto tipico, precisato nel modello legale del reato di infedele dichiarazione dei redditi (articolo 4 d.lgs. n. 74 del 2000), deve perciò ritenersi integrato dalla presenza di elementi positivi della condotta punibile, ossia dalla indicazione nella dichiarazione di ricavi per un ammontare inferiore a quello effettivo, anche con il ricorso alla tecnica della sotto-fatturazione, o dalla indicazione di costi inesistenti (non più fittizi), con conseguente superamento della soglia di punibilità, e dalla contemporanea mancanza di elementi negativi della condotta delittuosa, in quanto rientranti anche essi (sia pure in negativo) nella dimensione della tipicità (nel senso cioè che i ricavi omessi non devono essere stati anticipati o posticipati rispetto all’esercizio di competenza, risolvendosi in ciò, anche alla stregua di elementi negativi del fatto di reato, l’intera condotta punibile)».

 

4.2. La dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici

La fattispecie penale ex art. 3 d.lgs n. 74/2000, dopo la riforma del 2015, è realizzabile quando, oltre all’indicazione, nella dichiarazione dei redditi o ai fini IVA, di elementi attivi inferiori a quelli effettivi o elementi passivi fittizi, alternativamente: (i) sono compiute operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente (non inesistenti, né documentate da fatture o documenti di analogo rilievo probatorio, non integranti abuso del diritto); (ii) si utilizzino documenti falsi (sostituzione dei documenti di vendita originariamente emessi con altri contraffatti, riportanti importi inferiori di ricavi inseriti in contabilità[108]; rogiti sottomanifestanti per il venditore; l’indicazione nel libro giornale di costi fittizi, non documentati in altro modo, o l’imputazione di ammortamenti non risultanti dai registri contabili; falsificazione del bilancio, con il conto dei profitti e delle perdite[109]; in caso di elementi passivi, falsificazioni non rappresentate da fatture o documenti di analogo rilievo probatorio quali autofatture, schede carburanti, ricevute fiscali, etc., arg. ex art. 2 d.lgs n. 74/2000); (iii) si impieghino altri mezzi fraudolenti idonei a ostacolare l’accertamento e a indurre in errore l’amministrazione finanziaria (condotte artificiose attive nonché quelle omissive realizzate in violazione di uno specifico obbligo giuridico, che determinano una falsa rappresentazione della realtà, diverse dalle omesse fatturazioni/annotazioni e sotto-fatturazioni/annotazioni di elementi attivi; al ricorrere di specifiche condizioni, contabilità in nero[110], conti bancari fittiziamente intestati, interposizione fittizia di persone e di società di comodo[111]).

Come rimarca la Cassazione (n. 8668/2016), «da un lato, viene eliminato il riferimento alla falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie, dall’altro, si pone accanto all’utilizzo di altri mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento il compimento di operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente ovvero l’utilizzazione di documenti falsi». La Relazione illustrativa del d.lgs n. 158/2015 conferma che si tratta di condotte alternative tra loro e, quindi, autosufficienti per l’integrazione della fattispecie. Di conseguenza, si realizza una semplificazione strutturale (da trifasica a bifasica) in cui, all’indicazione nella dichiarazione dei redditi o ai fini IVA di elementi attivi inferiori a quelli effettivi o di elementi passivi fittizi, deve accompagnarsi una qualsiasi delle condotte ricordate. La formulazione del periodo non permette di chiarire se l’idoneità a ostacolare l’accertamento e a indurre in errore l’a.f. sia una caratteristica esclusiva del secondo binomio o debba essere un requisito riscontrabile anche nelle operazioni simulate.

Altre novità ascrivibili alla riforma del 2015 riguardano: i) l’ampliamento del novero dei potenziali soggetti attivi del reato, realizzabile anche da un soggetto tenuto alla presentazione della dichiarazione dei redditi, seppur non vincolato alla tenuta delle scritture contabili obbligatorie; ii) la rilevanza anche dell’indicazione in una delle dichiarazioni relative alle imposte sui redditi o all’IVA di «crediti e ritenute fittizi»[112]; iii) l’ampliamento del novero delle dichiarazioni rilevanti ai fini della configurabilità del reato, a seguito della soppressione della parola «annuali» riferita alle dichiarazioni; iv) gli interventi operati sulle soglie di punibilità. In particolare: (i) da un lato, viene alzata – da un milione a un milione e cinquecentomila euro – la soglia relativa all’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione (anche mediante indicazione di elementi passivi fittizi); (ii) dall’altro, viene introdotta una soglia specifica per i crediti e le ritenute fittizie (l’ammontare complessivo di essi, in diminuzione dell’imposta, deve essere superiore al 5% dell’ammontare dell’imposta medesima o comunque a trentamila euro, soglia congiunta a quella relativa all’imposta evasa).

Rispetto alla fattispecie di cui all’art. 3 d.lgs n. 74/2000, rilevano le definizioni di: a) avvalimento di documenti falsi; b) operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente (per tali, ex art. 1, lett. g-bis, d.lgs n. 74/2000, «si intendono le operazioni apparenti, diverse da quelle disciplinate dall’articolo 10-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212, poste in essere con la volontà di non realizzarle in tutto o in parte ovvero le operazioni riferite a soggetti fittiziamente interposti»); c) mezzi fraudolenti (il genus è rappresentato da questi ultimi, da intendere quali «condotte artificiose attive nonché quelle omissive realizzate in violazione di uno specifico obbligo giuridico, che determinano una falsa rappresentazione della realtà»; arg. ex art. 1, comma 1, lett. g-ter d.lgs n. 74/2000). Con la precisazione che «non costituiscono mezzi fraudolenti la mera violazione degli obblighi di fatturazione e di annotazione degli elementi attivi nelle scritture contabili o lo sola indicazione nelle fatture o nelle annotazioni di elementi attivi inferiori a quelli reali» (art. 3, comma 3, d.lgs n. 74/2000)[113].

 

4.3. La dichiarazione fraudolenta mediante fatture per operazioni inesistenti

In seno al delitto di frode fiscale delineato dall’art. 2 d.lgs n. 74/2000, la presentazione della dichiarazione ai fini delle imposte dirette o dell’IVA con indicazione di elementi passivi fittizi assume un ruolo centrale. 

Per consumare tale reato non è sufficiente registrare fatture o altri documenti per operazioni inesistenti nelle scritture contabili obbligatorie, ovvero detenerli a fine di prova nei confronti dell’amministrazione finanziaria. Se tali comportamenti integrano il concetto normativo di avvalimento della documentazione falsa, nondimeno gli stessi rilevano nella misura in cui vengano concretamente posti a corredo dell’indicazione di elementi passivi fittizi nella dichiarazione. Per il disposto dell’art. 6 d.lgs n. 74/2000, infatti, in difetto di dichiarazione, gli atti prodromici all’evasione non sono punibili[114]

Nella riflessione giuridica si è posta la questione di quale debba essere la considerazione penale per le evenienze in cui l’utilizzazione dei documenti segua la dichiarazione, ad esempio avendo l’autore deciso di predisporre la documentazione mendace nel corso di una verifica tributaria. Se, in via teorica, non pare dubbio che il contegno sia connotato da fraudolenza non meno intensa di quella che accompagna la condotta di pregressa registrazione e detenzione in prospettiva antagonista di un controllo ipotetico, l’orientamento della giurisprudenza è che il delitto di frode fiscale abbia natura istantanea e si consumi al momento della dichiarazione, entro la cui presentazione deve realizzarsi la presenza di tutti gli elementi costitutivi del reato. L’utilizzazione dei documenti falsi, dunque, per rendere fraudolenta la dichiarazione, in sé infedele, deve precederla e non seguirla. Quand’anche ciò possa esporre a rischi di vuoti di sanzione criminale rispetto a comportamenti provvisti di ragguardevole carica offensiva, sembra questa l’unica lettura compatibile con il dato letterale, salva l’integrazione della diversa fattispecie penale ex art. 11, l. n. 214/2011 (informazioni e documentazioni false). Inoltre, se la dichiarazione è unica, unico è il reato commesso pur se i documenti utilizzati sono plurimi o abbiano diversi destinatari[115]

Del resto, poiché il reato si perfeziona nel momento in cui la dichiarazione è presentata agli uffici finanziari e prescinde dal verificarsi dell’evento di danno, non rileva l’effettività dell’evasione, né dispiega alcuna influenza l’accertamento della frode[116]. Si tratta, in altre parole, di reato di pericolo e di mera condotta.

 

4.4. Il delitto ex art. 8 d.lgs n. 74/2000

Venendo ai reati esterni alla dichiarazione, ma di possibile rilevanza rispetto a quest’ultima, il delitto ex art. 8 d.lgs n. 74/2000 si consuma con l’emissione o il rilascio di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti[117]. In particolare, ove unico sia il documento falso, il delitto si consuma con la sua emissione e il suo rilascio, mentre ove nel medesimo periodo di imposta plurimi siano gli episodi, la consumazione si verifica con l’emissione dell’ultimo di essi[118]. Onde, è da tale conclusivo momento che decorre il termine di prescrizione[119]

Il reato è di mera condotta (commissiva) e istantaneo[120], eventualmente abituale in relazione a ciascun periodo di imposta, consumandosi nel momento in cui l’emittente perde la disponibilità della fattura, non essendo richiesto che il documento pervenga al destinatario, né che quest’ultimo lo utilizzi[121]. In base all’art. 21, comma 1, ult. periodo, dPR n. 633/1972 «la fattura, cartacea o elettronica, si ha per emessa all’atto della sua consegna, spedizione, trasmissione o messa a disposizione del cessionario o committente». Non è sufficiente la mera predisposizione delle fatture ideologicamente false non seguita dalla consegna (o, si ritiene, dalle condotte equiparate di spedizione, trasmissione o messa a disposizione) ai soggetti che potrebbero beneficiarne[122]

Se in termini naturalistici non può escludersi l’evenienza che, formato un documento, lo stesso non sia messo a disposizione del potenziale utilizzatore (ad esempio, per l’inatteso intervento di una verifica tributaria o di un controllo di polizia) e sebbene non sussista una divieto normativo assimilabile a quello previsto dall’art. 6 d.lgs n. 74/2000, deve riconoscersi che è la natura stessa del reato in esame (di pericolo astratto) a precludere la possibilità che lo stesso possa configurarsi a titolo di tentativo; in linea, occorre aggiungere, con l’ispirazione fondamentale della riforma del 2000 di deciso abbandono del reato prodromico. 

 

5. L’ultima riforma dei reati tributari: cenni

 

5.1. La frode fiscale ex art. 2 d.lgs n. 74/2000

Se la riforma del 2015 aveva immaginato di riferire alla fattispecie delineata dall’art. 3 del d.lgs n. 74/2000 sicura centralità nel contrasto dell’evasione più insidiosa, la realtà ha dimostrato che è la fattispecie penale prevista dall’art. 2 dello stesso decreto a essere quella elettiva per il contrasto del ridimensionamento fraudolento di basi imponibili. Sembra esserne consapevole lo stesso legislatore del 2019. Più che l’inserimento nel catalogo dei reati fonte della responsabilità amministrativa degli enti ai sensi del d.lgs n. 231/2001, lo conferma l’assoluto primato della severità nella risposta sanzionatoria apprestata per essa, che è giunta a oltrepassare – nel minimo – quella della dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art. 3 d.lgs n. 74/2000), alla quale sinora era appaiata.

Per il delitto di dichiarazione fraudolenta ex art. 2 d.lgs n. 74/2000, infatti, la pena ha raggiunto quattro anni nel minimo e otto anni nel massimo, accrescendosi in maniera consistente rispetto a quella originaria, oscillante dal minimo di un anno e sei mesi al massimo di sei anni. L’incremento nel minimo mira a contrastare la prassi giudiziale di commisurare la sanzione finale muovendo da una pena base prossima ai minimi edittali. Inoltre, l’incremento sanzionatorio (nel massimo) riveste effetti sul prolungamento dei termini di prescrizione (cfr. artt. 157, 161 cp), considerato l’aumento di un ulteriore terzo previsto in via generale dall’art. 17, comma 2, d.lgs n. 74/2000 per i reati di cui agli artt. da 2 a 10 del decreto. Ciò al netto della riforma della legge n. 3/2019. 

Alla già acquisita capacità del delitto in esame di legittimare lo strumento delle intercettazioni ex art. 266, comma 1, lett. a, cpp, oltre che le misure cautelari coercitive più severe (ex artt. 273, 274, 278, 280 cpp), si aggiunge quella di avallare il fermo al ricorrere degli altri presupposti previsti dall’art. 384 cpp – misura precautelare provvista, nel caso del delitto in esame, di maggior spazio di potenziale operatività rispetto all’arresto facoltativo in flagranza di reato (art. 381, comma 1, cpp), considerato che il momento consumativo del delitto si identifica con la dichiarazione. 

Tornando alla novella in commento, la sanzione originaria prevista per il delitto di frode fiscale ex art. 2 cit. è conservata per una particolare configurazione della nuova fattispecie, innestando un comma 2-bis nell’art. 2 d.lgs n. 74/2000, per il caso in cui l’ammontare degli elementi passivi fittizi sia inferiore a centomila euro. È agevole pronosticare che l’accresciuta severità sanzionatoria vivifichi i contrasti interpretativi che hanno sin qui accompagnato la fattispecie penale, che nel tempo ha guadagnato progressivamente spazi applicativi rispetto alle figure di reato limitrofe. A seguire se ne offre un cenno per chiarire l’importanza che può essere riconnessa all’irrobustimento sanzionatorio del delitto. 

Si pensi, sotto tal ultimo aspetto, all’orientamento favorevole alla configurabilità del delitto ex art. 2 cit., a discapito del delitto ex art. 3 d.lgs n. 74/2000, in caso di utilizzo di fatture materialmente false[123]. Si considerino, ancora, le posizioni giurisprudenziali favorevoli alla configurazione del concorso materiale con il delitto previsto dall’art. 8 d.lgs n. 74/2000 nel caso di utilizzo di fatture autoprodotte dall’utilizzatore, con esclusione dell’applicabilità dell’art. 9 d.lgs n. 74/2000 in caso di imprenditore cd. “self made”, nel quale ricorre identità soggettiva tra emittente materiale e utilizzatore materiale[124], così come quando l’amministratore della società che ha emesso le fatture per operazioni inesistenti coincida con il legale rappresentante della diversa società che le abbia successivamente utilizzate (Cass., sez. III, n. 19025/2013). 

Sia pure in via sommaria, tra i principali temi del dissidio pare annoverabile, anzitutto, la ricomprensione dell’inesistenza giuridica nella nozione di operazione oggettivamente inesistente (a favore, la prevalente giurisprudenza di legittimità, sia pure con distinguo, a partire da Cass., sez. III, n. 13975/2008[125]; Cass. pen., sez. VI,  n. 52321/2016, che ha specificato di condividere il principio «almeno quando l’operazione dissimulata è sottoposta ad un trattamento fiscale diverso da quello riservato all’operazione formalmente documentata»; cfr. anche Cass., n. 21996/2018[126]).

Se per costi incongrui (effettivamente sostenuti) per un’operazione realmente effettuata la giurisprudenza di legittimità ha negato la riconducibilità al concetto di «elementi passivi fittizi» (Cass., sez. III, n. 1996/2008), lo stesso non può dirsi per i costi non inerenti. Per essi, l’approdo prevalente è favorevole ad ammetterla. Infatti, i costi “riconducibili” a condotte criminose, quand’anche non direttamente usati per la loro consumazione, rilevano ai fini della fattispecie penale dell’art. 2 d.lgs n. 74/2000, in quanto violano i principi di inerenza, testimoniando una destinazione extra-imprenditoriale. Tale carenza di inerenza, in definitiva, per mancanza di attinenza rispetto al conseguimento del reddito imponibile, rende i costi fiscalmente indeducibili e attribuisce loro il connotato di costi fittizi ai fini della fattispecie penale in esame. 

Sostanzialmente unanime la giurisprudenza della Cassazione[127] nel ritenere irrilevante, ai fini della fattispecie penale in esame, l’art. 8 dl n. 16/2012, conv. in legge n. 44/2012, che, modificando l’art. 14, comma 4-bis, l. n. 537/1993, ha fissato un regime della deducibilità dei costi applicabile alle sole procedure di accertamento tributario ai fini delle imposte sui redditi, ma ininfluente sulle condotte di dichiarazione fraudolenta punite dall’art. 2 d.lgs n. 74/2000[128]. Per tale impostazione, i costi documentati in fatture per operazioni soggettivamente inesistenti non possono essere dedotti ai fini delle imposte dirette dal committente/cessionario che consapevolmente li abbia sostenuti, in quanto espressione di distrazione verso finalità ulteriori e diverse da quelle proprie dell’attività dell’impresa; onde l’irrinunciabile inerenza tra i costi medesimi e l’attività imprenditoriale sarebbe preclusa. Perciò, la consapevolezza da parte del contribuente di partecipare a un sistema sofisticato di frode fiscale (si pensi alle frodi carosello) comporta tuttora l’indeducibilità di qualsiasi componente negativo (costi o spese) riconducibile a fatti, atti o attività qualificabili come reato, per violazione del principio di inerenza, laddove la mancanza di tale consapevolezza (ex art. 14, comma 4-bis, cit.) comporti la deducibilità del costo, salvo che i componenti negativi del reddito siano comunque relativi a beni e servizi direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività configuranti condotte delittuose non colpose[129]. Muovendo da tali approdi, la Cassazione ha ribadito che «in tema di reati tributari, la regola della indeducibilità dei componenti negativi del reddito relativi a beni o servizi direttamente utilizzati per il compimento di delitti non colposi (prevista dall’art. 14, comma 4-bis, l. n. 537 del 1993, come modificato dall’art. 8 del D.L. 2 marzo 2012, n. 16, conv. in l. n. 44 del 2012), trova applicazione anche per i costi esposti in fatture che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi nell’ambito di una frode c.d. carosello, trattandosi di costi comunque riconducibili ad una condotta criminosa»[130]. I principi affermati dalla Cassazione paiono di persistente attualità rispetto al delitto ex art. 2 d.lgs n. 74/2000, rispetto al quale la nozione di elementi passivi fittizi resta presente nel tessuto lessicale e ancorata a un’impostazione nella quale assume rilevanza penale l’indeducibilità o la non inerenza di costi effettivamente sostenuti, diversamente da quanto previsto per il delitto di dichiarazione infedele ex art. 4, commi 1 e 1-bis, d.lgs n. 74/2000. A fronte di questo orientamento, però, nella giurisprudenza penale di legittimità risultano anche decisioni che precisano che il reato di utilizzazione fraudolenta in dichiarazione di fatture per operazioni inesistenti è integrato, con riguardo alle imposte dirette, dalla sola inesistenza oggettiva delle prestazioni indicate nelle fatture (quella relativa alla diversità, totale o parziale, tra costi indicati e costi sostenuti), mentre, con riguardo all’IVA, esso comprende anche l’inesistenza soggettiva, ovvero quella relativa alla diversità tra soggetto che ha effettuato la prestazione e quello indicato in fattura[131].

Il dolo specifico che connota la fattispecie sembra contrastare l’operatività di quello eventuale, richiedendo che la condotta tipica sia tenuta al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto. In realtà, in punto di dolo tipico del delitto ex art. 2 d.lgs n. 74/2000, la Cassazione ha chiarito in passato che «il dolo specifico costituito dal fine di evadere le imposte (…) sussiste anche quando ad esso si affianchi una distinta ed autonoma finalità extraevasiva non perseguita dall’agente in via esclusiva»[132]. Quando lo specifico dolo di evasione della condotta tipica si coniuga con una distinta e autonoma finalità extra-tributaria, sempre che quest’ultima non sia perseguita dall’agente in via esclusiva, non pare dubitabile la compatibilità del dolo specifico di evasione fiscale con una concorrente finalità extra-evasiva (come l’esigenza di procurarsi, attraverso le false fatturazioni, riserve occulte per pagare in nero le retribuzioni dei dipendenti). In ogni caso, il contrasto interpretativo sul punto appare destinato ad aggravarsi in ragione delle severe conseguenze sanzionatorie connesse all’ammissione o all’esclusione della compatibilità del dolo evasivo con finalità di diversa natura. 

L’introduzione dell’ipotesi prevista dall’art. 2, comma 2-bis («Se l’ammontare degli elementi passivi fittizi è inferiore a euro centomila, si applica la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni») è destinata a rinvigorire la disputa qualificatoria sulla natura della previsione della fattispecie punita meno severamente. In passato, la contrapposizione era stata parzialmente risolta dalla Corte di cassazione rispetto alla fattispecie descritta dall’art. 2, comma 3, d.lgs n. 74/2000 («se l’ammontare degli elementi passivi fittizi è inferiore a € 154.937,07 si applica la reclusione da sei mesi a due anni», abrogata dall’art. 2, comma 36-vicies semel, lett. a, dl 13 agosto 2011, n. 138 conv., con modif., nella legge 14 settembre 2011, n. 148). I giudici di legittimità avevano in prevalenza rigettato la prospettazione della previsione quale fattispecie autonoma, preferendole quella di circostanza attenuante[133]. Qualche argomento a favore della natura di fattispecie autonoma può trarsi oggi dalla considerazione che l’art. 25-quinquiesdecies d.lgs n. 231/2001 differenzia diverse sanzioni pecuniarie (lett. a e b) per le violazioni dell’art. 2, comma 1 (fino a cinquecento quote) e comma 2-bis (fino a quattrocento quote), delineandoli come distinti “delitti” presupposti degli illeciti amministrativi corrispondenti – non dissimilmente dalla nuova confisca allargata tributaria (vds. infra). La questione non è di secondario rilievo. Si considerino i differenti esiti sanzionatori che conseguono rispetto all’ipotizzabile (o meno) bilanciamento ex art. 69 cp con ulteriori aggravanti (compresa quella prevista dall’art. 13-bis, comma 3, d.lgs n. 74/2000) o con la recidiva. Con ancoraggio della pena base, in caso di equivalenza o di soccombenza dell’attenuante, alla severa pena prevista dal primo comma dell’art. 2 cit.

 

5.2. Il delitto di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti ex art. 8 d.lgs n. 74/2000

In termini speculari alle innovazioni operate rispetto alla fattispecie prevista dall’art. 2 d.lgs n. 74/2000, il delitto previsto dall’art. 8 del decreto vede accrescere il rigore sanzionatorio che eguaglia quella del primo reato (da quattro a otto anni), muovendo dalla stessa pena originaria (da un anno e sei mesi a sei anni). 

Si richiama, in proposito, quanto in precedenza osservato sulla positiva integrazione delle soglie edittali per autorizzare le intercettazioni, per emettere misure cautelari personali coercitive (acquisizione già riferibile al reato), nonché per adottare il fermo o l’arresto in flagranza, misura precautelare che nel caso del delitto in esame ha maggiori spazi di praticabilità. Parimenti per il prolungamento dei termini di prescrizione (artt. 157, 161 cp, 17, comma 2, d.lgs n. 74/2000), al netto degli effetti dell’entrata in vigore della legge n. 3/2019. 

Si tratta, infatti, di reato di mera condotta (commissiva) e istantaneo (essendo superato il diverso orientamento che assumeva la natura permanente del reato ex art. 4, lett. d, dl n. 429/1982, sul presupposto dell’obbligo di conservazione in contabilità del documento mendace[134]). In particolare, ove unico sia il documento falso, il delitto si consuma con la sua emissione e il suo rilascio, mentre ove nel medesimo periodo di imposta plurimi siano gli episodi, la consumazione si verifica con l’emissione dell’ultimo di essi[135]. Onde, è da tale conclusivo momento che decorre il termine di prescrizione[136], quale reato eventualmente abituale in relazione a ciascun periodo di imposta. Il delitto, dunque, si consuma con l’emissione o il rilascio di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti e ha veste di reato di pericolo astratto, per la cui configurabilità è sufficiente il compimento dell’atto tipico[137]. Più esattamente, il reato si consuma nel momento in cui l’emittente perde la disponibilità della fattura, non essendo richiesto che il documento pervenga al destinatario, né che quest’ultimo lo utilizzi[138]. In base all’art. 21, comma 1, ult. periodo, dPR n. 633/1972, «la fattura, cartacea o elettronica, si ha per emessa all’atto della sua consegna, spedizione, trasmissione o messa a disposizione del cessionario o committente». Non è sufficiente, per contro, la mera predisposizione delle fatture ideologicamente false non seguita dalla consegna (o, si ritiene, dalle condotte equiparate di spedizione, trasmissione o messa a disposizione) ai soggetti che potrebbero beneficiarne[139]. Se in termini naturalistici non può escludersi l’evenienza che, formato un documento, lo stesso non sia messo a disposizione del potenziale utilizzatore (ad esempio, per l’inatteso intervento di una verifica tributaria o di un controllo di polizia), e sebbene non sussista un divieto normativo assimilabile a quello previsto dall’art. 6 d.lgs n. 74/2000, deve riconoscersi che è la natura stessa del reato in esame (di pericolo astratto) a precludere la configurabilità dello stesso a titolo di tentativo; in linea, occorre aggiungere, con l’ispirazione – fondamentale della riforma del 2000 – di deciso abbandono del reato prodromico. 

Viene prevista un’ipotesi punita meno severamente (art. 8, comma 2-bis, d.lgs n. 74/2000), da ritenere attenuante, laddove l’importo non rispondente al vero indicato nelle fatture o nei documenti, per periodo d’imposta, sia inferiore a euro centomila – evenienza in cui si applica la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni. Anche questa ipotesi, seguendo l’elaborazione giurisprudenziale tradizionale, dovrebbe integrare una figura di natura circostanziale, che replica la previsione dell’art. 8, comma 3, d.lgs n. 74/2000, anteriormente all’abrogazione del 2011[140].

 

5.3. Altri delitti inaspriti: la dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici ex art. 3 d.lgs n. 74/2000, l’occultamento o distruzione di documenti contabili ex art. 10 d.lgs n. 74/2000 e le omesse dichiarazioni ex artt. 5, comma 1, e 5, comma 1-bis, d.lgs n. 74/2000

Per altri delitti, la scelta “rigorista” si è espressa solo nell’incremento dei minimi e dei massimi edittali, senza essere compensata dall’introduzione di ipotesi circostanziali. Per alcuni di essi, ciò è giustificato dalla presenza di soglie di punibilità nella struttura tipica. 

È il caso del delitto di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici ex art. 3 d.lgs n. 74/2000, le cui pene edittali sono salite da tre a otto anni, muovendo dai minori limiti originari, oscillanti da un anno e sei mesi a sei anni. Risultano positivamente integrate le soglie edittali, da computare nel massimo, per autorizzare le intercettazioni, per emettere misure cautelari personali coercitive (acquisizioni di cui il reato era già provvisto), nonché per adottare l’arresto in flagranza e, ora, il fermo. 

Si tratta di una fattispecie sulla quale molto aveva “investito” la riforma del 2015, dilatandone i confini applicativi attraverso una semplificazione della struttura, la cui condotta, da “trifasica”, era divenuta “bifasica”. 

Per l’occultamento o distruzione di documenti contabili ex art. 10 d.lgs n. 74/2000, la pena ha eguagliato quella del delitto ex art. 3 cit., raggiungendo le ragguardevoli soglie da tre a sette anni, con incremento significativo dei limiti edittali originari (da un anno e sei mesi a sei anni). Risultano integrate le soglie edittali per autorizzare le intercettazioni, per emettere misure cautelari personali coercitive (acquisizione già riferibile al reato), nonché per adottare il fermo o l’arresto in flagranza. 

In base alla legge di conversione del dl n. 124/2019, le pene dei reati di omessa dichiarazione dei redditi e dell’IVA (ex art. 5, comma 1, d.lgs. n. 74/2000) e delle ritenute da parte del sostituto di imposta (art. 5, comma 1-bis del decreto) salgono nel minimo (da un anno e sei mesi) a due anni e nel massimo (da quattro anni) a cinque anni (incremento più contenuto rispetto al quello ipotizzato nel dl n. 124/2019, che aveva immaginato di fissarlo in sei anni). Si mantiene la maggior severità del delitto di omessa dichiarazione ex art. 5, commi 1 e 1-bis, d.lgs n. 74/2000 rispetto a quello di dichiarazione infedele ex art. 4 d.lgs n. 74/2000, conservando la soglia di irrilevanza penale dell’imposta evasa (pari a 50.000 euro), per ciascuna imposta, maturata su base annuale. Il più elevato limite edittale massimo legittima, al ricorrere delle ulteriori condizioni, l’emissione di misure cautelari personali coercitive (artt. 273, 274, lett. c, 280, commi 1 e 2 cpp), nonché l’adozione dell’arresto facoltativo in flagranza (art. 381, comma 1, cpp) – anche se, sotto questo profilo, andrà considerata la previsione dell’art. 5, comma 2, d.lgs n. 74/2000. Infatti, quanto ai delitti di omessa dichiarazione ex art. 5 cit., la giurisprudenza[141] si è consolidata nel ritenere che il termine di prescrizione decorre dal novantunesimo giorno successivo alla scadenza del termine ultimo stabilito dalla legge per la presentazione della dichiarazione, e non dal giorno in cui l’accertamento del debito di imposta diviene definitivo. Il limite edittale massimo introdotto dalla legge di conversione non rende autorizzabili le intercettazioni, diversamente dalla soglia inizialmente prospetta dal dl n. 124/2019. 

L’innalzamento del massimo edittale ha inizialmente comportato, anche per le fattispecie penali ex art. 5 cit., la necessità di celebrare l’udienza preliminare a seguito della richiesta di rinvio a giudizio per tutti i procedimenti nei quali l’azione penale non sia stata esercitata alla data di entrata in vigore della legge di conversione (arg. ex artt. 550, 416, 418 cpp) e praticabile la richiesta di giudizio immediato ex art 453 cpp in presenza degli ulteriori requisiti previsti da tale disposizione. Sul punto, da ultimo, la riforma Cartabia ha previsto per i reati dell’art. 5, commi 1 e 1-bis, d.lgs 10 marzo 2000, n. 74, la citazione diretta a giudizio (cfr. art. 550, comma 2, lett. i, cpp), reati per i quali è ora ammesso il giudizio immediato disciplinato dall’art. 558-bis cpp.

 

5.4. La dichiarazione infedele ex art. 4 d.lgs n. 74/2000

La fattispecie penale è interessata da plurimi interventi riformatori. Da un lato, infatti, aumentano i limiti edittali delle pene: da quelli nativi, oscillanti da uno a tre anni, viene raggiunta nel minimo la soglia di due anni e nel massimo quella di quattro anni e sei mesi (più ridotta di quella originariamente immaginata dal dl n. 124/2019, pari a cinque anni)[142]

I nuovi limiti edittali non consentono le intercettazioni, ma permettono l’adozione di misure cautelari coercitive custodiali (solo domestiche, dunque non carcerarie), oltre che, in linea teorica, l’arresto facoltativo in flagranza. Per il reato è ora prevista la celebrazione dell’udienza preliminare; ciò influisce sulla forma di esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero (esigendo la richiesta di rinvio a giudizio ex art. 416 cpp) con praticabilità anche della richiesta di giudizio immediato ex art. 453 cpp, al ricorrere degli altri requisiti previsti da detta norma. Incidendo su norme processuali (artt. 550, 516 e 418 cp), la modifica è governata dal principio tempus regit actum, che rende rilevante la verifica della legge vigente al momento dell’esercizio dell’azione penale. L’innalzamento del limite edittale massimo finisce per precludere la praticabilità della sospensione del processo con messa alla prova ex art. 168-bis cp, di dubbia praticabilità in assenza del pagamento parziale o dell’adesione a programmi di rateazione del debito d’imposta, quale condotta volta alla eliminazione delle conseguenze dannose e pericolose derivanti dal reato ovvero, ove possibile, quale risarcimento del danno. 

Sotto il profilo della struttura della fattispecie, inoltre, la soglia di rilevanza dell’imposta (IVA, IRES o IRPEF) evasa si abbassa dall’originario importo di centocinquantamila a centomila euro, su base annuale, al pari della soglia degli elementi attivi sottratti all’imposizione di inevitabile rilevanza penale ex art. 4, comma 1, lett. b, d.lgs n. 74/2000, fissata ora in due milioni di euro (da quella originaria di tre milioni di euro). Al di sotto di quest’ultimo importo, resta ferma la necessità che sia integrato il rapporto percentuale di almeno il 10% tra elementi non dichiarati ed elementi indicati in dichiarazione. 

Infine, viene modificato (e non più abrogato, come immaginava la prima versione del dl n. 124/2019) il comma 4-ter dell’articolo 4 cit. Nella versione previgente, tale disposizione, fuori dei casi di cui al precedente comma 1-bis, escludeva l’integrazione di fatti punibili per le valutazioni che, «singolarmente» considerate, differivano in misura inferiore al 10% da quelle corrette, precisando altresì che degli importi compresi in tale percentuale non si teneva conto nella verifica del superamento delle soglie di punibilità previste dal comma 1, lett. a e b dell’art. 4 d.lgs n. 74/2000. La legge di conversione sostituisce all’espressione «singolarmente» la parola «complessivamente», richiedendo di considerare l’effetto congiunto delle valutazioni scorrette e finendo per porre un limite alla loro irrilevanza penale, esigendo un’operazione di addizione delle singole componenti valutative scorrette. La rimodulazione del comma 1-ter dell’art. 4 d.lgs n. 74/2000 (pur con l’abbandono della più radicale abrogazione ipotizzata nell’originaria versione del dl n. 124/2019) segnala la riconsiderazione parziale di una scelta fondante della riforma del 2015. Oltre alle regole dell’art. 4, comma 1-bis, d.lgs n. 74/2000, era stata stabilita la non punibilità delle valutazioni che, singolarmente considerate, differivano in misura inferiore al 10% da quelle corrette, con l’ulteriore precisazione che degli importi compresi in tale percentuale non si teneva conto nella verifica del superamento delle soglie di punibilità previste dal comma 1, lett. a e b dell’articolo 4 cit. (art. 4, comma 1-ter, d.lgs n. 74/2000). La previsione aveva comportato l’irrilevanza penale di non corrette valutazioni di elementi attivi e passivi, anche in assenza di condizioni di trasparenza, in presenza di scostamenti, singolarmente intesi, di lieve entità (ovvero inferiori al 10%), pur se, assommati ad altri di pari entità e contenuto, utili a raggiungere importi eccedenti in cifra assoluta i limiti quantitativi delle soglie di punibilità ex art. 4, comma 1, lett. a e b d.lgs n. 74/2000 (cfr. relazione illustrativa della riforma del 2015). Diversi i commenti su quell’assetto. Da una parte, era stato segnalato che scostamenti inferiori al 10% erano fisiologici e, dunque, si è contrastata l’ipotesi dell’abrogazione della causa di non punibilità introdotta nel 2015[143]. Per converso, non erano mancate perplessità. Infatti, l’organizzazione volontaria di una serie di scorrette valutazioni di importo percentuale singolarmente pure modesto, ove complessivamente considerate, anche prive di qualsiasi trasparenza, avrebbe potuto far raggiungere elevati importi assoluti di evasione fiscale, penalmente neutralizzati in forza della previsione ipotizzata; senza essere compensata da un onere di limpidezza, diversamente dalle valutazioni “dichiarate” previste dall’art. 4, comma 1-bis, d.lgs n. 74/2000, come richiesto prima della riforma del 2015 anche dall’art. 7 d.lgs n. 74/2000 (che imponeva più precise condizioni di trasparenza delle scorrette rilevazioni contabili e delle valutazioni, limitate a quelle estimative e ammesse a condizione di svolgimento secondo criteri di stima indicati nel bilancio). 

 

6. Tecniche di indagine

Senza pretesa di delineare regole di indagine e men che meno linee-guida in una materia esposta alla variabilità delle forme di manifestazione dell’evasione tributaria di rilevanza penale, mette conto ribadire che qualsiasi inchiesta per reati tributari ispirata all’efficienza deve muovere dalla consapevolezza dell’attitudine probatoria degli elementi informativi acquisibili. Elementi che possono preesistere al procedimento penale, rivestendo, a talune condizioni, la forma di documenti suscettibili di acquisizione previa ricerca e sequestro, oppure accompagnare il divenire dell’indagine, richiedendo l’attività di mezzi di ricerca anche invasivi.

 

6.1. I documenti e gli elementi di prova formati fuori del processo penale

6.1.1. Il verbale di constatazione e le dichiarazioni del funzionario dell’Agenzia delle entrate

La giurisprudenza di legittimità[144] ha più volte preso in considerazione la natura del “verbale di constatazione” redatto da personale della Guardia di Finanza o dai funzionari degli uffici finanziari, qualificandolo come documento extraprocessuale ricognitivo di natura amministrativa e, in quanto tale, acquisibile e utilizzabile ai fini probatori ai sensi dell’art. 234 cpp. Si è anche osservato che non si tratta di un atto processuale, poiché non è previsto dal codice di rito o dalle norme di attuazione (art. 207) e non interviene nel corso delle indagini preliminari, né può essere qualificato come «particolare modalità di inoltro della notizia di reato» (art. 221 disp. att. cpp), in quanto i connotati di quest’ultima sono diversi. 

Si è tuttavia precisato che, nel momento in cui emergono indizi di reato e non meri sospetti, occorre procedere secondo le modalità prescritte dall’art. 220 disp. att. cpp, con la conseguenza che la parte di documento compilata prima dell’insorgere degli indizi ha sempre efficacia probatoria ed è utilizzabile, mentre non è tale quella redatta successivamente, qualora non siano state rispettate le disposizioni del codice di rito. La richiamata disposizione stabilisce che, «quando nel corso di attività ispettive o di vigilanza previste da leggi o decreti emergono indizi di reato, gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale sono compiuti con l’osservanza delle disposizioni del codice». A tale proposito, la Corte di cassazione[145] ha pure osservato come dalla semplice lettura della norma emerga che essa presuppone, per la sua applicazione, un’attività di vigilanza o ispettiva in corso di esecuzione specificamente prevista da disposizioni normative, e la sussistenza di indizi di reato emersi nel corso dell’attività medesima; solo in tal caso è richiesta l’osservanza delle disposizioni del codice di rito, ma soltanto per il compimento degli atti necessari all’assicurazione delle fonti di prova e alla raccolta di quanto altro necessario per l’applicazione della legge penale. Nella medesima decisione si è fatto anche rilevare come la disposizione, che va letta in relazione anche al successivo art. 223, relativo alle analisi di campioni da effettuare sempre nel corso di attività ispettive o di vigilanza e alle garanzie dovute all’interessato, abbia lo scopo evidente di assicurare l’osservanza delle disposizioni generali del codice di rito dal momento in cui, in occasione di controlli di natura amministrativa, emergano indizi di reato, ricordando anche quella giurisprudenza secondo la quale presupposto dell’operatività della norma non è l’insorgenza di una prova indiretta quale indicata dall’art. 192 cpp, quanto, piuttosto, la sussistenza della mera possibilità di attribuire comunque rilevanza penale al fatto che emerge dall’inchiesta amministrativa e nel momento in cui emerge, a prescindere dalla circostanza che esso possa essere riferito a una persona determinata[146], e precisando che la conseguenza dell’eventuale inosservanza delle disposizioni del codice di rito è una nullità di ordine generale di cui all’art. 178, comma 1, lett. c, cpp[147]. È pacifico, inoltre, che il processo verbale di constatazione redatto dalla GdF o dai funzionari degli uffici finanziari, in quanto atto amministrativo extraprocessuale, costituisce prova documentale anche nei confronti di soggetti non destinatari della verifica fiscale; tuttavia, qualora emergano indizi di reato, occorre procedere secondo le modalità previste dall’art. 220 disp. att., giacché altrimenti la parte del documento redatta successivamente a detta emersione non può assumere efficacia probatoria e, quindi, non è utilizzabile[148].

Quanto al momento a partire dal quale sorge l’obbligo di osservare le norme del codice di procedura penale e, dunque, diviene operativo l’art. 220 disp att. cpp da parte di chi svolge attività ispettiva, occorre muovere da sez. unite, 28 novembre 2001, n. 45477, Raineri (Rv. 220291), che hanno chiarito che il presupposto dell’operatività della norma sia non l’insorgenza di una prova indiretta, quale indicata dall’art. 192 cpp, bensì la sussistenza della mera possibilità di attribuire comunque rilevanza penale al fatto che emerge dall’inchiesta amministrativa e nel momento in cui emerge, a prescindere dalla circostanza che esso possa essere riferito ad una persona determinata[149]. Da cui il corollario che la rilevanza penale del fatto, pur nei limiti indicati dal citato arresto, deve emergere in tutti i suoi elementi costituitivi tra cui, avuto riguardo alla fattispecie contestata di omessa denuncia, ex art. 5 d.lgs 10 marzo 2000, n. 74, il superamento della soglia di punibilità che costituisce elemento costitutivo del reato[150]. Occorre, in altri termini, che nell’inchiesta amministrativa sia già delineato, come indicato dalle citate sezioni unite, un fatto di rilievo penale inteso nella sua completezza, come descritto nella fattispecie normativa.

Cass., n. 13275/2021 ha richiamato il principio per cui, in materia di attività ispettive di vigilanza di natura amministrativa, il momento a partire dal quale, nel corso di tale attività, sorge l’obbligo di rispettare le garanzie del codice di procedura penale è quello in cui è possibile attribuire rilevanza penale al fatto, emergendone tutti gli elementi costitutivi, anche se ancora non possa essere ascritto a persona determinata (Cass., sez. III, 4 giugno 2019, n. 31223, dep. 16 luglio 2019, Rv. 276679 - 01). Nel caso di specie, i giudici di appello avevano evidenziato come, all’atto dell’assunzione delle dichiarazioni rese dai commercialisti dell’imputato ai verificatori della GdF, non fossero emersi gli elementi costitutivi dei reati poi contestati, non essendo questi riconducibili ai meri sospetti riferiti da uno dei verificatori. Il giudizio di colpevolezza dell’imputato in ordine ai contestati illeciti si fondava, in verità, sull’esito degli accertamenti condotti dagli operanti, che avevano consentito di discoprire la natura fittizia delle operazioni contestate e quella di mere cartiere delle società coinvolte. Le dichiarazioni dei commercialisti, quindi, si ponevano quali riscontri all’attività di verifica dei militari della Finanza. Quanto, poi, alla mancata audizione della commercialista, indicata in sede di audizione de relato dal verificatore della GdF, veniva ricordato come la difesa non ne avesse mai avanzato richiesta di escussione, ai sensi di quanto previsto dall’art. 195, comma 1, cpp. Ne consegue, dunque, per i giudici territoriali, la piena utilizzabilità delle dichiarazioni rese anche su tali circostanze dal teste di riferimento. Quanto emerso in sede di verifica non era ritenuto idoneo a qualificare in termini di rilevanza penale il “sospetto” degli operanti di trovarsi in presenza di false fatturazioni per operazioni inesistenti, atteso che la condotta di frode fiscale ex art. 2, d.lgs n. 74/2000 costituisce indubbiamente reato, a prescindere dal superamento di una soglia di punibilità. Purtuttavia, da un lato, la medesima condotta riveste anche rilevanza meramente tributaria, legittimando l’emissione di atti impositivi da parte dell’a.f. (prescindendo, dunque, dalla rilevanza penale del fatto) e, dall’altro, per quanto chiarito dalla corte d’appello, il giudizio di colpevolezza dell’imputato in ordine ai contestati illeciti si era fondato, in verità, sull’esito degli accertamenti condotti dagli operanti, che hanno consentito di discoprire la natura fittizia delle operazioni contestate e quella di mere cartiere delle società coinvolte – dunque, era stato frutto della successiva attività d’indagine volta a riscontrare quanto emergente dall’attività di verifica, di per sé inidoneo a determinare l’insorgenza di un sospetto sulla sussistenza di indizi di reato. 

La giurisprudenza ha chiarito che può essere distinta l’attitudine probatoria del processo verbale di constatazione per la parte che precede e quella che segue l’emersione degli indizi di reato durante l’attività ispettiva, ma anche che le ragioni di contrasto con le previsioni codicistiche delle specifiche attività eventualmente compiute dopo tale momento devono essere specificate, non potendo essere dedotte in modo generico. Infatti, «la parte di documento compilata prima dell’insorgere degli indizi, ha sempre efficacia probatoria ed è utilizzabile, mentre non è tale quella redatta successivamente, qualora non siano state rispettate le disposizioni del codice di rito. Il presupposto per l’operatività dell’art. 220 disp. att. c.p.p., cui segue il sorgere dell’obbligo di osservare le disposizioni del codice di procedura penale per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire ai fini dell’applicazione della legge penale, è costituito dalla sussistenza della mera possibilità di attribuire comunque rilevanza penale al fatto che emerge dall’inchiesta amministrativa e nel momento in cui emerge, a prescindere dalla circostanza che esso possa essere riferito ad una persona determinata (cfr. Sez. 3, n. 54379 del 23/10/2018, Rv. 274131 - 01 G; Sez. 3, n. 15372 del 10/02/2010, Fiorillo, Rv. 246599; Sez. Un., 28.11.2001, n. 45477, Raineri, Rv 220291; Sez. 2, 13/12/2005, n. 2601, Cacace, Rv. 233330). Va nel contempo precisato che la violazione dell’art. 220 disp. att. cod. proc. pen. non determina automaticamente l’inutilizzabilità dei risultati probatori acquisiti nell’ambito di attività ispettive o di vigilanza, ma è necessario che l’inutilizzabilità o la nullità dell’atto sia autonomamente prevista dalle norme del codice di rito cui l’art. 220 disp. att. rimanda (Sez. 3, n. 6594 del 26/10/2016, Pelini, Rv. 269299). Consegue che non è sufficiente dedurre genericamente la violazione dell’art. 220 disp. att. cod. proc. pen., bensì occorre la specifica indicazione della violazione codicistica che avrebbe determinato l’inutilizzabilità e l’indicazione dei correlati precisi atti compiuti dalla p.g. e riportati nel processo verbale di constatazione redatto dalla medesima, che risulterebbero inficiati»[151].

Cass., sez. III, n. 1579/2022, più di recente ha avuto modo di precisare ulteriormente che, tenendo conto del dato letterale dell’art. 220, risulta chiaramente che lo stesso si riferisce a indizi di reato che emergono «nel corso» delle attività ispettive o di vigilanza, il che porta ad affermare che la cognizione circa la sussistenza di indizi di reità, ancorché non riferibili a un soggetto specifico, deve risultare oggettivamente evidente a chi opera mentre effettua tale attività, non deve essere soltanto ipotizzata sulla base di mere congetture; né può ritenersi possibile, dopo che un reato è stato accertato, sostenere che chi effettuava il controllo avrebbe dovuto prefigurarsi quale ne sarebbe stato l’esito (sez. III, 28 febbraio 2019, n. 16044, Rossi, Rv. 25397, non massimata sul punto). La giurisprudenza della Corte si è anche ripetutamente pronunciata sulle conseguenze dell’eventuale inosservanza della disposizione in esame, chiarendo che essa non determina automaticamente l’inutilizzabilità dei risultati probatori acquisiti nell’ambito di attività ispettive o di vigilanza, ma è necessario che l’inutilizzabilità o la nullità dell’atto sia autonomamente prevista dalle norme del codice di rito a cui l’art. 220 disp. att. rimanda e che, diversamente opinando, si giungerebbe a ritenere l’inutilizzabilità di tutti i risultati probatori e gli altri risultati della verifica dopo la comunicazione della notizia di reato – situazione, all’evidenza, priva di fondamento. Da ciò consegue, dunque, che non può dedursi la generica violazione dell’art. 220 disp. att. cpp, essendo necessaria la specifica indicazione della violazione codicistica che avrebbe determinato l’inutilizzabilità con riguardo ai singoli atti compiuti e riportati nel processo verbale di constatazione redatto dalla medesima (sez. III: 23 ottobre 2018, n. 54379, Gamba, Rv. 274131; 26 ottobre 2016, n. 6594, dep. 2017, Pelini e al., Rv. 269299; 24 maggio 2016, n. 5236, dep. 2017, Lo Verde, Rv. 269213). Costituisce, pertanto, onere di chi eccepisce la violazione della norma precisare quali parti dei verbali siano state redatte dopo l’insorgere degli indizi di reato e, pertanto, in spregio alle disposizioni codicistiche – ove ciò non avvenga, limitandosi a censure generiche afferenti all’intero contenuto del documento con l’aggiunta di un vago riferimento alla presenza, tra la documentazione acquisita, di numerose quietanze di pagamenti effettuati in contanti ai propri dipendenti dalla società X, circostanza, questa, che avrebbe evidenziato la sussistenza di non meglio specificate violazioni di carattere penale (così nella vicenda esaminata da Cass., sez. III, n. 1579/2022)

Lo stesso è stato ritenuto da Cass., sez. III, n. 43343/2021 dinanzi alle deduzioni della difesa, limitatasi a una generica censura di inutilizzabilità del processo verbale di contestazione senza indicare, come invece richiesto dalle richiamate pronunce, quali specifici atti sarebbero stati inutilizzabili in conseguenza della dedotta violazione dell’art. 220 disp. att. cpp; né aveva posto in rilievo quando sarebbero risultati evidenti gli indizi di reato che tale disposizione avrebbero reso applicabile nella fattispecie. Nel caso di specie, la difesa affermava che una condotta penalmente rilevante, quale quella dell’utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti, sarebbe emersa senza che il contribuente fosse avvisato di tale circostanza, ma non specificava quando e come ciò sarebbe avvenuto, risultato evidente da quanto specificato nella sentenza impugnata che la oggettiva inesistenza delle fatture era emersa all’esito di plurimi accertamenti. Anche il riferimento a dichiarazioni del contribuente che sarebbero state utilizzate dal giudice di primo grado risultava privo di rilievo, risultando evidente che il richiamo a quanto riferito dal contribuente in sede di controllo era del tutto incidentale e utilizzato al solo scopo di chiarire che lo stesso non aveva fornito la documentazione comprovante l’esistenza delle prestazioni fatturate, poiché, quando tale documentazione gli era stata richiesta, egli aveva riferito di non disporre dei contratti con la società fornitrice del servizio perché mai sottoscritti, e di non avere altri documenti al di fuori delle fatture già prodotte. Veniva poi rimarcato che, nella sentenza impugnata, era fatto chiaramente riferimento al fatto che nel giudizio di primo grado sarebbero stati utilizzati soltanto gli elementi riportati nel processo verbale desumibili da apporti oggettivi di natura documentale, sicché la censura formulata con l’atto di appello sarebbe infondata in radice, e che, comunque, la deduzione difensiva sarebbe consistita nella sostanziale denuncia del fatto che all’imputato non sarebbe stato garantito il diritto di farsi assistere da un difensore nel corso dell’accertamento fiscale senza fornirgli avvisi le garanzie stabilite dall’art. 63 cpp, censura ritenuta sostanzialmente generica.

Parimenti è a dirsi per Cass., n. 50009/2019, che ha ritenuto generiche le censure formulate dalla difesa della persona imputata ai giudici del merito circa l’inutilizzabilità degli atti redatti dagli accertatori dalla pagina 14 in poi, senza le ulteriori specificazioni richieste alla ricordata giurisprudenza. In particolare, non era stata indicata la rilevanza, ai fini della decisione, dei verbali di constatazione nella parte ritenuta non utilizzabile né, tantomeno, quali parti della sentenza appellata avrebbero dovuto ritenersi inficiate dalla dedotta inutilizzabilità, essendo ritenuto generico il richiamo all’inutilizzabilità di tutti gli atti successivi alla p. 14 del verbale di constatazione. I giudici del gravame, inoltre, non si erano limitati a tale, pur determinante, constatazione di genericità della doglianza, avendo proceduto anche a un esame dei contenuti dell’atto, rilevando che non erano stati individuati, tra quelli utilizzati per la decisione, atti compiuti in violazione di norme codicistiche.

La Cassazione ha escluso il divieto di testimonianza indiretta degli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria di cui all’art. 195, comma 4, cpp, con riguardo alle dichiarazioni ricevute dal pubblico ufficiale durante l’inchiesta amministrativa dallo stesso effettuata anteriormente al procedimento penale, difettando in tal caso il necessario presupposto soggettivo della qualifica di agente o ufficiale di polizia giudiziaria[152]. Il principio è stato affermato in relazione a dichiarazioni rese da persona (successivamente tratta a giudizio per il delitto ex art. 2 d.lgs n. 74/2000) che, nel primo contraddittorio con gli ispettori dell’Agenzia (oltre che nella memoria presentata pienamente utilizzabile quale documento proveniente dall’imputato), non era stata raggiunta da indizi di reato a carico, e al fatto che nella sentenza non si era fatto riferimento a dette dichiarazioni per suffragare il giudizio di penale responsabilità fondato sulla deposizione del funzionario dell’Agenzia delle entrate recatosi presso la sede dell’impresa, che aveva personalmente verificato i processi di lavorazione e acquisito la documentazione fiscale e contabile, tra cui le fatture oggetto di contestazione.

Cass., sez. III, n. 13275/2021 ha escluso il medesimo divieto di violazione dell’art. 195, comma 4, cpp, per aver il militare della GdF reso dichiarazioni de relato riportando quanto riferito dalle due commercialiste dell’imputato, richiamando il principio per cui non sussiste il divieto di testimonianza indiretta degli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria di cui all’art. 195, comma 4, cpp, con riguardo alle dichiarazioni ricevute dal pubblico ufficiale durante l’inchiesta amministrativa dallo stesso effettuata anteriormente al procedimento penale, difettando in tal caso il necessario presupposto soggettivo della qualifica di agente o ufficiale di polizia giudiziaria.

Va peraltro ricordato che, laddove l’ufficiale o agente di polizia giudiziaria riferisca non in merito a dichiarazioni di terzi, ma sulle attività d’indagine svolte da altri ufficiali, agenti o ausiliari di polizia giudiziaria nello stesso contesto investigativo, si è sempre esclusa la violazione dell’art. 195, comma 4, cpp[153]. A maggior ragione, ciò vale nel caso del funzionario dell’Agenzia che faccia altrettanto, riferendo di fatti riscontrabili dalla documentazione acquisita in sede di accesso effettuato dal teste o da altri funzionari[154].

 

6.1.2. L’accertamento induttivo

In tema di reati tributari, costituisce insegnamento consolidato che, «per il principio di atipicità dei mezzi di prova nel processo penale, di cui è espressione l’art. 189 cod. proc. pen., il giudice può avvalersi dell’accertamento induttivo, compiuto mediante gli studi di settore dagli Uffici finanziari, per la determinazione dell’imposta dovuta, ferma restando l’autonoma valutazione degli elementi emersi secondo i criteri generali previsti dall’art. 192, comma 1, cod. proc. pen.»[155]; in motivazione, in punto di corretta applicazione dei principi relativi alla utilizzabilità, in sede penale, degli esiti degli accertamenti operati in sede tributaria, è stato osservato che «nessuna norma vieta al giudice penale di avvalersi, ai fini, in generale, della prova della sussistenza degli elementi costitutivi dei reati tributari, ivi compreso, evidentemente, quello, contestato nella specie, di cui all’art. 5 del d.lgs. n. 74 del 2000, delle risultanze degli accertamenti operati in sede tributaria, ciò discendendo, se non altro, dal principio di atipicità dei mezzi di prova operante nel principio penale e di cui è espressione la previsione dell’art. 189 cod. proc. pen., restando peraltro salva la necessità che tali elementi siano, ove necessario, in conformità delle peculiarità dei fatti giudicati e dei rilievi delle parti, fatti oggetto di una autonoma valutazione idonea a coniugare la valorizzazione di tali risultanze con i criteri in generale dettati dall’art. 192, comma 1, cod. proc. pen. È, dunque, per tale implicita ragione che questa Corte ha affermato che il giudice penale può legittimamente avvalersi, ai fini della ricostruzione delle imposte dovute e non dichiarate (vds., tra le altre, Sez. 3, n. 24811 del 28/04/2011, Rocco, Rv. 250647 e Sez. 3, n. 40992 del 14/05/2013, Ottaiano, Rv. 257619), dell’accertamento induttivo, mediante gli studi di settore, compiuto dagli Uffici finanziari per la determinazione dell’imponibile». 

Secondo Cass., sez. III, n. 43330/2023 (est. M.B. Magro): «nessuna norma vieta al giudice penale di avvalersi, ai fini della prova dei reati tributari, delle risultanze degli accertamenti operati in sede tributaria. Ciò discende dal principio di atipicità dei mezzi di prova operante nel processo penale, di cui è espressione l’art. 189 cpp, sulla base del quale il giudice può avvalersi dell’accertamento induttivo, compiuto dagli uffici finanziari, per la determinazione dell’imposta dovuta, ferma restando l’autonoma valutazione degli elementi emersi secondo i criteri generali previsti dall’art. 192, comma 1, cpp (Sez. 3, 19/08/2019, n. 36207, Rv. 277581 - 01), al di fuori di qualunque presunzione e di ogni predeterminazione del loro peso probatorio. È, dunque, per tale ragione che la Corte ha affermato che il giudice penale può legittimamente avvalersi (vds., tra le altre, Sez. 3: n. 24811 del 28/04/2011, Rocco, Rv. 250647, e n. 40992 del 14/05/2013, Ottaiano, Rv. 257619) dell’accertamento induttivo, effettuato, mediante gli studi di settore, dagli Uffici finanziari per la determinazione dell’imponibile (Sez. 3, n. 36207 del 17/04/2019 Ud. (dep. 19/08/2019) Rv. 277581). Del resto, anche meno recentemente, si è sempre ritenuto che, sebbene i criteri stabiliti per l’accertamento sintetico del reddito imponibile, attraverso il così detto “redditometro”, non siano per il giudice penale fonti di certezza legale, tuttavia costituiscono elementi indiziari corrispondenti a criteri logici, utilizzabili per una corretta motivazione della sentenza di condanna (Sez. 3, n. 7491 del 21/06/1991 Ud. (dep. 12/07/1991) Rv. 188181; Sez. 3, n. 39960 del 30/09/2019, Rv. 276890 - 01, non massimata sul punto)».

Cass., n. 34139/2023 ha riaffermato il principio di diritto di cui a Rv. 277581 rispetto a risultanze dell’accertamento tributario effettuato tramite indagini bancarie. La difesa aveva dedotto profili di erronea applicazione della legge penale in relazione agli artt. 5 d.lgs n. 74/2000 e 192 cpp, lamentando che la corte territoriale aveva determinato l’entità dell’imposta evasa basandosi sugli esiti dell’accertamento bancario svolto dalla Tenenza della GdF ex art. 32, comma 1, n. 2 del dPR n. 600/1973, accertamento di natura presuntiva, e affermando, erroneamente, che l’onere di individuare i costi, componenti negativi del reddito, incombeva sull’imputato. La Cassazione ha invece ritenuto che la corte territoriale avesse offerto sul punto articolata motivazione, basata sulla autonoma disamina, in termini positivi, delle risultanze dell’accertamento tributario effettuato tramite indagini bancarie, sull’esame dell’ulteriore materiale probatorio acquisito in dibattimento, nonché sulla compiuta valutazione delle deduzioni difensive, risultando, conseguentemente, accertato il superamento della soglia di punibilità; ha, poi, rimarcato che l’impossibilità di accertare l’esistenza di costi sostenuti per la produzione del reddito era conseguenza dell’inadempimento degli obblighi di tenuta e conservazione delle scritture contabili di cui all’art. 22 dPR n. 600/1973; ha, infine, chiarito che, quanto alle somme versate sui conti di gestione della società riconducibile all’imputato che ne era amministratore di fatto, erano state considerate, ai fini dell’accertamento dei redditi non dichiarati dall’imputato, solo quelle non qualificabili come ricavi dell’attività commerciale della società. In definitiva, la valutazione della corte di merito è stata basata non solo sugli esiti dell’accertamento bancario svolto dalla GdF, peraltro oggetto di specifica e autonoma disamina, ma sul complessivo materiale probatorio acquisito in dibattimento.

Già in precedenza la Cassazione aveva affermato che «l’accertamento induttivo compiuto dagli uffici finanziari può rappresentare un valido elemento di indagine per stabilire, in sede penale, se vi sia stata evasione e se questa abbia raggiunto le soglie di punibilità previste dalla legge, a condizione che il giudice non si limiti a constatarne l’esistenza e non faccia apodittico richiamo agli elementi in essi evidenziati, ma proceda a specifica autonoma valutazione degli elementi nello stesso descritti comparandoli con quelli eventualmente acquisiti “aliunde”»[156] (cfr., da ultimo, Cass., sez. III, n. 34139/2023, est. A. Di Stasi). Tale valore probatorio dell’accertamento induttivo compiuto dagli uffici finanziari ai fini della ricostruzione dell’imponibile e del superamento della soglia di punibilità (ad esempio, per il reato di cui all’art. 5 d.lgs n. 74 del 2000) è stabilmente riconosciuto[157], non diversamente da quanto ritenuto, ai fini della prova del reato di dichiarazione infedele, per i verbali di constatazione redatti dalla GdF. Così, è possibile ricorrere all’accertamento induttivo dell’imponibile quando le scritture contabili imposte dalla legge siano state irregolarmente tenute (sez. III, 18 dicembre 2007, n. 5786, dep. 6 febbraio 2008, D’Amico, Rv. 238825), potendo il giudice fondare il proprio convincimento, in tema di responsabilità dell’imputato per omessa annotazione di ricavi, sia sull’informativa della GdF che abbia fatto riferimento a percentuali di ricarico attraverso una indagine sui dati mercato, che sull’accertamento induttivo dell’imponibile operato dall’ufficio finanziario quando la contabilità imposta dalla legge non sia stata tenuta regolarmente; ciò «a condizione che il giudice non si limiti a constatarne l’esistenza e non faccia apodittico richiamo agli elementi in esso evidenziati, ma proceda a specifica, autonoma valutazione degli elementi nello stesso descritti comparandoli con quelli eventualmente acquisiti “aliunde” (Sez. 3, n. 1904 del 21/12/1999, dep. 21/02/2000, Zarbo E, Rv. 215694)».

In materia di reati tributari, il giudice penale, mentre non è vincolato dalle valutazioni compiute in sede diaccertamento tributario, può tuttavia, con adeguata motivazione, apprezzare gli elementi induttivi in detta sede valorizzati per trarne elementi probatori che ritenga idonei a sorreggere il suo convincimento obiettivo. In applicazione di tale principio, la Corte di cassazione ha ritenuto l’inconciliabilità con il dolo specifico richiesto per il reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti, previsto dall’art. 8 d.lgs n. 74/2000, degli esiti dell’accertamento svolto dalla GdF, che, in relazione ai medesimi fatti, aveva disposto l’archiviazione del procedimento amministrativo di accertamento, riconoscendo la buona fede della società emittente le fatture[158]; in motivazione: «già in sede tributaria, l’Amministrazione Finanziaria aveva provveduto a riconoscere come improntato a buona fede il comportamento tenuto dalla V.G. Proprio in relazione ai fatti di cui al capo g) della rubrica era stata la stessa Agenzia delle entrate in data 7/2/2013 ad aver archiviato l’annualità 2008 del PVC redatto dalla Guardia di Finanza di Bologna il 12 aprile 2011 nei confronti della V.G., per manifesta insussistenza di qualsiasi censura in merito alle operazioni di cui al capo g). Ciò, pur nell’autonomia del processo penale da quello amministrativo sancita dall’art. 20, d.lgs. n. 74 del 2000 (secondo cui “Il procedimento amministrativo di accertamento ed il processo tributario non possono essere sospesi per la pendenza del procedimento penale avente ad oggetto i medesimi fatti o fatti dal cui accertamento comunque dipende la relativa definizione”), non può non esplicare influenza sul giudizio penale, in quanto l’accertamento da parte della Guardia di Finanza della buona fede della società V.G. con riguardo alle predette operazioni costituisce circostanza inconciliabile anche solo con l’astratta configurabilità del dolo specifico normativamente richiesto per la fattispecie di cui all’articolo 8»[159]

Cass., sez. VII, n. 43034/2021 ha riaffermato il principio già espresso da Rv. 270476 rispetto a una fattispecie in cui la difesa di un imputato per il delitto ex art. 5 d.lgs n. 74/2000 aveva lamentato l’erronea applicazione di norme di legge, osservando che la corte territoriale si era limitata a ritenere esaustivi gli accertamenti compiuti dalla GdF, senza verificare l’esistenza di altre poste detraibili e senza dare corso a perizia, mentre non era stata fornita esaustiva giustificazione neppure all’indagine sull’elemento psicologico, laddove la corte territoriale aveva riqualificato la soglia di evasione quale elemento costitutivo del reato e non quale condizione di punibilità. La Cassazione ha ritenuto che il ricorrente non si sia confrontato con i passaggi motivazionali della corte territoriale, nella parte in cui era dato espressamente conto dell’esistenza dell’elemento psicologico del reato attesa la piena consapevolezza circa il regime tributario, anche in ragione dei pregressi adempimenti delle obbligazioni fiscali da parte dell’imputato, sì che non vi era dubbio circa la sussistenza del dolo anche in considerazione dell’entità dell’imposta evasa e della conseguente piena capacità di considerare altresì il superamento della soglia penalmente rilevante. In relazione, poi, all’utilizzo dei dati concernenti l’accertamento fiscale, vero era che il giudice penale, mentre non era vincolato dalle valutazioni compiute in sede di accertamento tributario, poteva tuttavia con adeguata motivazione apprezzare gli elementi induttivi in detta sede valorizzati per trarne elementi probatori idonei a sorreggere il suo convincimento obiettivo (ad esempio, sez. III, 1 aprile 2017, n. 28710, Mantellini e al., Rv. 270476). In specie, la corte territoriale aveva dato conto che alcun concreto rilievo risultava allegato in merito dall’imputato, sì da eventualmente inficiare la ricostruzione resa dal Corpo specializzato (in tal modo confermata).

Va anche tenuto presente che «Le patologie dell’avviso di accertamento tributario non determinano l’inutilizzabilità nel procedimento penale dell’avviso stesso e degli atti su cui esso si fonda, poiché si esauriscono nell’ambito del rapporto giuridico tributario e non incidono sull’attitudine dell’atto a veicolare nel giudizio penale le informazioni che se ne possono trarre»[160]; in motivazione, la Corte ha affermato che le patologie dell’avviso di accertamento si esauriscono nell’ambito del rapporto giuridico processual-tributario e attengono esclusivamente alla pretesa che con esso viene esercitata dall’Erario. Tali patologie, invece, non incidono sull’attitudine dell’atto a veicolare nel processo penale le informazioni che se ne possono trarre. In particolare, si è osservato che in sede tributaria l’avviso di accertamento è l’atto con cui l’Erario promuove la pretesa all’esatto adempimento dell’obbligazione tributaria: esso è atto d’impulso che, per la sua validità, deve possedere specifici requisiti il cui rispetto è presidiato dalla sanzione di nullità che paralizza la pretesa stessa. In sede penale, l’avviso di accertamento subisce, però, una trasformazione genetica: esso non è più atto d’impulso, ma documento che veicola informazioni[161].

 

6.1.3. Il precedente giudicato penale

Le risultanze di un precedente giudicato penale, acquisite ai sensi dell’art. 238-bis cpp e riguardanti una precondizione del giudizio in corso, impongono, al giudice che giunga a diverse conclusioni sulla base di una differente valutazione giuridica dei medesimi fatti, di giustificare specificamente la conciliabilità del diverso esito, esclusa restando, tuttavia, la possibilità di contraddire la già accertata verificazione del medesimo fatto storico. La Corte, sulla base di tale principio, ha annullato senza rinvio la sentenza di condanna per il reato di cui all’art. 2 d.lgs 10 marzo 2000, n. 74, per l’utilizzazione di fatture relative a operazioni inesistenti, la cui esistenza era stata invece affermata in una precedente sentenza irrevocabile di assoluzione, riguardante l’emissione di dette fatture, acquisita ai sensi dell’art. 238-bis cpp[162]. Il principio è stato di recente riaffermato[163] in un caso nel quale l’emittente la fattura era stato assolto – diversamente dall’utilizzatore – con la formula “perché il fatto non sussiste”, ritenendo, in base agli elementi di prova acquisiti, l’esistenza delle operazioni imponibili sia in termini oggettivi che soggettivi. In presenza di autonomi giudizi relativi a un medesimo fatto storico – l’esistenza delle operazioni sottostanti la fattura oggetto dell’imputazione –, pur non trovando applicazione il principio della pregiudizialità penale, il giudice del diverso procedimento è comunque tenuto a motivare espressamente circa le ragioni per le quali è pervenuto a diverse conclusioni rispetto al giudizio già definito in precedenza, la cui decisione, quando sia stata acquisita la relativa sentenza, è elemento da valutare ai sensi dell’art. 238-bis cpp[164]. Devono, in particolare, essere illustrate specificamente le ragioni della conciliabilità dei due diversi giudizi, in quanto le risultanze di un precedente giudicato penale, acquisite ai sensi dell’art. 238-bis cpp, che riguardino una precondizione del giudizio in corso non consentono al giudice di giungere a conclusioni inconciliabili con la sentenza irrevocabile, allorquando l’inconciliabilità verta sui fatti posti a fondamento delle decisioni contrastanti e non sulle valutazioni giuridiche di essi. Tale principio è stato affermato anche da sez. V, 12 febbraio 2018, n. 23226, Iandolo, Rv. 273207, che ha evidenziato la necessità di salvaguardare il principio di non contraddittorietà del sistema, che trova espressione, oltre che nella regola di cui all’art. 587 cpp dell’estensione degli effetti favorevoli dell’impugnazione, nell’esigenza di prevenire il contrasto fra giudicati, desumibile dall’art. 630 cpp. Qualora, nel corso del giudizio, venga prodotta una sentenza passata in giudicato che accerta fatti che si assumono essere inconciliabili con quelli in contestazione, il giudice è tenuto – onde evitare che si determini una situazione tale da giustificare una futura richiesta di revisione – a verificare la possibile incidenza della decisione irrevocabile, e degli elementi di fatto da essa risultanti, sulla posizione dell’imputato[165].

In una recente occasione, la Suprema corte (sez. III, n. 20673/2023) ha ribadito gli stessi principi. 

Il caso: la corte di appello aveva confermato la condanna inflitta dal tribunale nei confronti dell’imputato per il reato ex art. 2 d.lgs n. 74/2000, pre aver indicato, al fine di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto, in una delle dichiarazioni annuali relative a queste imposte, elementi passivi fittizi in relazione all’IVA, avvalendosi della fattura emessa da altra impresa per operazioni oggettivamente inesistenti. 

Avverso tale sentenza aveva proposto ricorso per cassazione il difensore dell’imputato, rilevando l’assoluzione definitiva dell’emittente la fattura (ritenendo sussistente l’operazione sottostante) con sentenza passata in giudicato e deducendo la violazione degli artt. 2 e 8 d.lgs n. 74/2000, nonché dell’art. 238 cpp. Il fatto che la fattura fosse stata incontestabilmente riconosciuta come vera con la sentenza passata in giudicato integrava una condizione pregiudiziale logico-giuridica, avendo ad oggetto lo stesso fatto contestato all’imputato; nel caso, era stato violato il principio di ne bis in idem e i principi della Comunità europea nell’interpretazione dell’art. 4 Prot. Commissione europea dei diritti dell’uomo, sul bis in idem per l’identità del fatto in presenza di corrispondenti storici e naturalistici del fatto.

La Cassazione ha ritenuto fondati i motivi relativi al rapporto con la sentenza di assoluzione definitiva emessa nei confronti dell’emittente. La corte di appello non aveva correttamente applicato l’art. 238-bis cpp come interpretato dalla giurisprudenza in casi analoghi; in particolare, la Suprema corte ha statuito:

«Va ribadito il principio – così Sez. 3, n. 36907 del 15/10/2020, Cerbini, Rv. 280278 - 01 – per cui le risultanze di un precedente giudicato penale, acquisite ai sensi dell’art. 238-bis cod. proc. pen., e riguardanti una precondizione del giudizio in corso, impongono, al giudice che giunga a diverse conclusioni sulla base di una differente valutazione giuridica dei medesimi fatti, di giustificare specificamente la conciliabilità del diverso esito, esclusa restando, tuttavia, la possibilità di contraddire la già accertata verificazione del medesimo fatto storico. Nel caso esaminato, la Corte ha annullato senza rinvio la sentenza di condanna per il reato di cui all’art. 2 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, per l’utilizzazione di fatture relative ad operazioni inesistenti, la cui esistenza era stata invece affermata in una precedente sentenza irrevocabile di assoluzione, riguardante l’emissione di dette fatture, acquisita ai sensi dell’art. 238-bis cod. proc. pen.». Nel caso di specie, il Tribunale di Ravenna aveva «effettivamente assolto l’emittente della fattura, la stessa contestata all’imputato e quale utilizzatore, con la formula perché il fatto non sussiste, ritenendo, in base agli elementi di prova acquisiti, l’esistenza delle operazioni imponibili sia in termini oggettivi che soggettivi. Orbene, se nel caso in esame, in cui vi sono autonomi giudizi relativi a un medesimo fatto storico – l’esistenza delle operazioni sottostanti la fattura oggetto dell’imputazione – non trova applicazione il principio della pregiudizialità penale, però, come affermato anche dalla sentenza Cerbini, il giudice del diverso procedimento è comunque tenuto a motivare espressamente circa le ragioni per le quali è pervenuto a diverse conclusioni rispetto al giudizio già definito in precedenza, la cui decisione, quando sia stata acquisita la relativa sentenza, è elemento da valutare ai sensi dell’art. 238-bis cod. proc. pen. (Sez. 1, n. 18343 del 21/12/2016, dep. 11/04/2017, Biallo, Rv. 270658). Devono, in particolare, essere illustrate specificamente le ragioni della conciliabilità dei due diversi giudizi, in quanto le risultanze di un precedente giudicato penale, acquisite ai sensi dell’art. 238-bis cod. proc. pen. che riguardino una precondizione del giudizio in corso non consentono al giudice di giungere a conclusioni inconciliabili con la sentenza irrevocabile, allorquando l’inconciliabilità verta sui fatti posti a fondamento delle decisioni contrastanti e non sulle valutazioni giuridiche di essi. 1.3. Tale principio è stato affermato anche da Sez. 5, n. 23226 del 12/02/2018, Iandolo, Rv. 273207, che ha evidenziato la necessità di salvaguardare il principio di non contraddittorietà del sistema, che trova espressione, oltre che nella regola di cui all’art. 587 cod. proc. pen. dell’estensione degli effetti favorevoli dell’impugnazione, nell’esigenza di prevenire il contrasto fra giudicati, desumibile dall’art. 630 cod. proc. pen.; v. anche, in tema di revisione, circa l’impossibilità di addivenire ad accertamenti contrastanti circa i medesimi fatti storici, Sez. 1, n. 43516 del 06/05/2014, Cavallari, Rv. 260702; Sez. 6, n. 23682 del 14/05/2015, Russo, Rv. 263842. 2. L’accoglimento dei motivi sull’art. 238-bis cod. proc. pen., restando assorbiti i successivi, determina l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata alla Corte di appello di Perugia. Nel giudizio di rinvio si applicherà l’art. 238-bis cod. proc. pen. al fine di verificare se vi sia inconciliabilità sui medesimi fatti storici, sulla effettività o meno delle operazioni economiche sottostanti la stessa fattura oggetto delle due sentenze».

 

6.1.4. L’acquisizione al fascicolo processuale della dichiarazione fiscale

Per la configurabilità del reato previsto dall’art. 10-ter d.lgs 10 marzo 2000, n. 74, non si richiede l’acquisizione al fascicolo processuale della dichiarazione fiscale del contribuente o di alcuna prova legale, essendo sufficiente che il giudice raggiunga la certezza, al di là di ogni ragionevole dubbio, che l’omissione, per una somma eccedente la soglia di punibilità, abbia ad oggetto l’IVA dovuta in base alla dichiarazione annuale regolarmente presentata, dandone conto con motivazione immune da vizi logici o giuridici. La Cassazione[166] ha affermato il principio in una fattispecie nella quale ha ritenuto provata l’avvenuta presentazione della dichiarazione IVA in ragione della denuncia presentata dall’Agenzia delle entrate, originata dalla valutazione, da parte del funzionario accertatore, della dichiarazione fiscale contenente la specifica indicazione dell’imposta da versare. In motivazione: «Deve rilevarsi, infatti, che l’art. 10-ter del d.lgs. n. 74 del 2000 punisce con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa l’imposta sul valore aggiunto dovuta in base alla dichiarazione annuale, entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo d’imposta successivo, per un ammontare superiore ad euro duecentocinquantamila per ciascun periodo d’imposta. Per la configurabilità di tale fattispecie occorrono, quindi, due presupposti: che l’ammontare dell’imposta evasa ecceda la soglia di punibilità prevista dalla norma e che l’omissione abbia ad oggetto l’imposta sul valore aggiunto dovuta in base alla dichiarazione annuale regolarmente presentata. Rispetto al secondo requisito, tuttavia, la legge non richiede l’acquisizione al fascicolo processuale della dichiarazione fiscale o di alcuna prova legale, essendo sufficiente che il giudice raggiunga la certezza, al di là del ragionevole dubbio, in ordine alla sussistenza degli elementi necessari per l’integrazione della fattispecie, e ne dia conto con motivazione immune da vizi logici o giuridici (ex multis, Sez. 3, n. 38475 del 2019; Sez. 3, n. 38487 del 21/04/2016, Rv. 268012). Nella specie, conformemente ai principi giurisprudenziali appena richiamati, il giudice d’appello ha ritenuto provata l’avvenuta presentazione della dichiarazione Iva in ragione della denuncia presentata dalla Agenzia delle entrate, la quale ha tratto origine dalla valutazione, da parte del funzionario accertatore, della dichiarazione fiscale contenente la specifica indicazione dell’Iva da versare relativamente all’anno 2012; dichiarazione redatta da uno studio professionale a ciò incaricato dall’imputato. Ha altresì considerato il fatto che l’assenza della dichiarazione non aveva mai costituito oggetto di contestazione in primo grado, ma era stata prospettata, con considerazioni ritenute generiche e poco credibili, solo con l’atto d’appello. Dimostrata l’esistenza della dichiarazione, l’accertata evasione di un importo superiore alla soglia di punibilità prevista dalla norma incriminatrice costituisce aspetto non controverso».

 

6.2. I mezzi di ricerca della prova

6.2.1. La perquisizione e il sequestro 

Per l’accertamento dei reati tributari, di assoluto rilievo risultano i mezzi di ricerca della prova della perquisizione e del sequestro, anche di materiale informatico, tenuto conto del fatto che sovente la documentazione di interesse è custodita su supporti o sistemi informatici. In occasione del riesame ex art. 324 cpp, frequenti sono le critiche avverso il decreto di perquisizione e sequestro del pm in ordine alla motivazione (i) del coinvolgimento del detentore – non indagato – del materiale nei fatti di reato, (ii) della qualificabilità delle cose come “corpo del reato” o “cose pertinenti al reato” e delle finalità probatorie perseguite attraverso il loro sequestro; (iii) del rispetto del principio di proporzione nei vincoli di natura probatoria e, in specie, in quelli che attingono i dispositivi informatici. 

Detto che la motivazione del decreto del pm in ordine alla pertinenzialità dei beni sequestrati mediante il rinvio ad ulteriori atti costituisce tecnica legittima laddove vi sia un apprezzamento indipendente, rispetto agli atti valutativi espressi da diversi attori processuali[167], deve intercorrere un nesso funzionale tra ogni singolo bene appreso – quand’anche corpo di reato – e l’accertamento del fatto, nel rispetto dei principi di proporzionalità, adeguatezza e gradualità, secondo l’insegnamento della giurisprudenza europea rispetto al bilanciamento tra i diversi interessi in gioco e il sacrificio del diritto di proprietà (Corte Edu, 13 ottobre 2015, Ünsped Paket Servisi, e 13 dicembre 2016, S.C. Fiercolect Impex S.R.L. c. Romania), evitando limitazioni alla proprietà privata non strettamente conseguenti alla finalità istituzionalmente perseguita dalla misura probatoria[168]; il decreto di sequestro probatorio, anche se ha ad oggetto cose costituenti corpo del reato, deve contenere una specifica motivazione della finalità perseguita per l’accertamento dei fatti[169]. Parimenti è a dirsi per le cose pertinenti al reato, nozione che evidentemente segnala una relazione meno immediata, ma pur sempre funzionale rispetto al reato. 

Il rapporto di pertinenza fra le cose sequestrate e l’ipotesi di reato per cui si procede non deve essere considerato in termini esclusivi di relazione immediata, ben potendo acquisire rilievo ed essere oggetto di ricerca e apprensione ogni elemento utile a ricostruire i fatti anche in forma indiretta[170]: se sono cose pertinenti al reato tutte quelle che, pur non essendo in diretto rapporto qualificato con il fatto illecito, presentino capacità dimostrativa dello stesso, la qualificazione della “cosa” come pertinente al reato presuppone l’indicazione del perimetro investigativo dell’ipotesi di reato per cui si procede e della finalità probatoria perseguita con il sequestro. Infatti, una cosa può essere considerata “cosa pertinente al reato” se esiste una descrizione concreta del reato per cui si procede e della finalità probatoria perseguita.

La nozione di “cose pertinenti al reato” ha un significato scarsamente delimitativo affidato all’interpretazione giurisprudenziale, che l’ha estesa – oltre al corpo di reato – anche a qualunque cosa sulla quale o a mezzo della quale il reato fu commesso o che ne costituisce il prezzo, il prodotto o il profitto, anche cose legate indirettamente alla fattispecie criminosa[171]. In tal senso, la strumentalità del bene rispetto alla condotta criminosa e alla finalità probatoria del sequestro è uno dei canoni di valutazione della pertinenza e assolve a una funzione selettiva; pur in presenza di indirizzi giurisprudenziali diversi, è condivisibile quanto ritenuto da parte della giurisprudenza di legittimità, secondo cui è necessario un esame particolarmente rigoroso sul rapporto che lega la cosa al reato ed è altresì necessario, quando il legame prospettato sia di natura funzionale, che tale rapporto non sia meramente occasionale[172]. La motivazione in ordine alla strumentalità della res rispetto all’accertamento penale diventa, allora, requisito indispensabile affinché il decreto di sequestro, per sua vocazione inteso a comprimere il diritto della persona a disporre liberamente dei propri beni, si mantenga nei limiti costituzionalmente e convenzionalmente prefissati e resti assoggettato al controllo di legalità[173] e al principio di proporzione. 

La verifica del nesso di funzionalità non occasionale tra il bene e la condotta deve ovviamente essere maggiormente rigorosa nei casi in cui il bene appartenga a un soggetto terzo estraneo al reato, cioè un soggetto nei cui confronti nessun coinvolgimento nell’attività criminosa è stato ipotizzato[174].

Quanto alla latitudine oggettiva del vincolo probatorio, le declinazioni giurisprudenziali della proporzionalità non si presentano uniformi. Da un lato, si è ritenuto legittimo e non in contrasto con i principi di proporzionalità, adeguatezza e gradualità il sequestro di un intero personal computer, piuttosto che l’estrapolazione con copia forense di “singoli” dati, quando giustificato dalle difficoltà tecniche di estrapolare, con riproduzione mirata, gli elementi contenuti nella memoria[175]. Così, in linea di principio, non è interdetta una tipologia di sequestro avente un’estensione ampia, poiché «a determinate e giustificate condizioni [può] essere disposto un sequestro esteso all’intero sistema [informatico o telematico]»[176]. Dall’altro lato, si è affermato che è illegittimo, per violazione del principio di proporzionalità e adeguatezza, il sequestro a fini probatori di un sistema informatico (un pc) che conduca, in difetto di specifiche ragioni, a un’indiscriminata apprensione di tutte le informazioni ivi contenute[177]. In posizione mediana l’orientamento secondo cui l’autorità giudiziaria, al fine di esaminare un’ampia massa di dati i cui contenuti sono potenzialmente rilevanti per le indagini, può disporre un sequestro dai contenuti molto estesi, provvedendo tuttavia, nel rispetto del principio di proporzionalità e adeguatezza, all’immediata restituzione delle cose sottoposte a vincolo non appena decorso il tempo ragionevolmente necessario per gli accertamenti[178]. Sicché, al fine della valutazione di proporzionalità del sequestro di supporti informatici, va considerata anche la variabile “tempo”, che incide sulla tempestività dell’estrazione dei dati rilevanti. In caso di mancata tempestiva restituzione, l’interessato potrà presentare la relativa istanza e far valere le proprie ragioni, se necessario, anche mediante i rimedi impugnatori offerti dal sistema[179]. La Cassazione ha ulteriormente esplicitato tale posizione, assumendo che un modo di procedere “massivo” presuppone un dovere motivazionale specifico del pubblico ministero: «l’acquisizione indiscriminata di un’intera categoria di beni, nell’ambito della quale procedere successivamente alla selezione delle singole “res” strumentali all’accertamento del reato, è consentita a condizione che il sequestro non assuma una valenza meramente esplorativa e che il pubblico ministero adotti una motivazione che espliciti le ragioni per cui è necessario disporre un sequestro esteso e onnicomprensivo, in ragione del tipo di reato per cui si procede, della condotta e del ruolo attribuiti alla persona titolare dei beni, e della difficoltà di individuare “ex ante” l’oggetto del sequestro»[180]. In altri termini, è possibile disporre un sequestro “esteso”, e magari totalizzante, in quanto si spieghi – caso per caso – perché ciò è necessario fare, perché cioè il nesso di pertinenza tra res, reato per cui si procede e finalità probatoria debba avere – in quella determinata fattispecie – un’inevitabile differente modulazione in ragione della fase del procedimento, della fluidità delle indagini e della contestazione provvisoria, del fatto concreto per cui si procede, del tipo di illecito a cui il fatto sembra doversi ricondurre, della difficoltà di individuare nitidamente ex ante l’oggetto del sequestro, della natura del bene che si intende sequestrare[181]. Il sequestro, in particolare, è legittimo in quanto provvisto di strutturale simmetria rispetto alla notizia di reato per cui si procede, rispetto al fatto per cui si investigava, rispetto al ruolo che in detto fatto avrebbero avuto i detentori della documentazione, rispetto al suo oggetto; solo in questo caso il sequestro evita di assumere, sul piano quantitativo e qualitativo, una non consentita funzione esplorativa, finalizzata all’eventuale acquisizione, diretta o indiretta, di altre notizie di reato.

La questione viene ricorrentemente in rilievo in caso di apprensione dei device in luogo dei dati da acquisire, allorché l’estrapolazione non può essere immediata, tenuto conto della mole e dell’articolazione della documentazione da vagliare al momento della esecuzione del sequestro. Va riaffermato che non può dirsi di per sé illegittimo il sequestro del dispositivo in luogo dell’estrazione immediata del suo contenuto, ove sussistano specifiche difficoltà tecniche[182] e il vincolo sui dispositivi risulti strumentale all’acquisizione mirata di dati in esso contenuti. Quel che rileva in queste situazioni, a tutela dell’interessato, è che il vincolo sia ab origine circoscritto a un “canone di selezione” in assenza del quale risulterebbe nel suo complesso ingiustificato per difetto di proporzionalità[183]. Tale criterio di selezione dei dati da acquisire richiede che il decreto del pm abbia un oggetto circoscritto, tale da non risultare sproporzionato o illegittimamente esteso, rispetto all’ipotesi di reato indicata; in caso di reati tributari e finanziari può essere adeguata l’indicazione dell’interesse a vincolare “documentazione” – in qualunque modo conservata (anche su dispositivi elettronici) – riferibile alla gestione del contribuente/imprenditore e ai rapporti di essa con specifici soggetti[184].

Quanto poi alla durata effettiva del vincolo allo scopo di selezionare le cose davvero necessarie ai fini della prova, la Cassazione ha stabilito che il pubblico ministero: a) non può trattenere la cd. copia integrale dei dati appresi se non per il tempo strettamente necessario alla loro selezione; b) è tenuto a predisporre un’adeguata organizzazione per compiere la selezione in questione nel tempo più breve possibile, soprattutto nel caso in cui i dati siano stati sequestrati a persone estranee al reato per cui si procede; c) compiute le operazioni di selezione, la cd. copia integrale dev’essere restituita agli aventi diritto[185]. In caso di mancata tempestiva restituzione, l’interessato può presentare istanza di restituzione e far valere le proprie ragioni, se necessario, anche mediante i rimedi impugnatori offerti dal sistema[186]. In termini esemplificativi, sono state ritenute ragioni giustificative dell’apprensione del dispositivo per estrarne la copia informatica la durata (dalle 3 alle 8 ore) per acquisire la copia forense, così come l’indisponibilità del detentore a comunicare la password di accensione del telefono. 

Se il legislatore e la giurisprudenza di legittimità mostrano di non gradire un sequestro in perpetuo del dispositivo elettronico, spingendo per la restituzione dopo l’estrazione della copia clone quando non anche della copia clone stessa – laddove estesa a dati non pertinenti e a rischio di derive esplorative – per altro ordine di considerazioni, l’aumentata funzionalità dei dispositivi di immagazzinaggio (storage) diretto o indiretto di quantitativi enormi di dati variegati, solo alcuni dei quali collegati da vincolo di pertinenzialità immediatamente evidente con il fatto-reato per il quale si procede, induce la giurisprudenza nazionale (in sintonia con quella sovranazionale)[187] a sostenere che lo smartphone sequestrato deve essere restituito al legittimo proprietario dopo che è stata realizzata la copia forense; perciò, la persistente esigenza investigativa e necessità di mantenere il vincolo sul supporto originario e negarne la restituzione non sembra argomentabile, in ragione della potenziale erroneità dell’estrazione della copia clone. Così, avvenuta la restituzione del dispositivo all’avente diritto, ed eventualmente accertata la non corrispondenza della copia clone all’originale per difetto della procedura acquisitiva, l’accertamento non sarà più fenomenicamente ripetibile in dibattimento e, quand’anche si recuperasse il device, l’attività resterebbe esposta a pericolo di inattendibilità per esser stato il dato complessivo modificato. Ragione per la quale non mancano voci critiche[188] rispetto al ricordato orientamento, pur giustificato dal principio di ragionevolezza del sacrificio individuale e di proporzionalità dell’acquisizione, a fronte dei principi – individuati dalla stessa Corte costituzionale e più in ombra nella prospettazione ricordata – del «necessario accertamento dei fatti aventi rilevanza penale»[189] e «di conservazione e non dispersione degli elementi di prova legittimamente acquisiti»[190].

Per queste ragioni, d’altro canto, può risultare cautelativo per l’inquirente estendere sin dalle indagini le garanzie partecipative anche oltre i confini della naturale modificabilità del supporto da esaminare attivando accertamenti ex art. 360 cpp per evitare postume contestazioni sulle modalità di conservazione del dato originale in fase acquisitiva e sul rispetto della catena di custodia (nella quale andrà annotata integralmente e dettagliatamente la sequenza delle operazioni compiute, con indicazione dei soggetti e di quanto necessario) passando dalla securizzazione (sequenza di operazioni finalizzate a impedire l’alterazione del dato attraverso l’ablazione delle credenziali, la procedura di recovery per il loro mutamento con definitiva perdita di controllo da parte dell’originario titolare). 

Occorre poi considerare che i dati hanno variegata natura e funzione e possono giustificare forme acquisitive diverse. I file o metafile quali autonomi documenti allocati in una cartella archiviata nella memoria del device a disposizione dell’utente possono esporre a minori pericoli di compromissione dei pacchetti di dati destrutturati che attengono ai processi di connettività della “macchina”.

Non si ritiene, invece, necessario che il sequestro di dati informatici debba essere “necessariamente preceduto” dalla perquisizione informatica. L’effettuazione di quest’ultima, infatti, richiede la predisposizione di strumenti investigativi – e, segnatamente, la disponibilità di tecnici –, incompatibile con la natura di atto “a sorpresa” della perquisizione ordinaria, che implica che ne siano garantite tempestività e immediatezza e che non può essere condizionata dalla predisposizione degli strumenti tecnici necessari per l’effettuazione di una perquisizione, come quella informatica, che richiede competenze specialistiche. A ciò si aggiunge che il codice di rito non prevede che il sequestro dei dati contenuti nei supporti informatici debba essere effettuato obbligatoriamente “solo dopo” l’effettuazione della perquisizione “tecnica” prevista dall’art. 247-bis cpp. In sintesi, la funzionalizzazione del vincolo dell’intero supporto a una successiva analisi dello stesso, diretta all’identificazione ed estrazione dei dati rilevanti per le indagini, implica che la “durata” del sequestro non possa essere temporalmente indeterminata, ma debba essere invece limitata al tempo necessario per l’analisi del supporto e l’estrazione dei dati in esso contenuti[191]. In tal senso, esemplificativamente, la valutazione della “ragionevole durata del vincolo” deve essere effettuata in coerenza con le difficoltà tecniche di estrazione dei dati, in ipotesi accresciute dall’indisponibilità delle chiavi di accesso alle banche dati contenute nei supporti sequestrati. La mancata collaborazione dell’indagato nel fornire le chiavi di accesso è un comportamento sicuramente inquadrabile come esercizio di una facoltà difensiva, che trova supporto nell’ampia tutela che il codice di rito fornisce all’accusato, riconoscendogli, tra l’altro, il “diritto al silenzio”; trattasi, tuttavia, di comportamento che influisce sulla valutazione della legittimità della protrazione del vincolo, che trova giustificazione nell’accresciuta difficoltà di accesso ai dati di interesse investigativo.

Tirando le fila del discorso nella prospettiva delle indagini in materia di reati tributari, la riflessione della giurisprudenza di legittimità (tenendo conto del limitato spazio di ammissibilità del ricorso per cassazione nella materia cautelare reale, che esclude la denuncia di vizi motivazionali di cui all’art. 606, comma 1, lett. e, cpp)[192], in via di principio, non ritiene generica l’indicazione nel decreto del pm diretta a vincolare alcune categorie di beni, tra le quali diversi tipi di materiale informatico; infatti, se da un lato è necessario che i provvedimenti di perquisizione e sequestro individuino, almeno nelle linee essenziali, gli oggetti da sequestrare con riferimento a specifiche attività illecite (non bastando una generica indicazione di pertinenza di quanto eventualmente rinvenuto rispetto al reato ipotizzato), non è possibile, al contrario, pretendere l’indicazione dettagliata delle cose da ricercare e sottoporre a sequestro, sia perché il più delle volte le stesse non possono essere specificate a priori, sia perché l’art. 248 cpp, nel prevedere la richiesta di consegna quando attraverso la perquisizione si cerca una cosa determinata, implica che oggetto di ricerca possano essere anche cose non determinate, che potranno essere individuate solo all’esito dell’eseguita perquisizione[193]. Ai fini dell’elencazione dell’oggetto dell’apprensione, può essere sufficiente indicare le specifiche categorie di beni da sequestrare («documenti, registrazioni su supporto informatico, agende, materiale informatico»), ancorandoli sia a un determinato periodo temporale sia ai fatti dell’indagine, indicando anche il legame tra le cose e l’accertamento dell’illecito. È quest’ultimo nesso, esplicitato con l’indicazione dei motivi di interesse pubblico collegati all’accertamento dei fatti di reato, che giustifica il sacrificio del diritto del singolo – anche se vittima o terzo estraneo alla condotta criminosa – al rispetto dei suoi beni[194] a giustificare in modo coerente, sotto il punto di vista della proporzionalità e adeguatezza, anche l’ampiezza del sequestro. Come si diceva, il sequestro, in particolare, è richiesto di continenza funzionale, non potendo assumere una funzione esplorativa finalizzata all’eventuale acquisizione, diretta o indiretta, di altre notizie di reato; il vincolo è legittimo in quanto strutturalmente simmetricorispetto alla notizia di reato per cui si procede, rispetto al fatto per cui si investiga, rispetto al ruolo in detto fatto dei detentori della documentazione, rispetto al suo oggetto.

Altre questioni solitamente poste in caso di sequestro di apparati-sistemi informatici (si pensi a un cellulare) è la violazione dell’art. 114 disp. att. cpp, il quale prescrive alla polizia giudiziaria di avvertire la persona sottoposta alle indagini, se presente, della facoltà di farsi assistere dal difensore di fiducia nel momento in cui la stessa polizia stia procedendo al compimento di uno degli atti indicati nell’art. 356 del codice. Trattasi di disposizione alla cui inosservanza consegue la sanzione di nullità dell’atto (cd. “a regime intermedio”, tempestivamente deducibile, a norma del combinato disposto degli artt. 180 e 182, comma 2, secondo periodo, cpp, fino al momento della deliberazione della sentenza di primo grado: sez. unite, 29 gennaio 2015, n. 5396, Bianchi, Rv. 263023 - 01; sez. III, 2 luglio 2015, n. 39186, Mundi, Rv. 264843 - 01). Il richiamato art. 356 cpp fa però riferimento agli atti di cui ai precedenti artt. 352 e 354 (oltre che all’immediata apertura del plico, autorizzata dal pm a norma dell’art. 353, comma 2). Si tratta di atti tutti disciplinati nell’ambito del titolo IV del libro V del codice, dedicato all’attività di indagine a iniziativa della polizia giudiziaria e, dunque, distinto dal successivo titolo V, dedicato invece all’attività di indagine del pm, nel quale sono ricompresi, a norma dell’art. 370, anche gli atti di indagine delegati dal pm alla polizia giudiziaria. La scelta del legislatore è stata, infatti, quella di una netta distinzione fra l’attività della polizia giudiziaria e quella del pubblico ministero, quest’ultima riconducibile a un soggetto che, pur essendo parte nel procedimento penale, è dotato, sul piano costituzionale, di ampie garanzie di indipendenza espressamente garantite dalla riserva di ordinamento giudiziario, ai sensi dell’art. 107, quarto comma, Cost., ed è comunque inserito nell’ambito dell’Ordine giudiziario. Per contro, la polizia giudiziaria non è dotata delle stesse garanzie di indipendenza, essendo in generale sottoposta al potere esecutivo, pur trovandosi nella disponibilità diretta dell’autorità giudiziaria, ai sensi dell’art. 109 Cost. Ove il sequestro probatorio sia stato disposto dal pubblico ministero a norma dell’art. 253 cpp e ne sia stata delegata l’esecuzione alla polizia giudiziaria, non sussiste pertanto alcun obbligo, per la polizia stessa, di dare avviso all’indagato, presente al compimento dell’atto, della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia[195]; avviso che l’art. 114 disp. att. cpp riserva ai soli atti di cui all’art. 356 cpp, tra cui è compreso il sequestro esclusivamente se di iniziativa della polizia giudiziaria, in considerazione non solo della vocazione probatoria di quest’ultimo, ma anche della necessità di controllo della regolarità dell’operato dell’organo che lo esegue[196].

 

6.2.2. L’estrazione e la lettura dei dati archiviati in un supporto informatico

Costituisce principio di diritto, ripetutamente affermato in sede di legittimità[197], quello per cui l’estrazione di dati archiviati in un supporto informatico, quale è la memoria di un telefono, non costituisce accertamento tecnico irripetibile, e ciò neppure dopo l’entrata in vigore della legge 18 marzo 2008, n. 48, che ha introdotto unicamente l’obbligo di adottare modalità acquisitive idonee a garantire la conformità dei dati informatici acquisiti a quelli originali, con la conseguenza che né la mancata adozione di tali modalità, né, a monte, la mancata interlocuzione delle parti al riguardo comportano l’inutilizzabilità dei risultati probatori acquisiti, ferma la necessità di valutare, in concreto, la sussistenza di eventuali alterazioni dei dati originali e la corrispondenza ad essi di quelli estratti. In caso di mancato rispetto dei protocolli tecnici di comportamento, dunque, possono unicamente derivare effetti sull’attendibilità della prova conseguente all’accertamento male eseguito[198].

L’estrazione dei dati contenuti in un supporto informatico, se eseguita da personale esperto in grado di evitare la perdita dei medesimi dati, costituisce un accertamento tecnico ripetibile[199] e non dà luogo ad accertamento tecnico irripetibile, trattandosi di operazione meramente meccanica, riproducibile per un numero indefinito di volte: così Cass., sez. II, 4 giugno 2015, n. 24998, Scanu (Rv. 264286), che ha precisato che l’eventuale alterazione dei dati informatici e quindi la loro inutilizzabilità costituisce un accertamento in fatto del giudice di merito, che, se congruamente motivato, non è suscettibile di censura in sede di legittimità. Parimenti, l’estrazione della copia clone anziché un accertamento di carattere irripetibile è un’operazione riconducibile alla categoria dei rilievi tecnici. Essendo centrale l’esigenza di conservazione del dato originale e della corrispondenza ad esso del dato estratto, l’utilizzabilità della copia, più che dalla partecipazione dell’indagato all’operazione tecnica, è assicurata dalla correttezza del processo acquisitivo fondamentale per assicurare la ricordata corrispondenza.

Sotto il profilo tecnico, la duplicazione non implica un’elaborazione critica di dati, anche se il progresso tecnico potrebbe smentire tale assunto[200]. In base ai principi generali espressi dall’art. 354, comma 2, cpp, «In relazione ai dati, alle informazioni e ai programmi informatici o ai sistemi informatici o telematici, gli ufficiali della polizia giudiziaria adottano, altresì, le misure tecniche o impartiscono le prescrizioni necessarie ad assicurarne la conservazione e ad impedirne l’alterazione e l’accesso e provvedono, ove possibile, alla loro immediata duplicazione su adeguati supporti, mediante una procedura che assicuri la conformità della copia all’originale e la sua immodificabilità. Se del caso, sequestrano il corpo del reato e le cose a questo pertinenti». Se l’accertamento oltrepassa la constatazione o la raccolta di dati materiali pertinenti al reato e alla sua prova – che si esauriscono nei semplici rilievi – implicando il loro studio e la relativa elaborazione critica, necessariamente soggettivi e per lo più su base tecnico-scientifica[201], tale “linea di demarcazione” segnala anche quella tra l’attività in senso stretto del consulente e le attività dirette soltanto a “cristallizzare” e raccogliere elementi in fatto, senza alcuna forma di rielaborazione “critica” delle medesime, demandate alla polizia giudiziaria. Nel settore informatico emergono due esigenze. Da un lato, in generale, qualora il pm debba procedere ad accertamenti tecnici non ripetibili ai sensi dell’art. 360 cpp, ricorre l’obbligo di dare l’avviso al difensore solo nel caso in cui, al momento del conferimento dell’incarico al consulente, sia già stata individuata la persona nei confronti della quale si procede, mentre tale obbligo non ricorre nel caso in cui la persona indagata sia stata individuata solo successivamente all’espletamento dell’attività peritale[202]. Di regola, difficilmente una perquisizione/sequestro presso una società o un privato potrebbe avvenire senza porsi il dubbio di ritenere identificabile il soggetto da iscrivere (e, come tale, da ritenere destinatario) degli avvisi. L’accertamento tecnico che impone di assolvere gli adempimenti richiesti dall’art. 360 cpp è solo quello che, in forza di una valutazione ex ante e sulla base di una ragionevole prevedibilità, sia causa di alterazione della cosa, del luogo o della persona sottoposta all’esame medesimo[203]. Secondo la Suprema corte, non dà luogo ad accertamento tecnico irripetibile la lettura dell’hard disk di un computer sequestrato, trattandosi di attività di polizia giudiziaria volta, anche con urgenza, all’assicurazione delle fonti di prova; in particolare, la masterizzazione di file rinvenuti all’interno di un pc trovato acceso durante una perquisizione non costituisce attività irripetibile, bensì ripetibile e, come tale, formalmente corretta. La Corte ritiene che sia «da escludere che l’attività di estrazione di copia di file da un computer costituisca un atto irripetibile (…) atteso che non comporta alcuna attività di carattere valutativo su base tecnico-scientifica né determina alcuna alterazione dello stato delle cose, tale da recare pregiudizio alla genuinità del contributo conoscitivo nella prospettiva dibattimentale, essendo sempre comunque assicurata la riproducibilità di informazioni identiche a quelle contenute nell’originale»[204]. L’affermazione, per quanto condivisibile, resta tribolata: l’intervento sul sistema lo modifica, lasciando specifica e riconoscibile traccia; la questione non è la riconoscibilità di tale intervento, quanto la qualità, in termini di completezza e affidabilità, dell’oggetto dello stesso.

È stato rimarcato, infine, un aspetto fondamentale: ogni analisi successiva all’acquisizione dovrà essere svolta non sulla copia/duplicato originario, la cui autenticità e integrità devono essere garantite dall’impressione di un algoritmo (codice “hash”). Da questa bitstream image deve essere estratto un ulteriore duplicato, sul quale si svolgono le indagini: «Ottenuta l’immagine della memoria si procede alla ricostruzione dei contenuti secondo modalità post mortem: dunque non sul reperto ma sulla copia della memoria dello stesso. Operazione che deve essere effettuata da personale appositamente formato per svolgere le corrette attività volte al mantenimento dell’integrità della chain of custody così come della complessa architettura dell’elettronica digitale di cui si costituiscono i reperti oggetto di analisi»[205].

 

6.2.3. Il sequestro di dati in precedenza memorizzati su server stranieri e acquisiti in sede amministrativa con poteri ispettivi dall’organo di polizia tributaria

Rispetto a un decreto di sequestro probatorio emesso dal pubblico ministero, per il delitto di cui all’art. 5 d.lgs 10 marzo 2000, n. 74, avente ad oggetto due hard disk contenenti copie di backup di dati digitali di indirizzi di posta elettronica, oltre a copia del database del sistema gestionale, già acquisiti nel corso della verifica fiscale della Guardia di Finanza nei confronti di un’impresa, una terza impresa insediata all’estero ha lamentato l’illegittimità del vincolo penale in quanto fondato su documenti inutilizzabili per essere stati acquisiti illegalmente dalla GdF, in contrasto con i principi e in violazione dell’inviolabilità del domicilio e della segretezza delle comunicazioni (artt. 14 e 15 Cost.) e travalicando i limiti previsti dagli artt. 52 dPR n. 633/1972 e 33 dPR n. 600/1973. Tali norme consentirebbero l’ispezione documentale soltanto dei libri, registri, documenti, scritture contabili che si trovano nei locali in cui l’accesso viene eseguito o che siano accessibili mediante apparecchiature informatiche installate in detti locali, mentre restava illegittima l’acquisizione dei documenti informatici riconducibili a una società terza, con sede in Olanda, previa consegna delle credenziali utili per l’accesso da remoto al server in uso a quest’ultima, collocato al di fuori del territorio nazionale, integrante il delitto ex art. 615-ter cp a fronte della contraria volontà del manager della società alla consegna della password al momento della verifica fiscale, l’accesso al sistema informatico non potendo essere coperto dall’art. 55 cpp. La Cassazione ha osservato che gli organi verificatori possono procedere a ispezioni documentali, verificazioni e ricerche, nonché ad ogni altra rilevazione ritenuta utile, e i risultati degli accessi possono sempre essere utilizzati quale notitia criminis ed essere utilizzati per l’accertamento dell’imposta sul valore aggiunto e delle imposte dirette, a prescindere dalla regolarità formale della loro acquisizione[206], avendo l’attività ispettiva di vigilanza natura amministrativa, mentre sorge l’obbligo di rispettare le garanzie del codice di procedura penale qualora emergano indizi per attribuire rilevanza penale al fatto. Quanto alla prospettata violazione dell’art. 615-ter cp a carico dei militari operanti è stato osservato che la norma incriminatrice reca, tra gli elementi costitutivi del reato, l’elemento di illiceità specifica costituito dall’abusività della condotta (chiunque abusivamente) che non appare configurabile nei confronti dei militari operanti in forza di poteri ispettivi e di controllo previsti dalla legge: l’acquisizione dei dati informatici, ivi compresi quelli della società estera, era avvenuta a seguito del legittimo esercizio dei poteri di polizia amministrativa loro conferiti dalla legge; estratti questi dati, i militari avevano trasmesso all’autorità giudiziaria l’informativa della notizia di reato per l’apertura del procedimento penale. I militari della GdF svolgono, al contempo, funzioni di polizia amministrativa e di polizia giudiziaria nelle materie di loro competenza (Cass. civ., sez. tributaria, 28 settembre 2020, n. 20358).

 

6.2.4. La speciale perquisizione locale prevista dall’art. 33 l. n. 4/1929

Ai sensi dell’art. 33 l. n. 4/1929:

«1. Oltre a quanto è stabilito dal Codice di procedura penale per gli ufficiali della polizia giudiziaria, è data facoltà agli ufficiali della polizia tributaria di procedere a perquisizione domiciliare, qualora abbiano notizia o fondato sospetto di violazioni delle leggi finanziarie costituenti reato. 2. Questa disposizione si applica esclusivamente alle violazioni di leggi concernenti i tributi doganali, la privativa dei sali e tabacchi, le imposte di fabbricazione sugli spiriti, zuccheri e polveri piriche e agli altri casi in cui sia espressamente stabilito dalle leggi speciali».

La Cassazione ha affermato che tale particolare facoltà di perquisizione locale, disciplinata da una norma tuttora vigente (cfr. art. 225 n. att. cpp), è ammessa, per la sua specialità, solo nella tassativa ipotesi di violazione di leggi finanziarie. In tali casi, non è necessaria l’individuazione di ipotesi di reato con specifico riferimento a concreti elementi indizianti, secondo quanto, invece, è richiesto in via generale per la perquisizione disciplinata dal codice di procedura penale[207]. La particolare competenza in materia di violazioni fiscali da parte dei predetti funzionari e la possibilità – salvo successiva convalida da parte dell’autorità giudiziaria (la legge del 1929, come ogni altra norma ordinaria anche precedente all’entrata in vigore della Costituzione, va adeguata alle disposizioni precettive dettate dalla Costituzione in materia di riserva di legge e di riserva di giurisdizione quanto al controllo degli atti compiuti su iniziativa della polizia giudiziaria e incidenti sulle libertà personali o reali) – di poter compiere il medesimo atto consentono di ritenere legittima la presenza e la collaborazione prestata per l’esecuzione del decreto di perquisizione, essendo del tutto irrilevante che i soggetti facessero parte di un’amministrazione (l’Agenzia delle entrate è pacificamente un ente pubblico non economico) abilitata a costituirsi parte civile dovendosi scindere le attività dei funzionari, ai quali la legge conferisce espressamente il potere di accertare e reprimere le violazioni finanziarie, dalla tutela degli interessi civili dell’ente nel processo penale che compete a organi diversi e, in particolare, a chi abbia la rappresentanza dell’ente pubblico. L’eventuale partecipazione di soggetti non legittimati non avrebbe, in ogni caso, la potenzialità di invalidare il provvedimento del pm e/o gli esiti delle operazioni di perquisizioni o sequestro[208]

 

6.2.5. Le intercettazioni di conversazioni e comunicazioni

La riforma del 2019, come visto, ha elevato le pene edittali di molti reati tributari, ampliando il novero di quelli che consentono di praticare tale mezzo di ricerca della prova. 

Mette conto rimarcare che un potenziamento dello strumento d’indagine era già intervenuto in ragione dell’introduzione, nel 2015, dell’aggravante a effetto speciale (dunque di rilievo ex artt. 4, 266 cpp) prevista dall’art. 13-bis, comma 3, d.lgs n. 74/2000, che importa un aumento della pena della metà per i delitti di cui al titolo II del d.lgs n 74/2000, sia per i reati tributari dichiarativi che per quelli in materia di documenti e di pagamento dell’imposta. Ai fini della configurazione dell’aggravante, «occorre che il consulente fiscale concorra nel delitto come promotore di iniziative elusive dell’imposizione fiscale, di natura sistematica o seriale, non essendo necessario che sia mosso dall’esclusivo interesse del cliente, ben potendo coesistere con questo anche la prospettiva di un vantaggio personale che vada oltre la previsione del suo compenso per l’attività professionale svolta»[209]

Va considerata, poi, l’evenienza della consumazione dei delitti tributari quali reati fine di un’associazione per delinquere: la sussistenza dei reati di criminalità organizzata tra quelli posti a base della richiesta di intercettazione, attiva lo statuto speciale dell’art. 13 dl n. 151 del 1991, convertito dalla legge n. 203 del 1991[210] (quanto a quadro indiziario, necessità dell’attività, durata e modalità di esecuzione)[211]. In tema di presupposti per l’ammissibilità delle intercettazioni telefoniche, la valutazione del reato per il quale si procede, da cui dipende l’applicazione della disciplina ordinaria ovvero quella speciale per la criminalità organizzata, va fatta con riguardo all’indagine nel suo complesso e non con riferimento alla responsabilità di ciascun indagato[212].

Le sezioni unite della Cassazione, nella pronuncia n. 26889 del 28 aprile 2016 (Rv. 266905, Scurato), dopo una completa ricostruzione degli orientamenti susseguitisi, hanno affermato che l’intercettazione di comunicazioni tra presenti mediante l’installazione di un captatore informatico in un dispositivo elettronico è consentita nei procedimenti per delitti di criminalità organizzata, ossia nei procedimenti elencati nell’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, cpp nonché in quelli, comunque, facenti capo a un’associazione per delinquere. Per tali delitti trova applicazione la disciplina prevista dall’art. 13 dl n. 151 del 1991, convertito dalla legge n. 203 del 1991, che consente la captazione anche nei luoghi di privata dimora, senza necessità della preventiva individuazione e dell’indicazione dei suddetti luoghi e prescindendo dalla dimostrazione che essi siano sedi di attività criminosa in atto. Il massimo Consesso ha sottolineato che ciò che è indispensabile, in ossequio ai canoni di proporzione e ragionevolezza a fronte della forza intrusiva del mezzo usato, è innanzitutto che la qualificazione, pure provvisoria, del fatto come inquadrabile in un contesto di criminalità organizzata risulti ancorata a sufficienti, sicuri e obiettivi elementi indiziari che ne sorreggano, per un verso, la corretta formulazione da parte del pubblico ministero e, per altro verso, la successiva, rigorosa verifica dei presupposti da parte del giudice, chiamato ad autorizzare le relative operazioni intercettative. Nelle ipotesi di reati di criminalità organizzata, quindi, la gravità oggettiva degli indizi degrada a “sufficienza indiziaria”, atteso che, per i suindicati delitti, connotati da grave allarme sociale, lo spirito del legislatore è quello di ritenere prevalente l’esigenza di tutela della collettività rispetto alla garanzia dei diritti dei singoli alle comunicazioni[213]. Sempre in tema di intercettazioni telefoniche relative a reati di criminalità organizzata ai sensi della l. n. 203/1991, la successiva giurisprudenza di legittimità[214] ha in più occasioni ribadito che la motivazione dei decreti autorizzativi, nel chiarire le ragioni della sussistenza dei presupposti che legittimano il ricorso a detto intrusivo mezzo di ricerca della prova, deve necessariamente spiegare le ragioni che impongono l’intercettazione di una determinata utenza telefonica, che fa capo a una specifica persona, indicando la base indiziaria del reato per il quale si procede e il collegamento tra l’indagine in corso e la persona che si intende intercettare, affinché possa esserne verificata, alla luce del complessivo contenuto informativo e argomentativo del provvedimento, l’adeguatezza del mezzo rispetto alla funzione di garanzia prescritta dall’art. 15, comma 2, Cost. Siffatto onere motivazionale si attenua nelle ipotesi in cui si faccia riferimento a reati di criminalità organizzata e il destinatario dell’intercettazione sia un soggetto indagato (e non una persona terza, non indagata). In tali casi, infatti, ciò che deve essere verificato è la consistenza dell’ipotesi accusatoria, della qualificazione del fatto ipotizzato, della struttura della base indiziaria, prescindendo dal quantum di colpevolezza; si tratta di una verifica che deve essere compiuta in relazione all’indagine nel suo complesso e non con riguardo alla responsabilità di ciascun indagato[215]. In altri termini, in queste ultime ipotesi, il giudizio prognostico che deve effettuare il magistrato è sulla probabilità che sia stato commesso uno dei reati previsti per legittimare un’intercettazione e, ovviamente, il vaglio del giudice dev’essere eseguito in modo idoneo a indicare l’attendibilità della fattispecie probatoria e la necessità del mezzo di ricerca della prova de quo

Un’ultima osservazione sulla attitudine delle intercettazioni a consentire la raccolta di elementi di prova per reati ulteriori rispetto a quelli per i quali sono autorizzate.

Il dl 30 dicembre 2019, n. 161, conv. con mod. dalla l. n. 7/2020, ha modificato l’art. 270, comma 1, cpp, stabilendo che «i risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati in procedimenti diversi da quelli nei quali sono stati disposti, salvo che risultino rilevanti e indispensabili per l’accertamento dei delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza e dei reati di cui all’art. 266, comma1»[216]. Con il decreto in questione si è modificato anche l’art. 270, comma 1-bis, cpp, stabilendo che i risultati delle intercettazioni tra presenti operate con captatore informatico su dispositivo elettronico portatile possono essere utilizzati anche per la prova di «reati diversi» da quelli per i quali è stato emesso il decreto di autorizzazione, sempre che si tratti di risultati indispensabili per l’accertamento di uno dei delitti indicati dall’art. 266, comma 2-bis, cpp[217]. Con riferimento all’art. 270 cpp e, più specificamente, al tema delle modifiche apportate al primo comma di detto articolo in sede di conversione dalla l. n. 7/2020, che hanno sostanzialmente ampliato l’ambito della deroga al divieto di utilizzabilità delle intercettazioni disposte in altro procedimento, aggiungendo all’accertamento dei delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza anche l’accertamento dei reati di cui all’art. 266, comma 1 dello stesso codice, la Corte di cassazione ha già chiarito che la disciplina sopravvenuta non è applicabile alle intercettazioni disposte e autorizzate prima della data del 31 agosto 2020»[218].

Nel caso di provvedimenti autorizzativi precedenti alla data del 31 agosto 2020, al fine della verifica dell’utilizzabilità delle captazioni, è necessario far riferimento alla disciplina previgente e ai principi fissati dalle sezioni unite (sent. n. 51/2020, Cavallo), che hanno stabilito che «in tema di intercettazioni, il divieto di cui all’art. 270 cod. proc. pen. di utilizzazione dei risultati delle captazioni in procedimenti diversi da quelli per i quali le stesse siano state autorizzate – salvo che risultino indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza – non opera con riferimento agli esiti relativi ai soli reati che risultino connessi, ex art. 12 cod. proc. pen., a quelli in relazione ai quali l’autorizzazione era stata “ab origine” disposta, sempreché rientrino nei limiti di ammissibilità previsti dall’art. 266 cod. proc. pen.». Si è spiegato che la connessione ex art. 12 cpp «riguarda i procedimenti, tra i quali esiste una relazione in virtù della quale la regiudicanda oggetto di ciascuno viene, anche in parte, a coincidere con quella oggetto degli altri: si tratta di ipotesi che il nuovo codice di rito pone a base di un criterio attributivo della competenza autonomo e originario (ex plurimis, Sez. U., n. 27343 del 28/02/2013, Taricco, Rv. 255345)». Secondo le sezioni unite, il carattere originario della connessione ex art. 12 cpp rende ragione del rilievo dottrinale secondo cui essa è un riflesso della connessione sostanziale dei reati: con specifico riferimento al caso di connessione di cui alla lett. c dell’art. 12 cit., in particolare, si è rilevato come esso si fondi su un «legame oggettivo tra due o più reati» (sez. unite, 26 ottobre 2017, n. 53390, Patroni Griffi, Rv. 271223), un legame, dunque, indipendente dalla vicenda procedimentale. Analoga connessione sostanziale – prima ancora che processuale – sussiste in presenza, oltre che di un concorso formale di reati, di un reato continuato (lett. b), in considerazione del requisito del medesimo disegno criminoso, per la cui integrazione è necessario «che, al momento della commissione del primo reato della serie, i successivi fossero stati realmente già programmati almeno nelle loro linee essenziali (Cass. SU, n. 28659 del 18/05/2017, Gargiulo, Rv. 270074)». In caso di imputazioni connesse ex 12 cpp, dunque, il procedimento relativo al reato per il quale l’autorizzazione è stata espressamente concessa non può considerarsi “diverso” rispetto a quello relativo al reato accertato in forza dei risultati dell’intercettazione. La parziale coincidenza della regiudicanda oggetto dei procedimenti connessi e, dunque, il legame sostanziale – e non meramente processuale – tra i diversi fatti-reato consente di ricondurre ai «fatti costituenti reato per i quali in concreto si procede» (Corte cost., sent. n. 366/1991), di cui al provvedimento autorizzatorio dell’intercettazione, anche quelli oggetto delle imputazioni connesse, accertati attraverso i risultati della stessa intercettazione: il legame sostanziale tra essi, infatti, esclude che l’autorizzazione del giudice assuma la fisionomia di un’autorizzazione “in bianco”. Soluzione questa che, d’altra parte, attiene alle ipotesi in cui, rispetto al fatto-reato per cui sono state autorizzate le intercettazioni, emergano fatti-reato “diversi”. Ne deriva che, al fine di stabilire se il “diverso reato” sia connesso rispetto a quello autorizzato, si deve avere riguardo all’oggetto della regiudicanda, nel senso che deve esserci una parziale coincidenza della regiudicanda e, dunque, un legame sostanziale – e non meramente processuale – tra i diversi fatti. In particolare, la connessione di cui all’art. 12, lett. b, cpp sussiste se vi è il requisito del medesimo disegno criminoso, per la cui integrazione è necessario «che, al momento della commissione del primo reato della serie, i successivi fossero stati realmente già programmati almeno nelle loro linee essenziali».

Venendo alla materia che impegna, è di interesse esaminare l’applicazione di questi principi in un’evenienza nella quale gli esiti delle conversazioni intercettate costituivano parte significativa del compendio indiziario considerato dai giudici di merito nel disporre e confermare il sequestro per reati tributari ex art. 3 d.lgs n 74/2000. Dalle conversazioni era stata desunta l’esistenza del prezziario occulto usato dall’amministratore di fatto di una società, allo scopo di occultare, a fine di evasione, parte del corrispettivo delle vendite immobiliari concluse dalla società, corroborando l’affermazione della sussistenza di indizi di occultamento di ricavi attraverso mezzi fraudolenti, costituiti dalla stipula di contratti preliminari di vendite immobiliari con l’indicazione dell’effettivo prezzo pattuito, dal successivo pagamento in contanti e senza emissione di fattura della differenza tra il prezzo reale e quello chesarebbe stato indicato nell’atto pubblico di trasferimento, dalla distruzione del contratto preliminare e dalla redazione di un nuovo contratto con l’indicazione del minor prezzo da far comparire nel definitivo. Gli esiti di tali intercettazioni erano stati ritenuti utilizzabili dal tribunale sulla base del rilievo che le operazioni di intercettazione erano state autorizzate in diversi procedimenti nei confronti del medesimo amministratore e altri per i reati di cui agli artt. 416 e 319 cp, per i quali le intercettazioni erano consentite dall’art. 266 cpp, in considerazione dell’esistenza di gravi indizi della costituzione di una associazione volta alla realizzazione di reati contro la pubblica amministrazione, e del fatto che i reati tributari in relazione ai quali era stato disposto il sequestro erano emersi nel corso delle indagini relative a tale procedimento. In particolare, il tribunale aveva ritenuto che «le intercettazioni, legittimamente autorizzate nei casi di cui all’art. 266 c.p.p., in relazione a uno o più reati, sono utilizzabili anche per gli eventuali altri reati oggetto del medesimo procedimento che emergano nel corso delle indagini, senza che a tal fine debbano ricorrere le condizioni previste dall’art. 270 c.p.p. Ciò in quanto l’identità del procedimento sussiste ove, tra i reati della originaria notizia di reato – alla base dell’autorizzazione all’intercettazione – e quelli diversi per cui si procede, sussista una connessione o collegamento d’indagine sotto il profilo oggettivo, probatorio o finalistico». La circostanza che i reati tributari fossero stati commessi nel medesimo contesto di quello associativo e di quelli contro la pubblica amministrazione aveva, quindi, determinato il tribunale a rilevare la sussistenza di una connessione «tanto sotto il profilo oggettivo, quanto dal punto di vista finalistico» e a ritenere, quindi, utilizzabili gli esiti delle intercettazioni autorizzate in detto procedimento solamente in relazione al reato associativo e a quelli contro la p.a. Per contro, la Cassazione ha ritenuto le considerazioni svolte dal tribunale non idonee a giustificare l’affermazione dell’utilizzabilità degli esiti delle intercettazioni disposte in relazione ai reati di cui agli artt. 416 e 319 cp, anche con riferimento al reato tributario contestato al medesimo amministratore, di cui erano emersi gli indizi nel corso delle indagini relative a tali primi reati, e in relazione al quale era stato disposto il sequestro oggetto della richiesta di riesame respinta con l’ordinanza impugnata[219].

Per quanto riguarda, anzitutto, la medesimezza del procedimento penale, che sarebbe derivata dal fatto che i reati tributari erano stati iscritti a carico dell’indagato nel medesimo procedimento relativo al reato associativo e a quelli contro la p.a., e nel quale per detti reati erano state autorizzate le operazioni di intercettazione, tale circostanza non consentiva, di per sé, di ritenere che le intercettazioni non fossero state autorizzate in un diverso procedimento e che quindi non operassero i limiti di utilizzabilità di cui all’art. 270 cpp. La circostanza che il procedimento penale fosse formalmente il medesimo, per essere la notizia di reato relativa ai reati tributari emersa nel corso delle indagini relative al reato associativo e ai reati contro la p.a., non consentiva infatti di ritenere che si tratti dello stesso procedimento e che, quindi, non operasse il divieto di utilizzabilità che si applica agli esiti delle intercettazioni autorizzate in altro procedimento. Ciò che rileva, infatti, al fine di ravvisare l’identità o meno dei procedimenti, e la conseguente operatività o meno di detto divieto, è la notizia di reato, nel senso che per procedimenti diversi devono intendersi quelli instaurati in relazione a una notizia di reato che deriva da un fatto storicamente diverso da quello oggetto dell’indagine nel corso della quale il mezzo di ricerca della prova sia stato ab origine autorizzato, anche se tale fatto sia emerso dallo svolgimento delle stesse intercettazioni, a meno che tra i fatti-reato, nonostante la differenza storica, sussista una connessione ex art. 12 cpp e non semplicemente un collegamento ex art. 371, comma 2, lett. b e c, cpp sotto il profilo oggettivo, probatorio e finalistico[220].

Ora, nel caso in esame, il solo dato dell’identità del procedimento penale non consentiva, di per sé, di ritenere che il procedimento penale fosse il medesimo, cioè che traesse origine dalla medesima notizia di reato e non, invece, da un fatto storicamente diverso. Sulla base di quanto esposto nell’ordinanza impugnata, i reati tributari contestati derivavano da una notizia di reato che non sembrava, allo stato, avere alcuna attinenza con quella relativa al reato associativo e ai reati contro la p.a., che aveva determinato l’avvio del procedimento penale e in relazione alla quale erano state autorizzate le intercettazioni, cosicché il solo dato formale dell’iscrizione della notizia di reato relativa ai reati tributari emersi nel corso delle indagini relative ai primi reati in tale procedimento non consentiva di ravvisare l’identità o la medesimezza del procedimento e, quindi, di escludere l’operatività del divieto di cui all’art. 270 cpp. Tale divieto non opera, come chiarito dalle sezioni unite nella citata sentenza Cavallo, con riferimento agli esiti relativi ai soli reati che risultino connessi, ex art. 12 cpp, a quelli in relazione ai quali l’autorizzazione sia stata ab origine disposta, sempreché rientrino nei limiti di ammissibilità previsti dall’art. 266 cpp. Tale rapporto ricorre quando il reato per cui si procede sia stato commesso da più persone in concorso o cooperazione fra loro, o se più persone con condotte indipendenti hanno determinato l’evento; se una persona è imputata di più reati commessi con una sola azione od omissione ovvero con più azioni od omissioni esecutive di un medesimo disegno criminoso; se dei reati per cui si procede gli uni sono stati commessi per eseguire o per occultare gli altri. Alla luce del chiarimento fornito dalle sezioni unite (sempre in Cavallo), per ravvisare il rapporto di connessione non è sufficiente un mero collegamento probatorio tra il reato per il quale sono state disposte le intercettazioni e quello in relazione al quale vorrebbero utilizzarsene gli esiti, occorrendo un legame originario e sostanziale, necessario a ricondurre anche il secondo reato al provvedimento autorizzatorio e, quindi, a escludere l’operatività del divieto probatorio di cui all’art. 270 cpp. In un successivo intervento sulla medesima vicenda processuale, la Cassazione (sez. IV, n. 28276/2022) ha precisato che «per ipotizzare l’unicità del disegno criminoso fra le corruzioni ed i reati fiscali è necessario, così come in ogni ipotesi di reato continuato, che sin dal momento della commissione del primo reato della serie, i successivi fossero stati realmente già programmati almeno nelle loro linee essenziali, non essendo sufficiente, a tal fine, valorizzare l’omogeneità delle violazioni e del bene protetto, la contiguità spazio-temporale, le singole causali, le modalità della condotta, se i successivi reati risultino comunque frutto di determinazione estemporanea, di contingenze occasionali, di complicità imprevedibili (Sez. U., n. 28659 del 18/05/2017, Gargiulo, Rv. 270074» (enfasi aggiunte). 

 

 

*  Testo riveduto e aggiornato della relazione L’efficienza investigativa nel contrasto dei reati tributari: tra norme definitorie, regole probatorie e fenomeni di evasione penale, tenuta in data 11 luglio 2023 dall’Autore al corso P23050 su “I Reati Tributari”.

1. Per un quadro completo delle principali banche dati utilizzate in campo economico-finanziario nonché degli applicativi informatici, alcuni autonomamente sviluppati dalla Guardia di Finanza (fra cui A.M.I.C.O., A.M.I.C.O. plus, S.I.VA.2, C.E.TE., S.C.O.P.R.O., S.I.A.C., S.I.A.F., S.I.R.O., A.F.IVA), altri acquisiti dalle agenzie fiscali, si rinvia alla circolare n. 1/2018 del 27 novembre 2017 della GdF («Manuale operativo in materia di contrasto all’evasione e alle frodi fiscali»), con particolare riferimento alla parte I, cap. 6, par. 7. Tra le banche dati di uso più frequente, si citano: RADAR (“Ricerca e Analisi Decisionale per l’Accertamento dei Redditi”); A.R.C.A. WEB (“Analisi di rischio contribuenti anomali”); SO.NO.RE. (“Soggetti Non Residenti”); Spesometro integrato; Infocamere; Sis.Ter. (“Banca dati del Sistema Informativo del Territorio”); E.B.R. (“European Business Register”); Orbis; Mint Global; Mint Italy; Legilux; Infocamere/Telemaco; R.e.t.i. (“Richiesta Elenchi Titolari di Partita IVA”); Anagrafe Tributaria, in tema di esterovestizione e stabile organizzazione; TP Catalyst, in materia di transfer price; S.I.A.F. (“Sistema Informativo Anti-Frode”), S.I.Va. 2 (“Sistema Informativo Valutario”), S.I.R.O. (“Supporto Informativo Ricerche Operative”), Anagrafe Tributaria - Ser.P.I.Co. (“Servizio. Per le Informazioni sul Contribuente”), Molecola. 

2. La direttiva UE 2017/1371, nota come “direttiva PIF”, relativa alla lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione mediante il diritto penale, obbliga gli Stati membri: a sanzionare penalmente le frodi lesive degli interessi finanziari dell’Unione europea identificate – secondo quanto stabilito dall’art. 3, § 2, rispettivamente alle lettere a e b e alle lettere c e d – nelle frodi in materia di spese, ripartite in frodi in materia di spese non relative e relative agli appalti, e nelle frodi in materia di entrate, a loro volta distinte in frodi in materia di entrate non derivanti e derivanti dalle risorse provenienti dall’IVA; ad adottare le misure necessarie rispetto agli altri reati lesivi degli interessi finanziari dell’Unione individuati – ai sensi dell’art. 4 – nel riciclaggio, nella corruzione passiva e attiva e nell’appropriazione indebita; a intervenire su alcune disposizioni generali relative – come previsto dal titolo III – alla frode e agli altri reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione, con particolare riguardo a istigazione, favoreggiamento, concorso di persone e tentativo, responsabilità da reato degli enti, confisca e termini di prescrizione. Per un quadro generale sul contenuto della direttiva PIF, cfr. E. Basile, Brevi note sulla nuova direttiva PIF, in Dir. pen. cont., n. 12/2017, p. 63; S.M. Ronco, Frodi ‘gravi’ IVA e tutela degli interessi finanziari dell’Unione Europea: quali ricadute nell’ordinamento interno alla luce della direttiva 2017/1371 del 5 luglio 2017, in Arch. pen., n. 3/2017 (file:///C:/Users/avvst/Downloads/web.11.2017.Dall’Europa.Direttiva.Ronco.pdf). Per una riflessione sul processo di “europeizzazione del diritto penale”, M. Lanotte, Sistema penale-tributario per la protezione degli interessi finanziari europei: adeguato e rispondente agli obblighi comunitari?, in Sist. pen., n. 3/2021, p. 109. 

3. G.L. Gatta, “Tregua fiscale” e nuova causa di non punibilità dei reati tributari attivabile fino al giudizio d’appello. E il PNRR?, in Sist. pen., 12 aprile 2023.

4. G. Salvi, La giurisdizione, la questione del cyberspace e della sovranità digitale europea, in Aa.Vv., Criminalità informatica e Intelligenza artificiale, in Quaderno della Rivista Trimestrale della Scuola di Perfezionamento per le Forze di Polizia, II/2022, p. 9.

5. Sia consentito il rinvio a F. Di Vizio, Questioni controverse e mito della certezza in materia di frodi fiscali, in DisCrimen, 20 luglio 2018, elaborato nel quale – ripercorrendo il presupposto di imposta, i soggetti passivi, la base imponibile, i criteri di determinazione di essa, il sistema di liquidazione dell’imposta dovuta – si offre un quadro di sintesi utile per l’individuazione della nozione di debito di imposta presupposta dal d.lgs n. 74/2000 e di inadempimento di esso, base delle fattispecie penali esaminate in questo scritto. 

6. Tra i tributi, l’imposta identifica un prelievo coattivo di ricchezza per soddisfare bisogni pubblici, al di fuori di una diretta relazione sinallagmatica, all’incontrario caratteristica delle tasse (corrispettivi dovuti dal cittadino alla p.a. in ragione di un servizio o di un bene al medesimo fornito dalla prima) o di beneficio diretto e indiretto, propria dei contributi (prelievi coattivi finalizzati all’esecuzione di un’opera pubblica e giustificati per il beneficio, almeno indiretto, che proverrà da essa al soggetto passivo); le imposte finanziano genericamente una serie di beni e servizi che la pubblica amministrazione mette a disposizione della collettività. Mentre le imposte dirette gravano “direttamente” il reddito o il patrimonio del soggetto passivo e sono dovute per il solo fatto del possesso del primo o della detenzione del secondo, quali manifestazioni espresse e immediate della capacità contributiva del soggetto passivo, le imposte indirette interessano le manifestazioni indirette di essa, incidendo sull’utilizzo in ambiente sociale (trasferimento o consumo) della ricchezza.

7. L’imposta regionale sulle attività produttive esercitate nel territorio della regione ha carattere reale e non è deducibile ai fini delle imposte sui redditi (art. 1 d.lgs n. 446/1997). Il presupposto dell’imposta è «l’esercizio abituale di una attività autonomamente organizzata diretta alla produzione o allo scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi» (art. 2 d.lgs n. 446/1997). L’imposta si applica sul valore della produzione netta derivante dall’attività esercitata nel territorio della regione (art. 4 d.lgs n. 446/1997), determinata secondo i criteri definiti dagli artt. 5-12 d.lgs n. 446/1997.

8. Cass., sez. III, n. 12810/2016, Monaco, Rv. 266486, esclude che l’IRAP sia un’imposta sui redditi in senso tecnico (Id., n. 11147/2012, Prati, Rv. 252359, e nn. 47107/2018, 39678/2018, 37855/2017).

9. Cass., sez. III, n. 5177/2015 aderisce a tale opinione, ritenendo che il rapporto tra il delitto di truffa e quello contemplato dalla disposizione tributaria vada risolto in termini di concorso apparente di norme a favore di quest’ultima, come già ritenuto in passato (Cass., sez. II, n. 35968/2009, Cecconi, Rv. 245586), riferibile anche alle compensazioni riguardanti crediti previdenziali (cfr. Cass., sez. II, n. 22191/2014, Libertone, Rv. 259578, in linea con sez. unite, n. 1235/2011, Giordano, Rv. 248865).

10. Cass., n. 42462/2010, Rv. 248754; Cass., n. 27992/2020. Da ultimo: Cass., n. 22372/2023; Cass., n. 552/2023, per la quale il reato di indebita compensazione di cui all’art. 10-quater d.lgs n. 74/2000 riguarda l’omesso versamento di somme di denaro attinente a debiti sia tributari sia di altra natura, per il cui pagamento debba essere utilizzato il modello di versamento unitario (Cass.: sez. III, n. 23083 del 22 febbraio 2022, Beoni, Rv. 283236; n. 389/2021, Scalvini, Rv. 280776; n. 13149/2020, Bonelli, Rv. 279118 - 01; n. 8689/2019, Dalla Torre, Rv. 275015; n. 5934/2019, Giannino, Rv 275833), così superando il precedente contrario orientamento espresso in una sola occasione (Cass., sez. I, n. 38042/2019, Santoro, Rv. 278825). Richiamando l’art. 17 d.lgs 9 luglio 1997, n. 241, rende applicabile la fattispecie anche alle ipotesi di indebita compensazione tra crediti risultanti da dichiarazioni fiscali e altre imposte, contributi previdenziali e assistenziali, premi INAIL e altre somme dovute allo Stato, alle Regioni, agli enti locali o ad altri enti. Per un recente commento, C. Santoriello, Confermata l’indebita compensazione per debiti previdenziali ed assistenziali, in Fisco, 2022, n. 40, p. 3873, nota a Cass. pen., sez. feriale, 16 agosto 2022, n. 33893. Sul tema cfr. anche M. Basilavecchia, Credito ‘riportato’ ma inesistente: rilevanza penale dell’utilizzo, in Corr. trib., n. 3/2011, p. 212; A. Scarcella, Estensibilità del reato di indebita compensazione di crediti IVA anche ai casi di compensazione ‘verticale’, in Riv. dir. trib., 2011, p. 137; A. Perrone, Limiti di applicabilità del reato previsto dall’art. 10-quater del D.Lgs. n. 74/2000: un opinabile orientamento della Suprema Corte, ivi, p. 142.

11. Per le imposte sui redditi, tali presupposti sono il possesso dei redditi in denaro o in natura da parte delle persone fisiche, soggetti assimilati e delle società di capitali; per l’IVA, le cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate nel territorio dello Stato nell’esercizio di imprese o di arti e professioni e le importazioni da chiunque effettuate.

12. Le situazioni di fatto scaturigini dell’obbligazione tributaria rilevano in quanto riconosciute da norme tributarie, che a loro volta definiscono il soggetto passivo, l’imponibile, le aliquote, i criteri di classificazione, di imputazione, con ulteriori forme e contenuti di rilievo giuridico.

13. R. Lupi, Sperequazioni tra violazioni riguardanti l’imponibile e violazioni riguardanti la sola imposta, in Aa.Vv., Fiscalità di impresa e reati tributari, Il Sole 24 Ore, Milano, 2000.

14. E. Mastrogiacomo, Osservazioni sul “protocollo di intesa” di Trento sui nuovi reati tributari, in Fisco, n. 12/2002, p. 1830; in precedenza, riteneva estranee alla fattispecie le falsità aventi ad oggetto elementi (quali, gli oneri detraibili di cui all’art. 13-bis TUIR, le ritenute, i crediti d’imposta e i versamenti a saldo e in acconto) che incidevano nella fase di liquidazione del tributo, dopo la determinazione del reddito complessivo (al netto degli oneri deducibili) o della base imponibile IVA.

15. La relazione di accompagnamento dei contenuti del d.lgs n. 158/2015, senza prendere posizioni, ha giustificato l’inciso riferendolo a titolo esemplificativo ai «crediti d’imposta ed alle ritenute», in modo da «evitare rischi in termini di incertezze interpretative e di possibili lacune».

16. La disciplina dei rapporti tra processo penale e processo tributario è stata governata per lungo tempo dal principio della cd. “pregiudiziale tributaria” sancito dall’art. 21, ult. comma, l. 7 gennaio 1929, n. 4, in forza del quale non si poteva dar corso all’azione penale prima che l’accertamento tributario fosse divenuto definitivo. Tale regola aveva vantaggi, ma anche indubbi difetti. Da un lato, si giustificava per la complessità tecnica dell’accertamento dei tributi che sconsigliava l’attribuzione al giudice penale, ritenuto privo delle conoscenze specialistiche; dall’altro, se garantiva certezza e coerenza all’accertamento giurisdizionale in campo tributario, impedendo il formarsi di giudicati contraddittori sul medesimo oggetto processuale, rallentava l’azione penale e produceva una sostanziale inefficacia della relativa sanzione a causa delle lungaggini del rito tributario. L’art. 12, comma 1, l. 7 agosto 1982, n. 516 (cd. “manette agli evasori”), nel contesto di una diversa linea di politica criminale, prevalentemente orientata a perseguire fattispecie prodromiche all’evasione d’imposta, ha introdotto il principio del “doppio binario”, disponendo, in deroga all’art. 3 del previgente cpp, che il processo tributario non poteva essere sospeso in pendenza del processo penale.

17. Cass., sez. III, n. 20678/2012.

18. Cass., sez. III: n. 21213/2008, Rv. 239983; n. 38684/2014, Agresti, Rv. 26038901; n. 15899/2016, Colletta, Rv. 266817.

19. Cass., sez. III, n. 24225/2023, Rv. 284693 - 01 (fattispecie relativa al reato di omesso versamento dell’IVA, in cui si è ritenuta corretta la decisione che, nel determinare l’imposta evasa, aveva fatto riferimento al calcolo eseguito dall’Agenzia delle entrate, recepito dalla commissione tributaria territoriale). Cfr. Cass., sez. III, n. 8319/1994, Rv. 198777 - 01.

20. Cass., sez. III, n. 37094/2015, Granata, Rv. 265160.

21. Cass., sez. III: n. 2246/1996, Zullo, Rv. 205395; n. 7078/2013, Piccolo, Rv. 254852.

22. Cass., nn. 40412/2019 e 40235/2018.

23. Circ. 10 novembre 2015, n. 331248. D.lgs 24 settembre 2015, n. 158, concernente la Revisione del sistema sanzionatorio - Preliminari direttive operative, Comando generale della Guardia di Finanza, III Reparto operazioni - Ufficio tutela entrate - Sezione IVA e federalismo fiscale.

24. Questo l’ambito applicativo riconosciuto alla previsione, con valenza ricognitiva di un concetto già implicito nella definizione normativa, da Cass., sez. III, n. 44644/2015, per ipotesi di dichiarazione che, pur tenendo conto dei costi fittizi, pur sempre in dichiarazione di una perdita effettiva, verrebbe a risolversi.

25. A. Perini, La riforma dei reati tributari, in Dir. pen. proc., n. 1/2016, p. 11, osserva in proposito: «Piuttosto, in siffatte situazioni, la rilevanza penale di simili fenomeni di artificiosa lievitazione della perdita fiscale potrebbe affiorare allorquando il contribuente dovesse utilizzare, ai sensi dell’art. 84 T.U.I.R., la summenzionata maggiore perdita in periodi d’imposta successivi. In tale eventualità, infatti, il generico riferimento alle “componenti che incidono sulla determinazione dell’imposta dovuta” – che, come si è detto, è stato introdotto dalla riforma in seno all’art. 1, lett. b, per meglio definire gli “elementi attivi o passivi” – consente di identificare la suddetta fallace maggior perdita, proveniente da esercizi precedenti, come un “elemento passivo fittizio” suscettibile di rilevare penalmente. Tuttavia, in tal caso, a risultare integrata, a nostro giudizio, sarà di regola la fattispecie di dichiarazione infedele di cui all’art. 4, sempre che ne ricorrano gli altri elementi costitutivi e, in particolare, che siano superate le relative soglie di punibilità. Ciò in quanto l’eventuale condotta fraudolenta di supporto alla maggior perdita si manifesterebbe in un periodo d’imposta antecedente rispetto a quello di presentazione della dichiarazione “attiva”, in concreto falcidiata dal riporto della perdita fittizia. Con il risultato che, in tale esercizio, il contribuente non si avvarrebbe di un documento falso o di un mezzo fraudolento che, in realtà, risalirebbe a precedenti periodi d’imposta: dunque, egli si limiterebbe a presentare una dichiarazione infedele. È poi chiaro che una tale previsione, per la sua stessa struttura, si attaglia esclusivamente all’imposizione diretta, l’unica rispetto alla quale ha senso parlare di “perdite dell’esercizio” o di “perdite pregresse”».

26. Uff. del Massimario, rel. n. III/05/2015, Novità legislative: Decreto Legislativo n. 24 settembre 2015, n. 158, Revisione del sistema sanzionatorio, in attuazione dell’articolo 8, comma 1, della legge 11 marzo 2014, n. 23, Roma, 28 ottobre 2015.

27. La relazione del Massimario annota che il venir meno di una pregiudiziale tributaria, infatti, «non preclude la necessità che, in caso di accertamento con adesione o successivo concordato fiscale tra l’Amministrazione finanziaria ed il contribuente, per potersi discostare dal dato quantitativo convenzionalmente accertato e tener invece conto dell’iniziale pretesa tributaria dell’Erario al fine della verifica del superamento o meno della soglia di punibilità, occorre che risultino concreti elementi di fatto che rendano maggiormente attendibile l’iniziale quantificazione dell’imposta dovuta».

28. I principi passati in rassegna restano validi anche dopo la riforma introdotta con il dl n. 98/2011. Per i soggetti IRPEF rimane immutata la previsione di una traslazione della perdita limitata al quinquennio, mentre per i soggetti IRES questo limite temporale è stato abrogato e sostituito da una restrizione quantitativa nell’utilizzo delle perdite (l’80% del reddito imponibile compensabile). Altri vincoli al riporto sono stati disposti dal legislatore in presenza di proventi esenti, in caso di applicazione di regimi di esenzione del reddito o dell’utile e nei casi di esclusione previsti dall’art. 84 TUIR. Un regime differenziato, inoltre, è previsto per le operazioni straordinarie, il regime della trasparenza fiscale e il consolidato fiscale nazionale.

29. Per la sentenza n. 7294/2012 della Cassazione, invece, l’indicazione nella dichiarazione dei redditi costituirebbe espressione di volontà negoziale cui sarebbe condizionato il diritto all’utilizzo della perdita.

30. Secondo la giurisprudenza tributaria di legittimità (ex multis, Cass. civ., sez. unite, n. 15063/2002; n. 8153/2003; sez. V, n. 15452/2010), la dichiarazione dei redditi del contribuente affetta da errore, sia esso di fatto che di diritto, commesso dal dichiarante nella sua redazione, alla luce del dPR n. 600/1973 è – in linea di principio – emendabile e ritrattabile quando dalla medesima possa derivare l’assoggettamento del dichiarante a oneri contributivi diversi e più gravosi di quelli che, sulla base della legge, devono restare a suo carico. Ciò in quanto la dichiarazione dei redditi non ha natura di atto negoziale e dispositivo, ma reca mera esternazione di scienza e di giudizio, modificabile in ragione dell’acquisizione di nuovi elementi di conoscenza e di valutazione sui dati riferiti, e costituisce un momento dell’iter procedimentale volto all’accertamento dell’obbligazione tributaria. Per la Cassazione, un sistema legislativo che intendesse negare in radice la rettificabilità della dichiarazione darebbe luogo a un prelievo fiscale indebito e, pertanto, non compatibile con i principi costituzionali della capacità contributiva (art. 53, comma 1, Cost.) e dell’oggettiva correttezza dell’azione amministrativa (art. 97, comma 1., Cost.). Tale emendabilità lascia, inoltre, impregiudicato il diritto del contribuente di contestare l’imposizione anche davanti al giudice tributario (Cass., n. 3304/2004). Una diversa tesi verrebbe a collidere con i principi di ragionevolezza, di capacità contributiva e imparzialità della p.a., in quanto, pur nell’esercizio dei suoi poteri di accertamento, l’Erario è tenuto all’osservanza di tali principi e, pertanto, così come accerta un maggior reddito, deve anche tenere conto della mancata parziale utilizzazione delle perdite relative a esercizi precedenti, purché comprese nel quinquennio, in quanto il fine degli organi tributari è accertare il tributo effettivamente dovuto, in osservanza di tutte le previsioni di legge. Né l’interpretazione restrittiva (alla cui stregua la compensazione tra la perdita fiscale non utilizzata e il maggior reddito accertato ai fini dell’imposta sui redditi delle persone giuridiche non potrebbe essere considerata poiché il contribuente può usufruirne solo se l’ha richiesta in sede di dichiarazione e non ope legis, onde, una volta che il contribuente ne ha usufruito solo parzialmente, una volta accertato un maggior reddito non si potrebbe far luogo alla compensazione) trova fondamento nella lettera della norma che genericamente prevede, per le società ed enti commerciali, il computo in diminuzione dal reddito complessivo dei periodi d’imposta successivi delle perdite di esercizi precedenti, con l’unica condizione che tali perdite siano compensate entro il quinquennio. Peraltro, l’art. 102 dPR n. 600/1973 fa solo generico riferimento al reddito, senza alcun cenno specifico al reddito dichiarato né, tanto meno, a quello accertato. Onde, il principio che «in tema di imposta sul reddito delle persone giuridiche, la possibilità, prevista dall’art. 102 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (numerazione anteriore a quella introdotta dal d.lgs. 12 dicembre 2003, n. 344), di computare la perdita di un periodo di imposta in diminuzione del reddito complessivo di quelli successivi, ma non oltre il quinquennio, non presuppone necessariamente che la relativa richiesta sia avanzata dal contribuente nella dichiarazione dei redditi, dovendo essere presa in considerazione anche in sede di rettifica da parte dell’Ufficio – come peraltro si evince dalla norma, che fa solo generico riferimento al reddito, senza alcun cenno specifico a quello dichiarato od accertato – in quanto, così come la dichiarazione affetta da errore è, in linea di principio, emendabile e ritrattabile se da essa derivi l’assoggettamento del dichiarante ad oneri contributivi diversi e più gravosi di quelli che, secondo la legge, devono restare a suo carico, allo stesso modo l’Erario, dovendo osservare i principi di ragionevolezza, capacità contributiva ed imparzialità della P.A., è tenuto ad accertare il tributo effettivamente dovuto ed ha, quindi, l’obbligo di procedere a compensazione tra il maggior reddito accertato e la perdita fiscale non utilizzata, nei limiti consentiti dall’art. 102 cit., potendovi altrimenti provvedere il giudice tributario di merito in caso di omissione». 

31. In tal senso, cfr. risoluzione ministeriale n. 10/1429 del 5 novembre 1976; risoluzione dell’Agenzia delle entrate n. 152/E del 4 ottobre 2011, con qualche dubbio per il consolidato fiscale come confermato dalla risoluzione n 168/E/2007; CTP di Milano, sez. VII, 21 settembre 2011, n. 206.

32. Cfr. risoluzione ministeriale n. 10/1429 del 5 novembre 1976; Cass.: nn. 19081/2005, 2477/2013, 6663/2014; circolare Agenzia delle entrate n. 188/E del 16 luglio 1998.

33. A. Carinci e D. Deotto, D.lgs. 5 agosto 2015, n. 128 - Abuso del diritto ed effettiva utilità della novella: much ado about nothing? (commento alla normativa), in Fisco, nn. 32-33/2015, p. 3107. 

34. Un primo orientamento della Cassazione appariva contrario al riconoscimento del rilievo penale dell’abuso del diritto fiscale (Cass., sez. III, n. 14486/2009). Prima della sentenza n. 7739/2012, la Cassazione si era espressa in senso favorevole con la pronuncia Ledda (Cass., sez. III, n. 26723/2011, Rv. 250958), oltre che con la pronuncia Castagnara (Cass., sez. III, n. 29724/2010, Rv. 248109). Dopo la sentenza n. 7739/2012 della II sez. penale della Cassazione, la situazione della giurisprudenza pareva essersi consolidata nel senso del riconoscimento della rilevanza penale dell’elusione fiscale legislativamente (pre-)tipizzata, secondo il seguente principio di diritto: «non qualunque condotta elusiva ai fini fiscali può assumere rilevanza penale, ma solo quella che corrisponde ad una specifica ipotesi di elusione espressamente prevista dalla legge» – cfr. Cass.: sez. III, nn. 19100/2013 e 33187/2013; sez. V, n. 36894/2013; sez. IV, n. 7615/2014. Cass., sez. IV, n. 3307/2015, Rv. 262026 - 01, aveva affermato che in materia tributaria nulla ostava, a livello di ordinamento nazionale ed Europeo, alla rilevanza penale dell’abuso del diritto, in ragione del rispetto del principio di capacità contributiva (art. 53 Cost., comma 1) e del principio di progressività dell’imposizione (art. 53 Cost., comma 2), dovendosi desumere da tali principi che il contribuente non poteva trarre indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo in modo distorto di strumenti giuridici idonei a ottenere un risparmio fiscale in mancanza di ragioni economicamente apprezzabili che possano giustificare l’operazione: «Dal divieto di abuso del diritto discende, dal punto di vista tributario, l’inopponibilità all’Amministrazione finanziaria, per ogni profilo di indebito vantaggio tributario che il contribuente pretenda di far discendere dall’operazione elusiva, del negozio utilizzato per ottenere un’agevolazione o un risparmio di imposta. Mentre, dal punto di vista penale, discende la rilevanza penale delle condotte elusive in materia fiscale che siano idonee a determinare una riduzione o una esclusione della base imponibile, e ciò senza che possa ipotizzarsi alcun contrasto con il principio di legalità: infatti, se tale principio non consente la configurabilità della generale fattispecie della truffa, non è invece ostativo alla configurabilità degli illeciti speciali tributari, basati sulla dichiarazione fiscale e sull’infedeltà contributiva, rispetto a quelle condotte che siano idonee a determinare elusivamente una riduzione o una esclusione della base imponibile (Sezione 3^, 6 marzo 2013, Proc. Rep. Trib. Roma in proc. Bova)».

35. Art. 10-bis, comma 13, l. n. 212/2000: «Le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie. Resta ferma l’applicazione delle sanzioni amministrative tributarie».

36. Cfr. Rv. 264949.

37. Cass., sez. III, n. 40272/2015, Mocali, Rv. 264949.

38. Fattispecie in cui l’esposizione in dichiarazione di elementi passivi nel reddito di impresa a seguito di un contratto di stock lending è stata ritenuta condotta non più penalmente rilevante in quanto unicamente elusiva e, quindi, rientrante nella previsione del suddetto “ius superveniens”.

39. Cass., sez. III, n. 41755/2016 per fattispecie di dichiarazione infedele ex art. 4 d.lgs n. 74/2000 riferito all’amministratore di fatto di due società di capitali (una Srl e una Spa) cui era ascritto di aver omesso di dichiarare la plusvalenza di euro 17.259.579,45, realizzata dalla Srl vendendo attrezzature e impianti per l’irradiazione in Sicilia dei segnali televisivi. In particolare, il compendio sarebbe stato ceduto dapprima dalla Srl alla Spa (società, quest’ultima, con ingenti perdite di bilancio e anch’essa controllata dal predetto amministratore) al prezzo di 6.200.000,00 euro, e quindi, a distanza pochi giorni con contratto preliminare e di pochi mesi con contratto definitivo, dalla Spa all’acquirente finale per il prezzo complessivo di 17.500.000,00 euro. In tal modo, per le cospicue perdite di bilancio della Spa, era stata neutralizzata l’imposta che, viceversa, sarebbe stata a carico della Srl se quest’ultima avesse dovuto dichiarare integralmente la plusvalenza a lei riveniente dalla cessione dei detti beni all’acquirente finale.

40. C. Santoriello, L’abuso del diritto è ancora reato (nota a sentenza), in Fisco, n. 41/2016, p. 3985, in senso parzialmente critico, osserva: «la Cassazione pare andare troppo oltre nella qualificazione di un’operazione (non solo quale elusiva, ma anche) come fraudolenta, posto che riconnette tale qualificazione, non alla semplice inesistenza o fittizietà della vicenda, ma attribuisce rilievo anche alla circostanza che il contratto o l’atto negoziale stipulato del contribuente sia privo di sostanza economica ed abbia come unico scopo quello di giungere ad un indebito risparmio di imposta. La conclusione ci pare contraddittoria e foriera di equivoci: il discrimine fra elusione ed evasione non è dato dal fatto che la condotta del contribuente sia diretta ad ottenere un vantaggio fiscale mediante la predisposizione di configurazioni e collegamenti negoziali privi di ogni ragione imprenditoriale che non sia quella di raggiungere l’abbattimento del carico imponibile, quanto dalla circostanza che in un caso l’operazione, per quanto priva di una sua autonoma consistenza imprenditoriale, sia o meno effettivamente posta in essere – per ritornare all’esempio da noi formulato in precedenza, si parlerà di elusione laddove la società abbia comunque una sua sede all’estero, per quanto tale opzione non aggiunga nulla all’efficienza del sistema produttivo dell’azienda, mentre potrà parlarsi di evasione solo nel caso in cui, a fronte di dichiarazione circa una presunta presenza dell’impresa all’estero, nulla di ciò potrà riscontrarsi».

41. Ivi. Osserva l’A.: «Riferita questa affermazione al diritto penale tributario – e richiamando quando previsto dai nuovi artt. 1, lett. g-bis e g-ter, 3 e 4 D.Lgs. n. 74/2000 – deve concludersi nel senso che il confine fra condotte elusive, aventi ai sensi dell’art. 10-bis, comma 13, Legge n. 212/2000 rilevanza solo in sede amministrativa tributaria, e comportamenti posti in essere in violazione della legge penale è segnato dalla circostanza che il contribuente abbia o meno, nella vicenda presa in esame, posto in essere comportamenti fraudolenti, ingannevoli, mendaci nei confronti del Fisco. Se tali circostanze non sono rinvenibili nel caso di specie, allora, alla luce delle nuove formulazioni di cui agli artt., 1, lett. g-bis e g-ter, 3 e 4 D.Lgs. n. 74/2000, deve escludersi comunque la sussistenza di una fattispecie criminosa, quale che sia in sede tributaria la qualificazione che voglia darsi dell’attività negoziale posta in essere dal privato; quando invece il contribuente abbia posto in essere comportamenti dotati di tale capacità ingannatoria ricettiva nei confronti della Amministrazione finanziaria, allora è sicuramente possibile sostenere una sua responsabilità penale per i delitti di dichiarazione fraudolenta e dichiarazione mendace, anche laddove le vicende e le operazioni contrattuali falsamente rappresentate dal contribuente possano avere anche una valenza elusiva ed essere qualificate in termini di abuso del diritto in sede amministrativa».

42. Schema essenziale dell’operazione: regime agevolato di tassazione dei dividendi prodotti all’estero; regime di deduzione dei costi connessi ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi; dichiarazioni di costi (per trasferimento dei dividendi e pagamento di commissione percentuale in adempimento di scommessa) effettivamente sostenuti con esborso economico che azzera utili e plusvalenze del periodo e assicura correlativo risparmio di imposta rispetto a una plusvalenza maturata nel periodo. 

43. Schema essenziale dell’operazione: diverso trattamento fiscale delle operazioni straordinarie societarie (scissione proporzionale, conferimento di immobile alla beneficiaria, cessione delle quote di quest’ultima, poi cancellata ed estinta), in luogo della cessione di immobile da parte della società scissa con generazione di plusvalenza.

44. Cass., n. 48293/2016.

45. Schema essenziale dell’operazione: scissione societaria parziale, con conferimento di beni a società beneficiaria, cessione di quote in seno alla beneficiaria accompagnata da dichiarazione indebita di plusvalenze in esenzione parziale.

46. Ai sensi dell’art. 87, comma 1, lett. d del TUIR, «non concorrono alla formazione del reddito imponibile in quanto esenti nella misura del 95% le plusvalenze realizzate e determinate ai sensi dell’art. 86, commi 1, 2 e 3, relativamente ad azioni o quote di partecipazioni in società ed enti indicati nell’art. 5, escluse le società semplici e gli enti alle stesse equiparate, e nell’art. 73, comprese quelle non rappresentate da titoli, con i seguenti requisiti: (…) d) esercizio da parte della società partecipata di un’impresa commerciale secondo la definizione di cui all’articolo 55. Senza possibilità di prova contraria si presume che questo requisito non sussista relativamente alle partecipazioni in società il cui valore del patrimonio è prevalentemente costituito da beni immobili diversi dagli immobili alla cui produzione o al cui scambio è effettivamente diretta l’attività dell’impresa, dagli impianti e dai fabbricati utilizzati direttamente nell’esercizio d’impresa. Si considerano direttamente utilizzati nell’esercizio d’impresa gli immobili concessi in locazione finanziaria e i terreni su cui la società partecipata svolge l’attività agricola».

47. Cass., n. 38016/2017.

48. C.D. Leotta, L’abuso del diritto non esclude la dichiarazione infedele se c’è il falso ideologico, in Quotidiano giuridico, 3 ottobre 2017.

49. Cass., sez. III, n. 24152/2019, est. Scarcella, in motivazione.

50. Per la S.C., quindi, in un quadro caratterizzato dalla presenza di elementi tipici del falso, non è possibile contestare l’abuso/elusione, in quanto rappresentante una fattispecie sussidiaria che dovrà cedere innanzi a una contestazione ex art. 4 d.lgs n. 74/2000, avente origine non in un uso distorto della normativa di settore (determinante un vantaggio fiscale “indebito”), bensì dall’intrinseca illiceità dell’operazione la quale, mediante il mendacio, è tesa all’occultamento, totale o parziale, della base imponibile. Il legislatore, oltre a indicare in positivo le condotte costituenti abuso del diritto e in negativo quelle che fuoriescono da tale perimetro, opera un’importante precisazione prima di sancirne l’irrilevanza penale: il comma dodicesimo dell’art. 10-bis dispone infatti che, in sede di accertamento, l’abuso può configurarsi solo se i vantaggi di cui si discute non possono essere disconosciuti contestando la violazione di specifiche norme tributarie. Su tale puntualizzazione normativa la giurisprudenza fonda la sussidiarietà delle ipotesi abusive/elusive rispetto ai fatti connotati da fraudolenza, simulazione o, comunque, teleologicamente diretti alla creazione e utilizzo di documentazione falsa.

51. In tal senso la Relazione illustrativa del testo di revisione del sistema sanzionatorio tributario.

52. Dalla Relazione illustrativa: «Il fenomeno ora indicato è foriero di conseguenze pregiudizievoli anche in termini macroeconomici. Sul piano della “competizione tra ordinamenti”, esso rischia, infatti, di tradursi in un disincentivo alla allocazione delle imprese sul territorio italiano, stante la prospettiva che una semplice divergenza di vedute tra contribuente e organi dell’accertamento fiscale in ordine agli esiti delle operazioni valutative considerate porti, con inesorabile automatismo, all’avvio di un procedimento penale». 

53. Sono operazioni imponibili quelle alle quali è applicabile l’IVA. Esse presentano le seguenti caratteristiche: (i) sono soggette a fatturazione e registrazione sui libri IVA; (ii) concorrono alla formazione del volume d’affari, a esclusione delle cessioni dei beni ammortizzabili; (iii) permettono di recuperare l’IVA precedentemente pagata su acquisti e spese; (iv) devono essere esposte nella dichiarazione annuale IVA. Alle operazioni non imponibili non si applica l’IVA per carenza del requisito della territorialità, ma (i) sono soggette a fatturazione e registrazione, (ii) concorrono alla formazione del volume d’affari, ad esclusione delle cessioni dei beni ammortizzabili, (iii) permettono di recuperare l’IVA precedentemente pagata a monte su acquisti e spese, (iv) devono essere esposte nella dichiarazione annuale IVA. Sono tali le cessioni all’esportazione, le operazioni assimilate alle precedenti e i servizi internazionali o connessi agli scambi internazionali, le cessioni intracomunitarie ex art. 41 dl n. 331/1993. Le operazioni esenti solo disciplinate ed elencate dall’art. 10 del dPR n. 633/72 e ad esse, in ragione della natura, (i) non si applica l’IVA, (ii) sono soggette a fatturazione e registrazione nonché a dichiarazione annuale, (iii) concorrono alla formazione del volume di affari IVA, ad esclusione delle cessioni dei beni ammortizzabili, (iv) non permettono di recuperare l’IVA precedentemente pagata su acquisti e spese. Sono operazioni non soggette al campo di applicazione dell’IVA (cd. “escluse”) quelle che non rappresentano né cessioni di beni né prestazioni di servizi. Tra le caratteristiche delle operazioni escluse sono annoverabili quelle: (i) di non essere soggette al pagamento dell’imposta IVA, (ii) di non essere soggette alla fatturazione e alla registrazione sui libri IVA (ad esclusione di coloro che adottano un regime di contabilità semplificata, che dovranno computare tali operazioni nei registri IVA), (iii) di non essere incluse nel volume di affari IVA, (iv) di non permettere di recuperare l’IVA precedentemente pagata su acquisti e spese, (v) di non essere esposte in dichiarazione annuale IVA. 

54. Cass., sez. III, n. 30686/2017, Rv. 270294, in motivazione.

55. Cass., sez. III: Piccolo, cit.; n. 30890/2015, Cappellini e al., Rv. 264251.

56. Cass., sez. III, n. 42916/2022.

57. Cass., sez. III, nn. 42916/2022 e 30890/2015, Cappellini, cit.

58. Cass., sez. III, n. 24152/2019, Bitetti, Rv. 276273 - 01.

59. Cass., sez. III, n. 19333/2015, che richiama Id., n. 2246/1996, Zullo, Rv. 205395. Nel caso di specie, a fronte di una sentenza di condanna emessa dai giudici territoriali per il delitto previsto dall’art. 2 d.lgs n. 74/2000, nella quale erano stati indicati i motivi che inducevano a ritenere oggettivamente inesistenti le operazioni documentate dalle fatture contestate (la mancata produzione documentale di esse, il loro contenuto generico, l’elevata percentuale riconosciuta all’emittente nonostante l’inesperienza, la cessazione dell’attività dell’emittente e la sua cancellazione dal registro delle imprese già nel primo anno rispetto ai due in cui risultavano emesse; infine, la disponibilità da parte dell’emittente di un ulteriore numero di partita IVA utilizzato nei rapporti con società partecipi del medesimo meccanismo fraudolento), la difesa aveva censurato la valutazione del compendio indiziario svolta ai sensi dell’art. 192 cpp. La Cassazione ha rigettato il ricorso, ritenendo che i primi giudici erano pervenuti, in base a una valutazione complessiva degli elementi indiziari, a considerare provata l’inesistenza oggettiva delle operazioni sottese alle fatture emesse, «ciò in base al criterio, applicabile in sede penale, secondo cui nel momento valutativo della prova indiziaria, il procedimento induttivo deve restringersi alla regola di una necessaria derivazione logica del dato ignoto da quello noto da cui si è partiti, con la conseguenza che un’affermazione di responsabilità può essere fondata su elementi indizianti soltanto se gli stessi, partitamente indicati in motivazione ed esattamente valutati nel loro nesso logico, diano la sicura certezza dell’attribuibilità del fatto all’azione dell’imputato, nel senso che non solo venga dimostrato che il fatto può essere accaduto nel modo che si assume, ma venga altresì dimostrato che il fatto stesso non può essersi svolto in modo contrario, ciò proprio a causa dell’assenza di qualsiasi elemento documentale che la stessa difesa si era riservata di produrre sin dalla verifica fiscale a sostegno della tesi della realtà delle operazioni, rimasta sul piano delle labiali affermazioni (Cass., Sez. 1, n. 8092/1987, Cillari, Rv. 176349)».

60. Cass., sez. III, n. 30890/2015, Rv. 264251.

61. Sul valore delle presunzioni tributarie, cfr. Cass.: n. 6942/2018; n. 30890/2015, Capellini, cit.; n. 7078/2013, Piccolo, cit.; Cass., nn. 24342/2016 e 34932/2015.

62. Cass., sez. III, 2 ottobre 2014, n. 2006, Scatena, Rv. 261928; sez. III, n. 37094/2015.

63. Cass., sez. III, nn. 2246/1996, Zullo, Rv. 205395, e Piccolo, cit.

64. Cass., sez. VI, n. 45591/2013, Ferro, Rv. 257816; Cass., sez. III, n. 37851/2014, Parrelli, non mass.

65. Cass., sez. III, nn. 25451/2015, 2006/2015, 7078/2013. Principi affermati in tema di presunzione di attrazione a reddito delle rimesse bancarie, non dichiarate in sede di denunzia dei redditi e delle quali l’interessato non aveva saputo dare una giustificazione di irrilevanza tributaria. 

66. Cass., sez. VI, Ferro, cit.; sez. III, Parrelli, cit.

67. Cass., sez. II, 14 ottobre 2020, n. 1083, dep. 2021, Marino, non mass.

68. Sul punto, Cass., sez. III, n. 26274/2018, Malluzzo, Rv. 273318, secondo cui le presunzioni legali previste dalle norme tributarie, pur non potendo costituire, di per sé sole, fonte di prova della commissione dei reati previsti dal d.lgs n. 74/2000, hanno un valore indiziario sufficiente a integrare il fumus commissi delicti idoneo, in assenza di elementi di segno contrario, a giustificare l’applicazione di una misura cautelare reale. Nello stesso senso, Cass., sez. III, Scatena, cit.

69. Così Cass., sez. III, 15 dicembre 1995, n. 729, dep. 1996, Holbling, Rv. 203691; nello stesso senso, Cass., sez. III: 27 gennaio 1995, n. 299, dep. 1996, Bruno, Rv. 203693; 21 dicembre 1999, n. 1904, dep. 2000, Zarbo, Rv. 215694; 18 dicembre 2007, n. 5786, dep. 2008, D’Amico, Rv. 238825; 2 marzo 2016, n. 15899, Colletta, Rv. 266817.

70. Cass., sez. III, n. 46500/2015, nonché sez. III, Zarbo, cit.

71. Cass., sez. III, nn. 46500/2015, 36207/2019 (Rv. 277581), 40992/2013 (Rv. 25761).

72. Cass., sez. III, n. 36302/2019, Rv. 277553.

73. Cass., sez. III, n. 37335/2014, Rv. 260188.

74. Cass., sez. III, n. 15889/2016.

75. Cass., sez. III, D’Amico, cit.

76. Cass., sez. III, Zarbo, cit.

77. Cass., sez. III, Piccolo, cit.

78. Cass., sez. III: Colletta, cit., e Granata, cit.

79. La considerazione non vale in materia di IVA, ove la liquidazione richiede un calcolo complessivo e si fonda su un dato formale, quale è la registrazione. Il funzionamento del meccanismo impositivo conduce a ritenere dovuta l’imposta indiretta in esame anche ove scaturisca da fatture per operazioni inesistenti, con costituzione di debito che può integrare le soglie di rilevanza penale. La Cassazione (sez. III, n. 39177/2008, Rv. 241267) ha riconosciuto che, in tema di reati finanziari e tributari, il delitto di omessa dichiarazione a fini dell’IVA è configurabile anche nel caso in cui siano state emesse fatture per operazioni inesistenti, in quanto, secondo la normativa tributaria, l’imposta sul valore aggiunto è dovuta anche per tali fatture, indipendentemente dal loro effettivo incasso, con conseguente obbligo di presentare la relativa dichiarazione. Infatti, secondo il dPR 26 ottobre 1972, n. 633, art. 21, comma 7, «se viene emessa fattura per operazioni inesistenti ovvero se nella fattura i corrispettivi delle operazioni o le imposte relative sono indicate in misura superiore a quella reale, l’imposta è dovuta per l’intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura». Conforme è la normativa comunitaria, giacché a norma dell’art. 21, comma 1, lett. d della sesta direttiva del Consiglio in materia di IVA, (dir. 17 maggio 1977, n. 77/388/CEE), l’imposta sul valore aggiunto è dovuta in regime interno «da chiunque indichi l’imposta sul valore aggiunto in una fattura»; e anche per l’art. 203 della direttiva del Consiglio n. 2006/112/CE, del 28 novembre 2006, che ha sostituito quella precedente, «l’IVA è dovuta da  chiunque indichi tale imposta in una fattura». Ne consegue che la società emittente le fatture per operazioni inesistenti è tenuta al versamento dell’IVA in esse indicata, indipendentemente dall’effettivo incasso dalle società acquirenti; così come è obbligata, a norma del dPR n. 633/1972, art. 28, e del dPR 22 luglio 1998, n. 332, art. 8, a presentare la relativa dichiarazione annuale.

80. Cass., sez. III:  n. 37131/2013 (Rv. 257678); Granata, cit.; n. 53907/2016, Caterina (Rv. 268717); da ultimo, Cass., sez. III, n. 10149/2023 per la quale non si può ritenere che abbiano rilievo dirimente a tal fine il riepilogo delle buste paga e dei contributi 5 e il modello 770 dei sostituti d’imposta richiamati dal ricorrente, perché il primo è un documento meramente interno e predisposto dallo stesso imputato, mentre dal secondo non è possibile ricavare con certezza l’esistenza di lavoratori dipendenti, il loro numero, le loro generalità e, soprattutto, gli importi sostenuti a titolo di costi da lavoro.

81. Cass., sez. III, n. 5577/2023. Cass., sez. III, n. 53907/2016, Rv. 268717, ha censurato l’omessa analisi delle comunicazioni dei dati IVA inviate dall’Agenzia delle entrate, delle documentazioni acquisite al momento dell’escussione del funzionario dell’Agenzia delle entrate e dell’estratto conto.

82. Cass. civ., sez. V: nn. 16198/2001 (Rv. 551333), 11514/2001 (Rv. 549206), 12330/2001 (Rv. 549549), 1709/2007 (Rv. 595661), 21184/2014 (Rv. 632824), 2935/2015 (Rv. 634377), 17353/2020, 40412/2019; Cass. pen., sez. III, Granata, cit., e n. 5577/2023.

83. Cass., sez. VII, n. 14117/2023.

84. Cass., sez. III, n. 17214/2023.

85. Cass., sez. V civ., nn. 2581/2021 (Rv. 660477 - 01) e 1506/2017 (Rv. 642453 - 01).

86. Cass., nn. 640/2001 e 2946/2006.

87. Cass., sez. VI-V, 15 giugno 2017, n. 14930, Rv. 644593 - 01.

88. Cass., sez. V, 25 novembre 2008, n. 28028, Rv. 606022 - 01; cfr. Id., 20 gennaio 2017, n. 1506, Rv. 642453 - 01. 

89. Cass., sez. V civ., n. 3995/2009, Rv. 606915 - 01.

90. Cass., sez. V civ., 10 febbraio 2017, n. 3567, Rv. 643100 - 01.

91. Cass., sez. V civ., 4 marzo 2011, n. 5192, Rv. 617112 - 01.

92. Cass. civ., sez. V: 27 ottobre 2001, n. 16198, Rv. 551333; 7 settembre 2001, n. 11514, Rv. 549206; 8 ottobre 2001, n. 12330, Rv. 549549; 26 gennaio 2007, n. 1709, Rv. 595661; 16 maggio 2007, n. 11205, Rv. 599458; 8 ottobre 2014, n. 21184, Rv. 632824; sez. VI-V, ord. 9 dicembre 2013, n. 27458, Rv. 629460; cfr. altresì Cass. civ., sez. V, 4 marzo 2011, n. 5192, Rv. 617112; 13 febbraio 2015, n. 2935, Rv. 634377; 1° ottobre 2014, n. 20679, Rv. 632502.

93. Cass., sez. V, n. 7498/2023; sez. VI, n. 26381/2022; sez. V, n. 25189/2022. Vds. altresì sez. V, 5 ottobre 2018, n. 24422 e 18 ottobre 2021, n. 28580.

94. Cass., nn. 1658/2022, 24422/2018, 28580/2021.

95. Nel ritenere la questione non fondata, la Corte cost. ha precisato che detta presunzione non risulta «lesiva del canone di ragionevolezza di cui all’art. 3 della Costituzione, non essendo manifestamente arbitrario ipotizzare che i prelievi ingiustificati dai conti correnti bancari effettuati da un imprenditore siano stati destinati all’esercizio dell’attività d’impresa e siano, quindi, in definitiva, detratti i relativi costi, considerati in termini di reddito imponibile» (argomentazioni espressamente e puntualmente riprese da Corte cost., sent. n. 10/2023).

96. La presunzione della produzione di ricavi da prelevamenti effettuati da rapporti bancari, quando tali prelevamenti non risultano dalle scritture contabili e di essi il contribuente non indica il soggetto beneficiario, attiene a somme erogate per fronteggiare costi dai quali si inferisce la generazione di ricavi. Come precisato dalla Corte costituzionale, la presunzione in questione costituisce «una presunzione che, quanto all’equiparazione dei prelevamenti ai ricavi, è in realtà duplice (o di secondo grado): i prelievi sarebbero utilizzati per sostenere costi occulti, i quali a loro volta avrebbero generato pari ricavi non risultanti, anch’essi, dalla contabilità dell’imprenditore» (così Corte cost., n. 10/2023, § 8).

97. Cass., sez. III, n. 17214/2023, Gallo, Rv. 284554.

98. Cass., sez. III, n. 37131/2013, Siracusa, Rv. 257678; sez. V, n. 40412/2019, Tirozzi, Rv. 277120; sez. III, n. 8700/2019, Holz, Rv. 275856; sez. III, n. 37094/2015, Granata, cit. Il criterio di giudizio imposto dall’art. 533, comma 1, cpp investe tutti gli elementi costitutivi del reato, sicché ove sussista il ragionevole dubbio circa il superamento delle soglie di punibilità indicate dall’art. 4, d.lgs n. 74 del 2000 (e dunque l’ammontare dell’imposta evasa), il giudice deve affermare l’insussistenza del fatto; purché si tratti di un dubbio “ragionevole”, fondato cioè su fatti verificabili, non su mere congetture, ipotesi, astrazioni e automatismi.

99. Cass, sez. VI civ., n. 1422/2015, Rv. 634618 - 01; Cass., sez. I civ., n. 8265/1991.

100. Cass., sez. V, sentenza n. 25694 del 14 dicembre 2016, Rv. 641946 - 02.

101. Cass. civ., n. 26375/2019; alla stregua dell’arresto costituzionale 115/97 - e di seguito della conforme giurisprudenza della Cassazione (nn. 5182/2011, 21233/2006, 10174/2005), l’accertamento induttivo di cui all’art. 55 dPR n. 633/1972 non comporta automaticamente la perdita del diritto alla detrazione dell’IVA assolta per rivalsa sugli acquisiti di beni e servizi, in quanto l’onere di provare i crediti vantati per la suddetta imposta può essere adempiuto con le modalità previste dall’art. 2724 cc e, quindi, con altri mezzi atti a dimostrare le operazioni che il contribuente stesso assume produttive di dette posizioni creditorie, ciò però a condizione che l’impossibilità allegata dal contribuente di provare con i mezzi ordinari l’IVA assolta in rivalsa sia conseguenza di un comportamento incolpevole.

102. Cass. civ., sez. unite, 8 settembre 2016, n. 17757, Rv. 640943 - 01.

103. Cass., sez. III, 16 luglio 2018, n. 53980, Tirozzi, Rv. 274564 - 01.

104. Cfr. Cass., sez. III, n. 26196/2019, in motivazione.

105. Cass., sez. III, n. 35579/2017, Rv. 271303; cfr. nn. 36396/2011 (Rv. 251280) e 38684/2014 (Rv. 260389).

106. Cass., n. 30686/2017.

107. Per Cass., n. 18575/2020, Rv. 279500, l’art. 14, comma 4 della legge n. 537/1993 dispone che «nelle categorie di reddito di cui all’articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale». Fermo restando, dunque, che potrà ritenersi integrato il reato di dichiarazione infedele di cui all’art. 4 d.lgs n. 74 del 2000 qualora l’evasione di imposta riguardi redditi di derivazione illecita, la seconda parte del citato articolo individua una condizione negativa di imponibilità nell’ipotesi di spossessamento dei proventi illeciti che avvenga per effetto di sequestro o confisca. L’operatività di tale meccanismo, secondo l’interpretazione data alla norma dalla costante giurisprudenza di legittimità, è tuttavia subordinata alla circostanza che il provvedimento ablatorio sia intervenuto nello stesso periodo di imposta cui il provento si riferisce. Il sequestro e la confisca dei proventi, in altri termini, sono opponibili al fisco purché intervengano nel medesimo periodo in cui si è verificato il presupposto imponibile, dal momento che solo in questa ipotesi detti provvedimenti ablatori determinano, dal punto di vista fiscale e in relazione al principio della capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost., una riduzione del reddito. Per converso, nessuna rilevanza assume l’apposizione di tali vincoli qualora sia disposta, contestualmente alla sentenza di condanna di primo grado, come ulteriore conseguenza sanzionatoria del reato di dichiarazione infedele imposta dall’art. 12-bis d.lgs n. 74/2000, a notevole distanza di tempo dalla consumazione del reato (ex plurimis, Cass. civ., sez. V, 5 novembre 2019, n. 28375, Rv. 655895, e 20 dicembre 2013, n. 28519, Rv. 629332; Cass. pen., sez. V, 19 novembre 2009, n. 7411, Rv. 246095).

108. Cass., n. 35156/2017.

109. A. D’Avirro, Il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, in M. Giglioli - M. D’Avirro - A. D’Avirro, Reati Tributari e sistema normativo europeo. La riforma della frode fiscale e della dichiarazione infedele, parte I, cap. II, CEDAM (Wolters Kluwer), Milano, 2017, p. 99. 

110. Cass., sez. III, 12 febbraio 2002, n. 13641, dep. 10 aprile 2002, Rv. 221274, ha ritenuto che integra gli estremi del reato previsto dall’art. 3 d.lgs 10 marzo 2000, n.74 la condotta di chi, ricorrendo ad artifici realizzati mediante gli strumenti informatici di tenuta della contabilità, alteri in maniera sistematica le risultanze contabili e la loro rappresentazione. In concreto, il mezzo fraudolento è stato identificato nella predisposizione di codici di accesso sui sistemi contabili informatizzati dell’impresa, al fine di non rendere rilevabile la contabilità “in nero” e di prospettare ai terzi una realtà diversa da quella effettiva.

111. Cass., sez. III, n. 50308/2014 ha riconosciuto integrato il mezzo fraudolento nel caso di deviazione dei ricavi sul conto corrente intestato a società fiduciaria, il cui fiduciante era un prossimo congiunto dell’imputato. Quanto all’idoneità dell’atto ad ostacolare l’accertamento, il Collegio ha ritenuto che essa «non deve consistere necessariamente nella capacità di rendere difficoltosa o impossibile in modo assoluto la ricostruzione dei redditi o del giro d’affari del contribuente, essendo sufficiente che la condotta dell’agente abbia reso necessari, per la scoperta della mendacità dichiarata, accertamenti fiscali ed indagini penali, diversamente non necessari».

112. Cass., n. 26089/2020 si è pronunciata sul meccanismo fraudolento in cui erano coinvolte 24 società riconducibili ai medesimi soggetti, società le cui sedi si rivelavano quasi tutte inesistenti, mentre avevano rappresentato nelle dichiarazioni IVA rilevanti crediti di imposta, che da successivi controlli risultavano privi di giustificazione. I crediti di imposta fittizi venivano quantificati, nel periodo compreso dal 1°gennaio 2012 al 5 ottobre 2017, nella somma di 33.322.212,24 euro; inoltre, agli elevati livelli di attività dichiarata non corrispondevano congrue motivazioni finanziarie sui conti correnti bancari, mentre gli ingenti volumi di acquisti riportati nelle dichiarazioni IVA non trovavano corrispondenza negli elenchi dei clienti fornitori, avendo i fornitori delle società comunicato di aver intrattenuto rapporti commerciali con tali società per importi largamente inferiori a quelli riportati nelle dichiarazioni IVA, sussistendo altresì un evidente contrasto tra le immobilizzazioni materiali esposte in bilancio e l’assenza di strutture produttive. Il commercialista/consulente aveva fornito un apprezzabile contributo al compimento delle attività illecite, avendo provveduto all’invio telematico delle false dichiarazioni IVA, apponendovi un visto di conformità di sicuro mendace, in quanto il professionista incaricato aveva omesso qualsivoglia controllo, non trattenendo peraltro copia della documentazione contabile. La Cassazione ha confermato la configurabilità del reato di cui all’art. 3 d.lgs n. 74 del 2000, essendo stata ritenuta ragionevolmente ravvisabile un’infedele asseverazione dei dati, senz’altro qualificabile come mezzo fraudolento idoneo a ostacolare l’accertamento e a indurre in errore l’amministrazione finanziaria, dopo che erano stati indicati nelle dichiarazioni IVA elementi attivi per un importo inferiore a quello reale ed elementi passivi fittizi. Le dichiarazioni fraudolente per cui si procedeva, al pari delle indebite compensazioni contestate, si fondavano tutte su una mendace esposizione di dati economici nei bilanci e nelle scritture contabili delle società.

113. Rispetto a tali precisazioni, la Relazione illustrativa del d.lgs n. 158/2015 ha evidenziato il timore che «[u]na volta venuto meno il riferimento alla falsa rappresentazione contabile, quale requisito di fattispecie aggiuntivo rispetto all’utilizzo di mezzi fraudolenti, la giurisprudenza potrebbe essere indotta a ricondurre le suddette violazioni a quest’ultimo concetto: e ciò soprattutto nel caso di indicazione di corrispettivi inferiori a quelli effettivi nelle fatture (sotto fatturazione) o nelle annotazioni nelle scritture, potendosi in tal caso ipotizzare che si sia di fronte alla creazione (e al conseguente utilizzo a supporto della dichiarazione) di documenti ideologicamente falsi. In questo modo, si determinerebbe, peraltro, un effetto decisamente inopportuno, anche in rapporto alle esigenze di deflazione del settore penale tributario. Nei confronti dei contribuenti tenuti alla fatturazione e alla tenuta delle scritture contabili, i fatti di evasione attualmente qualificabili come dichiarazione (semplicemente) infedele si trasformerebbero, per la parte, in fatti di dichiarazione fraudolenta, peraltro con soglie di punibilità notevolmente più basse» (ivi, p. 6).

114. Per la penale irrilevanza dei comportamenti prodromici, cfr. Cass., sez. III, n. 52752/2014.

115. Cass., sez. III, n. 626/2009. 

116. Cass., sez. III, nn. 16459/2017 e 25808/2016.

117. Il reato ha natura di pericolo astratto, per la cui configurabilità è sufficiente il compimento dell’atto tipico (Cass., sez. III: nn. 25816/2016, 40172/2006, 12719/2007, 44449/2015). È stata considerata irrilevante ai fini della sussistenza della condotta l’emissione di una nota di credito per errata fatturazione intervenuta 20 giorni dopo l’accertamento del reato da parte dell’Agenzia delle entrate. Ciò non toglie che, prima di quest’ultimo accertamento, possa intervenire una nota di variazione, provvista di funzione complementare nella rappresentazione della realtà del rapporto negoziale, con i mutamenti che nell’iter della sua formazione possono intervenire in conformità alla volontà delle parti. La fattispecie, infatti, mira a tutelare l’interesse dello Stato a non vedere ostacolata la propria funzione di accertamento fiscale, anticipando la soglia dell’intervento punitivo rispetto al momento della dichiarazione; essa è svincolata dal conseguimento di una effettiva evasione, punendo comportamenti propedeutici connotati da potenzialità lesiva del ricordato interesse erariale. Le espressioni “emette” e “rilascia”, sostanzialmente sovrapponibili, appaiono ricollegate alla diversa tipologia di documenti fiscali che ne costituiscono l’oggetto materiale: nel caso dell’emissione, il riferimento più immediato è alle fatture o ai documenti equipollenti, secondo la nozione delineata dagli artt. 21 dPR n. 633/1972 e 46 dl n. 331/1993, conv., con mod., dalla legge n. 427/1993; nell’evenienza del rilascio, l’oggetto materiale è inteso come riferito alle ricevute fiscali (art. 8 l. n. 249/1976) e agli scontrini fiscali (art. 1 l. n. 18/1983). Il riferimento, in ogni caso, è inteso solo ai documenti idonei a supportare l’esposizione fittizia di elementi passivi e che, avendo valore anche in ambito tributario, consentano di variare l’imponibile e di perpetrare un’evasione dell’imposta a fronte di un’operazione inesistente, ossia non realmente accaduta. Del resto, in base all’art. 1, lett. a, d.lgs n. 74/2000, «ai fini del presente decreto legislativo: a) per “fatture o altri documenti per operazioni inesistenti” si intendono le fatture o gli altri documenti aventi rilievo probatorio analogo in base alle norme tributarie, emessi a fronte di operazioni non realmente effettuate in tutto o in parte o che indicano i corrispettivi o l’imposta sul valore aggiunto in misura superiore a quella reale, ovvero che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi». La Corte di cassazione (Cass., sez. III, n. 50628/2014) ha espressamente richiamato l’art. 21 dPR n. 633/1972, il quale svolge una minuziosa descrizione delle caratteristiche e dei contenuti che le fatture debbono avere per acquisire la funzione di titolo di credito nei confronti dello Stato per la detrazione dell’IVA pagata al fornitore, ma anche titolo di debito nel caso di operazioni inesistenti ex art. 21, comma 7, dPR n. 633/1972. A tale documento il legislatore attribuisce una sorta di fede privilegiata (considerati gli obblighi di annotazione e registrazione nonché il rilievo probatorio congiunto in ambito IVA e imposte sui redditi). Muovendo da tali premesse, la Corte regolatrice ha escluso che un fattura priva dei requisiti ex art. 21, comma 2, dPR n. 633/1972 possa qualificarsi come fattura o documento equipollente ai fini del delitto ex art. 8 d.lgs n. 74/2000; tale condizione del documento (come nel caso del rilascio di un bollettario in bianco completo di partita IVA e timbro con ragione sociale dell’impresa) giustifica piuttosto l’accertamento induttivo per gravi irregolarità da parte dell’amministrazione finanziaria (Cass. civ, sez. V, n. 5748/2010) e rende il documento inidoneo a costituire titolo per la deduzione del costo (Id., n. 21446/2014). Nulla esclude, per vero, che la consegna di un documento mancante dei requisiti ex art 21, comma 2, dPR n. 633/1972 sia idoneo a configurare un contributo rilevante nella diversa fattispecie ex art. 2 d.lgs n. 74/2000, realizzata dal consegnatario completando il documento incompleto e avvalendosene per la propria dichiarazione tributaria. È stato, inoltre, ritenuto integrare il reato di emissione la consegna di fatture emesse utilizzando una partita IVA di cui sia già stata comunicata la cessazione, in quanto la eventuale irregolarità, sul piano formale, della fattura non esclude il fatto materiale della sua emissione e del suo utilizzo allo scopo di evadere l’imposta (Cass. civ, sez. III, n. 25033/2016).

118. Cass., sez. III, nn. 6264/2010, 20787/2002, 25816/2016.

119. Cass., sez. III, nn. 10558/2013 e 31268/2017.

120. Si ritiene superato il diverso orientamento che assumeva la natura permanente del reato ex art. 4, lett. d, dl n. 429/1982, sul presupposto dell’obbligo di conservazione in contabilità del documento mendace (cfr. Cass., sez. unite, 3 febbraio 1995, in Boll. trib., 1995, p. 632).

121. Cass., sez. III, nn. 25816/2016 e 26395/2004.

122. Cass., sez. III, n. 50628/2014.

123. Cass., sez. III, n. 6360/2019.

124. Cass., sez. III, 21 maggio 2012, n. 19247; Id., n. 5434/2017.

125. Nello stesso senso, cfr. Cass.: 10 ottobre 2002, n. 38199; 21 gennaio 2004, n. 5804; 15 gennaio 2008, n. 1996; 7 ottobre 2010, n. 45056; 8 luglio 2010, n. 26138; Cass. pen, sez. III, nn. 38754/2012 e 24540/2013.

126. In dottrina ammette la tipicità V. Napoleoni, I fondamenti del nuovo diritto penale tributario, IPSOA, Milano, 2000, p. 174; E.M. Ambrosetti, Art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000, in M. Ronco e S. Ardizzone (a cura di), Codice penale ipertestuale. Leggi complementari, UTET giuridica (Wolters Kluwer), Milano, 2007, p. 202; in senso contrario L. Imperato, Art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000, in G. Falsitta - A. Fantozzi - G. Marongiu - F. Moschetti, Commentario breve alle leggi tributarie, CEDAM (WK), Milano, 2011, p. 537, nonché la dottrina che ritiene che, a seguito del d.lgs n. 158/2015, l’unica forma di inesistenza giuridica di rilievo penale-tributario sarebbe la simulazione, oggettiva o soggettiva, condotta integrativa del delitto previsto dall’art. 3 d.lgs n. 74/2000, confinando la fittizietà delineata dalla frode fiscale ex art. 2 dello stesso decreto all’interno della sola inesistenza materiale.

127. Per un quadro complessivo della tematica e dei profili problematici, cfr. Cass., sez. III, n. 10916/2020. 

128. Cfr. Cass., sez. III: nn. 46194/2013, 22108/2015, 316287/2015, 42994/2015, 53637/2018, 7063/2019.

129. Cfr. Cass., sez. III, nn. 31628/2015 e 22108/2015.

130. Cass., sez. III, n. 42994/2015.

131. Cfr. Cass., sez. III: nn. 6935/2018, 53146/2017, 2643/2016, 47471/2013, 10394/2010.

132. Cass., sez. III: n. 27112/2015, Forlani, Rv. 264390 - 01; n. 42520/2019. Da ultimo, Cass., sez. III, n. 907/2023. 

133. A favore dell’integrazione di fattispecie autonome, cfr. Cass., sez. III: n. 23064/2008, Palamà e al., Rv. 239919; n. 25204/2008; n. 3163/2020, Bruschi, Rv. 278251. A favore della natura di mere circostanze attenuanti, Cass., sez. III: 1° giugno 2016, n. 53905, Bencini, Rv. 268775; n. 5720/2016, Scarfato, Rv. 265948; 20 aprile 2011, n. 20529, Romiti, Rv. 250339.

134. Cfr. Cass., sez. unite, 3 febbraio 1995, in Boll. trib., 1995, p. 632.

135. Cass., sez. III: nn. 6264/2010, 20787/2002, 25816/2016.

136. Cass., sez. III, nn. 10558/2013 e 31268/2017.

137. Cass., sez. III: nn. 25816/2016, 40172/2006, 12719/2007, 44449/2015.

138. Cass., sez. III, nn. 25816/2016 e 26395/2004.

139. Cass., sez. III, n. 50628/2014.

140. Cass., sez. III, n. 5720/2016, Rv. 265948; contra: Id., n. 23064/2008, Rv. 239919.

141. Cass.: sez. III, n. 45578/2016; sez. IV, nn. 24691/2016 e 17120/2016.

142. Sull’entità della pena sono state espresse perplessità, rilevando un profilo di disallineamento rispetto a un’ipotesi chiaramente fraudolenta come il delitto ex art. 11, comma 1, d.lgs n. 74/2000, che finisce per ricevere un trattamento più mite (nella pena massima attestandosi su quattro anni, laddove l’importo di imposte, sanzioni e interessi non superi duecentomila euro); Cfr. A. Perini, Brevi note sui profili penali tributari del d.l. n. 124/2019, audizione del 5 novembre 2019 davanti alla Commissione Finanze della Camera, in Sist. pen., 3 dicembre 2019.

143. Ivi, p. 12.

144. Cass., sez. III: n. 39379/2016, Rv. 267752; 30 gennaio 2015, n. 7930, Marchetti, Rv. 262518; 18 novembre 2008, n. 6881, Ceragioli, Rv. 242523; 17 aprile 1997, n. 6218, Cetrangolo, Rv. 208633; 10 aprile 1997, n. 4432, Cosentini, Rv. 208030; 21 gennaio 1997, n. 1969, Basile, Rv. 206944; 15 maggio 1996, n. 6251, Caruso, Rv. 205514; n. 52853/2018.

145. Cass., sez. III, 17 giugno 2014, n. 27682, Palmieri, Rv. 259948.

146. Cass., sez. II, 13 dicembre 2005, n. 2601, Cacace, Rv. 233330; sez. unite, 28 novembre 2001, Raineri, cit.

147. Cass., sez. F, 27 luglio 2010, n. 38393, Persico, Rv. 248911.

148. Cass., sez. V, n. 14522/2017, est. Riccardi, in motivazione (sez. III: 18 novembre 2008, n. 6881, dep. 2009, Ceragioli, Rv. 242523; 1° aprile 1998, n. 7820, Molayem M, Rv. 211225; 23 ottobre 2018, n. 54379 del Rv. 274131; 10 febbraio 2010, n. 15372, Fiorillo, Rv. 246599; n. 14545/2020).

149. Cass., sez. II, 13 dicembre 2005, n. 2601, Cacace, Rv. 233330; vds. anche sez. III, 4 giugno 2019, n. 31223, Rv. 276679; cfr. Cass., sez. III, n. 1579/2022.

150. Cass., sez. III: 23 novembre 2017, n. 7000, Venturini, Rv. 272578 - 01; 16 giugno 2016, n. 35611, Monni, Rv. 268007.

151. Cass., sez. III, n. 15562/2020, in motivazione.

152. Cass., sez. III, n. 52853/2018, Rv. 274418.

153. Cass., sez. VI, 27 settembre 2018, n. 53174, Capitaneo, Rv. 274614; sez. III, 4 gennaio 2016, n. 6116, Tartarelli, Rv. 266284. Nello stesso senso, cfr. Cass., sez. II, n. 24460/2023; sez. III, n. 22306/2021.

154. Cass., sez. III, n. 22306/2021.

155. Cass., sez. III, n. 36207/2019, Rv. 277581.

156. Cass., sez. III, nn. 46500/2015 e 1904/1999 (Zarbo, cit.); Id., 20 ottobre 1995, Perillo.

157. Cass., sez. III: nn. 36491/2019, 24811/2011 (Rv. 250647), 40992/2013 (Rv. 257619).

158. Cass., sez. III, n. 28710/2017, Rv. 270476 - 01.

159. Cass., sez. III, n. 8319/1994, De Filippis, Rv. 198777; n. 8319/1994, Rv. 198777.

160. Cass., sez. III, n. 36491/2019, Rv. 276702 - 01.

161. Cass., sez. III, 2 aprile 2016, n. 35294, Rv. 267544, in motivazione.

162. Cass., sez. III, n. 36907/2020, Cerbini, Rv. 280278 - 01; cfr. n. 23226/2018, Rv. 273207 - 01.

163. Cass., sez. III, n. 20673/2023. 

164. Cass., sez. I, n. 18343/2017, Biallo, Rv. 270658.

165. Cass., sez. III, n. 33820/2020, in motivazione; sez. II, n. 292/2014, Coccorullo, Rv. 257993 - 01; sez. V, n. 81/2006, Atrany, Rv. 232637 - 01.

166. Cass., sez. III, n. 28489/2020, Rv. 280015; vds. anche, in tema di revisione, circa l’impossibilità di addivenire ad accertamenti contrastanti circa i medesimi fatti storici, Cass., sez. I, 6 maggio 2014, n. 43516, Cavallari, Rv. 260702; sez. VI, 14 maggio 2015, n. 23682, Russo, Rv. 263842.

167. Cass., sez. III, 18 ottobre 2016, n. 2257, dep. 2017, Burani, Rv. 268800.

168. Cass., sez. unite, n. 36072/2018, Rv. 273548.

169. Cass., sez. unite, 19 aprile 2018, n. 36072, Botticelli, Rv. 273548, ha precisato che «la portata precettiva degli artt. 42 Cost. e 1 del primo Protocollo addizionale della Convenzione Edu richiede che le ragioni probatorie del vincolo di temporanea indisponibilità della cosa, anche quando la stessa si identifichi nel corpo del reato, siano esplicitate nel provvedimento giudiziario con adeguata motivazione, allo scopo di garantire che la misura, a fronte delle contestazioni difensive, sia soggetta al permanente controllo di legalità – anche sotto il profilo procedimentale – e di concreta idoneità in ordine all’an e alla sua durata, in particolare per l’aspetto del giusto equilibrio o del ragionevole rapporto di proporzionalità tra il mezzo impiegato, ovvero lo spossessamento del bene, e il fine endoprocessuale perseguito, ovvero l’accertamento del fatto di reato (Corte Edu, 24 ottobre 1986, Agosi c. U.K.). Ed ogni misura, per dirsi proporzionata all’obiettivo da perseguire, dovrebbe richiedere che ogni interferenza con il pacifico godimento dei beni trovi un giusto equilibrio tra i divergenti interessi in gioco (Corte Edu, 13 ottobre 2015, Ünsped Paket Servisi SaN. Ve TiC. A.Ş. c. Bulgaria)».

170. Cass., sez. III, n. 22058/2009.

171. Cass., sez. V, 28 maggio 2014, n. 26444, Denaro, Rv. 259850; sez. II, 19 giugno 2013, n. 34986, Pini, Rv. 256100; sez. II, 22 gennaio 2009, n. 17372, Romeo e al., Rv. 244342.

172. Cfr., da ultimo, Cass., sez. VI, 25 gennaio 2018, n. 33045, Mazza; sez. V, Denaro, cit; nello stesso senso, sostanzialmente, sez. VI, 20 gennaio 2017, n. 5845, F., Rv. 269374; sez. V, 16 dicembre 2009, n. 12064, dep. 2010, Marcante, Rv. 246881.

173. Così, testualmente, sez. unite, Botticelli, cit., in motivazione.

174. Cass., sez. VI, n. 34265/2020.

175. Cass., sez. V: 17 maggio 2019, n. 38456, Benigni, Rv. 277343; 14 marzo 2017, n. 16622, Storari, Rv. 270018.

176. Cass., sez. VI, 24 febbraio 2015 (dep. 10 giugno), n. 24617, Rizzo, Rv. 264092.

177. L’orientamento ha trovato principale applicazione in casi che hanno riguardato il vincolo di dispositivi nella disponibilità di giornalisti, ma seguito anche in situazioni diverse; è stato considerato illegittimo, per violazione del principio di proporzionalità e adeguatezza, il sequestro a fini probatori dell’intero archivio di documentazione cartacea di un’azienda che conduca a un’indiscriminata apprensione di tutte le informazioni ivi contenute, senza indicazione specifica dei documenti funzionali all’accertamento dei fatti oggetto di indagini (Cass., sez. VI, n. 43556/2019, Scarsini, Rv. 277211, in materia di turbata libertà degli incanti).

178. Cass., Sez. 2, 17604/2023. 

179. Si tratta di decisione assunta in relazione al sequestro di interi archivi informatici, contenenti dati potenzialmente rilevanti ai fini della prosecuzione delle indagini per i reati di abuso di ufficio e turbativa d’asta, ipotizzati in relazione a una procedura di affidamento della gestione del servizio idrico integrato (sez. VI, 11 novembre 2016, n. 53168, Amores, Rv. 268489).

180. Cass., sez. VI, n. 34265/2020, Aleotti, Rv. 279949 - 02: fattispecie in cui la Corte, in relazione al reato di finanziamento illecito ai partiti, ha ritenuto esplorativo e sproporzionato il sequestro indistinto di tutte le e-mail, personali e della società, con riferimento a un soggetto terzo estraneo al reato, trasmesse e ricevute nei dieci anni precedenti.

181. Sul tema, Cass., sez. VI, 12 settembre 2018, n. 56733, Macis, Rv. 274781; sez. V, 27 febbraio 2015, n. 13594, Gattuso, Rv. 262898.
Cass., sez. VI, n. 34265/2020 osserva che l’esigenza investigativa che in qualche modo – in alcuni casi – può depotenziare, quasi vanificandola, la possibilità di verificare nell’immediatezza la legittimità del mezzo di ricerca quanto alla sussistenza del nesso di strumentalità tra res (di cui non si ha nemmeno consapevolezza), reato per cui si procede e finalità probatoria, richiede e impone strumenti “compensativi” di garanzia per il soggetto che subisce la limitazione dei propri diritti. Strumenti di garanzia, cioè, che si collocano già al momento dell’adozione del mezzo di ricerca della prova e che attengono alla portata del vincolo, alle ragioni – che devono essere puntualmente illustrate – per cui si decide di aggredire, ad esempio, la sfera giuridica di soggetti terzi estranei al reato, al motivo per cui il vincolo venga “modulato” – rispetto a terzi estranei – in modo onnicomprensivo (cioè decidendo, ad esempio, di sequestrare tutta la corrispondenza o tutti i documenti, anche quelli più personali e riservati), alla necessità di ancorare la durata del sequestro a criteri oggettivi di ragionevolezza temporale, all’esigenza insopprimibile di selezionare le cose davvero necessarie ai fini della prova. In tal senso, il tempo necessario alla selezione di ciò che è necessario ai fini probatori da ciò che deve essere restituito non può essere un fattore neutro destinato a pregiudicare chi, da terzo estraneo al reato, ha già subito la limitazione del diritto di sindacare sin da subito, con rigore, l’esistenza del nesso di strumentalità tra res e reato. Strumenti di garanzia che non possono essere svuotati e che attengono a inevitabili profili giustificativi e motivazionali di ordine quantitativo, qualitativo e temporale del sequestro (così, efficacemente, sez. VI, 4 marzo 2020, n. 13156, Scagliarini, in motivazione) e alla necessità di evitare che il sequestro probatorio assuma una valenza meramente esplorativa di notizie di reato diverse e ulteriori rispetto a quella per cui si procede. Si tratta di profili su cui è necessario specificamente motivare da parte del pubblico ministero e del tribunale del riesame, atteso che, diversamente, il mezzo di ricerca si trasforma in uno strumento di illegittima compressione di diritti, con conseguente ingiustificata “rincorsa” del soggetto a cui le cose sono sequestrate al fine di ottenere la restituzione di ciò che, sin dall’inizio, non avrebbe dovuto essere sequestrato.

182. Cass., sez. VI, n. 6623/2021, Rv. 280838.

183. Cass., sez. VI, 22 settembre 2020, n. 34265 (Rv. 279949) e 12 settembre 2018, n. 56733 (Rv. 274781); Cass., sez. V, 27 febbraio 2015, n. 13594, Rv. 262898.

184. Cass., sez. VI, n. 47494/2022.

185. Cass., sez. VI, 22 settembre 2020, n. 34265, Rv. 279949.

186. Cass., sez. V, 14 marzo 2017, n. 16622 ; sez. VI, 11 novembre 2016, n. 53168, Rv. 268489; sez. II, 23 gennaio 2013, n. 16544; Cass., sez. III, 5 giugno 2008, n. 27508, Rv. 240254.

187. Cass., sez. VI, 18 novembre 2022, n. 44010.

188. S. Cutrignelli, La prova informatica nella pratica investigativa, in DisCrimen, 3 luglio 2023. 

189. Corte cost., 26 marzo 1993, n. 111.

190. Corte cost., 2 novembre 1998, n. 361.

191. Cass., sez. II, n. 17604/2023. Si tratta di decisione assunta in caso in cui è stato sequestrato il personal computer di un giornalista, in cui la Corte ha ritenuto corretta la procedura di esame ed estrazione, mediante stampa fisica e duplicazione, dei soli dati di interesse presenti nell’archivio del sistema (sez. VI, Rizzo, cit.; sempre in materia di sequestro di documenti a un giornalista, sez. VI, 19 gennaio 2018, n. 9989, Lillo, Rv. 272538, afferma la necessità del particolare rigore nella valutazione della proporzionalità, anche in ragione della professione svolta e del segreto professionale che protegge le informazioni in possesso del giornalista).

192. Cass., sez. unite, n. 25932/2008, Ivanov, Rv. 239692.

193. Cass., sez. VI, 6 ottobre 1998, n. 2882, Calcaterra, Rv. 212678; Id., 2 maggio 2013, n. 39040, Massa, in motivazione.

194. Cass., sez. unite, 28 gennaio 2004, n. 5876, Ferazzi in proc. Bevilacqua, Rv. 226713.

195. Cass., sez. III, 5 maggio 2015, n. 40530, Pagnin, Rv. 264827 - 01; sez. I, n. 38909/2021.

196. In termini, sezioni unite, 29 gennaio 2016, n. 15453, Giudici, Rv. 266335 - 01.

197. Cass., sez. I, 10 giugno-28 ottobre 2021, n. 38909, Rv. 282072 - 01; sez. V, 16 novembre 2015, n. 11905, Branchi, Rv. 266477 - 01; sez. II, 1° luglio 2015, n. 29061, Posanzini, Rv. 264572 - 01.

198. In termini generali, cfr. altresì sez. V, n. 8893/2021, Laurenti, Rv. 280623 - 01.

199. Cass., sez. I, 26 febbraio 2009, n. 11863, Ammutinato, Rv. 243922.

200. C. Parodi, Indagini informatiche e acquisizione dei file: accertamento o rilievo?, in Penalista, 27 gennaio 2020.

201. La distinzione trova conferma normativa in ripetute disposizioni codicistiche (artt. 354, 359, 360) che menzionano separatamente i termini «rilievi» e «accertamenti», con implicita assunzione, per ciascuno, del significato specifico precedentemente delineato (Cass., sez. I, n. 301/1990, Rv. 183648).

202. Cass., sez. I, n. 18246/2015, Rv. 263858.

203. Cass., sez. III, n. 46043/2018, Rv. 274519.

204. Cass., sez. I, n. 11503/2009, Rv. 243495.

205. C. Parodi, Indagini, op. cit., che ricorda che «la funzione crittografica di hash consiste nell’utilizzare un algoritmo matematico che mappa dati di lunghezza arbitraria (messaggio = stringa binaria che costituisce il file) in una seconda stringa binaria di dimensione fissa (digest) chiamata valore di hash. Tale funzione matematica è progettata per essere unidirezionale (quindi da messaggio a valore e giammai da valore a messaggio originario), per essere sufficientemente robusta alle collisioni (messaggi diversi con stesso valore di hash) da garantire l’integrità della prova e, non ultimo, assolutamente ripetibile. I valori di hash calcolati nel corso delle operazioni di copia devono essere menzionati all’interno dei verbali redatti dalla P.G.».

206. Cass., sez. III, 16 dicembre 2015, n. 6798, Rv. 266135 - 01, fattispecie relativa all’acquisizione di file dal pc in sede di verifica fiscale della GdF; vds. anche Cass., sez. III, 7 febbraio 2007, n. 12017, Monni, Rv. 235927 - 01.

207. Cass., sez. III, 14 novembre 1995, n. 3893, Guglielmi, Rv. 203204.

208. Cass., sez. III, 11 novembre 2014, n. 5923 (dep. 10 febbraio 2015), Rv. 262412 - 01.

209. La previsione, introdotta dall’art. 12, comma 1, d.lgs 24 settembre 2015, n. 158, dispone che le pene stabilite per i delitti di cui al titolo II del d.lgs n. 74/2000 (ovvero i reati di emissione di fatture per operazioni inesistenti, occultamento o distruzione di documenti contabili, omesso versamento di ritenute dovute o certificate, omesso versamento di IVA, indebita compensazione e sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte) sono aumentate della metà se il reato è commesso dal concorrente nell’esercizio dell’attività di consulenza fiscale svolta da un professionista o da un intermediario finanziario o bancario attraverso l’elaborazione o la commercializzazione di modelli di evasione fiscale. Una prima riflessione sul perimetro applicativo della norma in esame è stata già compiuta dalla Cassazione con la sentenza n. 1999/2017 (dep. 2018), Rv. 272713, con cui si è evidenziato che l’aggravante rappresenta un’ipotesi di “concorso qualificato”, relativo a condotte che in realtà prima erano punibili a titolo di concorso “ordinario” ex art. 110 cp. L’applicabilità della nuova circostanza aggravante è, invero, condizionata alla sussistenza di un duplice presupposto: uno soggettivo, concernente la qualità dell’agente; l’altro oggettivo, riguardante la tipologia della condotta contestata. In ordine al primo requisito, deve rilevarsi che la norma circoscrive l’ambito soggettivo di operatività dell’aggravante al professionista o all’intermediario finanziario o bancario, dovendosi attribuire alla nozione più generale di “professionista”, in assenza di richiami specifici, un significato sostanziale, ricomprendendovi cioè chiunque svolga attività di consulenza fiscale nell’esercizio della sua professione (dunque: commercialisti, avvocati, consulenti e così via). Quanto al secondo presupposto, l’art. 13-bis, comma 3, d.lgs n. 74/2000 individua un ben definito modello comportamentale, che si estrinseca nella «elaborazione o commercializzazione di modelli di evasione fiscale». Come già rilevato nella sentenza della Corte n. 1999/2017, la locuzione adoperata dal legislatore, pur non menzionandolo espressamente, evoca tuttavia, almeno implicitamente, il presupposto della “serialità” di un determinato modus agendi, dovendosi peraltro rilevare che la Relazione illustrativa dello schema di decreto, nel descrivere molto sinteticamente la novella normativa, fa riferimento alla predisposizione di «modelli seriali» di evasione fiscale, mentre il riferimento alla commercializzazione, oltre che alla elaborazione, lascia intendere che l’aggravante in esame si configura non solo quando il soggetto attivo elabori personalmente i modelli di evasione, ma anche quando diffonda, fornendoli ai suoi clienti, modelli elaborati da altre persone. Dalla sentenza in oggetto: «Dunque, il disvalore della norma, alla cui operatività è connesso invero un aggravamento del trattamento sanzionatorio non indifferente (“le pene sono aumentate della metà”), risiede non nella predisposizione o nella diffusione di accorgimenti estemporanei volti a realizzare una singola evasione fiscale, ma nel ricorso a iniziative elusive sistematiche, perché già sperimentate in casi analoghi, e perché comunque riproducibili in futuro a beneficio di altri potenziali evasori. L’aggravante in esame, in definitiva, deve ritenersi applicabile non con riferimento a un singolo episodio elusivo realizzato mediante l’occasionale intervento di un professionista, ma in relazione a ogni iniziativa delittuosa scaturita dall’adesione a un ben preciso modello comportamentale che, in quanto elaborato o applicato da un esperto del settore, denota la maggiore pericolosità del fatto, stante anche la possibilità di replica del sistema di operazioni preordinate all’illecito in favore di una pluralità indifferenziata di altri utenti». Soggetti attivi sono solo il «professionista, l’intermediario finanziario o bancario». A tal proposito, all’indomani dell’entrata in vigore della disciplina, in dottrina si è discusso sulla nozione di “professionista” e, in particolare, se questa comprenda esclusivamente i soggetti di cui all’art. 7 d.lgs n. 241/1997 e cioè i soggetti abilitati dall’Agenzia delle entrate alla presentazione delle dichiarazioni o, piuttosto, ciascun soggetto che svolge attività di consulenza fiscale. La nozione di “professionista” deve essere intesa in senso sostanziale e, dunque, comprensiva di chiunque, nell’esercizio della sua professione, svolga attività di consulenza fiscale (commercialisti, consulenti, avvocati e così via); in tema, cfr. Cass., sez. III, n. 36212/2019, Rv. 277831.

210. Art. 13 cit.: «1. In deroga a quanto disposto dall’articolo 267 del codice di procedura penale, l’autorizzazione a disporre le operazioni previste dall’articolo 266 dello stesso codice è data, con decreto motivato, quando l’intercettazione è necessaria per lo svolgimento delle indagini in relazione ad un delitto di criminalità organizzata o di minaccia col mezzo del telefono in ordine ai quali sussistano sufficienti indizi. Nella valutazione dei sufficienti indizi si applica l’articolo 203 del codice di procedura penale. Quando si tratta di intercettazione di comunicazioni tra presenti disposta in un procedimento relativo a un delitto di criminalità organizzata e che avvenga nei luoghi indicati dall’articolo 614 del codice penale, l’intercettazione è consentita anche se non vi è motivo di ritenere che nei luoghi predetti si stia svolgendo l’attività criminosa. 2. Nei casi di cui al comma 1, la durata delle operazioni non può superare i quaranta giorni, ma può essere prorogata dal giudice con decreto motivato per periodi successivi di venti giorni, qualora permangano i presupposti indicati nel comma 1. Nei casi di urgenza, alla proroga provvede direttamente il pubblico ministero; in tal caso si osservano le disposizioni del comma 2 dell’articolo 267 del codice di procedura penale. 3. Negli stessi casi di cui al comma 1, il pubblico ministero e l’ufficiale di polizia giudiziaria possono farsi coadiuvare da agenti di polizia giudiziaria».

211. Ai sensi dell’art. 1 dl 10 agosto 2023, n. 105 (conv. in legge 9 ottobre 2023, n. 137), «1. Le disposizioni di cui all’articolo 13 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, si applicano anche nei procedimenti per i delitti, consumati o tentati, previsti dagli articoli 452-quaterdecies e 630 del codice penale, ovvero commessi con finalità di terrorismo o avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo 416-bis del codice penale o al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo.
2. La disposizione del comma 1 si applica anche nei procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto».

212. Cass., sez. VI, n. 28252/2017, Rv. 270565; Cass., sez. II, n. 31440/2020, Rv. 280062 - 01.

213. Le sezioni unite, inoltre, hanno avuto cura di rimarcare che deve escludersi la ravvisabilità nell’art. 8 della Cedu, così come interpretato nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, di preclusioni riguardanti le intercettazioni effettuate mediante “captatore informatico” in procedimenti per delitti di criminalità organizzata, tenuto conto che: a) risulta chiaramente rispettato il principio di proporzione tra la forza intrusiva del mezzo usato e la calibrata e motivata compressione dei diritti fondamentali delle persone che ne deriva, avendo inteso il legislatore raggiungere lo scopo di un’efficace tutela delle esigenze dei singoli e della collettività in relazione a reati di particolare gravità: ovviamente, a condizione che, una volta ritenuto necessario dover ricorrere a detto strumento investigativo, tale impiego sia rigorosamente circoscritto attraverso prescrizioni tecniche di utilizzo e limitazioni di ordine giuridico fissate dal giudice, ed altrettanto rigorosamente controllato quanto alla fase dell’esecuzione delle 4 attività captative; b) secondo i principi enunciati nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo non è – necessario che nel – provvedimento autorizzativo delle intercettazioni siano indicati i luoghi in cui le stesse devono svolgersi, purché ne venga identificato chiaramente il destinatario.

214. Cass., sez. VI, 13 giugno 2017, n. 36874, Romeo, Rv. 274934; sez. V, 17 novembre 2016, n. 1407, dep. 2017, Nascetti, Rv. 268900.

215. Cass., sez. VI, 13 giugno 2017, n. 45486, Rv. 270812; Id., 6 aprile 2017, n. 28252, Di Palma, Rv. 270565; sez. II, 20 ottobre 2015, n. 42763, Rv. 265127.

216. Art. 1 dl 10 agosto 2023, n. 105 (conv. in legge 9 ottobre 2023, n. 137), comma 2-quater: «All’articolo 270, comma 1, del codice di procedura penale, le parole: “e dei reati di cui all’articolo 266, comma 1” sono soppresse»; comma 2-quinquies «La disposizione di cui al comma 2-quater si applica ai procedimenti iscritti successivamente alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto». 

217. Per un quadro ricostruttivo, cfr. Cass., sez. VI, n. 9846/2023. 

218. In particolare, il riferimento alla data di iscrizione del procedimento assolve la funzione di delimitare l’ambito di applicazione della nuova disciplina e, dunque, di escludere che essa trovi applicazione per le autorizzazioni che, sebbene siano state disposte successivamente a tale data, sono relative a procedimenti iscritti in epoca antecedente ad essa. Rispetto alle intercettazioni disposte con provvedimenti autorizzativi anteriori al 31 agosto 2020, la nuova disciplina, e quindi anche il nuovo testo del primo comma dell’art. 270 cpp, non è applicabile, essendo evidente che per tali provvedimenti l’epoca di iscrizione del procedimento è necessariamente anteriore, essendo l’iscrizione del procedimento un adempimento che precede tutti gli atti che si sviluppano al suo interno. Si è, in particolare, chiarito che le intercettazioni eseguite nella vigenza della precedente disciplina, e quindi disposte nei limiti e alle condizioni stabilite dalle norme di legge vigenti al momento della loro autorizzazione, non possono mutare regime normativo per effetto di sviluppi procedimentali successivi, derivanti dalla decisione di separare dall’originario procedimento alcune posizioni ovvero alcuni reati con conseguente trasmissione degli atti da un ufficio di procura a un altro, per ragioni di competenza territoriale e/o funzionale (cfr. sez. VI, 17 novembre 2021, n. 47235, Ierardi, non massimata).

219. Cass., sez. III, n. 30062/2021.

220. In giurisprudenza si era tentato di sostenere l’identità o, comunque, l’unitarietà del procedimento (cfr. sez. III, 24 aprile 2018, n. 29856, La Volla, Rv. 275389) al fine di non eludere il divieto di utilizzazione, di cui all’art. 270 cpp, relativamente alle situazioni di collegamento probatorio di cui all’art. 371, comma 2, lett. c, cpp, scaturenti dalla “stessa fonte” di prova o solo con riguardo alle intercettazioni legittimamente autorizzate nel medesimo procedimento, da intendersi in senso formale. Per sez. unite, Cavallo, cit., la soluzione prospettata, tuttavia, non può essere condivisa: oltre a innestare nell’assetto incentrato su un criterio di valutazione sostanzialistico un diverso criterio eminentemente formale (l’identità di procedimento), con tutte le insuperabili aporie già messe in luce, la limitazione indicata non risolve il problema decisivo, ossia l’individuazione di un criterio che assicuri la sussistenza di un legame sostanziale e “forte” tra i reati, così da poterne escludere la riferibilità, ai fini della disciplina di cui all’art. 270 cpp, a “procedimenti diversi”. Pertanto, il divieto probatorio dell’utilizzo di intercettazioni in relazione a reati diversi da quelli in relazione ai quali l’autorizzazione del giudice è stata adottata è destinato a operare in presenza di un rapporto tra i reati riconducibile – fuori dai casi di connessione – alle ipotesi di collegamento tra indagini. Alla medesima conclusione deve giungersi con riguardo al criterio dell’identità del “filone investigativo”, valorizzato – sempre nel solco del primo orientamento – da alcune pronunce. Nel far leva sulla «concatenazione inferenziale tra i risultati a mano a mano acquisiti» (sez. VI, 23 marzo 2016, n. 17698, Sabetti), anche tale criterio, in buona sostanza, valorizza un collegamento di tipo probatorio tra reato a quo, per il quale è stata disposta l’intercettazione, e reato ad quem, accertato grazie ai risultati di tale intercettazione, e non su quel legame originario e sostanziale necessario a ricondurre anche il secondo al provvedimento autorizzatorio e, quindi, a escludere l’operatività del divieto probatorio di cui all’art. 270 cpp. Come la giurisprudenza di legittimità ha già avuto modo di rimarcare, «la formale unità dei procedimenti, sotto un unico numero di registro generale, non può fungere da schermo per l’utilizzabilità indiscriminata delle intercettazioni, facendo convivere tra di loro procedimenti privi di collegamento reale» (sez. III, 8 aprile 2015, n. 33598, Vasilas). È stato chiarito, inoltre, sul punto, che «se svincolata da qualsiasi legame sostanziale tra il reato per il quale il mezzo di ricerca della prova è stato autorizzato e l’ulteriore reato emerso dai risultati dell’intercettazione, la definizione della portata del divieto probatorio ex art. 270, comma 1, cod. proc. pen. viene, in buona sostanza, schiacciata sul “contenitore dell’attività di indagine” e, di conseguenza, delineata sulla base di fattori relativi alla “sede” procedimentale (unitaria o separata) del tutto casuali – e, dunque, forieri dei dubbi di legittimità costituzionale per violazione del principio di uguaglianza (sotto il profilo del trattamento uguale o diversificato di situazioni, rispettivamente, diverse o uguali) prospettati in dottrina – o, comunque, dipendenti dalle opzioni investigative del pubblico ministero: opzioni certo legittime, ma che non possono svuotare di effettività l’autorizzazione del giudice e il divieto probatorio ad essa correlata» (sez. unite, 28 novembre 2019, n. 51, dep. 2 gennaio 2020, Cavallo, cit.).