Magistratura democratica

Il nuovo Statuto dei diritti del contribuente

di Francesco Buffa

Con il decreto legislativo n. 219 del 30 dicembre 2023 (che si affianca al coevo decreto delegato n. 220), il legislatore realizza una riforma di ampio respiro, da valutarsi con estremo favore, della materia tributaria e dei diritti del contribuente consacrati nello Statuto relativo, avendo da un lato reso chiare le previsioni in materia (positivizzando principi fino ad allora inespressi in testi normativi, ma affermati dalla giurisprudenza di legittimità) e, dall’altro lato, aumentato le tutele del contribuente verso l’amministrazione finanziaria, rendendo il rapporto dei cittadini con il potere pubblico più democratico.

1. I principi della legge delega e il decreto delegato n. 219 del 30 dicembre 2023 / 2. I principi generali / 3. Il principio del contraddittorio e lo schema di atto di accertamento / 4. La motivazione dell’atto / 5. La tutela dell’affidamento e della buona fede / 6. Il principio di proporzionalità / 7. Il divieto di bis in idem / 8. Annullabilità degli atti / 9. Vizi delle notifiche / 10. Le attività di supporto dell’amministrazione: circolari, consulenza, consultazione semplificata, interpello / 11. L’autotutela / 12. La privacy e i dati del contribuente / 13. Il Garante nazionale del contribuente / 14. Conclusioni

 

1. I principi della legge delega e il decreto delegato n. 219 del 30 dicembre 2023

La legge 9 agosto 2023, n. 111, recante «Delega al Governo per la riforma fiscale», ha posto all’art. 4 i principi e criteri direttivi per la revisione dello Statuto dei diritti del contribuente, disponendo che gli stessi costituiscono altresì principi generali dell’ordinamento e criteri di interpretazione adeguatrice della legislazione tributaria. Si è richiesto al legislatore delegato, in particolare, di:

a) rafforzare l’obbligo di motivazione degli atti impositivi, anche mediante l’indicazione delle prove su cui si fonda la pretesa;

b) valorizzare il principio del legittimo affidamento del contribuente e il principio di certezza del diritto;

c) razionalizzare la disciplina dell’interpello;

d) disciplinare l’istituto della consulenza giuridica, distinguendolo dall’interpello e prevedendone presupposti, procedure ed effetti, assicurando che non ne derivino nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica;

e) prevedere una disciplina generale del diritto di accesso agli atti del procedimento tributario;

f) prevedere una generale applicazione del principio del contraddittorio a pena di nullità;

g) prevedere una disciplina generale delle cause di invalidità degli atti impositivi e degli atti della riscossione;

h) potenziare l’esercizio del potere di autotutela estendendone l’applicazione agli errori manifesti nonostante la definitività dell’atto, prevedendo l’impugnabilità del diniego ovvero del silenzio nei medesimi casi nonché, con riguardo alle valutazioni di diritto e di fatto operate, limitando la responsabilità nel giudizio amministrativo-contabile dinanzi alla Corte dei conti alle sole condotte dolose;

i) prevedere l’istituzione e la definizione dei compiti del Garante nazionale del contribuente, quale organo monocratico con incarico di durata quadriennale, rinnovabile una sola volta, e la contestuale soppressione delle simili figure operanti presso ogni direzione regionale delle entrate e direzione delle entrate delle province autonome.

La delega ha stabilito, inoltre, che il Governo osserva i detti principi e criteri direttivi specifici per la revisione dell’attività di accertamento, anche con riferimento ai tributi degli enti territoriali, per applicare in via generalizzata il principio del contraddittorio, a pena di nullità, fuori dei casi dei controlli automatizzati e delle ulteriori forme di accertamento di carattere sostanzialmente automatizzato, e prevedere una disposizione generale sul diritto del contribuente a partecipare al procedimento tributario, secondo le seguenti caratteristiche:

1) previsione di una disciplina omogenea indipendentemente dalle modalità con cui si svolge il controllo;

2) assegnazione di un termine non inferiore a sessanta giorni a favore del contribuente per formulare osservazioni sulla proposta di accertamento;

3) previsione dell’obbligo, a carico dell’ente impositore, di formulare espressa motivazione sulle osservazioni formulate dal contribuente;

4) estensione del livello di maggiore tutela previsto dall’art. 12, comma 7 della legge n. 212/2000.

In particolare, si prevede poi che le amministrazioni statali osservino le disposizioni della legge concernenti la garanzia del contradditorio e dell’accesso alla documentazione amministrativa tributaria, la tutela dell’affidamento, il divieto del bis in idem, il principio di proporzionalità e l’autotutela. Le medesime disposizioni valgono come principi per le Regioni e per gli enti locali che provvedono ad adeguare i rispettivi ordinamenti nel rispetto delle relative autonomie. 

Un programma ambizioso cui ha dato attuazione in gran parte il d.lgs 30 dicembre 2023, n. 219, che ha attuato una profonda revisione dello Statuto dei diritti del contribuente e introdotto nuove disposizioni destinate a incidere anche sulla gestione dei tributi degli enti territoriali. 

 

2. I principi generali

Lo Statuto del contribuente (legge n. 212/2000), nel testo originario, già prevedeva che: i principi in esso contenuti costituiscono principi generali dell’ordinamento tributario, criteri di interpretazione della legislazione tributaria e si applicano a tutti i soggetti del rapporto tributario; le medesime disposizioni possono essere derogate o modificate solo espressamente e mai da leggi speciali (cd. principio di fissità), mentre l’adozione di norme interpretative in materia tributaria può essere disposta soltanto in casi eccezionali e con legge ordinaria, qualificando come tali le disposizioni di interpretazione autentica; salvo quanto previsto per le norme di interpretazione autentica, le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo.

Si era subito posto il problema del valore da assegnare allo Statuto dei diritti del contribuente, ma sia la Corte costituzionale (n. 41/2008) che la Corte di cassazione (n. 2221/2011) avevano ripetutamente affermato come le norme dello Statuto non potessero fungere da parametro di costituzionalità e, dunque, consentire l’annullamento della norma tributaria che si fosse posta in contrasto con esse. La dottrina, dal canto suo, aveva evidenziato che si trattava pur sempre di norme ordinarie di legge e che il valore precipuo dello Statuto si aveva sul piano interpretativo, dovendo le norme interpretarsi finché possibile in modo compatibile con le norme statutarie.

Quanto al principio di fissità, si è agevolmente escluso che le clausole cd. di “auto-rafforzamento” fossero idonee ad attribuire una speciale forza di resistenza passiva al testo normativo cui si riferiscono e, dunque, tali da impedire quella modificazione tacita o per leggi speciali che forma oggetto del divieto statutario. 

In tale contesto, il decreto delegato prevede oggi in via aggiuntiva che le norme tributarie impositive che recano la disciplina del presupposto tributario e dei soggetti passivi si applicano esclusivamente ai casi e ai tempi in esse considerati.

Quanto all’efficacia temporale delle norme tributarie, si dispone che di regola le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo, che, relativamente ai tributi dovuti, determinati o liquidati periodicamente, le modifiche introdotte si applicano solo a partire dal periodo d’imposta successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore delle disposizioni che le prevedono, e che le presunzioni legali non si applicano retroattivamente. 

L’aspetto più importante riguarda proprio i limiti alla retroattività del tributo, intesa come possibilità di assumere a presupposto di imposta o di maggior imposta un fatto espressivo di capacità contributiva manifestatosi in periodi di imposta antecedenti a quello dell’introduzione della norma, nei quali il fatto era privo di rilevanza ai fini impositivi o formava oggetto di minore tassazione. 

 

3. Il principio del contraddittorio e lo schema di atto di accertamento

La vecchia disciplina in materia di accertamento prevedeva solo una improcedibilità all’esito della notifica del processo verbale di constatazione, prevedendo che il contribuente, nei 60 giorni successivi al rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo, poteva comunicare osservazioni e richieste che erano «valutate dagli uffici impositori» e che, prima della scadenza di tale termine, «l’avviso di accertamento non può essere emanato salvo casi di particolare e motivata urgenza»: nei 60 giorni, l’attività amministrativa era improcedibile e l’atto emanato prima dei 60 giorni era ritenuto nullo ove non sussistessero ragioni di urgenza, ragioni – da indicarsi nell’atto a pena di nullità – da intendersi come fattori incidenti sulla possibilità concreta di riscossione del credito (mentre l’approssimarsi del termine di decadenza per l’attività amministrativa non rilevava, secondo l’orientamento preferibile).

Nel vecchio sistema, al di fuori della detta ipotesi, non vi era un principio generale del contraddittorio la cui violazione fosse idonea a incidere di per sé sulla validità degli atti dell’amministrazione; in linea con il costante orientamento del giudice di legittimità, il principio del contraddittorio previsto in linea generale dallo Statuto non poteva tradursi in un generalizzato obbligo d’informazione preventiva in merito a qualsiasi atto che incidesse sfavorevolmente sul contribuente, ma andava contemperato con le esigenze di buon andamento della pubblica amministrazione, sicché il contraddittorio omesso poteva assumere rilievo solo ove fosse in grado di incidere sull’esito finale del procedimento stesso. 

Si riteneva così che sul contribuente gravasse, in caso di mancato contraddittorio preventivo, l’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere: Cass., sez. unite, sentenza 9 dicembre 2015, n. 24823 aveva così precisato che, in tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, l’amministrazione finanziaria è gravata di un obbligo generale di contraddittorio endoprocedimentale, la cui violazione comporta l’invalidità dell’atto purché il contribuente abbia assolto l’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere e non abbia proposto un’opposizione meramente pretestuosa; aveva quindi aggiunto che siffatto obbligo sussiste esclusivamente per i tributi “armonizzati”, mentre per quelli “non armonizzati” non è rinvenibile, nella legislazione nazionale, un analogo generalizzato vincolo, sicché esso sussiste solo per le ipotesi in cui risulti specificamente sancito; infine, si era precisato che non sussiste per l’amministrazione finanziaria alcun obbligo di contraddittorio endoprocedimentale per gli accertamenti ai fini IRPEG e IRAP, assoggettati esclusivamente alla normativa nazionale, vertendosi in ambito di indagini cd. “a tavolino”.

Oggi, con il decreto n. 219 del 2023, il quadro è cambiato notevolmente.

Intanto, ribaditi i diritti e le garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali (art. 12 dello Statuto), si è previsto che l’obbligo di conservazione di atti e documenti, incluse le scritture contabili, stabilito a soli effetti tributari, non può eccedere il termine di dieci anni dalla loro emanazione o dalla loro formazione o utilizzazione. Il decorso del termine preclude definitivamente la possibilità per l’amministrazione finanziaria di fondare pretese su tale documentazione.

Soprattutto, si è oggi introdotto un generale principio del contraddittorio, stabilendosi, con il nuovo articolo 6-bis, che, salvo che per i controlli formali automatizzati, tutti gli atti autonomamente impugnabili dinanzi agli organi della giurisdizione tributaria sono preceduti, a pena di annullabilità, da un contraddittorio informato ed effettivo. 

Resta possibile la deroga in caso motivato di fondato pericolo per la riscossione.

Se l’atto è automatizzato, o sostanzialmente automatizzato, è escluso dal contraddittorio preventivo proprio perché di regola non v’è materia di cui discutere; ciò vale anche per i tributi comunali, nelle ipotesi in cui vi siano atti che liquidano l’imposta dovuta sulla base di dati comunicati dal contribuente.

Nel nuovo sistema, per consentire il contradditorio, l’amministrazione finanziaria comunica al contribuente, con modalità idonee a garantirne la conoscibilità, uno schema dell’atto di accertamento, assegnando un termine non inferiore a 60 giorni per consentirgli eventuali controdeduzioni, ovvero, su richiesta, per accedere ed estrarre copia degli atti del fascicolo. 

L’atto non può essere adottato prima della scadenza del termine.

Si stabilisce altresì che, prima di procedere alle iscrizioni a ruolo derivanti dalla liquidazione di tributi risultanti da dichiarazioni, qualora sussistano incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione, l’amministrazione finanziaria deve invitare il contribuente, a mezzo del servizio postale o con mezzi telematici, a fornire i chiarimenti necessari o a produrre i documenti mancanti entro un termine congruo e comunque non inferiore a 30 giorni dalla ricezione della richiesta. La disposizione si applica anche qualora, a seguito della liquidazione, emerga la spettanza di un minor rimborso di imposta rispetto a quello richiesto. 

Se la scadenza di tale termine è successiva a quella del termine di decadenza per l’adozione dell’atto conclusivo, ovvero se fra la scadenza del termine assegnato per l’esercizio del contraddittorio e il predetto termine di decadenza decorrono meno di 120 giorni, tale ultimo termine è posticipato al 120° giorno successivo alla data di scadenza del termine di esercizio del contraddittorio.

Sono annullabili i provvedimenti emessi in violazione delle dette disposizioni.

Una rilevante novità è oggi rappresentata dalla possibilità del contribuente di accedere agli atti del fascicolo, posto che in precedenza non era prevista né la partecipazione al procedimento tributario né l’accesso agli atti, prima dell’adozione del provvedimento definitivo. 

In caso di mancata attivazione del contraddittorio, informato ed effettivo, l’atto è annullabile. 

La formulazione della norma è oggi molto più stringente rispetto al contraddittorio preventivo disciplinato in materia di accertamento con adesione (art. 5-ter, comma 5, d.lgs n. 218/1997) e riconosciuto dalle affermazioni giurisprudenziali sopra riportate: il mancato avvio del contraddittorio comporta l’invalidità dell’avviso di accertamento anche se il contribuente non dimostra in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere se il contraddittorio fosse stato attivato (la cd. “prova di resistenza”, un tempo richiesta indefettibilmente).

 

4. La motivazione dell’atto

La motivazione dell’atto di accertamento è tradizionalmente intesa come requisito sostanziale dello stesso: essa consiste nell’iter logico-giuridico che sta alla base dell’atto di accertamento, ossia – tanto nell’accertamento delle imposte sui redditi, quanto in quello dell’IVA – nell’indicazione dei fatti contestati, delle norme che si ritengono violate e di quelle ritenute applicabili, delle argomentazioni giuridiche che sono alla base della determinazione dell’amministrazione finanziaria; quale requisito sostanziale dell’atto, la motivazione non è integrabile o modificabile nel corso del giudizio. 

La motivazione rappresenta la garanzia per il contribuente di poter valutare la fondatezza della pretesa dell’amministrazione finanziaria e, conseguentemente, di poterne eventualmente contestare la legittimità attraverso una motivata impugnazione. 

Nel sistema precedente la riforma, l’obbligo di motivazione era previsto dall’art. 42, dPR n. 600/1973, secondo cui l’avviso di accertamento «deve essere motivato in relazione ai presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che lo hanno determinato e in relazione a quanto stabilito dalle disposizioni dei precedenti articoli che sono state applicate, con distinto riferimento ai singoli redditi delle varie categorie» (vds., pure, l’art. 7, comma 1 dello Statuto).

Quanto al contenuto della motivazione, esso varia a seconda della natura dell’imposta quale conseguenza del fatto che, essendo la sua funzione principale quella di fornire al destinatario le conoscenze indispensabili per difendersi, il suo contenuto deve necessariamente adeguarsi all’oggetto dell’atto stesso. 

Nel sistema precedente, la mancanza (o carenza) di motivazione determinava un vizio di invalidità dell’atto che, denominato “nullità”, doveva essa essere eccepito, a pena di decadenza, sin dal ricorso di primo grado.

Nel vecchio regime, si discuteva se all’atto impositivo dovessero essere allegate le prove oppure se dovessero essere almeno enunciate (salva la loro successiva produzione in giudizio) – nell’ultimo senso, Cass., sez. V, 1° agosto 2000, n. 10052, Rv. 539000 – 01 –, come era necessario al fine di garantire al contribuente un’adeguata difesa.

Era consentita la motivazione cd. per relationem, per esempio al PVC della Guardia di Finanza: l’art. 42, comma 2, dPR n. 600/1973 prevedeva che, «se la motivazione fa riferimento ad un altro atto non conosciuto né ricevuto dal contribuente, questo deve essere allegato all’atto che lo richiama salvo che quest’ultimo non ne riproduca il contenuto essenziale», escludendo il rilievo a qualsiasi ipotesi di mera “conoscibilità”. Così, Cass., sez. V, 20 dicembre 2018, n. 32957 (Rv. 652115 - 01), statuiva che in tema di avviso di accertamento, la motivazione per relationem con rinvio alle conclusioni contenute nel verbale redatto dalla GdF nell’esercizio dei poteri di polizia tributaria non è illegittima per mancanza di autonoma valutazione da parte dell’ufficio degli elementi da quella acquisiti, significando semplicemente che l’ufficio stesso, condividendone le conclusioni, ha inteso realizzare una economia di scrittura che, avuto riguardo alla circostanza che si tratta di elementi già noti al contribuente, non arreca alcun pregiudizio al corretto svolgimento del contraddittorio.

La miglior dottrina, invece, richiedeva un elemento in più, ossia il vaglio critico da parte dell’amministrazione finanziaria dell’atto della Finanza richiamato, in quanto solo l’amministrazione è titolare del potere impositivo, sottolineandosi in tal modo l’indefettibilità della funzione valutativa ed estimativa dell’ufficio. 

Nel sistema della riforma del d.lgs n. 219/2023, gli atti dell’amministrazione finanziaria, autonomamente impugnabili dinanzi agli organi della giurisdizione tributaria, sono motivati, a pena di annullabilità, indicando specificamente i presupposti, i mezzi di prova e le ragioni giuridiche su cui si fonda la decisione. Se nella motivazione si fa riferimento a un altro atto che non è già stato portato a conoscenza dell’interessato, lo stesso è allegato all’atto che lo richiama, salvo che quest’ultimo non ne riproduca il contenuto essenziale. 

Oggi si prevede però che la motivazione dell’atto deve indicare espressamente le ragioni per le quali i dati e gli elementi contenuti nell’atto richiamato si ritengono sussistenti e fondati. 

I fatti e i mezzi di prova a fondamento dell’atto non possono essere successivamente modificati, integrati o sostituiti se non attraverso l’adozione di un ulteriore atto, ove ne ricorrano i presupposti e non siano maturate decadenze.

Sull’argomento va richiamato anche l’art. 7 comma 1-bis («Chiarezza e motivazione degli atti»), il quale dispone che «i fatti e i mezzi di prova a fondamento dell’atto non possono essere successivamente modificati, integrati o sostituiti se non attraverso l’adozione di un ulteriore atto, ove ne ricorrano i presupposti e non siano maturate decadenze». 

La previsione attiene evidentemente alla fase contenziosa, nella quale l’amministrazione, a supporto della legittimità dell’atto impugnato, non può modificare o integrare i fatti e i mezzi di prova posti a fondamento della propria pretesa. Ciò deriva dal fatto che il processo tributario, in quanto rivolto a sollecitare il sindacato giurisdizionale sulla legittimità del provvedimento impositivo, è strutturato come un giudizio di impugnazione del provvedimento stesso, nel quale l’ufficio assume la veste di attore in senso sostanziale e la sua pretesa è quella risultante dall’atto impugnato, sia per quanto riguarda il petitum che per quanto riguarda la causa petendi.

Uno specifico obbligo motivazionale è oggi introdotto con riferimento ad accessori e sanzioni del credito tributario: in proposito, Cass., sez. V, 16 ottobre 2023, n. 28742 (Rv. 669249 - 01) aveva da ultimo affermato che, in tema di avviso di accertamento o di liquidazione di maggiori imposte dovute dal contribuente, l’obbligo di motivazione relativo alla pretesa per interessi è assolto attraverso l’indicazione dell’importo monetario richiesto, della relativa base normativa – che può anche essere desunta implicitamente dalla specifica individuazione della tipologia e della natura degli accessori reclamati ovvero dal tipo di tributo cui accedono – e della decorrenza dalla quale sono dovuti, senza necessità di indicare i singoli saggi periodicamente applicati o le modalità di calcolo. Lo Statuto del contribuente, nel testo riformato, positivizza ed estende il principio di matrice giurisprudenziale, prevedendo che gli atti della riscossione che costituiscono il primo atto con il quale è comunicata una pretesa per tributi, interessi, sanzioni o accessori indicano, per gli interessi, la tipologia, la norma tributaria di riferimento, il criterio di determinazione, l’imposta in relazione alla quale sono stati calcolati, la data di decorrenza e i tassi applicati in ragione del lasso di tempo preso in considerazione per la relativa quantificazione. 

Nello Statuto riformato sono aumentati i casi di obbligo di motivazione rafforzata, nei quali, come noto, si impone all’ufficio di argomentare in merito alle osservazioni del contribuente che si ritiene di non accogliere. 

Oltre ai casi classici di ricorso a metodi induttivi o sintetici (art. 39, comma 2, dPR n. 600/1973, e 56 dPR n. 633/1972), le altre ipotesi di motivazione rafforzata attengono ai casi in cui l’amministrazione finanziaria, all’esito del contraddittorio, è tenuta a motivare anche sui chiarimenti forniti dal contribuente (ad esempio, in materia di abuso del diritto o di invito al contraddittorio ex art. 5-ter dl n. 218/1997). 

Nel nuovo sistema si introduce l’obbligo di “motivazione rafforzata” anche in relazione alle osservazioni del contribuente avverso lo schema di atto notificatogli: non basterà perciò dare atto delle osservazioni del contribuente e dimostrare così di averle considerate, ma occorre specificamente argomentare in motivazione sulle ragioni di mancato accoglimento delle osservazioni. 

 

5. La tutela dell’affidamento e della buona fede

L’art. 10 dello Statuto prevede che i rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede.

Non sono irrogate sanzioni né richiesti interessi moratori al contribuente, qualora egli si sia conformato a indicazioni contenute in atti dell’amministrazione finanziaria, ancorché successivamente modificate dall’amministrazione medesima, o qualora il suo comportamento risulti posto in essere a seguito di fatti direttamente conseguenti a ritardi, omissioni o errori dell’amministrazione stessa. 

Limitatamente ai tributi unionali, non sono altresì dovuti i tributi nel caso in cui gli orientamenti interpretativi dell’amministrazione finanziaria, conformi alla giurisprudenza unionale ovvero ad atti delle istituzioni unionali e che hanno indotto un legittimo affidamento nel contribuente, vengano successivamente modificati per effetto di un mutamento della predetta giurisprudenza o dei predetti atti (cd. revirement).

Le sanzioni non sono comunque irrogate quando la violazione dipende da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della norma tributaria, o quando si traduce in una mera violazione formale senza alcun debito di imposta. In ogni caso, non determina obiettiva condizione di incertezza la pendenza di un giudizio in ordine alla legittimità della norma tributaria.

 

6. Il principio di proporzionalità

L’art. 10-ter dello Statuto introdotto dalla riforma prevede il principio di proporzionalità nel procedimento tributario. La norma stabilisce che il procedimento tributario bilancia la protezione dell’interesse erariale alla percezione del tributo con la tutela dei diritti fondamentali del contribuente, nel rispetto del principio di proporzionalità.

In conformità al principio di proporzionalità, l’azione amministrativa deve essere necessaria per l’attuazione del tributo, non eccedente rispetto ai fini perseguiti, e non limitare i diritti dei contribuenti oltre quanto strettamente necessario al raggiungimento del proprio obiettivo.

Il principio si applica anche alle misure di contrasto dell’elusione e dell’evasione fiscale e alle sanzioni tributarie.

Particolarmente rilevante è il riferimento alle sanzioni, potendo il principio incidere concretamente sulla misura della sanzione irrogata. 

In tal senso, vengono valorizzate e generalizzate le previsioni già contenute nell’art. 7, comma 1, d.lgs n. 472/1997, secondo il quale «nella determinazione della sanzione si ha riguardo alla gravità della violazione desunta anche dalla condotta dell’agente, all’opera da lui svolta per l’eliminazione o l’attenuazione delle conseguenze, nonché alla sua personalità e alle condizioni economiche e sociali».

La norma recepisce le indicazioni date dalla Corte costituzionale nella sentenza 17 marzo 2023, n. 46, secondo la quale la citata norma consente all’amministrazione la possibilità di ricondurre la misura della sanzione nell’ambito dei principi di ragionevolezza e di proporzionalità, rilevando la discrezionalità amministrativa anche in questo ambito.

 

7. Il divieto di bis in idem

Un problema classico del diritto tributario era relativo alla questione se l’avviso di accertamento dovesse essere tendenzialmente uno e uno solo per ciascun periodo di imposta (cd. “principio di unicità”) e – proprio in quanto unico – avere ad oggetto la totalità del presupposto realizzato dal contribuente (cd. “principio di globalità”), ovvero se la pretesa tributaria potesse “frammentarsi” in una pluralità di atti per ciascun periodo di imposta, ricostruendo progressivamente la capacità contributiva del contribuente (fermi restando, naturalmente, i limiti temporali all’esercizio del potere di rettifica). 

I principi di unicità e globalità dell’accertamento erano desunti dagli artt. 38, comma 2, 40, comma 2, dPR n. 600/1973 (laddove indica che per la rettifica delle dichiarazioni dei redditi si procede con «unico atto») e dall’art. 37 dello stesso decreto (che, nel prevedere che gli uffici provvedano all’accertamento «in base ai risultati dei controlli e delle ricerche effettuati», evidenzia lo stretto collegamento tra il primo e i secondi, postulando una valutazione dell’intera attività istruttoria svolta). Detti principi poggiano sia su un’esigenza di certezza giuridica e di stabilità dei rapporti giuridici, sia sul diritto di difesa del contribuente ex artt. 24 e 113 Cost., che esclude la soggezione a multiple onerose iniziative dell’amministrazione.

Per converso, la “frammentazione” del potere trova rilevante sostegno in interessi altrettanto rilevanti a livello costituzionale: innanzitutto, nell’art. 53 Cost., che richiede la ricostruzione della capacità contributiva effettiva del contribuente e sul principio di buon andamento della p.a., poiché l’amministrazione finanziaria potrebbe ad esempio disporre di elementi sufficienti per avviare le procedure di riscossione senza che ciò comporti la consumazione del potere impositivo, mentre la scoperta di nuovi elementi imporrebbe indubbiamente ulteriori attività di accertamento, recupero e sanzione.

Poiché l’ordinamento ammette fattispecie di accertamento parziale (sin dal dPR n. 309/1982, che ha inserito l’art. 41-bis nel dPR n. 600/1973, e poi in varie altre ipotesi allargate nel tempo) e di accertamento integrativo (in base alla sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi ex art. 43, ult. comma, dPR n. 600/1973), la soluzione prevalente in passato era quella della possibilità di frammentazione del potere impositivo e dell’azione amministrativa, ammettendosi le due figure e ritenendosi che ciascuna di essa conservi la propria autonoma esistenza ed efficacia (con la conseguenza pratica della necessità di una loro distinta impugnazione). 

Il nuovo art. 9-bis, rubricato «Divieto di bis in idem nel procedimento tributario», prevede oggi che, salvo specifiche disposizioni prevedano diversamente e ferma l’emendabilità di vizi formali e procedurali, il contribuente ha diritto a che l’amministrazione finanziaria eserciti l’azione accertativa relativamente a ciascun tributo una sola volta per ogni periodo d’imposta.

L’esigenza della norma è quella di garantire che, per ogni possibile violazione, il contribuente abbia diritto a essere gravato da una sola procedura e, quindi, a doversi difendere una sola volta. 

La norma fa riferimento all’identità del tributo e dell’anno di imposta senza altro aggiungere, restando dunque escluse altre condizioni. Secondo l’orientamento preferibile, però, la norma presuppone l’identità della violazione eventualmente contestabile più volte per lo stesso anno, sicché la stessa non sarebbe applicabile quando siano contestati, con riferimento allo stesso tributo e allo stesso anno d’imposta, fattispecie omissive, che potrebbero essere anche in parte soggette al contraddittorio preventivo, oltre che a un regime sanzionatorio e decadenziale differente, non potendo la norma in commento implicare o una proroga implicita dei termini di contestazione degli omessi versamenti o una riduzione dei termini di contestazione per le ipotesi delle infedeli od omesse dichiarazioni. 

Ciò rileverebbe, ad esempio, per l’imposta di registro dovuta per lo stesso anno per atti diversi, ovvero per l’IMU dovuta nello stesso anno per immobili diversi, e in genere per tutti i tributi (quali ad esempio la TARI o l’imposta di soggiorno) che colpiscono non la persona ma specifiche manifestazioni di capacità contributiva, configurandosi come prelievi di natura reale e non personale.

 

8. Annullabilità degli atti

Nel diritto tributario, dove è assente una teoria generale delle invalidità, la Cassazione ha affermato, da un lato, l’inapplicabilità della disciplina civilistica sulle nullità (artt. 1418 e 1421 cc), ivi compresa l’“imprescrittibilità” dell’azione di accertamento, vigendo nel diritto amministrativo l’esigenza, con essa incompatibile, di “stabilità del provvedimento amministrativo” (con la conseguenza che anche l’azione di nullità sia sottoposta a decadenza, sia pure con un termine differenziato); dall’altro, che la stessa disciplina amministrativistica non può – nonostante il rapporto di species ad genus tra diritto tributario e amministrativo – a sua volta essere automaticamente trasposta in ambito tributario, dovendo essere coordinata con la disciplina specifica ivi contenuta: così, secondo sez. V, ord. 23 settembre 2020, n. 19929 (Rv. 659043 - 01), nel giudizio tributario, in conseguenza della sua struttura impugnatoria, opera il principio generale di conversione dei motivi di nullità dell’atto tributario in motivi di gravame, sicché l’invalidità non può essere rilevata di ufficio, né può essere fatta valere per la prima volta in sede di legittimità (vds., così, art. 42 dPR n. 600/1973, in materia di sottoscrizione, motivazione e indicazione dell’imponibile, delle aliquote e dell’imposta, che ne impongono la contestazione sin dal primo grado di giudizio). Ciò implica che l’atto, sul piano sostanziale, è idoneo a produrre effetti (e dunque efficace) alla stregua di un atto valido fino al momento della sua rimozione attraverso una pronuncia giudiziale o in via di autotutela dall’autorità amministrativa (dunque, in via “precaria”); sul piano processuale, è soggetto alla previsione di stringenti limiti all’impugnazione (termini decadenziali brevi, rilevabilità dei vizi solo su istanza di parte, legittimazione attiva circoscritta al destinatario dell’atto).

Restano salvi solo i casi di nullità-inesistenza, ad esempio ove l’atto sia emanato da un ufficio territorialmente incompetente ovvero l’atto sia viziato da difetto assoluto di attribuzione.

Quanto ai riflessi dei vizi dell’attività ispettiva sulla validità dell’atto di accertamento, si rileva preliminarmente che avverso l’atto istruttorio viziato non vi è una tutela immediata (cioè l’atto non si impugna nei 60 giorni davanti al Tar), ma solo una tutela differita, attraverso l’impugnazione dell’atto di accertamento finale (davanti alla corte di giustizia tributaria). Il problema giuridico che si pone è vedere se e come tale vizio dell’atto istruttorio si rifletta sull’atto di accertamento finale. Secondo la teoria dell’invalidità derivata, i vizi dell’attività istruttoria darebbero luogo a un vizio intrinseco, proprio cioè dell’atto finale di accertamento; secondo la teoria dell’inutilizzabilità, invece, i vizi dell’attività istruttoria determinerebbero una carenza probatoria dell’avviso di accertamento, ma quest’ultimo sarebbe insuscettibile di annullamento qualora le altre fonti di convincimento utilizzate legittimamente fossero comunque sufficienti a giustificare la pretesa impositiva. Secondo la teoria della responsabilità, infine, nonostante il vizio della formazione, l’atto invece sarebbe comunque utilizzabile (male captum, bene retentum), fatte salve le sanzioni a carico dell’autore per la violazione perpetrata.

La dottrina era ormai ampiamente orientata nel senso della inutilizzabilità.

La riforma ha inciso notevolmente sulla disciplina, distinguendo i vizi dell’atto a seconda se producano annullabilità o nullità.

Gli atti dell’amministrazione finanziaria impugnabili dinanzi agli organi di giurisdizione tributaria sono annullabili per violazione di legge, ivi incluse le norme sulla competenza, sul procedimento, sulla partecipazione del contribuente e sulla validità degli atti.

I motivi di annullabilità e di infondatezza dell’atto sono dedotti, a pena di decadenza, con il ricorso introduttivo del giudizio dinanzi alla corte di giustizia tributaria di primo grado e non sono rilevabili d’ufficio (art. 7-bis).

La mancata o erronea indicazione delle informazioni di cui all’art. 7, comma 2, invece, non costituisce vizio di annullabilità, ma dà luogo solo a irregolarità (art. 7-quater).

Gli atti dell’amministrazione finanziaria sono nulli se viziati per difetto assoluto di attribuzione, adottati in violazione o elusione di giudicato, ovvero se affetti da altri vizi di nullità qualificati espressamente come tali da disposizioni entrate in vigore successivamente al decreto n. 219/2023.

Detti vizi di nullità possono essere eccepiti in sede amministrativa o giudiziaria, sono rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio e danno diritto alla ripetizione di quanto versato, fatta salva la prescrizione del credito (art. 7-ter).

Quanto ai vizi dell’attività istruttoria, si stabilisce che non sono utilizzabili ai fini dell’accertamento amministrativo o giudiziale del tributo gli elementi di prova acquisiti oltre i termini di cui all’art. 12, comma 5, o in violazione di legge (art. 7-quinquies).

 

9. Vizi delle notifiche

Sia con riferimento alle notifiche nulle, che inesistenti, la giurisprudenza ha sempre ritenuto applicabile la sanatoria per raggiungimento dello scopo, ovvero la conoscenza dell’atto, che si verifica con l’impugnazione dello stesso, ai sensi dell’art. 156 cpc: ciò è un corollario dell’affermazione, acquisita in giurisprudenza, secondo la quale la notificazione è una mera condizione di efficacia e non un elemento dell’atto di imposizione fiscale.

Con la sentenza 5 ottobre 2004, n. 19854 (Rv. 577521 - 01), le sezioni unite hanno stabilito che la natura sostanziale e non processuale (né assimilabile a quella processuale) dell’avviso di accertamento tributario – che costituisce un atto amministrativo autoritativo attraverso il quale l’amministrazione enuncia le ragioni della pretesa tributaria – non osta all’applicazione di istituti appartenenti al diritto processuale, soprattutto quando vi sia un espresso richiamo di questi nella disciplina tributaria. Pertanto, l’applicazione per l’avviso di accertamento, in virtù dell’art. 60 dPR 29 settembre 1973, n. 600, delle norme sulle notificazioni nel processo civile comporta, quale logica necessità, l’applicazione del regime delle nullità e delle sanatorie per quelle dettato, con la conseguenza che la proposizione del ricorso del contribuente produce l’effetto di sanare la nullità della notificazione dell’avviso di accertamento per raggiungimento dello scopo dell’atto ex art. 156 cpc. Tuttavia, tale sanatoria può operare soltanto se il conseguimento dello scopo avvenga prima della scadenza del termine di decadenza – previsto dalle singole leggi d’imposta – per l’esercizio del potere di accertamento.

Il nuovo art. 7-sexies dello Statuto distingue, invece, i vizi della notifica a seconda che si tratti di inesistenza («È inesistente la notificazione degli atti impositivi o della riscossione priva dei suoi elementi essenziali ovvero effettuata nei confronti di soggetti giuridicamente inesistenti, totalmente privi di collegamento con il destinatario o estinti») ovvero nullità, prevedendo solo in quest’ultimo caso che il vizio possa essere sanato dal raggiungimento dello scopo dell’atto, ma – precisa la norma, introducendo un ulteriore elemento di novità rispetto alla normativa previgente ma recependo la giurisprudenza precedente delle richiamate sezioni unite – «sempreché l’impugnazione sia proposta entro il termine di decadenza dell’accertamento».

Un’altra novità attiene agli effetti della notifica di un atto nei confronti del coobbligato. Nel sistema pregresso, la notifica di un provvedimento a carico del debitore principale interrompe la prescrizione anche nei confronti dei debitori obbligati in solido, ai sensi dell’art. 1310 cc, norma che, sebbene faccia riferimento alla prescrizione, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto applicabile in ambito tributario anche con riferimento ai termini decadenziali (così Cass.: 29 settembre 2021, n. 26346; 1° febbraio 2018, n. 2545; ord. 25 giugno 2017, n. 13248; 27 gennaio 2016, n. 1463). Pertanto, la notifica della cartella di pagamento nei confronti del debitore principale, laddove tempestiva, è idonea ad evitare la decadenza in oggetto anche nei confronti del condebitore solidale. 

Nel nuovo regime normativo, la richiesta di pagamento va effettuata nei confronti di tutti gli obbligati in solido, notificando quindi a tutti i soggetti, nel rispetto dei termini decadenziali, un atto di accertamento: la norma infatti stabilisce che, a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto, gli effetti della notificazione, ivi compresi quelli interruttivi, sospensivi o impeditivi, si producono solo nei confronti del destinatario e non si estendono ai terzi, ivi inclusi i coobbligati.

 

10. Le attività di supporto dell’amministrazione: circolari, consulenza, consultazione semplificata, interpello

Il nuovo art. 10-sexies dello Statuto dispone che l’amministrazione finanziaria fornisce supporto ai contribuenti nell’interpretazione e nell’applicazione delle disposizioni tributarie mediante: a) circolari interpretative e applicative; b) consulenza giuridica; c) interpello; d) consultazione semplificata.

In particolare, l’amministrazione finanziaria pubblica circolari per fornire: a) la ricostruzione del procedimento formativo delle nuove disposizioni tributarie e i primi chiarimenti dei loro contenuti; b) approfondimenti e aggiornamenti interpretativi conseguenti a nuovi orientamenti legislativi e giurisprudenziali; c) inquadramenti sistematici su tematiche di particolare complessità; d) istruzioni operative ai suoi uffici.

L’amministrazione finanziaria svolge dunque un’attività interpretativa, esprimendo la propria lettura relativamente a determinate disposizioni. L’interpretazione ministeriale non è manifestazione di attività normativa e dunque non vincola né i contribuenti, né i giudici, né costituisce fonte di diritto: si tratta cioè di atti ad efficacia meramente interna, deputati a regolare e a coordinare l’azione dell’amministrazione finanziaria nel suo complesso e privi di valore vincolante per gli organi deputati, in sede giurisdizionale, all’applicazione degli atti normativi.

In quanto tali, le circolari non sono impugnabili in via autonoma né di fronte al giudice amministrativo, non essendo un atto generale di imposizione, né innanzi al giudice tributario, non essendo atto di esercizio di potestà impositiva, dovendo il contribuente attendere l’atto impositivo che si conforma all’interpretazione indicata nella circolare. La circolare è stata peraltro tradizionalmente ritenuta non vincolante per la stessa amministrazione finanziaria, non solo potendo lo stesso organo emittente mutare la propria opinione interpretativa e così tornare sui propri passi, ma anche potendosene gli stessi uffici ai quali essa è diretta discostare, salvi in tale caso i profili di responsabilità disciplinare.

Nel caso di revirement dell’amministrazione, peraltro, se una ripercussione sulla validità degli atti di imposizione e, conseguentemente, sulla debenza del tributo vene di solito esclusa – e se ne trae conferma dalla previsione dell’art. 11 dello Statuto in tema di interpello, che sanziona di nullità solo gli atti di accertamento emanati dall’amministrazione finanziaria in difformità dalla risposta fornita tramite interpello (vds. per la detta soluzione, da ultimo, sez. V, ord. 9 gennaio 2019, n. 370, Rv. 652305 - 01) –, il principio di buona fede nel diritto tributario e la tutela dell’affidamento del contribuente hanno portato alla previsione normativa dell’art. 10 dello Statuto dei diritti del contribuente, che ha previsto che «non sono irrogate sanzioni, né richiesti interessi moratori al contribuente, qualora egli si sia conformato a indicazioni contenute in atti dell’amministrazione finanziaria, ancorché successivamente modificate dall’amministrazione medesima, o qualora il suo comportamento risulti posto in essere a seguito di fatti direttamente conseguenti a ritardi, omissioni od errori dell’amministrazione stessa» e che «le sanzioni non sono comunque irrogate quando la violazione dipende da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della norma tributaria». 

La tutela dell’affidamento avverso il revirement dell’amministrazione è, peraltro, principio con portata espansiva, specie in materia di tributi armonizzati, ove la Corte di giustizia UE ha affermato l’efficacia esimente dell’affidamento anche in relazione ai tributi (Cgue: 14 settembre 2006, C-181/04, Elmeka; 9 luglio 2015, C-183/14, Salomie e Oltan; 9 luglio 2015, 0144/14, Cabinet Medical Veterinar), con l’unica eccezione della mera “prassi illegittima” (Cgue, 11 aprile 2018, C-532/1).

Una risposta specifica da parte dell’amministrazione finanziaria può essere sollecitata mediante un’istanza di consulenza giuridica, istituto già disciplinato solo da prassi ministeriale e oggi disciplinato dallo Statuto, che prevede che l’amministrazione finanziaria offra, su richiesta, consulenza giuridica alle associazioni sindacali e di categoria, agli ordini professionali, agli enti pubblici o privati, alle Regioni e agli enti locali, nonché alle amministrazioni dello Stato, per fornire chiarimenti interpretativi di disposizioni tributarie su casi di rilevanza generale che non riguardino singoli contribuenti.

Le richieste di consulenza differiscono dalle istanze di interpello, in quanto la questione rappresentata non è immediatamente riferibile a uno specifico contribuente, ma a una più ampia platea di potenziali destinatari ed è, per l’appunto, proposta attraverso un’associazione di categoria, un ordine professionale (cd. “consulenza esterna”), ovvero una pubblica amministrazione (cd. “consulenza interna”). 

La richiesta di consulenza giuridica non ha effetto sulle scadenze previste dalle norme tributarie, sulla decorrenza dei termini di decadenza, e non comporta interruzione o sospensione dei termini di prescrizione.

Al pari delle risposte all’interpello, i pareri resi in sede di consulenza giuridica non vincolano il contribuente, che resta libero di determinarsi in senso non conforme. Trova applicazione anche in sede di consulenza la surriferita previsione dell’art. 10, comma 2 dello Statuto. 

È pure prevista oggi una consultazione semplificata: le persone fisiche e i contribuenti di minori dimensioni, avvalendosi dei servizi telematici dell’amministrazione finanziaria, accedono gratuitamente, su richiesta relativa a casi concreti, anche per il tramite di intermediari specificamente delegati, a un’apposita banca dati che, nel rispetto della normativa in materia di tutela dei dati personali, contiene i documenti di cui all’art. 10-sexies, le risposte a istanze di consulenza giuridica e interpello, le risoluzioni e ogni altro atto interpretativo.

La banca dati consente l’individuazione della soluzione al quesito interpretativo o applicativo esposto dal contribuente. Quando la risposta al quesito non è individuata univocamente, la banca dati informa il contribuente che può presentare istanza di interpello (in proposito, si ricorda che l’utilizzazione del servizio di consulenza semplificata è condizione di ammissibilità ai fini della presentazione di istanze di interpello). La risposta produce gli effetti di cui all’art. 10, comma 2, esclusivamente nei confronti del contribuente istante.

È stata ridisciplinata dallo Statuto la procedura di interpello, ossia quel procedimento attraverso il quale il contribuente chiede preventivamente all’amministrazione finanziaria, prima che un’attività di controllo dell’amministrazione finanziaria sia attivata, un parere sul regime fiscale di un fatto, atto o negozio, così da evitare di subire a posteriori le conseguenze di eventuali errori nell’applicazione della legge tributaria. 

Il legislatore consente una pluralità di forme di interpello, accomunate dalla finalità di conoscere il parere dell’amministrazione finanziaria (ad esempio, oltre all’interpello cd. “ordinario”, di cui all’art. 11 l. n. 212/2000, si richiamano: l’interpello probatorio, relativo alla sussistenza delle condizioni e alla valutazione della idoneità degli elementi probatori richiesti dalla legge per l’adozione di specifici regimi fiscali nei casi espressamente previsti; l’interpello “antiabuso”, al fine di ottenere il parere dell’amministrazione finanziaria in ordine all’applicazione della disciplina sull’abuso del diritto a una specifica fattispecie; l’interpello “disapplicativo” di norme antielusive specifiche ex art. 37-bis, comma 8, dPR n. 600/1973; il tax ruling internazionale di cui all’art. 8 dl n. 269/2003). 

Il contribuente può interpellare l’amministrazione finanziaria per ottenere una risposta riguardante fattispecie concrete e personali relativamente alla:

a) applicazione delle disposizioni tributarie, quando vi sono condizioni di obiettiva incertezza sulla loro corretta interpretazione;

b) corretta qualificazione di fattispecie alla luce delle disposizioni tributarie ad esse applicabili;

c) disciplina dell’abuso del diritto in relazione a una specifica fattispecie;

d) disapplicazione di disposizioni tributarie che, per contrastare comportamenti elusivi, limitano deduzioni, detrazioni, crediti d’imposta o altre posizioni soggettive del contribuente altrimenti ammesse dall’ordinamento tributario, fornendo la dimostrazione che, nella particolare fattispecie, tali effetti elusivi non possono verificarsi;

e) sussistenza delle condizioni e valutazione dell’idoneità degli elementi probatori richiesti dalla legge per l’adozione di specifici regimi fiscali nei casi espressamente previsti dalla legge;

f) sussistenza delle condizioni e valutazione dell’idoneità degli elementi probatori richiesti dalla legge ai fini dell’art. 24-bis dPR 22 dicembre 1986, n. 917.

Oggi, la presentazione dell’istanza di interpello è in ogni caso subordinata al versamento di un contributo. L’istanza, come detto, deve essere preventiva, a pena di inammissibilità, ossia deve essere presentata prima della scadenza dei termini previsti dalla legge per la presentazione della dichiarazione o per l’assolvimento di altri obblighi tributari aventi ad oggetto la (o comunque connessi alla) fattispecie cui si riferisce l’istanza medesima.

L’istanza deve essere proposta in presenza di condizioni di obiettiva incertezza sulla normativa applicabile, che non si verifica qualora l’amministrazione finanziaria abbia già fornito, mediante documenti di prassi o risoluzioni, la soluzione per fattispecie corrispondenti a quella rappresentata dal contribuente.

L’interpello, a pena di inammissibilità, deve identificare l’istante e contenere «la circostanziata e specifica descrizione della fattispecie»: dunque, l’interpello deve avere ad oggetto fattispecie concrete – sicché non potranno formularsi richieste di parere “in astratto” – e personali, riguardanti cioè il contribuente istante (potranno, tuttavia, formulare l’istanza anche i soggetti obbligati in base alla legge a porre in essere gli adempimenti per conto dei contribuenti, i sostituti di imposta e gli obbligati solidali dipendenti).

In caso di silenzio sull’istanza, si forma l’assenso sulla soluzione interpretativa (se) prospettata dal contribuente: infatti – dispone la norma – quando la risposta non è comunicata al contribuente entro il termine previsto, il silenzio equivale a condivisione della soluzione prospettata dal contribuente da parte dell’amministrazione. 

La risposta dell’ufficio finanziario vincola “ogni organo della amministrazione” (e dunque anche la GdF), ma con esclusivo riferimento alla questione oggetto dell’istanza e limitatamente al richiedente: gli atti, anche a contenuto impositivo o sanzionatorio difformi dalla risposta, espressa o tacita, sono annullabili. 

Il parere dell’Agenzia non vincola invece il contribuente (il quale ben può decidere di non uniformarsi al parere reso: Corte cost., n. 191/2007): per tale ragione, si riteneva si trattasse di atto non impugnabile, dovendosi dunque attendere l’avviso di accertamento con il quale si contestava il comportamento del contribuente a sé favorevole in contrasto con il parere espresso in sede di interpello. Oggi la norma conferma la non impugnabilità della risposta all’istanza di interpello.

In ogni caso, va ricordato che la presentazione dell’istanza di interpello non incide sulle scadenze previste dalle norme tributarie né sulla decorrenza dei termini di decadenza, e non comporta interruzione o sospensione dei termini di prescrizione.

 

11. L’autotutela

Secondo i principi generali del diritto amministrativo, l’amministrazione ha la possibilità di riesaminare la propria attività, mediante correzione o rimozione dei propri atti che riconosca essere viziati sotto il profilo della legittimità o del merito, se del caso sostituendoli con un nuovo atto: l’autotutela, dunque, non si limita tuttavia alla fattispecie del ritiro del precedente atto o del cd. “controatto”, avente identica struttura dell’atto precedente ma dispositivo di segno contrario, ma può coinvolgere anche la sua riforma, in cui non si nega il contenuto dell’atto precedente ma lo si sostituisce con uno diverso (cd. “autotutela sostitutiva”). È un’attività amministrativa, che può provenire dallo stesso ufficio autore dell’atto soggetto a riesame (autotutela immediata) oppure da un organo, generalmente superiore, che appartiene alla stessa organizzazione dell’ufficio autore dell’atto (autotutela mediata). 

L’istituto è previsto anche nel diritto tributario da varie disposizioni.

Ricorrendone i presupposti, l’ufficio procede all’autotutela anche d’ufficio, e anche se l’atto è divenuto ormai definitivo per avvenuto decorso dei termini per ricorrere, ovvero è stato impugnato e vi è pendenza di giudizio, o ancora se il ricorso presentato è stato respinto con sentenza passata in giudicato per motivi di ordine formale. L’unico limite all’autotutela è l’emanazione di una sentenza passata in giudicato per motivi di ordine sostanziale (la giurisprudenza, peraltro, distinguendo tra vizi originari ed eventi sopravvenuti, ha ammesso la possibilità, da parte degli uffici, di procedere all’annullamento in autotutela per vizi diversi da quelli già dedotti nel giudizio conclusosi con il giudicato e ivi espressamente rigettati, in deroga al principio secondo cui il giudicato copre il dedotto e il deducibile).

Nel sistema originario dello Statuto, non si prevedeva l’impugnabilità del rifiuto di autotutela. La Cassazione aveva affermato in materia (sez. unite, 10 agosto 2005, n. 16776, Rv. 585321 - 01) che appartengono alla giurisdizione tributaria le controversie nelle quali si impugni il rifiuto espresso o tacito dell’amministrazione a procedere ad autotutela, alla luce dell’art. 12, comma 2 della legge 28 dicembre 2001, n. 448, in forza del quale la giurisdizione tributaria è divenuta, nell’ambito suo proprio, una giurisdizione a carattere generale, competente ogni qual volta si faccia questione di uno specifico rapporto tributario o di sanzioni inflitte da uffici tributari, dal cui ambito restano così escluse solo le controversie in cui non è direttamente coinvolto un rapporto tributario, ma viene impugnato un atto di carattere generale (art. 7, comma 5, d.lgs 31 dicembre 1992, n. 546), o si chiede il rimborso di una somma indebitamente versata a titolo di tributo, della quale l’amministrazione riconosce pacificamente la spettanza al contribuente. La novella del 2001, infatti, ha necessariamente comportato una modifica del disposto dell’art. 19 d.lgs n. 546/1992, perché l’aver consentito l’accesso al contenzioso tributario in ogni controversia avente ad oggetto tributi si traduce nella possibilità per il contribuente di rivolgersi al giudice tributario quando l’amministrazione manifesti, anche attraverso il silenzio-rigetto, la convinzione che il rapporto tributario debba essere regolato in termini che il contribuente ritenga di contestare. Nell’affermare il principio, peraltro, la Corte ha avuto cura di precisare, riguardo al caso di specie, che questione altra e diversa da quella di giurisdizione, e di competenza – appunto – del giudice tributario, è stabilire se il rifiuto di autotutela sia o meno impugnabile, così come valutare se con l’istanza di autotutela il contribuente chieda l’annullamento dell’atto impositivo per vizi originari di questo, o per eventi sopravvenuti.

Cass., sez. unite, 27 marzo 2007, n. 7388 (Rv. 596024 - 01) aveva anche affermato che, in tema di contenzioso tributario e con riferimento all’impugnazione degli atti di rifiuto dell’esercizio del potere di autotutela da parte dell’amministrazione finanziaria, il sindacato del giudice deve riguardare, ancor prima dell’esistenza dell’obbligazione tributaria, il corretto esercizio del potere discrezionale dell’amministrazione, nei limiti e nei modi in cui esso è suscettibile di controllo giurisdizionale, che non può mai comportare la sostituzione del giudice all’amministrazione in valutazioni discrezionali, né l’adozione dell’atto di autotutela da parte del giudice tributario, ma solo la verifica della legittimità del rifiuto dell’autotutela in relazione alle ragioni di rilevante interesse generale che, ai sensi dell’art. 2-quater dl 20 settembre 1994, n. 564 (conv., con mod., dalla l. 30 novembre 1994, n. 656) e dell’art. 3 dm 11 febbraio 1997, n. 37, ne giustificano l’esercizio. Ove il rifiuto dell’annullamento d’ufficio contenga una conferma della fondatezza della pretesa tributaria e tale fondatezza sia esclusa dal giudice, l’amministrazione è tenuta ad adeguarsi alla relativa pronuncia, potendo altrimenti esperirsi il rimedio del ricorso per ottemperanza, il quale, peraltro, non attribuisce alle commissioni tributarie una giurisdizione estesa al merito.

In altri termini, il sindacato giurisdizionale ammesso dalla giurisprudenza (vds. anche Cass., 6 marzo 2019, n. 6509, e Cass., 28 marzo 2018, n. 7616) riguardava la legittimità del rifiuto, dunque i vizi propri del diniego di autotutela, e non la fondatezza della pretesa tributaria, dandosi altrimenti ingresso a una controversia inammissibile sulla legittimità di un atto impositivo ormai definitivo.

Peraltro, l’ottemperanza della decisione che dichiarava illegittimo il rifiuto di autotutela poteva avere effetto conformativo dell’azione amministrativa, imponendo all’amministrazione l’emanazione di un nuovo atto conforme alle norme (esempio classico il caso di atto in luogo di quello originario contenente errore di persona, in relazione al quale l’amministrazione era rimasta inerte avverso l’istanza di autotutela del privato).

I nuovi articoli 10-quater e 10-quinquies della legge n. 212/2000 rappresentano una novità rilevante, in quanto modificano sostanzialmente il quadro normativo e giurisprudenziale cui finora si è fatto riferimento, incentrato sul carattere discrezionale del potere di annullamento in autotutela. 

Ai sensi dell’art. 10-quater («Esercizio del potere di autotutela obbligatoria»), l’amministrazione finanziaria procede in tutto o in parte all’annullamento di atti di imposizione ovvero alla rinuncia all’imposizione, senza necessità di istanza di parte, anche in pendenza di giudizio o in caso di atti definitivi, nei seguenti casi di manifesta illegittimità dell’atto o dell’imposizione:

a) errore di persona;

b) errore di calcolo;

c) errore sull’individuazione del tributo;

d) errore materiale del contribuente, facilmente riconoscibile dall’amministrazione finanziaria;

e) errore sul presupposto d’imposta;

f) mancata considerazione di pagamenti di imposta regolarmente eseguiti;

g) mancanza di documentazione successivamente sanata, non oltre i termini ove previsti, a pena di decadenza.

L’obbligo predetto non sussiste in caso di sentenza passata in giudicato favorevole all’amministrazione finanziaria.

La norma individua come ostacolo all’esercizio obbligatorio dell’annullamento in autotutela la presenza di una sentenza passata in giudicato, senza specificare il tipo di giudicato (se non indicando che sia favorevole all’amministrazione), ma la relazione illustrativa al d.lgs n. 219/2023 afferma che non è ostativo all’autotutela né un giudicato meramente processuale, né un giudicato sostanziale basato su motivi diversi da quelli che giustificano l’autotutela.

L’autotutela obbligatoria non è esercitabile decorso un anno dalla definitività dell’atto viziato per mancata impugnazione.

Ai sensi dell’art. 10-quinquies («Esercizio del potere di autotutela facoltativa»), per converso, al di fuori dei casi sopra detti di cui all’art. 10-quater, l’amministrazione finanziaria può comunque procedere all’annullamento, in tutto o in parte, di atti di imposizione ovvero alla rinuncia all’imposizione, senza necessità di istanza di parte, anche in pendenza di giudizio o in caso di atti definitivi, in presenza di una illegittimità o dell’infondatezza dell’atto o dell’imposizione.

Va poi rilevato che il rifiuto all’autotutela oggi è espressamente impugnabile, ai sensi dell’art. 19, comma 1, d.lgs n. 546/1992, come modificato dal d.lgs n. 220/2023 («Disposizioni in materia di contenzioso tributario»).

 

12. La privacy e i dati del contribuente

La nuova disciplina reca due diverse disposizioni a tutela della privacy del contribuente.

La prima prevede che la pubblicazione e ogni informazione relative ai redditi tassati, anche previste dall’art. 15 della legge 5 luglio 1982, n. 441, sia nelle forme contemplate dalla stessa legge sia da parte di altri soggetti, deve sempre comprendere l’indicazione dei redditi anche al netto delle relative imposte.

La seconda prevede un divieto di divulgazione dei dati e delle informazioni riguardanti i contribuenti, contenuti in banche dati, di altri soggetti pubblici e che l’amministrazione finanziaria ha il potere di acquisire, anche attraverso l’interoperabilità.

 

13. Il Garante nazionale del contribuente

Da ultimo, viene istituito il Garante nazionale del contribuente, organo monocratico con sede in Roma, che opera in piena autonomia e che è scelto (tra magistrati, professori universitari di materie giuridiche ed economiche, notai, in servizio o a riposo, ovvero avvocati, dottori commercialisti e ragionieri collegiati, in pensione, questi ultimi designati in una terna formata dai rispettivi ordini nazionali di appartenenza) e nominato dal Ministro dell’economia e delle finanze per la durata di quattro anni, rinnovabile una sola volta, tenuto conto della professionalità, produttività e attività svolta.

Il Garante nazionale, sulla base di segnalazioni scritte del contribuente o di qualsiasi altro soggetto che lamenti disfunzioni, irregolarità, scorrettezze, prassi amministrative anomale o irragionevoli o qualunque altro comportamento suscettibile di incrinare il rapporto di fiducia tra cittadini e amministrazione finanziaria:

a) può rivolgere raccomandazioni ai direttori delle agenzie fiscali ai fini della tutela del contribuente e della migliore organizzazione dei servizi;

b) può accedere agli uffici finanziari per controllare la funzionalità dei servizi di assistenza e di informazione al contribuente, nonché l’agibilità degli spazi aperti al pubblico;

c) può richiamare gli uffici finanziari al rispetto di quanto previsto dagli artt. 5 e 12, nonché al rispetto dei termini previsti per il rimborso d’imposta;

d) relaziona ogni 6 mesi sull’attività svolta al Ministro dell’economia e delle finanze, ai direttori delle agenzie fiscali, al Comandante generale della GdF, individuando gli aspetti critici più rilevanti e prospettando le relative soluzioni;

e) con relazione annuale, fornisce al Governo e al Parlamento dati e notizie sullo stato dei rapporti tra fisco e contribuenti nel campo della politica fiscale.

 

14. Conclusioni

In conclusione, può dirsi che l’intervento operato dal Governo delegato con il decreto n. 219 del 2023 (unitamente al decreto n. 220) è un intervento di ampio respiro, da valutarsi con estremo favore, avendo esso da un lato reso chiare le previsioni in materia (positivizzando principi fino ad allora inespressi in testi normativi, ma affermati dalla giurisprudenza di legittimità) e, dall’altro, aumentato le tutele del contribuente verso l’amministrazione finanziaria, rendendo il rapporto dei cittadini con il potere pubblico più democratico.