Magistratura democratica

Le novità normative in tema di prova nel nuovo processo tributario

di Carmela Perago

La riforma modifica la disciplina delle prove nel processo tributario e supera il vecchio divieto di prova testimoniale.

1. Premessa: le prove nell’accertamento e nel processo / 2. Il principio dispositivo / 3. La novità normativa: il superamento del divieto di prova testimoniale / 4. La testimonianza scritta nel processo tributario: una prova residuale / 5. Le modalità di assunzione / 6. Le prove in appello 

 

1. Premessa: le prove nell’accertamento e nel processo

La materia della prova nel settore tributario risulta condizionata dalla particolare struttura del rapporto sottostante, caratterizzato, da un lato, dalla conoscibilità diretta del presupposto di fatto solo da parte del contribuente – che è il soggetto interessato a limitare il prelievo fiscale – e, dall’altro, dall’interesse erariale a una più semplice dimostrazione della quantità di tale presupposto di fatto. Tale condizionamento comporta, pertanto, una riduzione dei diritti riconosciuti nell’ambito civilistico a qualsiasi debitore di una prestazione pecuniaria. 

Una riflessione che abbia ad oggetto il regime dei mezzi probatori nel contenzioso tributario deve necessariamente partire dall’esame dei rapporti tra procedimento di accertamento e processo tributario e, cioè, dei rapporti tra motivazione e prova. Sarebbe logico che l’amministrazione finanziaria, una volta conclusa l’istruttoria amministrativa, trasmetta le relative risultanze probatorie nell’avviso di accertamento. La richiesta erariale non potrebbe giustificarsi a posteriori: è l’acquisizione e la valutazione delle prove raccolte che costituisce la premessa di tale pretesa e dell’atto impositivo. La Cassazione, però, già in passato ha affermato che l’omessa indicazione da parte dell’ufficio che ha emesso l’avviso di accertamento delle prove non importa la nullità dell’atto impositivo: ciò in quanto l’onere di allegazione incombe in capo all’amministrazione, ma solo nel giudizio promosso dal contribuente. Di conseguenza, le prove idonee a sostenere l’avviso di accertamento non dovrebbero essere ivi menzionate e comunicate.

È sufficiente, quindi, ai fini della corretta motivazione dell’atto, che l’ente erariale dia atto degli elementi di fatto e di diritto sui quali si fonda la pretesa impositiva, giacché in sede processuale sarà fornita la dimostrazione (rectius: la prova provata) dell’esistenza dei fatti oggetto di contestazione.

Indirettamente, ciò conferma che il processo tributario deve essere basato sulle prove raccolte dalle parti e da queste addotte a base del procedimento processuale; i poteri del giudice tributario sono residuali ed eccezionali e, affinché tali poteri possano essere esercitati, è necessario che l’amministrazione finanziaria abbia adempiuto i propri compiti istruttori prima di emettere l’atto. Il mancato esercizio di questi comporterà la nullità dell’atto impositivo per difetto di motivazione, né il giudice tributario potrà proseguire nella verifica della sussistenza del rapporto d’imposta e procedere a un’autonoma istruttoria, in quanto tale comportamento sarebbe sostitutivo delle precipue spettanze dell’a.f.[1].

Questo è ancora più evidente se consideriamo che gli atti impugnabili ai sensi dell’art. 19 d.lgs n. 546/1992 sono atti amministrativi e, in quanto tali, devono avere tutti i requisiti previsti dalla legge ed essere emessi secondo la procedura per essi prevista.

 

2. Il principio dispositivo

Da quanto detto precedentemente emerge che il processo tributario ha natura dispositiva. Il giudice non può, quindi, conoscere fatti al di fuori di quelli addotti dalle parti e, anzi, i fatti rilevanti su cui dovrebbe basarsi il suo giudizio sono solo quelli addotti dall’a.f. quale fondamento dell’atto successivamente impugnato, e non altri.

Nel processo tributario la prova forma la base per l’accertamento giurisdizionale dei fatti sottostanti alla controversia devoluta al giudice tributario, condizionando quindi la decisione sulla disciplina normativa della situazione controversa.

Le recentissime modifiche intervenute confermano il principio del libero convincimento del giudice, che potrà fondare la propria decisione sul materiale probatorio offerto dalle parti oppure raccolto nell’esercizio dei poteri istruttori previsti dalla legge.

Si innesta, in questo ambito, l’interpretazione fornita dalla Corte sulla portata applicativa del comma 5-bis, dell’art. 7, introdotto dall’art. 6, comma 1, l. n. 130/2022, secondo cui: «L’amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato. Il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni. Spetta comunque al contribuente fornire le ragioni della richiesta di rimborso, quando non sia conseguente al pagamento di somme oggetto di accertamenti impugnato» (Cass., sez. V, n. 31878/2022).

La suddetta previsione normativa ribadisce, in maniera circostanziata, l’onere probatorio gravante in giudizio sull’amministrazione finanziaria in ordine alle violazioni contestate al contribuente per le quali non vi siano presunzioni legali che comportino l’inversione dell’onere probatorio. Pertanto, la nuova formulazione legislativa non stabilisce un onere probatorio diverso o più gravoso rispetto ai principi già vigenti in materia, ma è coerente con le ulteriori modifiche legislative in tema di prova, che assegnano all’istruttoria dibattimentale un ruolo centrale. Recentissima, Cass., n. 2746/2024 ha ribadito, del resto, il carattere confermativo della disposizione in esame, con la chiara intenzione di salvaguardare le presunzioni legali stabilite dalla normativa sostanziale tributaria.

Dalla natura dispositiva del processo tributario discendono due ulteriori limiti all’esercizio dei poteri istruttori del giudice:

a) l’impossibilità per il giudice di assumere prove senza dare alle parti la possibilità di assumere prova contraria, in quanto ciò violerebbe il principio del contraddittorio, che è un principio cardine costituzionalmente protetto dagli artt. 24 e 111 Cost.;

b) l’impossibilità per il giudice di porre a fondamento della decisione conoscenze derivanti dalle fonti personali e private e non ricollegabili all’ufficio ricoperto: si applica il cd. “divieto di scienza privata”, di cui agli artt. 115 cpc e 97 disp. att. cpc. La ragione della formulazione dell’art. 115 cpc e del generale divieto di iniziativa ex officio si rinviene nel timore che il giudice, “intromettendosi con proprie iniziative”, possa venir meno al suo dovere di imparzialità e non sia, quindi, equanime o equidistante dalle parti[2]. La ratio è evidente: si cerca di evitare che la pronuncia del giudice si possa basare su «conoscenze individuali, soggettive, non controllabili»[3].

Questo orientamento, in sordina nel dPR. n. 636/1972, è esplicitato nei dd.lgss nn. 545 e 546 del 1992, che hanno accentuato i profili dispositivi del modulo processuale tributario, pur confermando le limitazioni non esistenti davanti al giudice ordinario, considerato che la previgente versione dell’art. 7 escludeva la possibilità della prova testimoniale e del giuramento. La riconduzione del processo tributario alla categoria dei processi di tipo inquisitorio, in passato, corrispondeva alla opinione prevalente. Le successive puntualizzazioni e rimeditazioni critiche hanno sottolineato la distinzione tra il profilo dell’allegazione dei fatti, sui quali il giudice tributario è chiamato a pronunciarsi, e il profilo dell’acquisizione dei mezzi di prova relativi ai fatti medesimi. Per quanto riguarda il primo profilo, è incontestabile l’applicazione del principio dispositivo al processo tributario, in forza del quale nessun potere può essere attribuito alla commissione tributaria/corte di giustizia in tema di individuazione dei fatti di causa; con riferimento al secondo profilo, permane una natura blandamente inquisitoria del processo tributario, tenuto conto dei mezzi istruttori che il giudice può acquisire d’ufficio ai sensi dell’art. 7 d.lgs n. 546/1992[4].

Possiamo ritenere vigente il principio del libero convincimento del giudice, che potrà fondare la propria decisione sul materiale probatorio offerto dalle parti oppure raccolto nell’esercizio dei poteri istruttori previsti dalla legge, principio che però risulta soverchiato dalle presunzioni legali – pensiamo alla presenza di accertamenti fondati su studi di settore, ossia su criteri statistico-matematici elaborati sulla base di complessi ragionamenti e volti a indirizzare gli uffici nell’esercizio dei poteri di controllo e d’imposizione riconosciuti dalla legge.

La legge nulla dice sull’ammissibilità dell’interrogatorio libero delle parti o della confessione. Di per sé, non vi sarebbero motivi ostativi all’espletamento del primo, ma la confessione non avrebbe rilevanza di prova legale e, comunque, una confessione dell’amministrazione finanziaria è di per sé inammissibile ai sensi dell’art. 2731 cc, non potendo la stessa disporre del diritto controverso. La dottrina, del resto, ha sempre escluso che nel processo tributario possano formarsi prove legali, come d’altronde risulta confermato dal divieto di giuramento decisorio.

 

3. La novità normativa: il superamento del divieto di prova testimoniale

Il divieto di prova testimoniale è stato introdotto testualmente nell’art. 35, comma 5, dPR n. 636/1972 (modifica introdotta dal dPR n. 739/1981): non era infatti presente nell’originaria formulazione, che nulla prevedeva al riguardo, tant’è che era ammesso dalla dottrina e dalla giurisprudenza[5]. Tale formulazione era poi stata recepita dall’art. 7, comma 4, d.lgs n. 546/1992, ma è sempre stata guardata con sfavore e ritenuta un’inammissibile limitazione del diritto di difesa del solo contribuente rispetto all’amministrazione finanziaria, la quale, invece, poteva avvalersi di dichiarazioni di natura testimoniale assunte nell’ambito del procedimento di accertamento, cioè le dichiarazioni di terzi riportabili all’interno delle prove atipiche o innominate.

Il palesato contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost. è stato, però, ripetutamente rigettato dalla Corte costituzionale, secondo cui il solo fatto dell’esclusione di un mezzo di prova non costituisce violazione di per sé del diritto di difesa, e l’art. 24 Cost. non esclude la possibilità per il legislatore processuale di regolare diversamente le modalità di esercizio di tale diritto, in funzione delle caratteristiche dei singoli procedimenti[6].

Il divieto della testimonianza aveva una possibile ratio giustificativa (al di là della ragione pratica di rendere celere il processo tributario a fronte di possibili lungaggini determinate dall’assunzione della prova testi) fondata sulla considerazione che tale mezzo di prova costituenda, idonea a inserirsi in un processo caratterizzato dall’oralità, sarebbe incompatibile con quello tributario, che è prevalentemente un processo documentale. L’evidente disfavore del legislatore risiedeva nel sottinteso timore che essa favorisse l’omertà diffusa tra i contribuenti. 

Si rilevava in dottrina che non c’è ragione di ritenere inaffidabile, sol perché la controparte è il fisco, una prova testimoniale la cui credibilità deve comunque essere vagliata dal libero convincimento del giudice, senza vincoli di prova legale, con la conclusione – critica – che «il divieto di prova testimoniale è quindi consono a un processo sbrigativo e sommario, in cui si mortificano quei principi dell’oralità, del contraddittorio e della formazione giudiziale della prova cui è stata data addirittura rilevanza costituzionale»[7].

La Corte costituzionale prima e, poi, la giurisprudenza di legittimità hanno mitigato il divieto di cui all’art. 7 previgente: a) Corte cost., n. 18/2000 ha puntualizzato che dal divieto di prova testimoniale non è possibile dedurre l’assoluta inutilizzabilità, in sede processuale, delle dichiarazioni di terzi eventualmente raccolte dall’a.f. nella fase procedimentale[8]; b) la Suprema corte, nella considerazione delle fonti eurounionali, ha ammesso le dichiarazioni provenienti da terzi.

Ad esempio, in materia di prove, si è riconosciuto al contribuente, oltre che all’a.f. – in attuazione del principio del giusto processo di cui all’art. 6 Cedu –, «la possibilità di introdurre, nel giudizio dinanzi alle commissioni tributarie, dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale aventi, anche per il contribuente, il valore probatorio proprio degli elementi indiziari» (sez. V, n. 09903/2020). Infatti, nel processo tributario la dichiarazione del terzo, sostitutiva di atto notorio, non è assimilabile alla prova testimoniale (preclusa dall’art. 7, comma 4, d.lgs n. 546/1992, come interpretato dalle sentenze della Corte cost., nn. 18/2000 e 395/2007), ma costituisce un indizio ammissibile e utilizzabile tanto dall’amministrazione quanto dal contribuente, nel rispetto del principio della parità delle armi di cui all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (Cdfue), espressione del principio di uguaglianza ai fini dell’art. 3 Cost. (sez. V, n. 31588/2021). Da ultimo, Cass., sez. V, n. 08221/2023 ha ulteriormente sviluppato il filone giurisprudenziale suddetto, precisando che le dichiarazioni extraprocessuali di terzi sono ammissibili e utilizzabili con valore indiziario nel processo tributario sia dall’amministrazione sia dal contribuente, nel rispetto dell’art. 6 Cedu e del principio di parità delle armi di cui all’art. 47 Cdfue.

Un’altra decisione della sezione quinta (n. 24531/2019) si è fatta carico di esaminare la compatibilità del divieto di prova testimoniale nel processo tributario, di cui all’art. 7, comma 4, dPR n. 546/1992, con l’art. 6 della Cedu. È stato così statuito che il divieto non impedisce che le dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale, e recepite in forma di atto notorio o in verbali dell’amministrazione, costituiscano elementi indiziari, se non addirittura presuntivi, dei fatti cui si riferiscono, in linea con il principio del giusto processo, nel rispetto della giurisprudenza dei giudici di Strasburgo, in particolare delle sentenze della Corte Edu 23 novembre 2006, Jussila c. Finlandia, n. 73053/2001 e 12 luglio 2001, Ferrazzini c. Italia, n. 44759/1998[9].

L’esigenza del contribuente di avvalersi delle dichiarazioni testimoniali risulta evidente nelle ipotesi di accertamento presuntivo, quando cioè gli uffici pretendono di disattendere le risultanze delle prove documentali offerte dal contribuente in base a presunzioni. In tali ipotesi, in cui si contesta al contribuente di aver posto in essere una frode supportata da documenti falsi, la prova più ovvia e immediata per dimostrare l’infondatezza dell’addebito dovrebbe essere la testimonianza dei soggetti che possono avere diretta conoscenza dei fatti rappresentati nei documenti che si assumono inattendibili.

In ultimo, l’adeguamento si rendeva necessario considerato che, nel processo amministrativo – per tanti aspetti simile a quello tributario –, la prova testimoniale è stata poi ammessa dall’art. 63, comma 3, cpa, per il quale: «Su istanza di parte il giudice può ammettere la prova testimoniale, che è sempre assunta in forma scritta ai sensi del codice di procedura civile». In tale contesto, la fase istruttoria negli artt. da 63 a 69 è retta dal principio dispositivo (vds. Cons. Stato, sez. IV, 18 giugno 2009, n. 4004; Tar Friuli Venezia Giulia, 26 maggio 2011, n. 260), pur con alcun temperamenti inseriti nell’art. 64, comma 3, cpa, che prevede il potere del giudice di disporre l’acquisizione di informazioni e documenti utili al fine del decidere che siano nella disponibilità dell’amministrazione (di qualsiasi amministrazione, non solo della parte evocata in giudizio come resistente)[10].

Tale potere acquisitivo del giudice non può, però, mai essere sostitutivo dei poteri attribuiti alla parte e non esercitati, sempre che essa non si trovi nell’impossibilità di provare il fatto dedotto.

 

4. La testimonianza scritta nel processo tributario: una prova residuale

In generale, la testimonianza in senso lato è intesa come narrazione di fatti ad altri per renderli partecipi della conoscenza di tali fatti: in tale guisa, essa comprende dichiarazioni del tutto svincolate da un contesto avversariale o conflittuale, financo le risposte alle richieste di dati, informazioni e chiarimenti che possono essere rivolte sia dagli uffici finanziari, sia dalle corti di giustizia tributaria, ai sensi dell’art. 7, comma 1 («Le corti di giustizia tributaria di primo e secondo grado, ai fini istruttori e nei limiti dei fatti dedotti dalle parti, esercitano tutte le facoltà di accesso, di richiesta di dati, di informazioni e chiarimenti conferite agli uffici tributari ed all’ente locale da ciascuna legge d’imposta»). Peraltro, è frequente l’uso del termine “testimonianza” per indicare acquisizioni informative da parte della p.a., e nell’ambito del processo penale vi potrebbero rientrare anche le sommarie informazioni raccolte dalla polizia giudiziaria.

Se però facciamo riferimento al diritto processuale civile, considerato l’esplicito rinvio alle modalità da esso previste nell’art. 257-bis cpc richiamato, ci si riferisce a quelle narrazioni dei fatti della causa al giudice, compiute nel corso del processo e con determinate forme da soggetti che non sono parti nel processo stesso, e che sono attendibili proprio in quanto e nella misura in cui provengono da terzi imparziali[11], o più esattamente, indifferenti rispetto all’oggetto della causa – a differenza della confessione e del giuramento, che provengono dalla stessa parte coinvolta nel processo.

I terzi, peraltro, possono anche limitarsi a riferire dichiarazioni altrui nell’ipotesi di testimonianza de relato, ritenute ammissibili dalla giurisprudenza ma solo come supporto ad altre risultanze probatorie.

Le modalità di assunzione della prova costituenda sono disciplinate solo con riferimento alla cd. testimonianza scritta e, del resto, non avrebbe potuto essere altrimenti in un modulo processuale di tipo documentale, privo di una vera e propria fase di istruzione probatoria, preposta alla valutazione dell’ammissibilità e rilevanza del mezzo di prova e della relativa acquisizione.

Sembra necessario, pertanto, valutare l’applicazione dei limiti di ammissibilità inseriti nel codice di rito civile, ovvero i limiti soggettivi, cioè l’incapacità a testimoniare, secondo il linguaggio del codice di rito (o, meglio, difetto di legittimazione a deporre) e i limiti cd. oggettivi, cioè l’ambito di applicabilità del mezzo di prova:

1) nel primo caso, ai sensi dell’art. 246 cpc non può testimoniare chi ha un interesse nella causa, purché il suo interesse sia qualificato giuridicamente in modo tale da poter fondare un’ipotetica legittimazione a partecipare al giudizio[12] (pensiamo all’ipotesi di una testimonianza effettuata da un coobbligato). Si conferma come nel nostro ordinamento la legittimazione a testimoniare faccia ovviamente difetto quando la persona indicata come testimone sia, al momento della deposizione, la parte o comunque impersoni la parte e, in tal guisa, deve trovare recepimento anche nel processo tributario.

2) nel secondo caso, i limiti sono indicati nell’art. 2725 cc: essi escludono l’impiego della prova testimoniale come conseguenza del fatto che, per determinati atti, la legge fa dipendere dalla forma scritta la validità dell’atto medesimo. Suddetti limiti sono superabili ai sensi dell’art. 2724 cc nelle ipotesi ivi indicate, ma difficilmente estensibili al processo tributario, che ha ad oggetto specifici atti amministrativi.

Inoltre, il novello legislatore ha specificato che, nell’ipotesi in cui la pretesa dell’ente impositore sia fondata su verbali o altri atti facenti fede fino a querela di falso, la prova testimoniale è ammessa soltanto con riferimento a circostanze di fatto diverse da quelle attestate dal pubblico ufficiale. Condizione, peraltro, rinvenibile dall’art. 2700 cc, da cui emerge che il processo verbale di constatazione fa “piena prova” fino a querela di falso dei fatti compiuti dal pubblico ufficiale o avvenuti in sua presenza. 

L’art. 7, però, prevede ai fini dell’ammissibilità del nuovo mezzo di prova, con una formulazione sovrapponibile a quella utilizzata nell’art. 58 d.lgs n. 546/1992, che la corte di giustizia tributaria possa ammettere la detta prova «ove lo ritenga necessario ai fini della decisione».

La genericità dell’espressione utilizzata nel nuovo art. 7, comma 4, d.lgs n. 546/1992, in uno con il sottinteso richiamo a quella già adoperata nell’art. 58 – a proposito di ammissibilità di nuove prove in appello –, potrebbero naturalmente indurre a ritenere che il primo limite debba essere interpretato richiamando le soluzioni già tracciate dalla dottrina e dalla giurisprudenza a proposito del citato art. 58 d.lgs n. 546/1992 e del corrispondente art. 345, comma 3, cpc. Ove si dovesse propendere per tale soluzione, non resterebbe che ritenere la prova testimoniale scritta una prova straordinaria, eccezionale e residuale, perché finirebbe per essere ammessa solo quando il giudice, non essendo disponibili altri mezzi istruttori, la ritenga “indispensabile” ai fini della decisione[13]. In tal senso, il mezzo di prova non avrà una vera portata applicativa, considerando che ci muoviamo all’interno di un processo in cui la prova regina costituenda è la presunzione[14]. In particolare, l’art. 2728 cc – nel dire che le presunzioni legali dispensano da qualunque prova coloro a favore dei quali esse sono stabilite – «si limita a disciplinare le conseguenze dinamiche di queste presunzioni, in quanto si preoccupa soltanto di specificarne la proiezione pratica e il modus operandi nel processo, enunciando una sorta di relevatio ab onere probationis oppure regolando il meccanismo di ammissione della prova contraria, posto a carico del soggetto onerato, nel cui pregiudizio la presunzione opera»[15].

Nell’ipotesi di presunzione legale, dunque, il giudice deve prendere atto di una conseguenza inferenziale già preconfenzionata dalla legge stessa, e in particolare nella legge sostanziale, in quanto ricavata da un fatto assunto a priori come noto[16].

Il rinvio esplicito al codice di rito civile e la permanenza della clausola di compatibilità prevista dall’art. 1 del decreto legislativo n. 546/1992, permette di estendere la procedura ivi prevista, pur con le specificazioni che indicheremo. In primo luogo, mentre nel processo civile la testimonianza scritta è ammessa solo su accordo delle parti e il giudice ne disporrà l’assunzione, tenuto conto della natura della causa e di ogni altra circostanza, nel processo tributario il giudice è assolutamente libero di ammettere o meno l’assunzione della prova, valutando a sua discrezione se questa sia necessaria o meno ai fini della decisione, considerato che la norma precisa che l’ammissione è indipendente dall’accordo delle parti: sembrerebbe possibile che il giudice proceda d’ufficio[17].

Se riteniamo, però, prevalente il principio dispositivo, l’ammissione della prova dovrebbe essere subordinata almeno alla richiesta di una parte e il giudice potrebbe procedervi anche se l’altra non è d’accordo. 

 

5. Le modalità di assunzione

In assenza di modulistica di settore, il modello di riferimento è quello previsto all’art. 103-bis disp. att. cpc, approvato con decreto del Ministero della giustizia (dm 17 febbraio 2010); pertanto, in presenza di una richiesta di parte, già contenuta negli atti introduttivi e con l’individuazione delle domande da porre al testimone in articoli separati, la corte di giustizia tributaria ordina alla parte processuale che ne ha richiesto l’assunzione di predisporre il modello di testimonianza – in conformità agli articoli ammessi – e di notificarlo al testimone. Il testimone renderà la deposizione compilando il modello di testimonianza in ogni sua parte, con risposta separata a ciascuno dei quesiti, precisando quali sono quelli cui non è in grado di rispondere, indicandone la ragione.

Nell’art. 257-bis cpc si specifica che «il testimone sottoscrive la deposizione apponendo la propria firma autenticata su ciascuna delle facciate del foglio di testimonianza, che spedisce in busta chiusa con plico raccomandato o consegna direttamente alla cancelleria del giudice»[18]. Quest’ultima disposizione deve essere coordinata con la nuova disposizione dell’art. 7, in coerenza con le nuove esigenze del processo tributario telematico.

La notificazione dell’intimazione e del modulo di deposizione testimoniale, il cui modello, con le relative istruzioni per la compilazione, è reso disponibile sul sito istituzionale dal Dipartimento della Giustizia tributaria, può essere effettuata anche in via telematica. In deroga all’art. 103-bis disp. att. cpc, se il testimone è in possesso di firma digitale, il difensore della parte che lo ha citato deposita telematicamente il modulo di deposizione trasmessogli dal testimone dopo che lo stesso lo ha compilato e sottoscritto in ogni sua parte con firma digitale apposta in base a un certificato di firma qualificato la cui validità non è scaduta ovvero che non è stato revocato o sospeso al momento della sottoscrizione.

Se il testimone vuole avvalersi della facoltà d’astensione, ha l’obbligo di compilare il modello di testimonianza, indicando le proprie complete generalità e i motivi di astensione.

Qualche dubbio permane circa l’applicabilità della pena pecuniaria prevista all’art. 255, comma 1, cpc (da un minimo di 100 a un massimo di 1000 euro) al testimone che non ottemperi nel termine stabilito all’obbligo di spedire o consegnare le risposte scritte e sull’estensione del comma 7 dell’art. 257-bis, secondo il quale, «quando la testimonianza abbia ad oggetto documenti di spesa già depositati dalle parti, essa può essere resa mediante dichiarazione sottoscritta dal testimone e trasmessa al difensore della parte nel cui interesse la prova è stata ammessa, senza il ricorso al modello di cui al 2° comma», anche se il giudice, esaminate le risposte o le dichiarazioni, può sempre disporre che il testimone sia chiamato a deporre davanti a lui o davanti al giudice delegato, considerato che nel processo tributario è bandita qualsiasi forma di oralità.

Se facciamo riferimento alle risposte che il MEF ha reso nel corso della videoconferenza del 26 gennaio 2023, il richiamo contenuto nell’art. 7 alle forme previste dall’art. 257-bis cpc, unitamente alla previsione di carattere generale di cui all’art. 1, comma 2, d.lgs n. 546/1992, comporterebbe l’estensione al processo tributario dei medesimi adempimenti e obblighi previsti nel processo civile. Ma il richiamo al cpc determina una potenziale incongruenza, considerato che il comma 4 dell’art. 7 sembra prevedere che la corte di giustizia tributaria possa disporre l’assunzione della prova testimoniale anche d’ufficio, mentre l’art. 257-bis cpc disciplina esclusivamente l’ipotesi in cui la richiesta di assunzione provenga da una delle parti e la procedura che descrive è applicabile solo a questo caso. Se si ritenesse possibile l’assunzione d’ufficio della testimonianza d’ufficio, la procedura di assunzione della stessa non sarebbe definita.

Sempre con il riferimento al richiamo all’art. 257-bis, non sembra che il legislatore abbia voluto attribuire anche al giudice tributario la facoltà di disporre che il testimone sia chiamato a deporre davanti a lui (quantomeno, nella relazione illustrativa al disegno di legge di riforma, nulla sembra suggerire una diversa interpretazione). Anche se, allo stato, potrebbe apparire imprudente azzardare previsioni, sembra improbabile che la nuova norma sia destinata a produrre effetti sul precedente, consolidato orientamento della giurisprudenza che attribuiva valore meramente indiziario alle dichiarazioni dei terzi assunte nel corso della procedura amministrativa dagli organi di controllo. Sebbene raccolte in atti rogati da pubblici ufficiali, tali dichiarazioni non sono assistite dalla presunzione di veridicità superabile solo attraverso la querela di falso e, quindi, non dovrebbero incorrere nella limitazione prevista dall’ultimo periodo del comma 4. Ma questo implica anche la possibilità che emergano contraddizioni tra la testimonianza processuale e le dichiarazioni rese in precedenza. Il vero problema è, quindi, la valutazione del rapporto tra dichiarazioni di terzi rese nella fase procedimentale e la testimonianza di detti terzi nel processo.

 

6. Le prove in appello

La parte in cui viene rimessa all’apprezzamento del giudice la valutazione sulla necessarietà dell’assunzione della testimonianza ai fini della decisione ricalca la previsione contenuta nell’art. 58 d.lgs n. 546/1992 sull’ammissibilità delle nuove prove in appello. Anche se è sperabile che non si riproducano le stesse dispute dottrinarie sulla distinzione tra prova necessaria e prova indispensabile innescate dall’art. 58, indubbiamente la nuova formulazione del comma 4 attribuisce alla prova testimoniale un carattere di eccezionalità che potrebbe rendere il ricorso a tale strumento quantomeno inconsueto.

L’espressione utilizzata nel nuovo art.7, comma 4, d.lgs n. 546/1992 è piuttosto generica, ma in dottrina la similarità con quella già adoperata nell’art. 58, a proposito di ammissibilità di nuove prove in appello, potrebbe naturalmente indurre a ritenere che il primo limite debba essere interpretato richiamando le soluzioni già tracciate a proposito del citato art. 58 d.lgs n. 546/1992 e del corrispondente art. 345, comma 3, cpc[19].

Ove si dovesse propendere per tale soluzione, non resterebbe che ritenere la prova testimoniale scritta una prova residuale, perché finirebbe per essere ammessa solo quando il giudice, non essendo disponibili altri mezzi istruttori, la ritenga “indispensabile” ai fini della decisione. In tal caso, la necessità del mezzo di prova può essere apprezzata solo in relazione alla pretesa formulata dall’attore, con la conseguenza che l’unica opzione interpretativa possibile consiste nel ritenere che la valutazione di “necessità della prova”, di cui al citato art. 7, comma 4, sia quella che sempre il giudice deve svolgere allorché debba decidere se dare o meno ingresso a un mezzo di prova nel processo. 

Va, all’uopo, osservato che il giudizio di necessità previsto dall’art. 58 per consentire l’ammissione di nuove prove in appello non risponde alla medesima ratio sottesa all’ammissione in giudizio della nuova prova testimoniale scritta. Nel primo caso, la necessità del nuovo mezzo di prova è determinata dall’opportunità di impedire che le parti riservino indebitamente al giudizio di secondo grado facoltà che avrebbero potuto agevolmente esercitare nel giudizio di primo grado.

Quanto alle prove, l’art. 58 finora consentiva al giudice d’appello, nei limiti di cui al comma 1, l’assunzione di nuove prove e faceva sempre salva la facoltà di produzione di nuovi documenti, anche preesistenti al giudizio di primo grado e anche se la parte era rimasta ivi contumace (sez. V, n. 17921/2021) ovvero non dimostrasse di essere stata nell’impossibilità di produrli prima, ferma però la possibilità di considerare tale condotta ai fini della regolamentazione delle spese di lite, nella quale sono ricomprese, ex art. 15 del medesimo d.lgs, quelle determinate dalla violazione del dovere processuale di lealtà e probità (sez. V, n. 08927/2018).

La libera producibilità di documenti in appello incontrava, però, un limite nel rispetto del termine di decadenza per provvedere all’uopo, dovendo il relativo deposito avvenire, ai sensi dell’art. 32 d.lgs n. 546/1992, entro 20 giorni liberi antecedenti l’udienza e secondo quanto previsto dall’art. 24, comma 1 dello stesso decreto.

Ora, la nuova formulazione prevede: «1. Non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti nuovi documenti, salvo che il collegio li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa ovvero che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile. 2. Possono essere proposti motivi aggiunti qualora la parte venga a conoscenza di documenti, non prodotti dalle altre parti nel giudizio di primo grado, da cui emergano vizi degli atti o provvedimenti impugnati. 3. Non è mai consentito il deposito delle deleghe, delle procure e degli altri atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti, delle notifiche dell’atto impugnato ovvero degli atti che ne costituiscono presupposto di legittimità che possono essere prodotti in primo grado anche ai sensi dell’articolo 14 comma 6-bis».

Il primo comma richiama l’art. 345 cpc: l’ammissione di nuove prove e documenti, nell’ipotesi in cui la parte dimostri di non averli potuti proporre nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile, prescinde dalla valutazione della indispensabilità. La salvezza dell’attività costituisce una sorta di rimessione in termini imperniata sulla non imputabilità della ragione della decadenza.

La proposizione di motivi aggiunti, qualora la parte venga a conoscenza di documenti non prodotti dalle altre parti nel giudizio di primo grado, da cui emergano vizi degli atti o provvedimenti impugnati, impone una inevitabile produzione di documenti a completamento ovvero a integrazione di quelli già proposti in primo grado, altrimenti sarebbe leso il diritto di difesa della parte impugnante. 

 

 

1. Già così Cass., 6 giugno 1995, n. 11461, in Fisco, 1996, p. 3443.

2. Vds. E.T. Liebman, Fondamento del principio dispositivo, in Riv. dir. proc., 1960, p. 551; M. Taruffo, Il diritto alla prova nel processo civile, in Riv. dir. proc., 1984, p. 74; Id., Poteri del giudice. Commento all’art. 115 c.p.c., in S. Chiarloni (a cura di), Commentario del codice di procedura civile, Zanichelli, Bologna, 2011, pp. 444 ss. In giurisprudenza, vds. Cass., 13 marzo 2014, n. 5923, secondo la quale il potere del giudice di rilievo d’ufficio dell’eccezione non implica il superamento del divieto di scienza privata del giudice medesimo, ma occorre pur sempre che determinati fatti modificativi, impeditivi o estintivi risultino validamente acquisiti agli atti. Non rientrano nel divieto di scienza privata quei fatti di cui il giudice fosse a conoscenza per motivi d’ufficio: è il caso del cd. “notorio giudiziale”, cioè quei fatti di cui il giudice è venuto a conoscenza nel corso dell’espletamento delle proprie attività e che sfuggono alla conoscenza generale. Peraltro, è stato precisato da G. Campese (La fissazione dei fatti senza prova: non contestazione, fatto notorio, massime d’esperienza, incontro di studio sul tema “L’onere della prova e l’attività istruttoria nei diversi riti processuali”, Roma, 23-25 novembre 2009) che il “notorio giudiziale” può acquisire rilevanza solo in virtù di una specifica ed espressa previsione normativa, come nel caso degli artt. 273 e 274 cpc in tema di riunione di procedimenti relativi alla stessa causa o a cause connesse.

3. Vds. L.P. Comoglio - C. Ferri - M. Taruffo, Lezioni sul processo civile – I. Il processo ordinario di cognizione, Zanichelli, Bologna, 2011, p. 414.

4. Cfr. C. Glendi, L’oggetto del processo tributario, CEDAM, Padova, 1991; Id., I poteri del giudice nell’istruttoria del processo tributario, in Boll. trib., 1986, p. 1205.

5. F. Batistoni Ferrara, Processo tributario, in Dir. prat. trib., 1983, I, pp. 1611 e 1635 ss.; Glendi, I poteri istruttori del giudice nel processo tributario, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1985, p. 944; nel senso dell’ammissibilità anteriormente al 1972, vds. E. Allorio, Diritto processuale tributario, UTET, Torino, 1969, p. 373.

6. Corte cost., 26 novembre 1987, in Dir proc. amm., 1988, pp. 84 ss.; Corte cost., 23 marzo 1989, n. 76, in Fisco, n. 13/1989, p. 1921.

7. R. Lupi e S. Covino, voce “Processo tributario”, Il Diritto - Enciclopedia giuridica del Sole 24 ore, vol. 12, 2007, p. 206; P. Russo, Problemi della prova nel processo tributario, in Rass. trib., n. 2/2000, p. 375; I. Vitiello, Le prove e l’istruzione probatoria nel processo tributario, in Rass. Avvocatura dello Stato, n. 3/2022, p. 1.
Anche Corte cost., 12 gennaio 2000, n. 18, in Boll. trib., n. 4/2000, p. 311, rigettando la questione di costituzionalità, concludeva con il riconoscere che il divieto in questione trovava una sua ragionevole giustificazione, da un lato, nella spiccata specificità del processo tributario rispetto a quello civile e amministrativo, correlata sia alla composizione dell’organo decidente sia al rapporto sostanziale oggetto del giudizio; dall’altro, nella circostanza che il processo tributario è, sul piano istruttorio, in massima parte scritto e documentale.

8. Tali dichiarazioni, rese al di fuori e prima del processo, sono essenzialmente diverse dalla prova testimoniale – che dovrebbe essere necessariamente orale e richiede la formulazione di specifici capitoli, comporta il giuramento dei testi e assume, conseguentemente, una particolare valenza processuale – e il loro valore probatorio è solamente quello proprio degli elementi indiziari, i quali, mentre possono essere importanti per il convincimento del giudice, non possono da soli costituire il fondamento della decisione. La conclusione della Corte recepisce quanto affermato, in quella sede, dall’Avvocatura dello Stato, per la quale le dichiarazioni raccolte e verbalizzate nel corso dell’indagine tributaria non hanno la valenza propria della prova testimoniale, dovendo alle stesse riconoscersi l’efficacia di informazioni destinate a costruire la dimostrazione indiretta e logica dei fatti fiscalmente notevoli, da apprezzarsi con prudente discernimento del giudice.

9. V. Triscari, Il processo, in Rass. trib., 2022, p. 737.

10. L’art. 63 cpa contempla la richiesta – anche d’ufficio – di chiarimenti o documenti, l’ordine di esibizione ex artt. 210 ss. cpc, l’ispezione ai sensi dell’art. 118 cpc. Il giudice può ammettere la prova testimoniale, ma solo su istanza di parte, e l’assunzione della prova deve necessariamente avvenire in forma scritta, secondo il codice del processo civile. Il giudice, inoltre, può ordinare la verificazione o, se indispensabile, la consulenza tecnica.
L’art. 63, ult. comma, cpa, quale norma di chiusura, dispone che il giudice possa assumere tutti i mezzi di prova previsti dal codice di procedura civile, ad eccezione dell’interrogatorio formale e del giuramento. A titolo d’esempio, non v’è oramai più dubbio alcuno circa l’ammissibilità dell’accertamento tecnico preventivo nel sistema di giustizia amministrativa, ai sensi dell’art. 696 cpc e in forza del rinvio dell’art. 63, ult. comma, cpa, sì che ben può essere anteposta l’azione di accertamento tecnico preventivo rispetto all’azione per il risarcimento del danno (Cons. Stato, sez. IV, 27 ottobre 2011, n. 5769; Tar Veneto, sez. I, 12 maggio 2020, n. 444; Tar Veneto, sez. II, 28 febbraio 2020, n. 202).
Dal codice di rito civile (in coerenza con la clausola di compatibilità dell’art. 39 cpa) sono recepiti il principio di non contestazione (art. 64, comma 2, cpa), i fatti notori, l’interrogatorio libero e la confessione spontanea.

11. C. Mandrioli e A. Carratta, Diritto processuale civile, vol. II, Giappichelli, Torino, 2022, pp. 229 ss.

12. Critico nei confronti di questa scelta legislativa, M. Taruffo, Prova testimoniale (dir. Proc. Civ.), in Nss. Dig. it., vol. XIV, Torino, 1967, p. 329; Id., Prova testimoniale (dir. Proc. Civ.), in Enc. dir., vol. XXXVII, Giuffrè, Milano, 1988, p. 729; L.P. Comoglio, Le prove civili, UTET giuridica (Wolters Kluwer), Milano, 2010; la Corte cost. ha ritenuto manifestamente infondata la relativa questione di costituzionalità sollevata con riguardo all’incapacità a testimoniare del rappresentante legale della società (vds. Corte cost., 8 maggio 2009, n. 143, in Riv. dir. proc., 2010, p. 429, con nota adesiva di L. Dittrich).

13. Così D. Mazzagreco, La testimonianza scritta nel processo tributario, in Judicium, 17 maggio 2023; in senso conforme, F. Pistolesi, La testimonianza scritta, in A. Carinci e Id. (a cura di), La riforma della giustizia e del processo tributario. Commento alla legge 31 agosto 2022, n. 130, Giuffrè, Milano, p. 71; S. Zagà, La “nuova” prova testimoniale scritta nel riformato processo tributario, in Dir. prat. trib., n. 6/2022, p. 2155.

14. Le presunzioni sono collocate da L.P. Comoglio (Le prove civili, op. cit., p. 645) tra le prove per induzione, la cui caratteristica istituzionale consiste nel fondarsi su un ragionamento induttivo, affidato al giudice quale mezzo ulteriore di accertamento della verità o falsità di un’allegazione avente per oggetto un determinato fatto da provare. Esse riproducono «in modo paradigmatico un modo (o se si vuole, il modo tipico) di ragionare del giudice, nella valutazione e nell’apprezzamento delle prove».

15. Sempre Comoglio, op. ult. cit., p. 650.

16. La conformità ai principi costituzionali delle presunzioni legali nel diritto tributario deve essere di volta in volta verificata, alla luce del criterio di ragionevolezza, al fine di escludere che la protezione dell’interesse pubblico all’accertamento e alla riscossione dei tributi erariali possa comportare una compressione eccessiva (o sproporzionata) di altri interessi, parimenti dotati di protezione costituzionale. Nel senso che il ricorso alle presunzioni legali in materia tributaria è lecito, essendo volto a proteggere l’interesse generale contro ogni tentativo di evasione, a condizione che tali presunzioni si fondino su indici concretamente rivelatori di ricchezza e idonei, perciò, a conferire all’imposizione una base non fittizia – Corte cost., 11 dicembre 1997, n. 393, in Foro it. (Repertorio), 1998, voce “Tributi locali”, n. 290; Corte cost., 25 febbraio 1999, n. 41, ivi, 1999, I, cc. 1110 ss.

17. A. Ginex, Processo tributario: il modello da utilizzare per la testimonianza scritta, in EcLegal, 24 febbraio 2023. Per quanto riguarda la decorrenza, l’art. 8, comma 3, l. n. 130/2022 prevede che la nuova disposizione si applichi ai ricorsi notificati dalla data di entrata in vigore della legge di riforma, cioè dal 16 settembre 2022.

18. Per quanto concerne, poi, il soggetto deputato ad autenticare la firma apposta sul modello cartaceo dal testimone, il MEF ha osservato che le disposizioni contenute nell’art. 9, comma 1, prevedono che i segretari assistano le corti di giustizia tributaria secondo le disposizioni del codice di procedura civile concernenti il cancelliere. Inoltre, l’art. 35 del medesimo decreto stabilisce che i segretari sono deputati all’assistenza dei collegi nelle udienze e all’apposizione della firma nei provvedimenti depositati dai collegi stessi. I segretari delle corti di giustizia tributaria, così come i cancellieri, assumono la qualifica di pubblici ufficiali e, in quanto tali, possono autenticare la firma del testimone apposta sul modello. 

19. V. Mazzagreco, La testimonianza scritta, op. cit., ed ivi ulteriori riferimenti.