1. Due parole per spiegare il titolo di questo mio contributo. “Cittadini senza politica” è un’espressione volutamente paradossale. Si tratta, a tutti gli effetti, di un ossimoro: una formula contradditoria, come sarebbe “genitori senza figli”. La nozione classica di cittadinanza, da Aristotele in poi, è infatti inestricabilmente legata alla dimensione politica. “Cittadino” è chi contribuisce in modo attivo al processo di elaborazione delle decisioni collettive. Con le parole di Rousseau, è chi «partecipa dell’autorità sovrana», laddove il suddito si limita a essere «sottoposto alle leggi dello Stato» [1]. E tuttavia, oggi la nozione di cittadinanza sembra aver perso qualsiasi connotazione politica, qualsiasi riferimento alla dimensione dell’impegno e della partecipazione. Tanto che, nella percezione dei più, il contrario della parola cittadino non è più «suddito», ma «straniero» [2]. E capita, partecipando a dibattiti sullo ius soli, di scoprire che l’esclusione degli immigrati lungo-residenti dai diritti politici non viene percepita come qualcosa di particolarmente grave, se “compensata” dal riconoscimento dei diritti civili e sociali.
Riflettere sugli slittamenti di significato delle parole è interessante perché rappresenta una spia delle trasformazioni del senso comune, e di ciò che esso riflette. La realtà la conosciamo bene e non c’è bisogno di molte parole per raccontarla. È fatta di generale stanchezza, se non di disgusto e vera e propria allergia, nei confronti della politica. Sentimenti diffusi, che si riflettono nelle cifre che siamo abituati a leggere periodicamente sui giornali: non solo quelle sull’astensionismo (che al secondo turno delle ultime amministrative in Italia ha interessato più del 50% degli aventi diritto), ma quelle – per certi versi ancora più allarmanti – del declino dell’adesione a partiti e sindacati e della sfiducia generalizzata nei confronti dei “politici” e delle stesse istituzioni democratiche [3].
2. Perché questa indifferenza, questo disamoramento profondo, che si registra non solo in Italia, ma segue un trend consolidato in tutte le democrazie occidentali? [4] Si tratta sicuramente di un fenomeno complesso, spiegabile con il concorso di molte cause.
Una prima possibile ipotesi di spiegazione rimanda all’intuizione di Benjamin Constant sul valore della libertà politica in diversi contesti storici e sociali. Di fronte agli allettamenti della società del benessere, alle inedite possibilità di vendere, comprare, svagarsi, “realizzarsi” nella sfera privata – per quanto illusorie esse si rivelino – l’esercizio dei diritti politici perde molte delle sue attrattive. Manca il tempo e manca l’interesse per ciò che sembra non incidere più di tanto sulla propria esistenza personale. E si finisce col vivere, e col percepirsi, più come consumatori che come cittadini. Sembra dunque essersi avverata la profezia di Constant: tra la «partecipazione e attiva e costante al potere collettivo» e il «godimento pacifico dell’indipendenza privata», noi – i “moderni” – abbiamo compiuto la nostra scelta [5]. Debitamente aggiornata e riformulata, questa tesi ritorna in alcune teorie, in voga soprattutto negli anni Settanta, che giudicavano positivamente l’apatia politica, come sintomo di soddisfazione – non di protesta – nei confronti della politica. Una lettura nella quale non si può escludere che ci sia qualcosa di vero. Ma che non tiene conto del fatto, incontrovertibile, che il profilo tipico di chi oggi diserta le urne non è propriamente quello di un soggetto “soddisfatto”…
Indagini svolte in diversi Paesi concordano nel rilevare che il fenomeno della fuga dalla politica riguarda oggi in primo luogo i ceti meno abbienti e meno garantiti. Disoccupati, precari, marginali, poveri e impoveriti rappresentano il grosso dell’esercito del non-voto e della non-partecipazione. In Italia, ma anche in Germania, Francia, Stati Uniti (dove persistono barriere giuridiche all’iscrizione dei meno abbienti ai registri elettorali) [6]. Lo scarso interesse dei poveri per la politica riflette lo scarso interesse della politica per i poveri. Con le parole di Wolfang Streeck, la politica sembra essere diventata un «gioco di intrattenimento per la classe media» (o medio-alta, dato lo scivolamento verso il basso del ceto medio colpito dalla crisi) [7]. Un gioco che non appassiona, e non coinvolge, chi ha perso qualsiasi speranza nella possibilità di una soluzione collettiva ai propri problemi.
Veniamo allora alla seconda parte del titolo di questa mio intervento (“politica senza cittadini”), che allude al fatto che il distacco tra politica e cittadini si è realizzato in questi anni nelle due direzioni. Se per un verso sempre più cittadini si sono allontanati dalla politica, per altro verso è la politica stessa ad essersi ritratta e sottratta allo sguardo e alla “presa” delle persone comuni.
A rendere bene questo doppio movimento può aiutarci, ancora una volta, un classico del pensiero politico, Alexis de Tocqueville. Riflettendo sullo svuotamento delle istituzioni democratiche locali nel corso del diciottesimo secolo, in Francia, egli così si esprimeva:
«Il popolo, che non si lascia ingannare tanto facilmente quanto si crede dalle vuote apparenze di libertà, si astiene allora dovunque dall’interessarsi agli affari del comune e vive tra le sue mura come uno straniero. Inutilmente i magistrati tentano di tanto in tanto di ridestare in lui quel patriottismo municipale che ha compiuto prodigi nel Medio Evo; il popolo resta sordo, i maggiori interessi della città non sembrano commuoverlo. Si vorrebbe che andasse a votare, là dove si è creduto necessario conservare la vana immagine di un’elezione libera; ma il popolo si ostina ad astenersene» [8].
Oggi la situazione non appare tanto diversa: al restringimento – se non allo svuotamento – degli spazi di discussione e decisione democratica fanno da contraltare sporadici tentativi di un’élite sempre più screditata di riconquistare i cuori, le menti (e il voto) dei cittadini. Partiti che da anni non celebrano un congresso degno di questo nome (con una discussione vera sulla linea politica, che coinvolga gli iscritti o i loro delegati), celebrano “primarie” dall’esito scontato, cui gli elettori reagiscono stancamente. Istituzioni locali sempre meno rappresentative – complici leggi elettorali distorsive e riforme di ispirazione presidenzialista [9] – fanno a gara per inventarsi nuove forme di coinvolgimento dei cittadini: dai referendum agli esperimenti di “democrazia deliberativa”, alle piattaforme on-line. Scontrandosi con un diffuso senso di scetticismo e di disillusione. Se si aggiungono i continui episodi di corruzione e di malgoverno che coinvolgono il ceto politico, non stupisce che alla disillusione dei poveri si sommi il boicottaggio consapevole degli indignati. L’impressionante 63% per cento di astenuti alle elezioni regionali del 2014 in Emilia Romagna, “regione rossa” per eccellenza, dice qualcosa in proposito…
3. Ciò cui ci troviamo di fronte è dunque ben più grave di una passeggera manifestazione di stanchezza democratica. È il segnale di una crisi che colpisce il cuore stesso della democrazia, che sembra non essere più riconosciuta come un veicolo di cambiamento e di emancipazione sociale. È su questo aspetto che vorrei ora concentrarmi.
In un testo degli anni Ottanta, Norberto Bobbio si riferiva alla nascita dello Stato liberale e democratico come a «un processo di “costituzionalizzazione” del diritto di resistenza e di rivoluzione» [10]. Se lo Stato liberale rende superfluo l’esercizio del diritto di resistenza contro i sovrani che abusano del loro potere, lo Stato democratico consente di archiviare la rivoluzione come strumento per realizzare un progetto di società “altra”. Il suffragio universale apre ai ceti subalterni, e ai partiti che li rappresentano, la possibilità di conquistare il potere con mezzi pacifici. Una trasformazione radicale della società (con il linguaggio di Bobbio, la rivoluzione come «mutamento»), diventa raggiungibile senza il bisogno di una rottura violenta della legalità (la rivoluzione come «movimento») [11].
L’idea che la lotta di classe potesse essere incanalata entro le istituzioni democratiche è alla base del patto costituzionale da cui è nata la nostra Repubblica. Nell’immediato dopoguerra la formula che esprimeva l’adesione del Partito comunista ai principi della democrazia e dello stato di diritto era quella togliattiana della «democrazia progressiva», che una rivista indirizzata ai quadri del partito presentava come «una via nuova verso il socialismo, una via che legando tutti gli strati sani della popolazione a un regime democratico avanzato e aperto a tutti gli sviluppi progressivi, è proprio per questo una via meno dolorosa, meno costosa, meno cruenta, di quella che, nel 1917, dovette essere in Russia la via della dittatura del proletariato, conseguente alla situazione storica di allora» [12]. Negli anni Sessanta e Settanta il dibattito su questi temi, che coinvolgeva socialisti e comunisti, ruotava intorno all’alternativa tra riforme “correttive” e “di struttura”. Le prime si proponevano di sanare gli squilibri più vistosi del sistema capitalistico; le seconde, più ambiziose, miravano alla graduale costruzione del socialismo. Riccardo Lombardi coniò allora l’espressione «riformismo rivoluzionario», che suona ossimorica solo a chi ignori la distinzione bobbiana tra «movimento» e «mutamento» rivoluzionario. Si trattava, ancora una volta, di ribadire che l’obiettivo del superamento del capitalismo avrebbe potuto essere conseguito in modo graduale e non violento, rafforzando ed estendendo l’egemonia del movimento operaio sulla società [13]. Una possibilità che neppure Marx aveva escluso, pur tra oscillazioni e contraddizioni, contemplando l’eventualità che in Paesi capitalistici avanzati il proletariato conquistasse il potere attraverso il suffragio universale e lo esercitasse per conseguire con mezzi pacifici i suoi obiettivi.
Offrire la possibilità di trasformare in modo incruento la società: questa, per riprendere il linguaggio di Bobbio, era la “promessa” fondamentale della democrazia. Si può sostenere che sia stata mantenuta? Se guardiamo alla nostra storia, fino a un certo punto.
Ce lo ricorda Peter Mair, in un volume che rivisita gli anni della “democrazia bloccata”, quando la prospettiva che vincessero le elezioni forze politiche comuniste, in Europa, era una pura ipotesi, che si scontrava con la tutela statunitense sui Paesi al di qua della cortina di ferro. Così si esprimeva il Dipartimento di Stato statunitense, negli anni della presidenza Carter: «La nostra posizione è chiara: non guardiamo con favore [alla presenza di partiti comunisti nei governi occidentali] e vorremmo vedere l’influenza comunista fortemente ridotta […]. Stati Uniti e Italia condividono profondi valori democratici ed interessi reciproci, e non crediamo che i comunisti condividano gli stessi valori» [14]. Era il gennaio del 1978. Seguirà il rapimento e l’uccisione di Moro, il tramonto della prospettiva del compromesso storico e lunghi anni ancora di conventio ad excludendum nei confronti del più grande partito comunista d’Europa, che in più occasioni aveva dato prova di fedeltà alle istituzioni democratiche, ben più di alcuni partiti di governo, dediti a giocare pericolosamente con poteri occulti. Una storia troppo densa e complessa per essere condensata in poche righe. Ciò su cui mi interessa ragionare è il tema di fondo sollevato da Mair, che conclude la sua ricostruzione sulle vicende italiane commentando: «In tempi di Guerra fredda l’alternativa elettorale comunista era semplicemente inaccettabile».
E dopo la Guerra fredda? Anche di fronte a questa domanda la risposta di Mair è tendenzialmente negativa. Nel contesto economico venutosi a creare con la liberalizzazione dei mercati finanziari a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso (quello che Luciano Gallino ha ribattezzato il “finanzcapitalismo”) la possibilità dei «governi di sinistra o social-democratici di perseguire politiche volte a ridurre le diseguaglianze generate dal mercato» risulta profondamente intaccata, se non annullata. E con essa le differenze tra i partiti, di destra e di sinistra, forzati a convergere su posizioni comuni da imperativi sistemici che non lasciano spazio per politiche economiche «eterodosse» [15].
A spingere verso la pessimistica conclusione che “cambiare non si può” (non, per lo meno, attraverso strumenti democratici) contribuiscono le vicende recenti che hanno interessato la Grecia. Nel 2015 la Grecia era l’unico Paese europeo con un governo di “sinistra radicale”. Ovvero, l’unico Stato dell’Unione in cui i cittadini avessero dato mandato ai loro rappresentanti di attuare un’agenda politica diversa da quella neoliberale, che prevedeva la difesa del potere d’acquisto dei ceti più deboli, una politica fiscale redistributiva, investimenti nei servizi sociali, difesa dei diritti dei lavoratori e dei beni pubblici. Un progetto che anni addietro sarebbe stato considerato blandamente socialdemocratico (mere riforme “correttive”, non certo “di struttura”), ma che può ben essere considerato rivoluzionario nel contesto in cui viviamo. Sappiamo come è andata a finire: con la pubblica umiliazione di Tsipras, pur reduce da una vittoria referendaria che ne aveva rafforzato la legittimità democratica, l’obbligo di ritrattare i provvedimenti “umanitari” adottati dal suo governo e l’imposizione dell’ennesimo pacchetto di “riforme” lacrime e sangue, sotto il ricatto di morte per asfissia finanziaria.
Si badi: non mi interessa qui difendere l’una o l’altra opzione di politica economica. Il problema che pongo è squisitamente democratico. In base alla definizione minima – ma non povera – di Bobbio, la democrazia è un metodo per assumere decisioni collettive che garantisce la partecipazione più ampia possibile degli interessati. Consiste in un insieme di regole che individuano “chi” decide e “come”, lasciando impregiudicato il contenuto delle decisioni (il “che cosa”), che dipende – dovrebbe dipendere – dalla volontà degli elettori. Nel 2015 in Grecia ciò non è avvenuto. Quando il Wall Street Journal ha pubblicato la foto della proposta di accordo avanzata dai greci con le cancellature e le correzioni in rosso dei funzionari europei, che cassavano la proposta di introdurre una tassa sui profitti superiori ai 500.000 euro e imponevano di sostituirla con nuovi, immediati, tagli alle pensioni, è stato chiaro che ciò a cui si stava giocando non aveva più nulla a che fare con la democrazia. Il commento di Tsipras pochi giorni dopo, di fronte al Parlamento europeo, è stato eloquente: «É un nostro diritto tassare le imprese in utile e non tagliare le pensioni. Se non abbiamo il diritto a trovare da soli i settori in cui risparmiare, allora saremmo condotti a una logica estrema e antipopolare. Si direbbe allora che nei Paesi sotto programma di salvataggio non si debbano tenere elezioni, solo nominare dei tecnocrati e che solo loro possano decidere» [16].
Si obietterà che la democrazia comporta dei limiti e non coincide semplicemente con la volontà della maggioranza. La storia del Novecento ci ha insegnato la pericolosità di declinazioni assolutistiche del principio della sovranità popolare, invocando il quale è possibile alterare le stesse regole su cui si basa il gioco democratico. Per evitare simili rischi, all’indomani della Seconda guerra mondiale molti Paesi, che uscivano dall’esperienza traumatica del fascismo e del nazismo, hanno costituzionalizzato una «sfera dell’indecidibile», sottratta alla disponibilità dello stesso «popolo sovrano» [17]. Una sfera che si giustifica a partire dalla necessità di salvaguardare un nucleo di diritti fondamentali – politici, sociali, di libertà – senza i quali la democrazia cessa di esistere [18].
Che dire, tuttavia, degli ulteriori vincoli che oggi limitano la portata del principio democratico? Delle regole del Fiscal compact, di recente incorporate nelle costituzioni italiana e spagnola e destinate, forse, a entrare nei Trattati europei? Possono anch’esse essere interpretate – e giustificate – in nome della democrazia? Si tratta, evidentemente, di una domanda retorica. Ci troviamo in questo caso di fronte a prescrizioni che riducono in modo drastico il novero delle politiche possibili, vietando per legge misure di ispirazione keynesiana come quelle che Tsipras intendeva attuare in Grecia. E che pongono una seria ipoteca sulla possibilità di garantire i diritti sociali, pur affermati dalla nostra Costituzione e da molti documenti internazionali (compresa la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea).
I vincoli di bilancio vengono in genere giustificati con argomenti di natura tecnica: si tratterebbe di salvaguardare i principi della corretta economia, a partire dal necessario equilibrio tra entrate e uscite. Ma non è difficile scorgere dietro simili vincoli – bocciati da economisti del calibro di Stiglitz e Krugman – la determinazione a “mettere in sicurezza” non la democrazia e le sue condizioni, ma l’attuale assetto del capitalismo finanziario.
Torna allora pressante l’interrogativo di Tsipras: a che cosa servono le elezioni se la scelta tra i diversi programmi economici è fittizia e l’essenziale è già stato deciso? Se – come ha assicurato Draghi all’indomani delle elezioni italiane del 2013 – «le misure di aggiustamento finanziario […] continueranno a operare con il pilota automatico» [19]? Non possiamo non tornare a chiedercelo oggi, nella prospettiva – infausta, ma non peregrina – che le regole del Fiscal compact vengano incorporate nell’ordinamento giuridico europeo, traendone nuova forza.
4. Le conclusioni potrebbero essere decisamente sconfortanti. Sarebbe tuttavia un errore rassegnarsi all’idea che la democrazia sia divenuta strutturalmente incapace di servire allo scopo per cui è stata inventata. Guardiamoci intorno. Il Portogallo è l’esempio di un Paese dell’Unione europea che, nel rispetto dei parametri imposti dai trattati internazionali, ha adottato una politica fiscale fortemente progressiva, grazie alla quale può investire nei servizi sociali, ridurre l’orario di lavoro, l’età pensionabile e le tasse universitarie, aumentare il salario minimo [20]. A riprova che non esiste alcun automatismo. Che lo “spazio del decidibile” non è angusto come qualcuno vorrebbe farci credere. E che le richieste degli organismi sovranazionali sono spesso servite, e servono, da copertura per decisioni che tuttora spettano alle classi politiche nazionali, cui fa molto comodo scaricare sull’Europa la responsabilità di politiche impopolari [21].
E dunque, il punto è che oggi – come scriveva Luciano Gallino – la lotta di classe non è finita, ma continua ad essere, silenziosamente, combattuta [22]. Con una classe dominante, su scala globale, che sta riuscendo a trasformare i propri interessi in vincoli sistemici immodificabili. In alcuni casi, addirittura in vincoli costituzionali.
Ciò che servirebbe è un altro genere di limiti, simili a quelli introdotti da Roosevelt dopo la crisi del ’29: vincoli in grado di ristabilire il primato della politica sul mercato e di restituire ai cittadini il potere di decidere quale modello di convivenza vogliono costruire. Servirebbero inoltre istituzioni più rappresentative, in grado di dare voce e visibilità alla pluralità delle opinioni e degli interessi che prendono forma nella società. Senza paura di portare la lotta di classe alla luce del sole, dentro – non fuori – le istituzioni democratiche. Non farlo è pericoloso per la stessa tenuta del sistema rappresentativo. Lo sapeva Kelsen che, in una fase politica drammatica, in cui la rivoluzione violenta era uno sbocco concretamente possibile, elogiava la democrazia proprio per la sua capacità di dare ascolto e visibilità alle passioni politiche:
Mentre la dinamica delle istituzioni democratiche mira direttamente a sollevare le emozioni politiche delle masse oltre la soglia della coscienza sociale per farle lì placare, l’equilibrio politico nell’autocrazia riposa, proprio all’inverso, sulla rimozione delle opinioni politiche in una sfera che si potrebbe paragonare, dal punto di vista della psicologia individuale, al subconscio. Dal che deriva inevitabilmente la rafforzata disposizione alla rivoluzione [23].
C’è molta saggezza in queste parole di Kelsen, che invitano a non rimuovere i conflitti, ma a rappresentarli e mediarli, in modo che non esplodano pericolosamente nella società. Dovremmo ricordarcene oggi che i venti di destra tornano a soffiare impetuosamente sulla rabbia degli esclusi e degli impoveriti, con esiti difficili da prevedere.
[1] J.J. Rousseau, Il contratto sociale, Einaudi, Torino 1994, p. 25.
[2] Me ne sono accorta dialogando con studenti delle scuole superiori a cui chiedevo, per l’appunto, di provare a fornire una definizione in negativo di “cittadino”. Cfr. in proposito P. Mindus, Cittadini e no. Forme e funzioni dell’inclusione e dell’esclusione, Firenze University Press, Firenze 2014.
[3] Per alcuni dati recenti, cfr. M. Revelli, Populismo 2.0, Einaudi, Torino, 2017.
[4] Cfr. i dati comparativi su sedici “democrazie di lungo corso” pubblicati in P. Mair, Governare il vuoto. La fine della democrazia dei partiti, Rubbettino, Soveria Mannelli 2016.
[5] B. Constant, La libertà degli antichi, paragonata a quella dei moderni (1818); trad. it. e cura di G. Paoletti, Einaudi, Torino 2001, p. 15.
[6] Per quel che riguarda il nostro paese, cfr. D. Tuorto, Apatia o protesta? L’astensionismo elettorale in Italia, il Mulino, Bologna 2006 e Id., Discesa libera senza crollo. La preoccupante evoluzione dell'astensionismo, in Cambiamento o assestamento. Le elezioni amministrative del 2016, Bologna, Istituto Cattaneo, 2016, pp. 239 - 251.
[7] W. Streeck, Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico, Feltrinelli, Milano 2013, p. 139.
[8] A. de Tocqueville, L’antico regime e la rivoluzione (1856); tr. it. Rizzoli, Milano 2011, p. 84.
[9] F. Musella, Governi monocratici. La svolta presidenziale nelle regioni italiane, Il Mulino, Bologna 2009.
[10] N. Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino 1990, p. 165.
[11] Cfr. N. Bobbio, La rivoluzione come movimento e mutamento, in Teoria generale della politica, a cura di M. Bovero, Einaudi, Torino 1999, pp. 564-82.
[12] Cit. in P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, Einaudi, Torino 1989, p. 53.
[13] Ivi, pp. 359 e ss.
[14] P. Mair, Governare il vuoto cit., p. 53.
[15] Ivi, pp. 59-61.
[16] Cit. in D. Deliolanes, L’orgoglio di Tsipras, in Il manifesto, 9 luglio 2015, https://ilmanifesto.it/orgoglio-tsipras/
[17] L. Ferrajoli, Diritti fondamentali, a cura di E. Vitale, Laterza, Roma-Bari 2001.
[18] M. Bovero, La democrazia e le sue condizioni, Festival di filosofia, Modena 2009 (www.festivalfilosofia.it).
[19] B. Spinelli, La sovranità assente, Einaudi, Torino 2014, pp. 10 e 48.
[20] Cfr. S. Furzi, La nuova rotta della sinistra portoghese, https://www.centroriformastato.it/la-nuova-rotta-della-sinistra-portoghese/
[21] A ulteriore riprova dell’esistenza di alternative praticabili, si pensi alle dettagliatissime “contro-finanziarie” elaborate ogni anno dagli economisti di “Sbilanciamoci” (http://controfinanziaria.sbilanciamoci.org/).
[22] L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe. Intervista a cura di P. Borgna, Laterza, Roma-Bari 2012; M. Revelli, “La lotta di classe esiste e l’hanno vinta i ricchi”. Vero!, Laterza, Roma-Bari 2015.
[23] H. Kelsen, Sociologia della democrazia (1926), trad. it. a cura di A. Carrino, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1991, p. 39.