Magistratura democratica
Magistratura e società

Ricordando un grande avvocato, Francesco Arata

Piero Calamandrei nel suo Elogio dei giudici scritto da un avvocato auspicava un Elogio degli avvocati scritto da un giudice. Non so se il ricordo di Francesco Arata da parte di Gaetano Ruta possa già considerarsi una risposta a quell’auspicio; posso però, nel condividerlo, aggiungere ciò che anch’io come giudice ho appreso dall’avvocato Francesco Arata, che ho conosciuto quando ero uditrice alle mie prime funzioni di magistrata di sorveglianza di Milano e reincontrato negli ultimi anni nella mia funzione di presidente aggiunta dell’Ufficio gip di Milano. 

Francesco Arata rappresenta la più alta espressione della funzione difensiva: umanità, rispetto profondo per le garanzie e le vicende umane sottese ai procedimenti trattati (dai più semplici a quelli più complessi), grande valore professionale, correttezza e soprattutto grande riconoscimento del valore della giurisdizione.

La cultura delle regole che ha contraddistinto la sua figura professionale ci ha fatto percorrere un comune cammino nella giurisdizione milanese, distinto ma convergente, nel rispetto assoluto dei ruoli ma soprattutto nella comunione profonda degli ideali ad essa sottesi.  

Una grande perdita per il mondo della Giustizia. 

Ezia Maccora 

***

Cosa un Pubblico Ministero può imparare da un Avvocato

Lo scorso 6 ottobre si è spento Francesco Arata, Avvocato del foro di Milano.

La sua scomparsa, preceduta da una malattia rapida e violenta, ha scosso tutta la comunità giudiziaria di Milano. 

Vi è certamente, nella commozione, una forte componente emozionale, eredità del tratto umano che ne ha accompagnato il percorso in vita.

Scrivo da un angolo di prospettiva angusto: le nostre strade si sono infatti intrecciate ripetutamente, in diverse fasi della mia attività di Pubblico Ministero, in un rapporto che tuttavia non è mai uscito dal perimetro del Palazzo di Giustizia. Con i limiti che una conoscenza su queste basi reca in sé, avverto dentro di me e posso dire che Francesco Arata mi ha visto crescere, da uditore giudiziario a magistrato con quasi venti anni di anzianità, tutti trascorsi alla Procura di Milano. 

In una città come Milano la figura dell’avvocato tende a identificarsi con un modello di buona borghesia, colta e aperta, che vive il proprio ruolo sociale e professionale con senso di responsabilità, contribuendo al progresso civile del paese. L’esperienza insegna che non sempre è così, ma questo idealtipo resta fermo nell’immaginario.

Il rapporto con l’avvocatura non è mai di osmosi, ma una influenza su chi svolge le funzioni di magistrato è inevitabile. Con il Pubblico Ministero il rapporto finisce per infittirsi, per il ruolo quasi speculare che la figura dell’avvocato assume nella dinamica processuale. 

Il Pubblico Ministero non vive in una turris eburnea ed è esposto sul piano professionale a molteplici rapporti: con i colleghi, interni ed esterni all’ufficio di appartenenza, i giudici, la polizia giudiziaria, un vasto mondo di parti private e figure professionali. Ciò richiede una piena consapevolezza del proprio ruolo. Per Francesco Arata uno snodo fondamentale è rappresentato dall’art. 109 Cost.: il Pubblico Ministero “dispone” della Polizia Giudiziaria e deve evitare di essere eterodiretto, nelle scelte investigative come in quelle processuali, da impulsi esterni che non è in grado di governare. E questo deve valere, in una sede giudiziaria dove una posizione centrale assumono i processi di criminalità economica, anche rispetto ai rapporti con autorità indipendenti e agenzie di diritto pubblico. Il primato della giurisdizione passa attraverso la capacità di comprensione dei fenomeni ed il controllo sul contenuto degli apporti esterni. Il fascino che si racchiude nel ruolo del Pubblico Ministero impone una grande responsabilità.

Il processo è fatto di atti comunicativi ed il linguaggio permea ogni tappa del nostro agire. La parola e lo scritto sono tratti distintivi di Francesco Arata: un linguaggio colto, sobrio ed essenziale, espressione di pulizia interiore, equilibrio, empatia nella comunicazione.

Si fa fatica a leggere, come magistrati, esposti come siamo ad una molteplicità di informazioni. E quando i dati sono tanti, spesso affastellati disordinatamente o ripetitivi, il rischio è quello di perdersi e smarrire la centralità del caso. Per questo il tratto del bravo avvocato è importante, aiuta a orientarsi nel processo e consente, allo stesso tempo, di interiorizzare chiavi comunicative efficaci. 

Lo sforzo di Pubblico Ministero e Avvocato diventa quindi reciproco, secondo un fine che non è evidentemente di condivisione dei contenuti, ma certamente di comprensione delle rispettive posizioni.

L’avvocato, prima ancora che nostro naturale contraddittore, è il filtro con il mondo esterno, l’ascolto della sua voce il filo per ordinare trame destinate altrimenti a sfuggirci. Vi è sempre il rischio di una applicazione della legge gretta, un legalismo esteriore cui è estraneo il sentimento di Giustizia. Che di noi magistrati non abbia a dirsi, come per i “dottori della legge”: «Guai a Voi, che avete tolto le chiavi della scienza. Voi non siete entrati e a quelli che volevano entrare l’avete impedito» [Lc, 11-52], «Lasciateli! Sono ciechi e guide di ciechi» [Mt, 15-14]. 

Sullo sfondo, l’importanza dello stile, dove forma e sostanza nel linguaggio giuridico si compenetrano e sono tutt’uno. Il processo penale può conoscere momenti di tensione intensissimi, le parole diventano così lo strumento – l’unico strumento – per dare corpo a sentimenti e sciogliere nel linguaggio l’afflato che li alimenta. “Le parole sono pietre” ammoniva Carlo Levi, narrando proprio di un caso giudiziario nella Sicilia del dopoguerra, nel pieno delle lotte sindacali per il diritto alla terra e la fine del latifondo: la furia della vittima si trasferisce nella ragione, l’urlo oscuro e il pianto si articolano in parole, le parole in un processo verbale e questo nel racconto, narrazione storica che trova nel processo la sede in cui è destinata a depositarsi.

Mi chiedo talvolta cosa significhi fairness nella dialettica processuale. Se, al di là dei principi scolpiti nell’art. 6 CEDU e in altre fonti sovranazionali, essenziali come base del giusto processo, vi sia spazio per qualcosa di ulteriore, che mi sfugge. Non so dare spiegazioni e forse per questo confido nella esistenza di fatti che non richiedono spiegazioni: semplicemente sono quello che sono. E’ un pensiero che accosto alla figura di Francesco Arata perché la fairness era il suo modo di essere, il naturale profilo con cui si poneva dinanzi alla giustizia penale. Nello spettro del processo era un uomo fatto così.

Esiste forse una chiave per rimuovere il velo e penetrare alla radice di quello che, per un contraddittore processuale come me, si presentava come un dato di realtà. La fairness è, prima ancora che rispetto delle regole, trasparenza interiore. E’ un tema delicato, che riguarda tanto la figura dell’avvocato quanto quella del Pubblico Ministero, imbrigliati entrambi da regole di riservatezza, che trovano manifestazione sul piano processuale e deontologico, con spazi diversi, nel segreto investigativo per il Pubblico Ministero e in quello professionale per il difensore. Segreto e trasparenza non sono anelli contrapposti di una catena, si compenetrano e nel loro coesistere fanno appello al senso di responsabilità di ciascuno, esigendo comportamenti lineari. E mai, come di fronte ai comportamenti, l’altrui esempio è vitale.    

Restano squarci di ricordi.

Mi aveva raccontato di essere divenuto sindaco nel suo paese di origine, in Piemonte: una scelta che riflette il rispetto della propria storia, ma anche la consapevolezza di quanta importanza rivestano i presidi istituzionali e la cura del territorio. 

Non ho memoria di colloqui avuti noi due soli. Nei contatti avvenuti nel mio ufficio, come in udienza, Francesco Arata veniva sempre con collaboratori o avvocati più giovani dello studio. Non aveva una visione individualistica della professione, si avvertiva che teneva alle persone che lavoravano con lui, alla loro educazione e crescita professionale, e sapeva dare continuità ai rapporti.

Guardava al futuro e portava sempre con sé una ventata di ottimismo e di fiducia. 

La stessa con cui, ne sono certo, vorrebbe che vivessimo noi, che lo abbiamo conosciuto ed apprezzato, in tutti questi anni.

Gaetano Ruta

 

 

 

 

 

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Ezia Maccora, vicedirettrice di Questione Giustizia, presidente aggiunto gip Tribunale Milano

Gaetano Ruta, Procura europea, sede di Milano

12/10/2021
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