Ad uno sguardo superficiale si potrebbe immaginare che la questione relativa alla presenza attiva dell’avvocatura nella valutazione di professionalità dei magistrati all’interno dei Consigli Giudiziari, si collochi ai margini della riforma dell’ordinamento giudiziario prospettata dalla Commissione “Luciani”. Una Riforma che investe gangli politico-istituzionali di ben maggiore respiro, come la elezione e la composizione del CSM, la rivisitazione delle sue competenze, i limiti alle candidature dei magistrati in politica, la sottrazione del contenzioso relativo agli incarichi direttivi alla competenza della giurisdizione ordinaria[1], volti a risolvere la crisi nella quale versa l’intero ordinamento giudiziario. Tuttavia, come spesso accade, anche l’osservazione di aspetti apparentemente secondari delle riforme consente di cogliere assetti ideologici e prospettive culturali che costituiscono il fondamento stesso, la visione del mondo sottesa all’intero impianto e di restituire interamente la natura degli equilibri che in esse si celano. Che la questione non sia affatto marginale lo si coglie facilmente se solo si entri nel merito dei poteri e delle facoltà accordate alle diverse componenti del consiglio.
L’emendamento proposto dall’Unione delle camere penali[2] investe un aspetto di grande rilievo, in quanto il giudizio di professionalità, così come attualmente strutturato, consiste in una semplice valutazione di avanzamento che non risulta idonea ad operare alcuna differenziazione qualitativa dei magistrati in base alla valutazione delle loro effettive qualità e capacità. Tale differenziazione consente di individuare nel corso delle carriere, chi effettivamente sia meritevole di ricoprire incarichi direttivi e semidirettivi, impedendo l’azione di impropri condizionamenti del giudizio del CSM fondati su logiche di fatto estranee alla qualità del singolo candidato, e fornendo ai provvedimenti del CSM una base adeguata sulla quale fondare la propria motivazione[3]. Tale meccanismo valutativo ancorato a parametri oggettivi ridurrebbe evidentemente anche il fenomeno delle impugnazioni delle delibere del CSM davanti al Tribunale Amministrativo Regionale (impugnazioni non di rado fondate), che per la sua sistematica diffusione produce , oltre che un danno di immagine nei confronti della intera giurisdizione, non poche disfunzioni nella conduzione degli uffici.
Sebbene i lavori della Commissione Luciani abbiano elaborato una analoga introduzione di giudizi (“positivo”, “buono” e “ottimo”), occorre tuttavia rilevare come tali valutazione siano limitate alle “capacità organizzative e di lavoro del magistrato”, che sembrano orientate più alla valutazione di una generica “efficienza” del magistrato ed alla sua capacità “produttiva” e non entrino dunque nel merito della professionalità dimostrata nell’esercizio del proprio ufficio e della “qualità” del lavoro svolto. Al centro della questione resta certamente il tema dei criteri stessi dell’espressione di quei giudizi, inevitabilmente differenti per la magistratura requirente e giudicante. Questione di non agevole soluzione che se per i pubblici ministeri non può risolversi nel calcolo dei successi ottenuti, per i giudici non può a sua volta consistere nel conteggio delle condanne somministrate, o nei soli tempi utilizzati per la redazione delle sentenze. Se da un lato si è ritenuta poco convincente la selezione dei “migliori”[4], resterebbe da valutare all’opposto la mancanza di note negative. Criterio questo forse meno accurato, ma forse più efficace per conservare un adeguato livello qualitativo della giurisdizione.
Quanto al primo emendamento, sempre sotto forma di delega, esso prevede che il Consiglio direttivo della Corte di cassazione sia composto dal Primo Presidente della Corte di cassazione, dal Procuratore Generale presso la stessa Corte e dal Presidente del Consiglio Nazionale Forense, da quattro magistrati, di cui uno che esercita funzioni requirenti, eletti da tutti e tra tutti i magistrati in servizio presso la Corte e la Procura generale, nonché da due professori universitari di ruolo di materie giuridiche, nominati dal Consiglio universitario nazionale, e da un avvocato con almeno venti anni di effettivo esercizio della professione, iscritto da almeno cinque anni nell’albo speciale, nominato dal Consiglio Nazionale.
Si tratta di interventi che dovrebbero operare, anch’essi, un qualche riequilibrio fra le diverse componenti della giurisdizione, secondo regole che avrebbero dovuto governare sin dalla nascita della nostra democrazia costituzionale l’ordinamento giudiziario, nel segno di una più moderna aereazione e cooperazione fra soggetti legati a culture e formazioni differenti, fra funzioni pubbliche e funzioni private. Il fatto che ancora oggi si discuta di quel minimo di intervento nell’avvocatura che superi la marginalità di quel “diritto di tribuna”, dimostra quale sia il limite originario che ha segnato la storia dei rapporti della magistratura con la società, svelando un radicato atteggiamento antimoderno, burocratico ed elitario di suoi vasti settori, tuttora purtroppo maggioritari[5].
Le proposte relative ad un possibile allargamento della valutazione da parte di rappresentanti dell’avvocatura hanno difatti sempre trovato un fronte di opposizione piuttosto vasto all’interno della magistratura che ha di fatto impedito che la questione venisse affrontata nell’ambito di una sana e vantaggiosa prospettiva di mutuo riconoscimento. D’altronde la questione non è né banale né nuova. Come ha infatti di recente ricordato Paolo Borgna[6] «la presenza a pieno titolo di “laici” (non solo avvocati ma anche membri eletti dai Consigli provinciali o regionali) è una vecchia proposta della sinistra. Che fu formalizzata la prima volta in un progetto di legge del 1965 (primo firmatario Vittorio Martuscelli, magistrato eletto alla camera nelle file del Psi); e poi ripresa da proposte di magistratura Democratica e, nel 1980, dal professore Vittorio Grevi».
Come purtroppo ricorda l’illustre commentatore, da allora «non è cambiata la diffidenza verso qualunque giudizio, sulla loro professionalità, esterno alla corporazione» ed «al contrario, tale diffidenza sembra essersi irrigidita, a seguito di un arroccamento che da quarant’anni ha ormai abituato due generazioni di magistrati ad un clima di cittadella assediata». Ma dovrebbe essere proprio per questa duplice ragione ad imporre oramai di fare di questa inevitabile riforma l’oggetto di una rivisitazione condotta su basi meno ideologiche e libera da antichi preconcetti e pregiudizi tanto inutili quanto offensivi. Basti ricordare in proposito le esternazioni di Marcello Maddalena, risalenti alla seconda metà degli anni ’80 con le quali si manifestava una aperta e radicale avversione ad ogni ipotesi di apertura esclamando: «Non scherziamo. Qui si sta proponendo di chiedere il parere su di noi ai rappresentanti dei delinquenti»[7]. Posizioni successivamente riprese, allorché ancora nel 2016 il Ministro Orlando, con l’avallo di Giovanni Canzio rilanciò la proposta di allargamento del diritto di voto agli avvocati[8], provocando una durissima reazione della corrente di destra davighiana, che evocava il rischio di condizionamento nelle «realtà locali con forte infiltrazione criminale»[9]. Per giungere, infine, ad altre posizioni più moderate, come quella secondo la quale sarebbe comunque «pericoloso affidare la valutazione di professionalità di un magistrato a un avvocato a cui magari il giorno prima quel magistrato ha dato torto in un processo»[10].
Purtroppo questa ostilità, sebbene sia manifestata con differenti modalità, sembra essere sopravvissuta negli anni senza alcuna sensibile mutazione se è vero che pochi mesi fa il Presidente di ANM ha espresso ancora una “ferma contrarietà” all’ipotesi di riforma, sostenendo che «già i Consigli godono di una “composizione allargata” e che il diritto di tribuna o addirittura il diritto di voto sulle valutazioni di professionalità «determinerebbe solo interferenze con l’indipendenza esercizio della funzione giudiziaria»[11]. Nessuna delle obiezioni poste a fondamento di tali posizioni appare irresistibile, tutte mostrano poco coraggio e scarsa lungimiranza. Sono valutazioni che nella loro “varietà” esemplificano una distorta visione dell’avvocatura, segnata da una evidente fallacia naturalistica, più attenta alle singole possibili patologie che non alle reali dinamiche dei rapporti fra avvocatura e magistratura e soprattutto indifferente alle smagliature della cd. indipendenza interna. L’esperienza quotidiana ed anche alcuni recenti fatti di cronaca dimostrano, infatti, quali possano essere i sentimenti manifestati da un pubblico ministero nei confronti di un giudice che abbia respinto una sua istanza. Per non dire delle esternazioni e delle valutazioni captate ad un noto esponente del CSM nelle quali viene ad emersione una assai distorta declinazione di quella indipendenza. Si tratta di accadimenti fisiologici e non, che devono tuttavia farci riflettere sulla necessità di affrontare la questione in termini più ragionevoli, sottratti al paradosso teratologico: anche laddove si dovesse immaginare il voto favorevole alla progressione professionale di un giudice corrotto o colluso, espresso da un avvocato, il vero fenomeno di cui preoccuparsi sarebbe quello della corruzione e della collusione. Si tratta, tuttavia, di valutazioni che ci fanno pensare, non tanto che la magistratura non voglia essere valutata dagli avvocati, ma che vi sia una magistratura che, coltivando una errata idea di indipendenza, non voglia essere valutata e giudicata da nessuno ed in nessun modo. Siamo convinti invece, non solo che l’avvocatura e la magistratura siano di gran lunga migliori, più mature e più consapevoli dei loro congiunti destini, di quanto le cronache ed il sentire comune sembrerebbero dirci, ma anche oramai consapevoli che solo questa apertura reciproca possa costituire un progresso per la giustizia. Un progresso fatto di una maggiore presenza nel CSM e di inserimenti laterali dell’avvocatura all’interno della magistratura giudicante, di cognizione e di legittimità.
Se è dunque vero che le posizioni dominanti sembrano ancora arroccate su di una chiusura dell’orizzonte e su di una politica fondata sull’illusione che antichi schemi mentali e vecchi strumenti ideologici possano riuscire a leggere gli scenari del tutto nuovi che la giustizia del futuro ci propone, siamo tutti chiamati a guardare con realismo la sempre più grave delegittimazione della funzione giudiziaria. Ma ciò significa che il nostro riconoscimento dell’insicurezza e del bisogno di giustizia che attraversano la collettività, si deve accompagnare necessariamente alla ricerca di quali risposte dare in concreto a queste sempre più urgenti richieste. Se manchiamo questa sfida e non siamo in grado di dare risposte a quei problemi, non resteranno che la paura e l’insicurezza, che cercheranno e troveranno altrove, in un non auspicabile ritorno al passato, la loro obliqua soddisfazione.
Parafrasando de Tocqueville, potremmo dire che «più la [magistratura] cessa di essere aristocrazia e più sembra divenire casta»[12]. Se questa mutazione sarà favorita dalla crisi corrente la magistratura rischia di chiudersi alla società e di nutrire un pericoloso spirito cetuale, timoroso di contaminazioni e di controlli, arroccandosi a difesa di una fraintesa indipendenza esterna e dimenticando spesso i pericoli che provengono dalla mancanza di una vera indipendenza interna. La caduta delle ideologie ha sottratto alle correnti la loro originaria carica propulsiva che aveva contribuito alla crescita del Paese, al rinnovamento della giurisdizione e alla riforma in senso democratico dei codici. Poiché è tuttavia evidente che nella magistratura, così come nell’avvocatura, vi sono forze non legate ad una idea autoreferenziale del proprio ruolo, ma capaci di guardare al futuro, e dotate delle forze intellettuali necessarie per poter governare i profondi mutamenti che stanno inevitabilmente investendo, assieme all’intera società, anche il mondo della giustizia, il loro sguardo potrà aprirsi senza timore ai nuovi orizzonti di più incisive e radicali riforme.
[1] Dobbiamo rilevare come la Commissione abbia audito il Comitato di Presidenza del CSM (che pure sul DDL Bonafede relativo all’Ordinamento Giudiziario aveva reso più di un parere), il Presidente e il Segretario di ANM e i rappresentanti del CNF (che hanno inviato uno scritto), ma non hanno ritenuto di convocare in audizione l’Unione delle Camere Penali italiane.
[2] L’UCPI aveva proposto in particolare di «prevedere che il giudizio di professionalità di cui al comma 9 dell’art. 11 del decreto legislativo n. 160, del 5 aprile 2006, venga espresso con l'attribuzione di voti che vanno dal 5 al 10. I voti 9 e 10 corrispondono a un giudizio di professionalità “più che positivo”, da attribuirsi quando la valutazione evidenzi capacità particolarmente apprezzabili o eccellenti, in relazione a ciascuno dei parametri di cui al comma 2 della medesima norma. I voti 7 e 8 corrispondono ad un giudizio di professionalità “positivo”, da attribuirsi quando la valutazione risulti sufficiente o più che sufficiente in relazione ai parametri di cui al comma 2 della medesima norma. Il voto 6 corrisponde a un giudizio di professionalità “non positivo” e il voto 5 corrisponde ad un giudizio di professionalità “negativo”, secondo i parametri valutativi già indicati nel comma 9».
[3] Cfr. in proposito il contenuto della Relazione di accompagnamento della proposta di emendamento formulata da UCPI: https://www.camerepenali.it/cat/10966/riforma_dellordinamento_giudiziario_e_del_csm_le_proposte_ucpi.html
[4] Si vedano in proposito le opinioni di Nello Rossi, e Carlo Guarnieri nell’ambito della tavola rotonda moderata da Rinaldo Romanelli, tenutasi il 24 settembre 2021, nell’ambito del XVIII Congresso ordinario dell’UCPI.
[5] Vale la pena qui di ricordare i dati riportati da Giuseppe Di Federico, La valutazione di professionalità dei magistrati, in Anatomia del potere giudiziario, a cura di C. Guarnieri, G. Insolera e L. Zilletti, Carocci Editore, Bologna 2016, p. 79 ss. e quanto si afferma in ordine al «venir meno» di uno dei «cardini del modello organizzativo burocratico di tradizione weberiana (…) che caratterizza ancora, in vario modo, gli altri sistemi giudiziari dell’Europa continentale ove le promozioni seguitano ad essere competitive», op. cit., p. 81.
[6] P. Borgna, Ma i magistrati devono augurarsi anche il giudizio degli avvocati, in Avvenire, 28 luglio 2021.
[7] M. Bordin, Maddalena, gli avvocati e le manette, ne il Foglio, 15 ottobre 2016.
[8] Cfr. Convegno CNF, La componente laica nel consiglio giudiziario ed il suo ruolo, Milano, 12 dicembre 2017.
[9] E. Novi, Magistrati: “gli avvocati stiano fuori”. La corrente di Davigo in rivolta, ne Il Dubbio, 14 ottobre 2016; posizione ripresa da Piercamillo Davigo anche di recente, cfr. A. Riva, Conflitto d’interessi per gli avvocati? Davigo lo tema a proposito dei suoi colleghi…, ne Il Dubbio, 6 luglio 2021.
[10] P. Borgna, in Avvenire, cit.
[11] Intervista al dott. Salvatore Casciaro, Presidente di ANM, Il Dubbio, 25 maggio 2021.
[12] A. de Tocqueville, L’antico regime e la rivoluzione, Rizzoli, Milano 2011, p. 127: nel testo originale il riferimento è alla nobiltà.
Il presente articolo viene pubblicato come anticipazione del numero di Questione Giustizia trimestrale, di prossima pubblicazione, dedicato alle riforme dell'ordinamento giudiziario.