- VIDEOMESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO AI GIUDICI DI AFRICA E AMERICA
- VIDEOMESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO IN OCCASIONE DELL’INCONTRO VIRTUALE DEI GIUDICI MEMBRI DEI COMITATI PER I DIRITTI SOCIALI DI AFRICA E AMERICA
Papa Francesco ha inviato il 30 novembre 2020 due videomessaggi, un saluto iniziale e poi un discorso, al primo incontro virtuale dei giudici membri dei Comitati per i diritti sociali di Africa e America.
Si tratta di interventi brevi, ma densi di contenuti.
Sarebbe presuntuoso provare a proporne un’interpretazione: mi mancano, tra l’altro, indispensabili conoscenze di precedenti atti e scritti di questo Pontefice e, più in generale, della dottrina sociale della Chiesa.
E, tuttavia, la profondità di quelle parole sul significato della giustizia e del giudicare, così dense pur nella loro apparente semplicità, suscita inevitabilmente delle suggestioni, evoca richiami, provoca un’eco di discorsi e ragionamenti nati in altri contesti ed in altri ambienti, che non è possibile ignorare.
Il Pontefice inizia la sua riflessione partendo da quello che definisce «l’angosciante quadro» delle crescenti disuguaglianze, tema a cui aveva già dedicato gran parte della sua enciclica, Fratelli Tutti, del 3 ottobre scorso; e, del resto, oggetto del convegno dei giudici di Africa ed America era La costruzione della giustizia sociale. Verso la piena applicazione dei diritti fondamentali delle persone in condizioni di vulnerabilità.
Su questo tema, il Papa ha ricordato il consolidato magistero della Chiesa, che non riconosce come assoluto ed intoccabile il diritto alla proprietà privata, ma ne sottolinea sempre la funzione sociale, in quanto «diritto naturale secondario derivante dal diritto che hanno tutti».
Qui appare sin troppo agevole trovare un immediato rimando a ciò che anche la nostra carta costituzionale prevede, sia in tema di uguaglianza sostanziale (art. 3 comma 2), sia a proposito della funzione sociale e accessibilità a tutti che deve essere assicurata alla proprietà privata (art. 42, comma 2).
E, però, Francesco aggiunge qualcosa in più: quando, ricorrendo alle leggi e al diritto, «diamo ai poveri le cose indispensabili, non diamo loro le nostre cose, né quelle di terzi», ma «restituiamo loro ciò che è loro … ciò che appartiene loro». In quel termine, “restituire”, è contenuta la consapevolezza di una precedente sottrazione, che proprio per questo impone una riparazione. Non è – credo – la rivalutazione di Proudhon; piuttosto, una sottolineatura sofferta della inadeguatezza di tutti i sistemi politico-economici di fronte allo scandalo delle disuguaglianze. E qui interviene, a conclusione del suo saluto iniziale, il richiamo del Pontefice al ruolo della giustizia: «quando una giustizia è realmente giusta, quella giustizia rende felice i Paesi e degni i loro abitanti. Nessuna sentenza può essere giusta, nessuna legge legittima se ciò che generano è più disuguaglianza», oppure «maggiore perdita di diritti, indegnità o violenza».
Ora, non penso che papa Francesco, parlando di sentenza giusta, intendesse distinguerla da (e contrapporla a) quelle ingiuste in quanto sbagliate in diritto o frutto di quegli errori che noi comunemente conosciamo come motivi di impugnazione e riforma delle nostre decisioni. La sentenza è ingiusta se genera più disuguaglianza, perdita di diritti, indegnità o violenza.
Mi pare di cogliere, in queste parole, un invito al giudice, all’interprete in genere, a non fermarsi alla mera esegesi delle norme, a non trasformarsi in mero attuatore di leggi che possano rivelarsi “ingiuste”, ma a ricercare sempre e comunque il modo per improntare le decisioni giudiziarie al fine ultimo di ridurre le disuguaglianze, ad attuare i diritti, a promuovere dignità ed abbattere ogni forma di violenza. In quelle parole, apparentemente semplici, mi pare di scorgere l’eco di tante riflessioni di costituzionalisti e filosofi, di ritrovare il dibattito tra attivismo o deferenza del giudice rispetto alla legge. E pur essendo improbabile che il Pontefice possa essere al corrente di tali dispute dottrinarie e che intendesse, in tal modo, intervenire in esse in un senso o nell’altro, tuttavia pare che Egli si ponga, con estrema sensibilità, di fronte all’eterno conflitto tra legge e giustizia, tra disposizione e norma, di fronte alla angosciante possibilità della “legalità del male”: da qui il monito affinché leggi e sentenze non producano disuguaglianza, perdita di diritti, indegnità o violenza.
Ma il punto, a mio avviso, più sorprendente del saluto di papa Francesco ai componenti dei comitati per i diritti sociali di Africa e America consiste nell’esortazione finale ai giudici a fare delle proprie sentenze una “poesia”.
Il Pontefice ha formulato un ardito paragone tra il poeta ed il giudice (lo aveva del resto già fatto in un analogo incontro del 4 giugno 2019 al vertice dei giudici panamericani sui diritti sociali e la dottrina francescana), ed ha sottolineato: «Il poeta ha bisogno di contemplare, pensare, comprendere la musica della realtà e catturarla nelle parole. Tu in ogni decisione, in ogni frase, ti trovi di fronte alla felice possibilità di fare poesia: una poesia che curi le ferite dei poveri, che integri il pianeta, che protegga la madre terra e tutta la sua discendenza. Una poesia che ripari, redima e nutra». «Giudici, non rinunciate a questa possibilità».
Anche in questo caso, sarebbe azzardato provare a farsi esegeta delle parole di Francesco; e, tuttavia, penso di poter escludere che Egli intendesse formulare un invito ai magistrati a vergare le proprie decisioni con forme poetiche o in rime. Piuttosto, ancora una volta, la profonda spiritualità del Papa si manifesta nell’invito rivolto ai giudici a fare come i poeti: «contemplare, pensare, comprendere la musica della realtà e catturarla nelle parole». E’ una richiesta non soltanto formale, ad evitare una lingua sciatta, superficiale o inutilmente respingente (quella “antilingua” che, purtroppo, ancora e spesso connota anche noi giudici italiani). E’, soprattutto, un pressante appello a restituire, nelle proprie decisioni, con parole attente, meditate, studiate, frutto di umile e mai arrogante riflessione, lo sforzo di comprensione della realtà, della “musica della realtà”, che non è mai suonata su un’unica nota, ma che vive nella polifonia di suoni diversi; con la consapevolezza che «una poesia che non trasforma, è solo una manciata di parole morte».