1. Il caso
Brevemente, il caso: il Presidente del Tribunale di *** decide di affidare ad un magistrato del suo ufficio un incarico di collaborazione «nella gestione della stipula delle convenzioni per lo svolgimento di lavori di pubblica utilità». È da evidenziare che il magistrato «incaricato» è anche componente eletto del Consiglio giudiziario di quel distretto.
Il Consiglio giudiziario – chiamato ad esprimere il parere su tale nomina – non boccia il decreto, ma lo ritrasmette al tribunale, «affinché rivaluti la nomina della dott.ssa *** nel predetto incarico», ritenendo – così la sintesi che ne fa il Csm – «che l’incarico di magistrato collaboratore del Presidente, per il quale non è prevista alcuna forma di esonero dall’attività giudiziaria, potrebbe risultare incompatibile con gli impegni della dott.ssa ***, anche quale componente del Consiglio giudiziario».
Sennonché, il Presidente del Tribunale di *** non rivaluterà alcunché, il magistrato «incaricato» presenterà direttamente «osservazioni» al Consiglio superiore della magistratura e, quest’ultimo, con tempismo degno forse di miglior causa, con procedura di urgenza approverà il decreto con cui l’incarico è stato attribuito, prima ancora che il Consiglio giudiziario di *** riesca ad esprimere il parere sul decreto in questione.
2. La decisione del Consiglio superiore della magistratura
In punto di diritto, la motivazione del Csm è ineccepibile. Il decreto di nomina è stato preceduto da un rituale interpello e l’attribuzione dell’incarico «è stata motivata in ragione della specifica esperienza maturata dalla dott.ssa *** nell’attività di collaborazione nella stipula di convenzioni e nel mantenimento di rapporti esterni con diversi enti».
Evidente, dunque, che, nel caso in esame, non vi erano ragioni – in punto di diritto – per non approvare quel decreto; l’art. 108, comma 2, della circolare sulle tabelle 2017-2019 prevede infatti che la motivazione del decreto di attribuzione dell’incarico debba dare conto: a) delle esigenze dell’ufficio che giustificano il conferimento di compiti specifici; b) delle ragioni per le quali non è possibile attribuire tali compiti a un presidente di sezione; c) dei criteri seguiti nella scelta. I criteri di scelta – precisa la normativa secondaria – sono «sindacabili solo nei casi di manifesta inadeguatezza o di palese difetto di motivazione».
Non avendo letto il testo del decreto non si può però dire – perché la delibera del Csm nulla dice su tale aspetto – se il Presidente del Tribunale di *** abbia spiegato le ragioni per cui quel determinato compito non poteva essere attribuito ad un presidente di sezione.
Ciò nondimeno, non vi è motivo per ritenere che il caso della dr.ssa *** rientri tra quelli di «manifesta inadeguatezza». Né il decreto si segnala per un «palese difetto di motivazione». Nessun dubbio, pertanto, può sorgere sulla legittimità del decreto del Presidente del Tribunale di ***, né sulla legittimità della delibera consiliare.
E, però, questa vicenda sollecita diverse riflessioni. Infatti, non tutto ciò che è legittimo fare è opportuno venga fatto.
3. Gli incarichi di collaborazione
È bene chiarire subito una premessa: l’attribuzione di incarichi gestori da parte dei dirigenti degli uffici giudiziari a magistrati collaboratori è un fenomeno positivo per diverse ragioni: a) perché coinvolge nell’organizzazione dell’ufficio chi, probabilmente, ha idee, competenze e risorse che – per le ragioni più disparate – in quel momento il dirigente o i presidenti di sezione non hanno; in tal modo, l’organizzazione cessa di essere un “affare del capo” e diventa una questione dell’ufficio; b) perché induce il magistrato – che appartiene ad un corpo professionale che ha sinora tradizionalmente avuto una modesta cultura organizzativa – a ragionare per progetti, a perseguire obiettivi, trovare risorse; c) perché, almeno potenzialmente, mette alla prova le competenze del magistrato, sì da poterne valutare – volendolo – la professionalità e l’attitudine organizzativa, al di là della pur importante – ma talora burocratica – considerazione di come il magistrato gestisca il proprio ruolo.
In poche parole, gli incarichi di collaborazione possono far emergere idee e competenze nuove e – chissà – anche migliorare un po’ la cultura dell’organizzazione degli uffici.
4. Gli incarichi di collaborazione: the dark side
Sennonché questa visione dello strumento organizzativo degli incarichi di collaborazione – scritta nelle circolari consiliari – rischia di risultare fin troppo ottimistica, se non ingenua. Chiunque segua con un po’ di pazienza – e talora ce ne vuole ben più di «un po’» – il dibattito interno alla magistratura sa che gli incarichi di collaborazione stanno diventando il terreno quotidiano di mille piccole – talora piccolissime – polemiche; di chiacchiericci; di invidie; di favori (percepiti o reali).
Sono molti – sempre di più – i magistrati che si sentono esclusi da questo circuito, che si descrivono come peones, come magistrati spalatori, che si contrappongono ai magistrati scalatori, che, viceversa, sarebbero perennemente alla ricerca di visibilità, incarichi, medagliette, da esibire su scintillanti curricula in vista di futuri e prestigiosi incarichi.
È un dibattito talora stucchevole, spesso giocato sul filo del sospetto e dell’accusa di favoritismi più o meno confessabili. È un dibattito che avvelena la magistratura in cui, oramai, è saldamente inoculato il virus del carrierismo (tanto in chi il carrierismo lo pratica, quanto in chi invidia chi riesce a praticarlo).
5. Non tutto ciò che è legittimo fare è opportuno venga fatto
Il caso da cui muovono queste “Cronache fuori dal Consiglio” permette di riflettere su alcuni aspetti.
La vicenda può essere esaminata da diversi punti di vista e – da ciascuno di questi punti di vista – essa è suscettibile di svariati rilievi (nessuno dei quali – si ripete – investe la legittimità delle decisioni assunte dal Presidente del Tribunale di *** e, poi, dal Consiglio superiore della magistratura).
5.1. Viene in primo luogo in rilievo un aspetto: né il magistrato «incaricato» (nel candidarsi), né il Presidente del Tribunale di *** (nell’attribuire l’incarico) hanno avvertito alcuna ragione di inopportunità nell’attribuzione ad un consigliere giudiziario di un incarico di collaborazione diretta con il dirigente di un ufficio.
Per carità: non vi è nessun divieto; ma una qualche ragione di imbarazzo avrebbe potuto essere avvertita dai protagonisti della vicenda.
L’incarico di collaborazione coinvolge l’«incaricato» in un ruolo di collaborazione nell’Ufficio che, potenzialmente, può pregiudicarne la serenità di giudizio allorquando l’autogoverno decentrato sarà chiamato ad esprimersi sull’andamento di quell’ufficio (nel caso di specie, in sede di formulazione di pareri sulla stipula di certe convenzioni; ma analogo rischio potrebbe darsi – in altri contesti – in sede di valutazione di progetti o variazioni tabellari, in sede di vigilanza sull’andamento dell’ufficio, etc.).
Non vi è nessuna ragione per pensare che questo sia stato l’intento dei protagonisti della vicenda esaminata dal Consiglio. Ma è certo che l’istituzione deve pensare anche alle possibili future patologie di sistema: può pensare che, in futuro, vi siano consiglieri giudiziari arrivisti o – che so – dirigenti che cercano di procacciare il consenso del Consiglio giudiziario distribuendo «prebende» e blandendo i consiglieri giudiziari coinvolgendoli nella propria «squadretta».
5.2. Viene in secondo luogo in rilievo un’altra riflessione, meno appassionante, forse, ma da non trascurare, perché coinvolge la percezione che la magistratura ha di sé: il consigliere giudiziario gode di alcuni esoneri – anche significativi – dal lavoro giudiziario; si tratta di esoneri non sempre goduti per intero e, comunque, giustificati dal fatto che – a farlo bene – il lavoro di consigliere giudiziario assorbe molte risorse mentali e di tempo.
Ma occorre tenere presente che, ai malpensanti, potrebbe venire in mente che vi sia chi – profittando degli esoneri – ha più tempo libero per andare a «caccia di medagliette» e precostituirsi un cursus honorum da valorizzare in futuro.
E, nella fase attuale, in cui diffuso è il senso di sfiducia di molti magistrati verso l’autogoverno occorre tenere conto anche dei malpensanti. In questa fase, allora, un po’ di self-restraint da parte di chi ha incarichi istituzionali, forse, aiuterebbe.
5.3. Viene, in terzo luogo, in rilievo un aspetto ulteriore. La concentrazione di incarichi di collaborazione in capo ad alcuni magistrati ha due effetti criticabili sul piano dell’opportunità: a) alimenta il sospetto che alcuni magistrati si costruiscano – e alcuni dirigenti favoriscano – le carriere; non sono rari i casi di magistrati che sono tributari di una pluralità di incarichi di collaborazione; b) circoscrive in un perimetro più stretto il numero di magistrati coinvolti in esperienze organizzative (con possibile dispersione di risorse; con riduzione del novero degli elementi di possibile valutazione allorquando si dovrà decidere in ordine all’attribuzione di incarichi direttivi o semi-direttivi).
5.4. Viene infine in rilievo una riflessione di galateo istituzionale (non per questo meno rilevante). Il Consiglio giudiziario – ricevuto il decreto con l’attribuzione dell’incarico – lo «rimette» al Presidente del Tribunale di ***, perché lo «rivaluti»; formula tecnicamente inesistente, ma certamente non priva di garbo istituzionale, posto che essa, nel segnalare implicitamente ragioni di avvertita inopportunità, fa salve le prerogative del dirigente dell’ufficio.
Sennonché, il Presidente del Tribunale di *** non rivaluta alcunché. E, nelle more, il magistrato «incaricato» trascura il giudizio “dei pari” e si appella direttamente “a Cesare”, dimostrando così di non voler tenere in alcun conto i rilievi dell’organo al quale pure appartiene.
Anche qua non si registra alcuna illegittimità; suscita però qualche preoccupazione quello che sembra un rifiuto del dialogo in un ambito di relazioni istituzionali.
6. Prospettive
Le considerazioni che precedono sono, a ben vedere, piuttosto banali; ma la nostra riflessione non può risolversi in una vacua censura di altrui comportamenti ritenuti inopportuni.
Gli incarichi di collaborazione possono garantire la valorizzazione di idee e risorse capaci di migliorare l’organizzazione degli uffici e possono accrescere le competenze organizzative dei magistrati. Ma uno strumento come quello in esame deve necessariamente collocarsi in un perimetro che: a) non sia usato come strumento per deresponsabilizzare i dirigenti e i semi-direttivi; b) non sia usato come strumento di accumulo di medagliette fini a sé stesse, utili solo a chi le appunta al petto, ma non all’ufficio; c) sia autentico strumento di individuazione e valorizzazione delle competenze; d) sia governato con logiche di trasparenza; e) prevenga le patologie e i possibili conflitti di interesse.
Su alcuni snodi si può intervenire modificando i “comportamenti”. Su altri snodi sarebbe forse opportuno qualche intervento di normazione secondaria.
6.1. Con un intervento di normazione secondaria potrebbero, per esempio, essere declinate regole di incompatibilità tra certe cariche (ad esempio, di consigliere giudiziario) e certi incarichi di collaborazione con i dirigenti. Si potrebbero ricalcare le previsioni di incompatibilità in modo analogo a quanto già previsto per le cariche di mag. rif. (magistrato di riferimento per l’informatica) e consigliere giudiziario.
Ma anche senza interventi normativi, a ben vedere, si potrebbe ottenere lo stesso risultato. Si potrebbe, per esempio, partire dai comportamenti: si potrebbe, cioè, avvertire l’inopportunità istituzionale di incaricare persone già investite di cariche elettive (e, per converso, l’inopportunità di candidarsi a ricoprire certi ruoli essendo già consiglieri giudiziari). Anzi: ciò è già avvenuto; non sono rari i casi di consiglieri giudiziari che non solo non concorrono per l’attribuzione di incarichi di collaborazione, ma che – per ragioni di opportunità – si sono dimessi da incarichi rivestiti precedentemente alla loro elezione in seno al consiglio giudiziario.
6.2. Un altro possibile intervento di normazione secondaria potrebbe, sempre per esempio, prevenire l’accumulo di medagliette, prevedendo che non si possano attribuire più incarichi di collaborazione allo stesso magistrato (salvi casi eccezionali, da motivare in modo specifico in relazione alla particolare attitudine del candidato, alle particolari esigenze dell’ufficio e alla sostenibilità del doppio incarico, anche in relazione al carico di lavoro giudiziario).
Ma, anche qua, si potrebbe già partire dalle pratiche virtuose, capaci di promuovere la partecipazione più ampia possibile alle esperienze di compartecipazione alla gestione degli uffici o nelle esperienze di autogoverno: per esempio, introducendo negli interpelli l’indicazione di un criterio preferenziale per chi non rivesta già altri incarichi di collaborazione (per esempio, il Consiglio giudiziario di Torino ha dato tale indicazione in occasione di alcuni interpelli di sua competenza).
6.3. Si potrebbe, poi, cominciare a prendere sul serio alcune indicazioni già contenute nella circolare sulle tabelle e nel testo unico sulla dirigenza. La circolare sulle tabelle – all’art. 108, comma 3 – prevede che «l’incarico assume rilievo sempre che lo svolgimento dello stesso, per la durata e i risultati conseguiti, sia suscettibile di valutazione positiva, affidata ai Consigli giudiziari, che potranno effettuarla, sulla base di quanto riferito dal Presidente, in occasione del parere per le valutazioni di professionalità o del parere attitudinale sulla domanda di conferimento di ufficio direttivo». Il testo unico Dirigenza prevede che gli incarichi di collaborazione assumano rilievo quali indicatori generali delle attitudini organizzative per chi si candida ad un posto direttivo o semi-direttivo; l’art. 9, comma 2, dispone che gli incarichi di collaborazione (ed altre “medagliette”) «sono valutate in relazione ai concreti risultati conseguiti e comprovati da adeguata documentazione».
Sennonché, in un anno e mezzo di esperienza come consigliere giudiziario (avendo già passato all’esame ben più di un centinaio di pareri tra valutazioni di professionalità e pareri attitudinali), raramente ho visto rapporti informativi in cui i dirigenti dicessero cosa concretamente avesse fatto il magistrato incaricato di qualcosa e, ancor più raramente, come lo avesse fatto. Spesso ci si limita all’indicazione – forse ritenendola dimostrazione autoevidente di attitudine organizzativa – che il dr. Tizio è stato mag. rif. o formatore decentrato o incaricato di un qualche progetto. In quei casi, ho cominciato a scrivere (e altri come me) nelle bozze di parere che predispongo per il Consiglio giudiziario: «riferisce di essere stato mag. rif., ma non indica elementi utili a valutare come egli abbia svolto l’incarico».
Tantomeno, credo abbia mai trovato pratica applicazione la previsione dell’art. 110 della circolare sulle tabelle, che prevede che – delle scelte da lui compiute – il dirigente debba rendere conto al momento della richiesta di essere confermato nell’incarico direttivo…
6.4. Un’ultima notazione, prima di chiudere questa nota: un forte elemento di valorizzazione autentica del merito e di rafforzamento della trasparenza del sistema deriverebbe dalla modifica dell’art. 108, comma 2, della circolare sulle tabelle. Si è detto in esordio che tale disposizione prevede che gli incarichi attribuiti dal dirigente dell’ufficio «sono sindacabili solo nei casi di manifesta inadeguatezza o di palese difetto di motivazione».
È evidente l’intenzione di “ridurre” il possibile contenzioso, come è evidente l’apertura di credito verso il senso di responsabilità dei dirigenti.
Sennonché, una simile norma rischia – sul piano della percezione – di alimentare i sospetti dei magistrati (che si percepiscono) spalatori e che lamentano l’esistenza di circoli di “amici del capo”, ove i magistrati scalatori praticano la bella vita e, sorseggiando un Martini, fanno poco o nulla per l’ufficio, essendo molto più impegnati nella costruzione delle proprie brillanti carriere.
Si tratta di caricature, spesso ingiuste. Ma le norme si scrivono anche per favorire la costruzione dell’immagine che un’istituzione vuole dare di sé.
Peraltro, una simile norma si rivela contraddittoria con altre previsioni e rischia, per altro verso, di consentire prassi non funzionali all’interesse dell’ufficio.
Perché prevedere la necessità di un interpello se, poi, il dirigente può scegliere in modo sostanzialmente fiduciario il proprio eletto, purché «non palesemente inadeguato», con l’unica richiesta di scrivere due righe di motivazione?
Ipotizzate il caso di un dirigente che debba attribuire un incarico di collaborazione che implica conoscenze informatiche: rispondono all’interpello un discreto magistrato con vent’anni di esperienza, già consigliere giudiziario e già mag. rif.. Immaginate che, in quello stesso ufficio, ci sia un giovane magistrato, smanettone fin dalla più tenera età, nativo digitale e, magari, perfino sensato e dotato di brillante senso pratico e organizzativo.
Quale sarebbe la scelta migliore per l’ufficio? Ipotizziamo che, in quell’ufficio, anche i sassi sappiano che il giovane magistrato-nerd sia il più adatto all’incarico.
Ma il dirigente non se la sente. Nomina il discreto magistrato. Nessuno potrebbe obiettare alcunché. Nessuno potrebbe dire che si tratti di scelta palesemente inadeguata (anche perché nessuno magari ha detto come quel discreto magistrato ha fatto il mag. rif.); nessuna comparazione possibile con il magistrato-nerd.
Ecco, io credo che una regola che consente di fare una scelta sostanzialmente non sindacabile non sia una buona regola. E, forse, allora, vale la pena di cambiarla.
I buoni dirigenti – capaci di valorizzare le competenze dei propri collaboratori – non ne avranno grossi intralci. Chi dispensa medagliette ai propri amici, invece, sì. E questo potrà, forse, restituire un po’ più di trasparenza e di fiducia al sistema.