Il diritto, per sua intima essenza, dovrebbe essere strumento di soluzione della complessità. Eppure spesso, fin dalla sua cristallizzazione nella lettera della legge, sembra tradire questa sua funzione primaria. Anzi, frequentemente la norma genera la complessità e determina la necessità di ulteriore produzione normativa, a sua volta spesso caratterizzata da un ordito linguistico criptico.
Questo effetto è la contraddizione più profonda alla funzione primaria della legge che, come è noto, è quella di orientamento dei comportamenti del consociati. Per farlo la legge dovrebbe essere comprensibile, anzi dovrebbe essere comprensibile a tutti.
Al contrario, è sempre più raro confrontarsi con una disciplina legislativa che detti regole d’immediata comprensione, non riuscendo il legislatore – nel dettare la regola- a segnare una controtendenza alla complessità del sistema che ormai caratterizza i rapporti sociali ed economici. Ciò è spesso conseguenza del fatto che nel testo della legge si riproducono tensioni, contrapposizioni od orientamenti dissimili semplicemente giustapposti senza un’adeguata opera di bilanciamento.
Nel tentativo di compiere un’analisi tecnica della “lingua della legge” è nata la Scienza dell’Interpretazione. L’ermeneutica giuridica, tuttavia, si propone a sua volta come una riflessione sulla metodologia dell’interpretazione della norma giuridica e, nel suo tentativo di sistematizzare le regole di “lettura” della legge, ha finito talora per giustificare la complessità del suo oggetto di studio senza risolverlo, fors’anche per giustificare la sua stessa esistenza.
Estremizzo volutamente: una disciplina del metodo di comprensione del significato della legge che diventa scienza rischia di manifestare nel modo più tragico il fallimento della norma. La sua opacità di senso rischia spesso diventare arma dell’élite culturale che l’ha generata e, avendo un significato non condiviso, si riduce a mero divieto per chi ne subisce gli effetti senza comprenderne il significato.
La non intellegibilità della regola “politica” espressa dalla norma genera, infatti, diseguaglianza sociale, si presta ad essere strumento di possibile frode politica per chi ne amministra l’esercizio, produce discrezionalità incontrollata, riduce le possibilità di controllo che la società degli elettori ha sull’operato degli eletti e declina il rapporto di rappresentanza sempre più verso lo schema sudditi-principe.
Se la complessità della norma talora si può comprendere ove essa trattenga in sé il tecnicismo della materia sottostante (si pensi al settore bancario, a quello commerciale, a quello di disciplina delle scienze) diventa assolutamente meno giustificabile quando ha come funzione quella di individuare e punire comportamenti illeciti.
Se la sanzione penale, in un ordinamento orientato alla prevenzione dei comportamenti antigiuridici, rappresenta la reazione estrema (l’extrema ratio nel catalogo delle possibili risposte dello Stato) allora la “norma criminale” è quella che, più d’ogni altra, deve apparire immediatamente comprensibile; il suo comando dev’essere chiaro senza necessità di mediazioni sia sulla portata del suo precetto che sulla pena collegata alla sua violazione.
Il diritto penale dovrebbe, contrariamente a quanto spesso si ritiene, essere strumento di risoluzione dei conflitti, di contenimento dell’aggressività, in quanto ha lo scopo di trasferire dall’iniziativa punitiva del singolo all’intervento dello Stato la scelta sulla modalità di ripristino della regola sociale violata.
Solo un corretto funzionamento del sistema penale assicura il bilanciamento tra offesa e reazione ad essa, la proporzionalità dell’intervento repressivo, riduce il rischio di recidiva, evita la sollecitazione negli altri consociati all’illecito determinata dalla percezione dell’impunità del reo.
Invece, sempre più frequentemente, anche la produzione normativa nel settore penale (intesa in senso lato, ricomprendendovi anche i meccanismi di depenalizzazione sostanziale o di deflazione processuale) si sta caratterizzando per la scarsa chiarezza della sua espressione, per gli spazi sempre maggiori lasciati all’opera dell’interprete professionale, anche qui riproducendo – con conseguenze ancor più gravi – la contraddizione alla sua missione. Ciò aumenta il rischio di comportamenti illeciti, sia determinati da ignorantia legis (sempre più difficilmente ricollegabile alla seconda parte del noto brocardo), sia da abuso del diritto in cui spesso si esprime l’antigiuridicità di chi sfrutta l’inidoneità della lettera della legge a regolare i comportamenti per cui è stata dettata.
Allora il compito di soluzione della complessità, non risolta dalla legge, si trasferisce inevitabilmente sul giudice, il soggetto cui lo Stato ha affidato il compito di realizzare la mediazione tra norma e consociati.
È la descritta complessità della legge che pur utilmente spingendo il giudice ad abdicare al ruolo di sua “bocca”, ha finito per investirlo di un compito ben più complesso (e sicuramente più opportuno), qual è quello di compiere un’opera di doppia interpretazione: da un lato, della complessità della norma, dall’altro della complessità del rapporto o della vicenda oggetto del suo giudizio; quella vicenda che la norma primitiva (quella, cioè, di descrizione della relazione sociale) non ha saputo regolare e che la norma sussidiaria (quella dettata per dirimere il conflitto) deve risolvere.
Dunque è al giudice (talora per volontà consapevole del Legislatore) che in maniera sempre più massiccia è rimesso (piaccia o meno) il compito di “sciogliere la complessità”.
A questo ruolo il giudice è chiamato secondo i tempi della modernità, sempre più declinati secondo gli schemi della rapidità e dell’efficienza, piuttosto che secondo quelli della ponderazione e dell’efficacia.
Se il legislatore “corre”, convinto che una risposta legislativa “pronta” alle sollecitazioni sociali sia lo strumento più adeguato a sostenere la modernità (o più semplicemente ad assicurare il consenso), anche il giudice è “costretto a correre” e la fisiologica insufficienza della risposta di giustizia rispetto alla domanda generata dalla società (con il suo sempre più complesso sistema di rapporti) determina l’ingolfamento della giurisdizione, quella paralisi così diffusamente percepita e che spesso viene etichettata con l’espressione sintetica “inefficienza del sistema giustizia”.
Allora anche il giudice, da risolutore dei conflitti sociali, rischia di essere ridotto a mero meccanismo di deflazione del contenzioso e la funzione della giurisdizione non è più quella di “dare delle risposte” ma si esaurisce nel fine tutto interno di riduzione della domanda attraverso meccanismi di disincentivazione del ricorso alla giustizia.
Un sistema che fa della deflazione il compito prioritario della giurisdizione è un sistema che ha preso atto del proprio fallimento, che ha rinunciato alla efficacia della decisione per puntare alla sola efficienza del procedimento, anche se questo non dovesse generare risposte di giustizia.
E allora? Allora, viene da chiedersi: a chi deve parlare il giudice? Qual è la speranza racchiusa nella scelta di una comunicazione della legge in grado di spezzare il circuito vizioso che si è descritto e che paradossalmente, attraverso il ricorso allo strumento delle regole, determina disaggregazione e conflitto sociale?
La sentenza prima ancora di essere un provvedimento, racchiuso in un canone espressivo tecnico, è uno strumento di comunicazione di una volontà di cui il giudice ha il compito di farsi testimonianza ed espressione attraverso la comprensibilità della sua decisione.
Una decisione chiara nei suoi contenuti non vuol dire necessariamente che essa esprima una soluzione condivisa dalla diffusa sensibilità sociale del momento o dalla politica (quale che sia l’epoca in cui essa si collochi e quale che sia la parte politica dominante). Essa però si offre al controllo sociale senza timor di critica, forte dell’essere espressione delle Leggi di cui, per volontà stessa di queste ultime, è prodotto di bilanciamento e di sintesi e che fissa l’ordinata graduatoria dei diritti secondo una regola valoriale che permea di sé non la singola norma ma l’intero ordinamento anche sovranazionale.