Magistratura democratica
Diritti senza confini

La Corte costituzionale e l’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo (Corte cost. n. 186 del 2020)

di Franca Mangano
presidente della sezione famiglia e minori della Corte d’appello di Roma

Il divieto di iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo è stato cancellato dalla sentenza n. 186 del 2020 della Corte costituzionale. La disciplina annullata è stata dichiarata costituzionalmente illegittima in ragione della sua «intrinseca irrazionalità» in relazione ai suoi stessi fini: una decisione importante, anche per il riflesso conformativo che esercita sul successivo esercizio dell’attività legislativa e amministrativa in materia di disciplina delle condizioni di soggiorno e di residenza degli stranieri.

1. Il divieto di iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo è stato cancellato dalla Corte costituzionale. La sentenza n. 186 del 2020 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 comma 1-bis del decreto legislativo n. 142 del 2015, introdotto dall’art. 13 del D.L. n. 113/2018, affermando che la disposizione secondo cui «non costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica» il permesso di soggiorno rilasciato all’atto della presentazione della domanda di protezione internazionale, ha l’univoco valore normativo di escludere dal novero dei residenti, la particolare categoria della popolazione immigrata formata dai richiedenti asilo. Facendo applicazione del potere di annullamento conseguenziale previsto dall’art. 27 della l. n. 87 del 1953, gli effetti della pronuncia di incostituzionalità sono stati estesi alle disposizioni connesse con la norma  impugnata contenute nell’art. 13 del D.L. 113/2018, che dunque è stato interamente travolto, in quanto espressivo di corollari organizzativo-procedimentali che hanno il proprio «fulcro nel divieto di iscrizione anagrafica», condividendone l’unico valore normativo espressivo di un vulnus, altrimenti non emendabile, del sistema costituzionale.

Si è determinato, pertanto, il pieno ripristino della disciplina relativa all’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo  precedente all’entrata in vigore del c.d. decreto sicurezza, ivi compresa la forma  semplificata di iscrizione prevista dall’art. 5 bis del D.Lgvo n. 142 del 2015[1].

 I dubbi di legittimità costituzionale sollevati dai giudici rimettenti sono stati accolti e utilizzati dalla Corte per una pronuncia di ampia e incisiva efficacia sul sistema della residenza anagrafica dei richiedenti asilo, non solo per il menzionato effetto espansivo dell’annullamento rispetto al limite della stretta rilevanza nei giudizi a quo, ma soprattutto per il parametro applicato, nel quale sono state dichiarate assorbite le molteplici censure di incostituzionalità rivolte alla norma impugnata. Infatti, la disciplina annullata è stata dichiarata costituzionalmente illegittima in ragione della sua «intrinseca irrazionalità» in relazione ai suoi stessi fini: una decisione importante, anche per il riflesso conformativo che esercita sul successivo esercizio dell’attività legislativa e amministrativa.

 

2. Sono stati i Tribunali di Milano, Ancona e Salerno[2], nel corso di quattro giudizi promossi da stranieri richiedenti asilo la cui istanza di iscrizione all’anagrafe dei residenti era  stata respinta dai Comuni nei quali avevano stabilito la propria dimora, a provocare in via incidentale l’intervento della Corte costituzionale.

La norma impugnata ha vissuto nel nostro ordinamento per quasi due anni, ma la sua vita, fino alla pronuncia di annullamento della Corte costituzionale, è stata contrassegnata da applicazioni controverse e fortemente dibattute da parte delle stesse amministrazioni locali,  oltre che dalle pronunce della giurisprudenza di merito, alle quali hanno fatto da contrappunto gli interventi della dottrina. A conferma che la questione della residenza anagrafica degli stranieri ha avuto un ruolo non secondario  nella connotazione della linea politica espressa dal D.L. n. 113/2018, cd. "decreto sicurezza"[3].

Dalla lettura dei lavori preparatori della legge di conversione del  D.L. n. 113/18 [4], la disposizione nella quale si annidava la riforma del sistema di residenza anagrafica dei richiedenti asilo ha una posizione decisamente marginale, ma al tempo stesso,  inequivoca nella sua portata innovativa. L’affermazione secondo cui «il permesso di soggiorno rilasciato ai richiedenti la protezione internazionale non costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica» è tradotta senza incertezze come una disposizione di «esclusione dall’iscrizione anagrafica» della intera platea degli stranieri richiedenti asilo. L’incidenza discriminante la condizione personale dello straniero è ridimensionata dalla relazione tecnica alla legge di conversione, nella parte in cui sottolinea come  essa «non pregiudica l’accesso ai servizi riconosciuti dalla legislazione vigente ai richiedenti asilo» nel luogo del loro domicilio, fermo restando che il permesso di soggiorno rilasciato all’atto della presentazione della domanda «costituisce documento di riconoscimento».

E’ invece proclamata la finalità di pretesa efficienza e semplificazione dell’attività dell’amministrazione locale, che si afferma di perseguire con la innovazione introdotta al sistema di registrazione della residenza anagrafica. Anche nell’atto di intervento della Presidenza del Consiglio dei Ministri nel giudizio di legittimità costituzionale definito dalla sent. n. 186 del 2020, riecheggia tale intento facilitatore e agevolativo, che sarebbe stato sollecitato dai Comuni, principalmente quelli di più modeste dimensioni, onerati dagli adempimenti connessi all’iscrizione anagrafica di stranieri, la cui posizione giuridica sarebbe caratterizzata da una condizione di precarietà[5].

Dunque, nella previsione che il disegno riformatore del D.L. 113/2018, fondato sull’intervento ablativo della protezione umanitaria, rafforzato dalla tipizzazione dei permessi speciali riconoscibili in favore degli immigrati richiedenti la protezione, avrebbe determinato uno scarto molto più accentuato tra il numero dei richiedenti e il numero di coloro ai quali effettivamente sarebbe stata riconosciuta la protezione,  la impossibilità di ottenere la registrazione nell’anagrafe della popolazione residente avrebbe dovuto rappresentare il logico corollario di una condizione di precarietà, esonerando le amministrazioni locali da incombenti destinati ad essere vanificati dal sopraggiunto rigetto delle istanze.

In realtà, proprio dall’amministrazione locale giungono precocissime manifestazione di dissenso. Sono i  Comuni c.d. dissenzienti o ribelli, i quali giudicano contraria ai principi costituzionali di tutela della dignità umana, la norma che escluderebbe  la registrazione  anagrafica dei richiedenti asilo, obbligandoli ad una condotta contrastante anche con  le disposizioni di legge non abrogate, che regolano la tenuta dell’anagrafe dei residenti e che equiparano la posizione degli stranieri a quella dei cittadini, ai fini della disciplina delle iscrizioni anagrafiche (art. 6 comma 7 del D.Lgvo n. 286 del 1998).

All’iniziativa del Sindaco di Palermo, il quale[6] ha disposto la sospensione dell’applicazione della nuova disciplina, seguono analoghe iniziative dei sindaci di altre città, che, anche se con accenti diversi, si interrogano sui limiti dell’applicazione della disposizione. Gli argomenti di discussione che si affiancano alla mera polemica politica, sono molteplici e si coagulano attorno ai due principali profili di reciproca interazione, ossia la posizione del sindaco rispetto all’organizzazione centrale dello Stato nell’esercizio della funzione di tenuta dei registri anagrafici e degli atti dello stato civile, assegnatagli dall’art. 54 comma 1 lett. a) del D.Lgvo n. 267/2000, e i limiti di vigenza di una norma fortemente sospettata di incidere su diritti fondamentali della persona, commisurati agli spazi  di legittima reazione dei diversi poteri dello Stato [7].

Nei Comuni nei quali, invece, è stata applicata la nuova normativa,  il ricorso al giudice ordinario da parte dei singoli richiedenti cui è stata rifiutata la registrazione anagrafica, ha provocato da parte di molti giudici di merito l’elaborazione  di una interpretazione costituzionalmente orientata, che ha in qualche misura ricomposto il paventato effetto eversivo della disapplicazione da parte dei Sindaci.

I Tribunali[8] che hanno accolto la possibilità di ricondurre la norma al rispetto dei valori costituzionali in via interpretativa, hanno seguito un ragionamento lineare e di forte tenuta. La premessa generale è il valore meramente sussidiario dei lavori preparatori nell’interpretazione della legge, la quale deve essere interpretata secondo il significato obiettivo che le si può attribuire sulla base del dato letterale e della sua riferibilità al sistema, nel caso principalmente desumibile dal DPR n. 223/1989, ma pur sempre nella cornice del quadro costituzionale. Quindi, i passaggi principali consistono nella esclusione della necessità di un «titolo» per la iscrizione anagrafica, che avviene sulla base di dichiarazioni degli interessati (art. 13 DPR n. 223/1989), peraltro oggetto di un obbligo sanzionato (artt. 2 e 11 della l. 1228/1954),  e di accertamenti d’ufficio circa la veridicità delle dichiarazioni rese (art. 15 DPR n. 15); nella configurazione dell’attività dell’amministrazione locale come attività vincolata, alla quale corrisponde la  posizione di diritto soggettivo[9] dei singoli componenti la popolazione residente (art. 3 DPR n. 223/198), individuata soltanto sulla base del requisito oggettivo della localizzazione della dimora abituale; nella  identità di disciplina per il cittadino italiano e lo straniero, come  espressamente affermato dall’art. 6 comma 7 del D.Lgvo n. 286/98, senza eccezioni per la posizione del richiedente asilo; nella indiscutibile regolarità del soggiorno di chi abbia presentato la domanda di protezione internazionale, ai sensi dell’art. 9 della direttiva 2013/32/UE, attuato nell’art. 7 del D. lgvo n. 25/2008.

La  persistenza di tali norme nel nostro ordinamento farebbe sì che all’art. 13 del D.L. 113/2018 non potrebbe ricondursi il valore normativo di  divieto di registrazione anagrafica, per gli stranieri in possesso del permesso di soggiorno rilasciato a seguito della  domanda di protezione internazionale, ma soltanto una limitazione dell’efficacia probatoria di tale documento, ben sostituibile da altri atti in possesso del cittadino straniero.

La prova di resistenza di tale interpretazione conformatrice, rispetto all’eccezione che ne contesta il valore meramente abrogativo, tale da eliderne alcun concreto contenuto normativo, si fonda sull’effetto comunque innovativo della disposizione, che, abrogando il procedimento speciale e semplificato previsto dall’art. 5 bis del D.Lgvo n. 142/2015, estenderebbe anche a questa categoria di  stranieri la disciplina ordinaria, ivi compresa quella prevista per le convivenze anagrafiche.

Dunque, escluso l’automatismo della procedura semplificata prevista dall’art. 5 bis per il titolare del permesso di soggiorno per richiesta di protezione internazionale ospitato in un centro di accoglienza e immediatamente iscritto nell’anagrafe dei residenti del Comune sulla base della comunicazione del responsabile della struttura, ritorna la necessaria dichiarazione dell’interessato con le possibili conseguenti verifiche dell’Ufficiale dell’Anagrafe. Dal punto di vista strettamente pratico, il modello C/3 o l’attestazione della Questura della avvenuta formalizzazione dell’istanza di protezione internazionale garantiscono il sufficiente supporto documentale alla dichiarazione di residenza [10].

Nonostante il beneficio della immediata tutela assicurata ai singoli richiedenti da molti i giudici di merito e la solidità delle argomentazioni utilizzate dall’interpretazione costituzionalmente orientata che ne è il fondamento[11], l’intervento della Corte costituzionale, era comunque auspicato e atteso.

Tanto più dopo che il ricorso introdotto in via di azione da alcune  Regioni non aveva portato ad un esame nel merito della norma sull’anagrafe dei richiedenti asilo. Le Regioni che hanno proposto  il ricorso diretto alla Corte costituzionale impugnando numerose disposizioni del D.L. n. 113/2018, infatti,  avevano  ricompreso nell’impugnativa anche l’art. 13, lamentando il carattere discriminatorio della riforma della disciplina della residenza anagrafica dei richiedenti la protezione internazionale, in quanto idonea, ancorché indirettamente, a pregiudicare l’esercizio di competenze regionali. Il vaglio di ammissibilità non è stato superato e la censura non è stata valutata nel merito dalla sentenza n. 194 del 2019,  poiché la Corte ha ritenuto che la lesione indiretta alle competenze regionali non fosse stata adeguatamente motivata, fermo restando l’ammissibilità delle questioni sollevate dalle Regioni in riferimento a parametri non attinenti al riparto delle competenze statali e regionali, allorquando la disposizione statale, seppur conforme al disegno costituzionale di distribuzione delle competenze, obbligherebbe le Regioni- nell’esercizio delle loro attribuzioni normative, amministrative o finanziarie- a conformarsi a una disciplina legislativa asseritamente incostituzionale,  per contrasto con parametri attinenti ai diritti fondamentali consacrati nella carta costituzionale[12].

Dunque, la questione della residenza anagrafica dei richiedenti asilo è giunta alla Corte dalla concretezza dei giudizi nei quali i singoli richiedenti asilo, pur muniti del relativo permesso di soggiorno in attesa dell’esito del giudizio per accertare la fondatezza della loro richiesta di protezione internazionale, una volta esclusi dall’iscrizione nell’anagrafe dei comuni ove avevano la stabile dimora, hanno chiesto tutela dinanzi al rifiuto del Comune, ritenuto contrario ai loro diritti.

Numerosi i profili di incostituzionalità denunciati, a cominciare dalla legittimità formale dell’atto, per vari aspetti in contrasto con i canoni dell’art. 77 Cost.. Il nucleo di censure comune alle ordinanze di rimessione ruota attorno al concetto di dignità della persona, come valore unificante l’insieme di diritti inviolabili che si irradiano dall’art. 2 della Costituzione e che non possono soffrire deroghe o eccezioni, ingiustificatamente basate su appartenenze nazionali o politiche, fermi i principi di non discriminazione desunti dall’art. 3 della Costituzione.

Significativo anche che in due giudizi, i Comuni di Milano e di Ancona, autori del rifiuto da cui origina l’azione dei richiedenti asilo, si siano costituti per chiedere l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale, adducendo, tra l’altro, ragioni di efficienza e di migliore funzionalità dei servizi comunali.

 

3. La sentenza della Corte costituzionale n. 186 del 2020 affronta i dubbi di costituzionalità sollevati in relazione ad una norma che, come si deduce dalla sintetica esposizione delle vicende precedenti, è giunta al sindacato della Consulta arricchita da un bagaglio di esperienze applicative e interpretative particolarmente denso e controverso.

Per questa ragione, la prima chiave di lettura della decisione si fonda sulla individuazione del punto di equilibrio che da essa può ricavarsi, circa il rapporto tra la doverosa interpretazione costituzionalmente orientata dei giudici di merito e l’esercizio accentrato del controllo di legittimità delle leggi da parte della Corte costituzionale[13].

La Corte dà atto diffusamente della diversa opzione interpretativa seguita da molti giudici di merito per sostenere la possibilità di piegare l’art. 13 del D.L. n. 113/2018 al rispetto dei valori costituzionali e per negare l’insuperabile effetto preclusivo dell’iscrizione anagrafica del richiedente la protezione internazionale, ma condivide la scelta dei tribunali rimettenti, affermando che la «descritta interpretazione non appare praticabile». 

A fondamento di tale conclusione, adduce ragioni sistematiche ricavate dalla lettura della disposizione. La ricostruzione del quadro normativo illustrato dalla Corte, al fine di chiarire il significato della disposizione censurata, evidenzia infatti  come l’art. 13 del D.L. n. 113/2018 è comprensivo di contenuti diversi, variamente modificativi degli art. 4, 5 e 5bis del D.Lgvo n. 142, riguardanti rispettivamente la documentazione (art.4 ) rilasciata al richiedente la protezione internazionale, il suo domicilio (art. 5) e la sua iscrizione anagrafica (art. 5 bis). La disposizione censurata, per la quale il permesso di soggiorno rilasciato al richiedente non costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica, si affianca alla disposizione che attribuisce valore di documento di riconoscimento al medesimo permesso di soggiorno. Dall’una e dall’altra disposizione, deriva la modifica nell’organizzazione dei servizi comunali, che risultano esonerati dal compimento di due attività - il rilascio di un documento di identità e la iscrizione anagrafica – ambedue svolte in favore dei richiedenti asilo, come tali regolarmente soggiornanti sul territorio dello Stato. L’effetto di semplificazione amministrativa così ottenuto sarebbe stato neutralizzato, in relazione al richiedente asilo,  dal riconoscimento di benefici equipollenti: in primo luogo, il valore di documento di riconoscimento assicurato al semplice permesso di soggiorno e, in secondo luogo,  l’equiparazione del domicilio alla residenza ai fini dell’erogazione dei servizi previsti dal decreto e comunque erogati sul territorio. Infine, l’abrogazione della procedura semplificata dell’art. 5 bis, che attribuisce al responsabile della struttura di accoglienza il compito della dichiarazione di residenza degli ospiti, è conseguenziale al disegno complessivo e «sarebbe privo di senso se la disposizione censurata intendesse solo abrogare  la modalità semplificata di iscrizione anagrafica, facendo riespandere la modalità ordinaria’ così come il riferimento all’art. 6, comma 7 del D.lgvo n. 286/1998 ‘deve ritenersi operato al fine di dare atto della deroga  introdotta alla previsione della disposizione richiamata»[14].

In sostanza, le medesime disposizioni sulle quali l’interpretazione adeguatrice fonda la possibilità di escludere una disciplina irragionevolmente differenziata per l’iscrizione dei richiedenti asilo nei registri comunali dei residenti, sono lette dalla Corte costituzionale come la prova del regime derogatorio voluto dal legislatore.   

Del tutto equiparata al peso delle ragioni di natura logico-sistematica preclusive dell’interpretazione costituzionalmente orientata, è  la considerazione della finalità della norma, altrimenti ricavabile dalla sua genesi e dalla sua pratica applicazione. Vengono richiamate nella sentenza della Corte costituzionale le relazioni illustrative del disegno di legge e della legge di conversione, ma anche le circolari del Ministro dell’Interno contenenti le linee guida applicative delle nuove disposizioni, nelle quali si impartiscono univoche istruzioni circa il nuovo regime del permesso di soggiorno dei richiedenti la protezione internazionale. Non è irrilevante che, nel progredire della motivazione della sentenza della Corte costituzionale, il riferimento ai lavori preparatori con il richiamo alle relazioni dei soggetti istituzionali auditi, preceda la lettura sistematica e letterale della disposizione, richiamata a conferma della impraticabilità dell’interpretazione adeguatrice, contrastata anche da una prassi applicativa che ne ha accompagnato l’approvazione e che ne obiettivizza il valore in misura ancora più definitiva della stessa volontà espressa nei lavori preparatori.

Una volta definito che la disposizione oggetto della questione di legittimità costituzionale è caratterizzata dall’eccezionalità del regime introdotto, che incide sulla disciplina ordinaria della residenza anagrafica – in quanto sostituisce alla specialità delle modalità di iscrizione dei richiedenti asilo inseriti nei centri di accoglienza, introdotta dall’art. 5 bis con finalità inclusive, la specialità di un regime che esemplifica l’attività amministrativa dei Comuni, escludendo una categoria di persone, il cui censimento e la cui collocazione sul territorio è rimessa, in buona sostanza, all’autorità di polizia -,  la pronuncia della Corte costituzionale dà luogo ad alcune considerazioni conseguenti.

La prima considerazione è che dinanzi ad una norma che provoca la lesione di diritti fondamentali oggetto di garanzia costituzionale, modificando le ordinarie procedure amministrative di registrazione anagrafica, il confine tra l’interpretazione costituzionalmente orientata del giudice comune e il sindacato accentrato di legittimità costituzionale si attesta sul requisito della efficacia della misura riequilibratrice, comprensiva delle garanzie di certezza e di uniformità. La sentenza non fa esplicito riferimento a questo profilo, che fa declinare il giudizio di non praticabilità sul piano della opportunità di una decisione erga omnes[15]. Soltanto dall’ordinanza di rimessione del Tribunale di Milano può ricavarsi, sullo sfondo della questione subordinata, sollevata per il caso in cui la Corte ritenesse possibile accedere ad un’interpretazione costituzionalmente orientata, una censura che, tra le maglie della allegata persistenza della disparità di trattamento, sollecita una verifica di effettività della soluzione pratica assicurata.

Nel caso in esame, l’interpretazione costituzionalmente orientata  non è praticabile non tanto perché trasmoda nella indebita disapplicazione di una norma, quanto perché essa non è in grado di garantire la generalità di effetti che solo la pronuncia di annullamento della Corte può assicurare. Il giudice comune adito per la tutela di diritti fondamentali pregiudicati dall’attività della pubblica amministrazione sulla base di una disposizione di legge di dubbia conformità ai principi costituzionali, dispone di armi incisive per disapplicare atti amministrativi e per ordinarne l’adozione, risalenti  all’art. 5 della L. 20.3.1865 n. 2248 all. E, ma certamente non può garantire  l’uniforme applicazione della regola conforme ai principi costituzionali.

L’esistenza di un reale diritto vivente, pur in presenza di numerose pronunce adeguatrici, non può prescindere dalla verifica delle prassi attuative della norma da parte della pubblica amministrazione[16].

Con la sentenza n. 186 del 2020 la collaborazione tra giudici comuni e Corte costituzionale nell’interpretazione del D.L. n. 113 del 2018,  nel quadro dei principi costituzionali, adotta un percorso calibrato in relazione alla specificità della norma da applicare.

E’ noto come il formante della giurisprudenza abbia svolto un ruolo centrale nel preservare i contenuti del D.L. n. 113 del 2018 entro il quadro dei principi costituzionali e degli obblighi internazionali additati dal Capo dello Stato nella lettera che ha accompagnato la promulgazione del testo normativo. Ed è chiaro come tale apertura di credito nei confronti dei giudici, avallata dalla stessa Corte costituzionale [17], abbia neutralizzato il disegno abrogativo della protezione umanitaria perseguito dal c.d. decreto sicurezza, in una linea di non discontinuità con l’interpretazione precedente l’abrogazione dell’art. 5, comma del D.L. n. 286 del 1998, confermata anche dalla giurisprudenza di legittimità [18].

La sentenza n. 186 del 2020 non si pone in contraddizione con questa linea di collaborazione della giustizia costituzionale con la funzione giurisdizionale, le cui conclusioni nel caso in esame sono condivise, con il completo accoglimento delle censure sollevate. Affrontando il merito di una questione che molti giudici comuni hanno interpretato in senso conforme alla Costituzione, la Corte valuta il limite della efficacia della interpretazione adeguatrice in relazione alla natura della tutela richiesta al cospetto di un’attività della pubblica amministrazione, che risponde ad un indirizzo politico opposto e adegua di conseguenza gli strumenti del controllo di costituzionalità delle leggi[19].

Anche l’esistenza di una giurisprudenza costante di rivitalizzazione dei principi costituzionali non vale a creare un effettivo diritto vivente che, per essere tale, deve essere alimentato dall’adesione della pubblica amministrazione che eroga il servizio, non soltanto con l’ottemperanza al singolo ordine giudiziale, ma anche con la conformazione alle sue linee generali [20].

E’ stato detto molto autorevolmente[21] che l’intervento della Corte costituzionale è sollecitato dal giudice comune nell’ambito del medesimo dovere di «rendere giustizia», al fine di fornire «al giudice a quo, su sua richiesta, ciò che a questi manca per dare una risposta adeguata alla Costituzione alle parti che attendono la sua decisione». Nel caso all’esame, prevale la necessità di eliminare una distonia del sistema che inficia la tutela di una categoria di soggetti vulnerabili, per i quali  l’accesso al rimedio giurisdizionale è particolarmente difficoltoso e la cui concreta fragilità sociale ed economica crea un’area di situazioni soggettive non accessibili alle garanzie costituzionali, benché logicamente e teoricamente giustiziabili. E’ il versante politico della ibrida natura del giudizio di costituzionalità che il giudice comune si fa carico di sollecitare per un intervento di bonifica del sistema, nella conferma di un circuito virtuoso di garanzie dei valori costituzionali che lo collega al giudice delle leggi.

Il parametro utilizzato dalla Corte costituzionale per la decisione di annullamento dell’art. 13 del D.L. n. 113 del 2018 è in consonanza con quanto osservato, circa il criterio di effettività che marca la distanza dall’interpretazione adeguatrice dei giudici di merito, e contiene in sé la cifra del valore conformativo insito nella pronuncia di illegittimità costituzionale.

I pregiudiziali dubbi di costituzionalità relativi alla correttezza formale dell’atto sono superati dalla Corte con il richiamo puntuale alla giurisprudenza costituzionale e al "tipo di sindacato" esercitato in relazione al parametro dell’art. 77, comma 2  Cost., per la ravvisata sussistenza dei requisiti di coerenza e di omogeneità della norma con il contenuto fondante il D.L. n. 113/2018, al quale si  riconnettono i presupposti della necessità e dell’urgenza sulla base della consolidata giurisprudenza costituzionale, che vede nella permanenza di un problema sociale o economico non risolto, la necessità di  un intervento normativo di urgenza. Quindi, la questione di costituzionalità è giudicata fondata per il contrasto della norma impugnata con l’art. 3 della Costituzione, che fa dichiarare assorbiti tutti gli altri parametri invocati.

Sono violati ambedue i profili dell’art. 3 della Costituzione , ma l’aspetto di accertata ‘intrinseca irrazionalità’ della norma è centrale e trainante nello sviluppo della motivazione.

Sebbene il contenuto di ingiustificata discriminazione della posizione dello straniero regolarmente soggiornante nel nostro Paese per avere richiesto protezione internazionale, emerga con chiara evidenza nella norma impugnata, una volta premessa la sua efficacia derogatoria del regime ordinario di iscrizione anagrafica, avendo presente lo statuto delle garanzie dello straniero disegnato con compiutezza dalla giurisprudenza costituzionale.

Il principio di uguaglianza, incontestabilmente riferito allo straniero, quando siano in gioco diritti fondamentali della persona [22], consente discipline differenziate anche in deroga alle norme generali contenute nel D.Lgvo n. 286 del 1988, soltanto se siano legittimate da "cause giustificatrici" specifiche e trasparenti, ricavabili dalla stessa struttura normativa della disposizione eccezionale [23].

Tali condizioni non appaiono rispettate in relazione alla modifica dell’art. 13 del D.L. n. 113 del 2018, che in nome di una dichiarata esemplificazione delle procedure amministrative per scopi di alleggerimento dell’attività dei Comuni, introduce eccezioni all’organizzazione del servizio, che non possono risultare neutrali per la posizione soggettiva del richiedente.

Per effetto della deroga riguardante l’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo, il permesso di soggiorno rilasciato all’atto della presentazione della domanda di protezione internazionale risulta costitutivo di uno status che rende il titolare del permesso, impermeabile alla funzione di certezza ricognitiva esercitata dal Comune, in relazione al legame di appartenenza che lega quanti risiedono sul suo territorio.

Il servizio di registrazione anagrafica della popolazione residente, funzione statale gestita dagli uffici del Comune, ente locale di maggiore prossimità alla popolazione, è infatti uno strumento giuridico amministrativo di mera conoscenza, predisposto nell’interesse sia della pubblica amministrazione sia dei singoli individui [24], il cui effetto si sintetizza nella rappresentazione, attraverso l’attività di registrazione, della presenza sul territorio comunale di singoli, famiglie e convivenze che hanno fissato nel comune la propria residenza (art. 1 l. n. 1228/1954). L’attività dell’ufficiale di anagrafe è strettamente vincolata nei presupposti e nella forma e non consente margini di discrezionalità, in quanto la finalità di conoscenza si realizza mediante l’accesso diretto al fatto, senza l’intermediazione di qualificazioni giuridiche o di status, sicché il singolo è titolare di un diritto soggettivo alla registrazione, anche in vista del godimento di ulteriori benefici. Il servizio di tenuta dei registri anagrafici, infatti, anche se ha una causa propria, dichiarativa di pubbliche certezze, ha anche un valore strumentale sia  in relazione all’esercizio di funzioni di interesse pubblico e collettivo da parte della pubblica amministrazione sia a beneficio della comunità dei residenti in vista del godimento individuale di diritti civili, sociali e politici.

Per il richiedente asilo tale procedura è modificata  nel suo presupposto, che non è più l’obiettivo e verificabile mero fatto della dimora territorialmente individuata, in quanto il permesso di soggiorno che lo legittima alla permanenza sul territorio nazionale ne preclude la rilevanza, mentre l’inserimento dell’immigrato nel centro di accoglienza ne determina il domicilio, anche ai fini dei servizi erogati dallo stesso ente territoriale, con un margine di indeterminatezza e di variabilità molto più elevato rispetto alla residenza anagrafica.

Il canone di uguaglianza è violato tanto in relazione alla generalità della popolazione residente, cittadini o meno (art. 6 comma 7 D.Lgvo n. 286 del 1998) tanto in relazione alla generalità dei non cittadini, poiché il limite di permanenza per gli stranieri comunitari ai fini della loro registrazione nell’anagrafe dei residenti è di tre mesi ai sensi dell’art. 9 del D.Lgvo n. 30 del 2007.

Viene in tal modo creata una comunità di persone, presenti sul nostro territorio nazionale, ma  private del diritto a richiedere l’iscrizione nei registri dell’anagrafe comunale e ad ottenere un documento di identità. Per costoro è rescissa, di fatto, la garanzia di appartenenza territoriale, che la giurisprudenza costituzionale ha individuato come strumentale all’erogazione dei servizi  riconducibili al nucleo di diritti essenziali della persona, i quali, pertanto, devono essere assicurati anche a favore del dimorante sul territorio nazionale che vi abbia fatto ingresso con modalità irregolari e che comprendono il diritto alla salute , all’abitazione e agli alimenti[25] .

Durissime le parole scelte dalla Corte costituzionale per definire la condizione dei richiedenti asilo discriminati dal veto di registrazione anagrafica, destinatari di uno "stigma sociale" che ne mina la dignità personale, con un effetto di marginalizzazione dal complesso della popolazione[26], in contrasto con i principi di inclusione e di solidarietà che connotano la tavola dei valori costituzionali.  

Tanto basterebbe per cancellare la norma impugnata, ma il cuore della pronuncia di illegittimità costituzionale va ancora oltre, perché consiste nella censura di intrinseca irrazionalità della disposizione, in quanto risultano contraddette le stesse finalità del D.L. n. 113 del 2018.

Gli indicatori di tale fondamentale distonia sono enumerati dalla sentenza.

Nell’ordine, la Corte sconfessa la finalità di incremento dei margini di pubblica sicurezza, poiché in realtà la mancata iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo limita le capacità di controllo e di monitoraggio dell’autorità pubblica sulla popolazione effettivamente residente; smentisce la funzione agevolativa dell’attività dei Comuni, poiché ne complica i presupposti di conoscenza della densità demografica del loro territorio, pregiudicando una politica programmata dei compiti di erogazione dei servizi pubblici essenziali, primi fra tutti quelli attinenti l’assistenza sanitaria; nega la condizione di precarietà della permanenza della popolazione dei richiedenti asilo addotta a giustificazione della disposta esclusione dall’anagrafe dei richiedenti, richiamando sia il dato normativo della durata legale dei permessi di soggiorno di sei mesi, rinnovabile sino alla decisione  della domanda, ivi compresi i tempi della tutela giurisdizionale (art. 4 del D.Lgvo n. 142/2015) sia l’esperienza fattuale che conferma il protrarsi della loro permanenza per circa due anni; afferma, in conclusione, l’incidenza negativa sulla funzionalità delle pubbliche amministrazioni cui è affidata la cura degli interessi oggetto dell’intervento normativo.

La prima considerazione in ordine a tali incisive motivazioni di intrinseca irrazionalità, attiene  alla natura dei criteri  utilizzati per inferire la irragionevolezza della norma.

La Corte si è misurata in maniera sempre più incisiva con il parametro della ragionevolezza, ravvisandone la violazione per  un difetto di proporzionalità e di equilibrio interno della norma, e facendone il terreno più frequente della sua opera di bilanciamento .

Rispetto alle più risalenti teorizzazione del vizio di eccesso di discrezionalità legislativa, ciò che risalta nel caso all’esame è come la valutazione di congruità non si attesta su una comparazione geometrica e formale del contenuto delle norme. In continuità con la valutazione di non praticabilità dell’interpretazione adeguatrice, la Corte costituzionale giudica la norma impugnata nella concretezza della sua applicazione, senza ritrarsi dall’esame della valutazione pratica dei suoi effetti, anche in relazione al canone di funzionalità delle pubbliche amministrazioni.

Il giudizio di irrazionalità intrinseca, pertanto, assume contorni più elastici per ricomprendere una concezione quasi sociologica della norma che affonda lo sguardo nelle prassi applicative, declinate con i canoni di efficienza, economicità e validità in relazione al fine politico prefisso. Esso è coerente con le tendenze più recenti del giudizio di costituzionalità che apre alla Corte orizzonti conoscitivi più ampi, formalizzati da scansioni processuali che ne estendono i poteri istruttori [27].

Anteponendo nella valutazione di illegittimità costituzionale della norma impugnata il canone di irrazionalità intrinseca, la sentenza n. 186 del 2020, si ascrive ai più recenti orientamenti giurisprudenziali, che ampliano gli ambiti di incidenza del giudizio di costituzionalità. Nonostante il modulo della decisione di annullamento non sperimenti soluzioni creative o manipolative delle forme processuali esistenti, la censura del divieto di iscrizione anagrafica  del richiedente la protezione corre sul crinale di quelle valutazioni dell’agire politico, che l’art. 28 della l. n. 87 del 1953 [28] disegna come linea di confine del controllo di costituzionalità in relazione al potere del legislatore, che chiede di volta in volta di essere precisata.

La scelta di regolare il soggiorno dei cittadini stranieri come un aspetto della disciplina delle funzioni di pubblica sicurezza, sintetizzata nel binomio immigrazione–sicurezza che ispira il D.L. n. 113/2018 sin dalla sua intitolazione, attiene alle opzioni di indirizzo politico, intangibili dal controllo di costituzionalità delle leggi e valutabili soltanto nel confronto politico e sociale.

Tuttavia, lo scrutinio di costituzionalità non si ferma dinanzi al dovere di sindacare il rispetto dei diritti e delle garanzie in relazione ai singoli istituti nei quali si concretizzano le scelte politiche del legislatore nella disciplina dell’immigrazione, valutando la proporzionalità e gli effetti  delle misure adottate per il raggiungimento del fine.

La  Corte costituzionale ha affermato con chiarezza  che il veto di iscrizione anagrafica basato sul titolo di permanenza sul territorio nazionale si colloca fuori dal sistema costituzionale. A presidio di tale affermazione ha posto il principio di uguaglianza e il principio di intrinseca irrazionalità, in relazione all’efficienza delle pubbliche amministrazioni.

La pronuncia di accoglimento condiziona con i suoi principi l’intervento legislativo successivo, che, come si è visto, nel corpo del D.L. n. 130 del 2020 riconduce la disciplina della residenza anagrafica dello straniero nell’alveo delle regole generali.

Ma quali sono le possibilità che questi stessi principi abbiano la forza di permeare prassi amministrative, anche precedenti il D.L. n. 113 del 2018 che, di fatto, hanno reso oltremodo difficoltosa per gli stranieri la registrazione anagrafica, pregiudicando anche il loro diritto al rinnovo del permesso di soggiorno?

La mancata disponibilità giuridica di un alloggio è una condizione frequente tra i richiedenti la protezione internazionale, i quali sovente godono di ospitalità precarie o dimorano presso la residenza dei datori di lavoro che non vogliono essere menzionati nelle dichiarazioni anagrafiche.

Tale condizione, tuttavia, non è preclusiva né della trascrizione nei registri delle anagrafi, prevista anche per chi è privo di una fissa dimora ma ha il proprio domicilio nel comune (art. 1 L. n. 1228/1954), né per il rinnovo del permesso di soggiorno.

L’esistenza di prassi amministrative illegittime che esigono la coincidenza dell’indirizzo anagrafico con il luogo di effettiva dimora aggravano la vulnerabilità sociale degli stranieri richiedenti asilo; analogo effetto si riconduce alle prassi di alcune questure che rifiutano il rinnovo del permesso di soggiorno per la mancanza della residenza anagrafica o per la non corrispondenza con la dimora effettiva, benché non siano requisiti richiesti dalla legge, creando un circuito vizioso inestricabile per il richiedente , condannato all’invisibilità e quindi all’irregolarità.

Si tratta di risvolti applicativi di acuta incidenza sociale, che hanno ricevuto rara attenzione da parte della dottrina[29], ma che hanno dato luogo ad una giurisprudenza di merito che ha sanzionato le prassi illegittime[30], ordinando la registrazione o il rinnovo del permesso di soggiorno negato o annullando la revoca del titolo.

La dichiarazione di incostituzionalità del veto di iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo rafforza il principio di appartenenza territoriale nel quadro dei valori di solidarietà e di inclusione espressi dalla  nostra carta costituzionale, sicché il raggio di azione della sentenza n. 186 del 2020 non può lasciare indenni prassi applicative difformi. Tanto più per il centrale  rilievo che riveste nell’economia della decisione il principio di efficienza dell’attività amministrativa, sia come canone sia come verifica dell’intrinseca ragionevolezza della  norma di legge.

In un sistema di armoniosa convergenza e cooperazione per l’attuazione dei valori della Costituzione, la giurisprudenza della Corte costituzionale disegna la trama dell’aggiornata corrispondenza tra i principi e le esigenze di nuova tutela che emergono dalla società, costituendo la guida per le istituzioni che a tali esigenze devono dare adeguate risposte.

L’auspicio è che la concreta tutela dei diritti non venga rimessa esclusivamente al rimedio giudiziario e che la pubblica amministrazione si doti di linee di indirizzo idonee a scongiurare in via preventiva e generalizzata illegittime prassi discriminatorie, generatrici di inefficienza e di diffuso danno sociale.

 
[1] Il D.L. n. 130/2020 ha sostituito il precedente art. 5 bis del D.L. n. 113/2018, con una disposizione intitolata Iscrizione anagrafica, che riconduce la disciplina dell’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo nell’ambito dei principi generali espressi dall’art. 7, comma 6 del T.U. immigrazione e alla disciplina dell’art. 5 del DPR n. 223/1989, per quanto riguarda le convivenze anagrafiche . Di ciò danno atto i lavori preparatori del D.L. 130/2020 (A.C. 2727 XVIII legislatura), i quali  fanno diffuso riferimento alla sentenza della Corte cost. n. 186/20, riepilogando le ragioni dell’annullamento «1.Il richiedente protezione internazionale, a cui è stato rilasciato il permesso di soggiorno di cui all’articolo 4, comma 1, ovvero la ricevuta di cui all’articolo 4, comma 3, è iscritto nell’anagrafe della popolazione residente, a norma del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223. 2. Per i richiedenti ospitati nei centri di cui agli articoli 9 e 11, l’iscrizione anagrafica è effettuata ai sensi dell’articolo 5 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223. È fatto obbligo al responsabile di dare comunicazione delle variazioni della convivenza al competente ufficio di anagrafe entro venti giorni dalla data in cui si sono verificati i fatti. 3. La comunicazione, da parte del responsabile della convivenza anagrafica, della revoca delle misure di accoglienza o dell’allontanamento non giustificato del richiedente protezione internazionale costituisce motivo di cancellazione anagrafica con effetto immediato. 4. Ai richiedenti protezione internazionale che hanno ottenuto l’iscrizione anagrafica, è rilasciata, sulla base delle norme vigenti, una carta d’identità, di validità limitata al territorio nazionale e della durata di tre anni».

[2] Trib. Milano, ord. 1.8.2019; Trib. Ancona, ord. 29.7.2019; Trib. Salerno, ordd. 9.8.2019. I giudizi sono stati riuniti, pur essendo riferiti a disposizioni diverse – l’art. 4, comma 1-bis del D.Lgvo n. 142 del 2015 per alcuni e l’art. 13 del D.L. n. 113 del 2018, per altri - avendo ad oggetto la medesima norma, avverso la quale i ricorrenti hanno chiesto tutela davanti al giudice ordinario, azionando la cautela atipica dell’art. 700 c.p.c. ovvero l’inibitoria della discriminazione dell’art. 44 del D.Lgvo n. 286 del 1998.

[3] F. Ferri, L. Neri,  L’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo, in Questione Giustizia, 28.11.2019, definiscono il tema «come rilevante dal punto di vista materiale e simbolico» nel quale «la posta in gioco è alta»; S. Curreri Prime considerazioni sui profili di incostituzionalità del d.l. n. 113/2018 (c.d. decreto sicurezza), in Federalismi, 21.11.2018.

[4] Relazione illustrativa e relazione tecnica al disegno di legge AS840 di conversione in legge del D.L. n. 113/2018, sub art.13.

[5] «L’intervento in esame – sollecitato anche dalle amministrazioni locali [evidenziato nell’originale]- è stato reputato necessario ed urgente per sterilizzare alcuni problemi connessi al dilagare del fenomeno migratorio, come il sovraccarico di iscrizioni anagrafiche  e richiedenti asilo presso Comuni di piccole dimensioni, sul cui territorio si trovano centri di accoglienza , con i conseguenti onerosi adempimenti anche in termini di cancellazioni e di ripetuti accertamenti in caso di irreperibilità [evidenziato nell’originale]. Nondimeno si è voluta   altresì eliminare l’irragionevole prassi , segnalata dalle Questure, di rilascio di carte di identità con validità decennale a cittadini stranieri la cui posizione giuridica sul territorio nazionale non è ancora definita». Il passo  è citato anche nella sentenza della Corte costituzionale n. 186/20.

[6] La Direttiva dell’Ufficio di Gabinetto del Sindaco del Comune di Palermo del 21.12.2018, in attesa della risposta alla richiesta inoltrata agli organi tecnici comunali di approfondimenti  circa «tutti i profili anagrafici derivanti dall’applicazione della citata L. 132/2018», ha  sospeso l’applicazione di «qualunque procedura», prevista dalla nuova normativa, «che possa intaccare i diritti fondamentali della persona con particolare, ma non esclusivo, riferimento alle procedure di iscrizione della residenza anagrafica». La Direttiva è di poco successiva alla Circolare del Ministero dell’Interno del 18.1.2018, seguita alla Circolare della medesima autorità del 18.10.2018, specificamente dedicata ai provvedimenti in tema di iscrizione anagrafica, con indicazioni opposte.

[7] Intervista a V. Onida, Perché secondo Onida il d.l. sicurezza ha elementi di incostituzionalità, in Lettera 43 on line  3.1.2019; Intervista a S. Cassese, Pasticcio tra norme vecchie e nuove: i primi cittadini non hanno torto, in Il Mattino del 3.1.2019; G. Fiandaca, I Sindaci ribelli e il concetto di legalità, in La Repubblica del 4.1.2019; L. Ferrajoli, Gli strumenti contro il decreto Salvini ci sono. Serve mobilitarsi, in Il Manifesto del 6.1.2019; A. Morelli, La ribellione dei sindaci contro il decreto sicurezza: la tortuosa via per la Corte costituzionale, in Consulta on line, 9.1.2019.

[8] Tra le numerose pronunce adeguatrici, Trib.Firenze, ord.18 marzo 2019, il cui reclamo da parte del Ministero dell’Interno è stato deciso  da Trib. Firenze, ord. 27 maggio 2019; Trib. Bologna, ord. 2 maggio 2019; Trib. Genova, ord.20 maggio 2019; Trib.  Prato, ord. 26 maggio 2019; Trib. Lecce, ord. 4 luglio 2019;  Trib. Parma,ord. 2 agosto 2019; Trib. Bologna, ord. 23 settembre 2019; Trib. Roma, ord. 25 novembre 2019.

[9] Cass., Sez. Un. Civ.,19 giugno 2000 n. 449.

[10] D. Consoli, N. Zorzella, L’iscrizione anagrafica e l’accesso ai servizi territoriali dei richiedenti asilo ai tempi del salvinismo, in Questione Giustizia, 8.01.2019.

[11] Afferma che in relazione ai problemi di costituzionalità della disciplina dell’iscrizione anagrafica «i giudici hanno sminato il terreno», G. Azzariti, I problemi di costituzionalità dei decreti sicurezza  e gli interventi del presidente della Repubblica, Relazione al convegno organizzato dalla Fondazione Basso e dall’Associazione Salviamo la Costituzione il 16.9.2019.

[12] C. Padula, Le decisioni della Corte costituzionale del 2019 sul decreto sicurezza, in Consulta online, 2019, II.

[13] M. Ruotolo, Quando il giudice “deve fare da sé”,  in Questione Giustizia, 22.10.2018.

[14] Corte cost.,  sentenza n. 186 del 2020 par. 2.2.2. "Considerato in diritto".

[15] Di recente, anche se in relazione a temi diversi, è stata valorizzata la «opportunità di un intervento con effetti erga omnes di questa Corte, in virtù del principio che situa il sindacato accentrato di legittimità costituzionale a fondamento dell’architettura costituzionale (Corte cost. n. 20 del 2019).

[16] G. Zagrebelsky, La giustizia costituzionale, Bologna, 1988, p. 287: «...il diritto vivente quale appare nella prassi amministrativa ...apre uno spiraglio verso una più pregante concezione …del significato stesso della giustizia costituzionale».

[17] Corte Cost. sentenza n. 194 del 2019, che ha  dichiarato l’inammissibilità dei ricorsi delle regioni proposti avverso alcune disposizioni del D.L. n. 113/2018, nel suo punto 7.8 del "Considerato in diritto", relativamente agli effetti della nuova disciplina in materia di protezione umanitaria, afferma che «la doverosa applicazione del dato legislativo in conformità agli obblighi costituzionali e internazionali potrebbe rilevare che il paventato effetto restrittivo rispetto alla disciplina previgente sia contenuto entro margini costituzionalmente accettabili». F. Mangano, L’interpretazione dei giudici nella disciplina dei permessi di soggiorno per motivi umanitari, in Questione giustizia, 19.12.2019.

[18] Cass., Sez. Un. civ., n. 29459 e n. 24560 del 13.11.2019.

[19] C. Padula, Le spinte ‘centripete’ nel giudizio incidentale di costituzionalità, in Questione Giustizia, 22.10.2020.

[20] Risale a quasi quarant’anni fa la pronuncia (Corte cost. n. 164 del 1985) con la quale la Corte ha deciso con una sentenza interpretativa di rigetto, una questione relativa alla disciplina dell’obiezione di coscienza all’obbligo di  leva, sulla base dell’abrogazione di una circolare del Ministero della difesa- successiva ad una ordinanza interlocutoria ad effetti conoscitivi emessa nel corso del giudizio di costituzionalità - «che aveva inciso sul vivere dell’istituto», provocando una prassi dilatoria, per il cui superamento vengono suggeriti anche rimedi organizzativi.

[21] G. Silvestri, Del rendere giustizia costituzionale, in Questione giustizia n. 4/2020.

[22] Corte cost., n. 120 del 1967.

[23] Corte cost. n. 432 del 2005.

[24] M. S. Giannini, Diritto amministrativo, Milano ,1988, riconduce la tenuta dei pubblici registri, tra i quali i registri dell’anagrafe della popolazione residente, alla categoria dei procedimenti dichiarativi che ruotano attorno al cardine della nozione di ‘certezza’.

[25] Corte cost., nn. 194 del 2019; 269 del 2010; 148 del 2008; 252 del 2001.

[26] Di forte suggestione , a  tale proposito, il richiamo alle leggi razziali del regime fascista in C. Morselli, La Consulta boccia l’art. 13 del D.L.113 /2018 (c.d. decreto Sicurezza) sul veto di iscrizione anagrafica del richiedente asilo, ma lo scrutinio ablativo risulta monopolizzato dall’art. 3 Cost., in Federalismi, del 23.9.2020.

[27] Delibera della Presidente della Corte costituzionale 8.1.2020 recante Modificazioni alle ‘Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale’, artt. 2 e 3, che introducono rispettivamente gli artt. 4 ter e 14 bis N.I.

[28] Definito «clausola-limite generica e ingenua» da G. Silvestri in Del rendere giustizia costituzionale, cit.

[29]P. Morozzo della Rocca, I luoghi della persona e le persone senza luogo, 2017; P. Morozzo della Rocca, Vecchi e nuovi problemi riguardanti la residenza anagrafica nel diritto dell’immigrazione e dell’asilo, in Questione Giustizia, 16 gennaio 2019  

[30] Trib. Roma 12.1.2017 n. 6356; Trib. Roma 27.3.2017; Trib. Roma, 5.7.2017 n. 14102.

23/12/2020
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