Magistratura democratica
Magistratura e società

La cultura giuridica e le leggi razziali: avvocati e giudici ebrei. La giurisprudenza in materia razziale

di Carlo Brusco
già presidente di sezione della Corte di cassazione
Il testo costituisce un capitolo, ancora in via di elaborazione, di un libro dedicato alle leggi razziali del 1938/1939 che verrà pubblicato, nell’80° anniversario della loro promulgazione, dalle Edizioni Gruppo Abele

1. Premessa

Tutti i settori della cultura furono interessati allo stravolgimento che il regime fascista portò nei vari campi della conoscenza e delle professioni ma il settore di cui facevano parte gli studiosi maggiormente in grado di avvertire i termini devastanti di queste modifiche normative era quello giuridico: i giuristi erano infatti in grado di comprendere appieno lo stravolgimento dei principi liberali accolti in quello che − seppur sfacciatamente e ripetutamente violata dal regime (anche perché si trattava di una costituzione flessibile modificabile con legge ordinaria) – costituiva pur sempre il testo fondamentale della convivenza civile degli italiani: lo Statuto albertino entrato in vigore nel 1848 in coincidenza temporale con le guerre di indipendenza che avevano costituito l’inizio del processo di riunificazione dell’Italia.

Le palesi violazioni dello Statuto poste in essere con le leggi razziali erano a tutti evidenti. Venivano infatti violati: l’art. 24 (principio di uguaglianza); l’art. 25 (principio di libertà sotto diversi profili: libertà matrimoniale, di scegliere una professione, etc.; l’art. 29 (inviolabilità del diritto di proprietà).

È noto come l’ideologia fascista abbia pervaso non solo la legislazione penalista – che travolse quella liberale realizzatasi, in particolare, nel codice Zanardelli del 1889 – ma altresì la dottrina penalistica e, in misura inferiore, la giurisprudenza penale successiva alla presa del potere da parte del Pnf.

Ben prima della presa del potere da parte del movimento fascista autorevoli esponenti della dottrina penalistica avevano infatti già messo in discussione, anche in sedi autorevoli, i principì fondamentali contenuti nel codice Zanardelli di cui sollecitavano il superamento propugnando, tra l’altro, un inasprimento del sistema sanzionatorio, norme maggiormente permissive sull’uso delle armi da parte del cittadino (vi ricorda qualcosa di attuale?); l’estensione della possibilità di adoperarle da parte delle forze dell’ordine; la reintroduzione della pena di morte [1].

Non v’è dunque da stupirsi se la dottrina penalistica accolse nel complesso favorevolmente le riforme fasciste, sia pure con qualche dissenso interno anche al movimento fascista (per esempio, non tutti i giuristi fascisti erano d’accordo sulla reintroduzione della pena di morte), per quanto riguarda i nuovi codici penale e di procedura penale dei quali, a ragione, il ministro della Giustizia, Alfredo Rocco, ribadiva in tutte le occasioni come rappresentassero pienamente l’ideologia fascista [2]. V’è però da dire che il codice penale del 1930, pur richiamando in alcune norme la “stirpe”, non conteneva, apparentemente, alcuna parte che facesse presagire che, negli anni successivi, potesse svilupparsi un’evoluzione razzista della legislazione penale e meno ancora antiebraica [3].

Stupisce invece sia il limitato numero di obiezioni – che la loro non particolare rilevanza − formulate nei confronti dell’istituzione di un “giudice” speciale sfacciatamente di parte quale il Tribunale speciale per la difesa dello Stato (composto da ufficiali dell’esercito e da ex squadristi quali erano gli appartenenti alla milizia fascista!) dichiaratamente istituito per liquidare (anche fisicamente: le condanne a morte furono 76 delle quali 56 furono eseguite mediante fucilazione) ogni residuo dissenso dell’opposizione politica interna [4].

2. Le leggi razziali riguardanti la scuola e l’università

Per comprendere appieno quello che avvenne nei settori interessati dalla cultura giuridica occorre però partire dai provvedimenti che riguardavano la scuola e l’università. Il primo provvedimento della legislazione antiebraica (si tratta del regio decreto-legge 5 settembre 1938 n. 1390 – provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista – convertito senza modifiche nella legge 5 gennaio 1939, n. 99) riguardava infatti questi temi ed eliminava dalla scuola e dall’università sia i docenti che gli alunni e studenti di razza ebraica.

Un successivo provvedimento (il r.d.l. 15 novembre 1838, n. 1779) contenente l’integrazione e il coordinamento in un unico testo delle norme già emanate «per la difesa della razza nella scuola italiana» (si badi adesso la difesa della razza riguarda la «scuola italiana» non più la «scuola fascista» come nel testo del 5 settembre) ribadì le previsioni contenute nel r.d.l. 1390/1938 con qualche attenuazione: in particolare con la previsione che gli alunni di razza ebraica che professavano la religione cattolica potevano essere iscritti «nelle scuole elementari e medie dipendenti dalle autorità ecclesiastiche» (art. 3, comma 2); che nelle scuole elementari pubbliche potevano essere istituite, a spese dello Stato, speciali sezioni per i fanciulli di razza ebraica nelle località in cui il numero non fosse inferiore a dieci (art. 5, comma 1); che le comunità ebraiche potevano essere autorizzate ad aprire scuole elementari con effetti legali per i fanciulli di razza ebraica e mantenere quelle già esistenti. In queste scuole era previsto (art. 5, comma 3) che il personale (e quindi anche gli insegnanti) potesse essere di razza ebraica.

Era anche previsto che nelle scuole di istruzione media fosse vietata l’adozione di libri di testo di autori di razza ebraica (e nel caso di più autori bastava che uno fosse ebreo perché valesse il divieto). È stato calcolato che dalle scuole secondarie furono espulsi circa 1000 studenti e dalle elementari 4000.

Pesantissimo fu poi l’intervento di epurazione nell’università [5]. Anzi la discriminazione nei confronti dei professori universitari ebrei era stata anticipata con la circolare 3 agosto 1938 che aveva vietato loro di partecipare a congressi o manifestazioni culturali all’estero. Successivamente erano stati eliminati dai libri di testo gli scritti dagli autori epurati o alla cui compilazione questi autori avevano comunque partecipato [6].

Dalle ricerche effettuate si calcola che siano stati espulsi dall’università 108 professori ordinari (dei quali 41 si dichiararono non praticanti) che, secondo altre ricerche, si riducono a 99. Ai professori ordinari vanno aggiunti i liberi docenti e gli assistenti e, in questi casi, il calcolo degli espulsi è reso particolarmente complesso dalla circostanza che in queste categorie sono compresi sia professori dipendenti dal ministero che dalle singole università; sia professori in ruolo che altri che non lo erano. Mi sembrano possano ritenersi attendibili quelle ricostruzioni che calcolano in non meno di 133 gli aiuti e assistenti e in 160 i liberi docenti per cui il numero complessivo dei docenti ebrei estromessi dall’università è sicuramente superiore a 400 [7]. Ad essi va aggiunto, naturalmente, il numero, mai esattamente determinato, del personale non insegnante.

Desolante è l’esame delle reazioni dei colleghi dei professori epurati; numerose furono le adesioni entusiaste alle leggi razziali da parte di alcuni di loro (parte dei quali beneficiò ovviamente dell’esclusione dalle cattedre degli epurati) ma la maggior parte furono costituite da espressioni di stima ambigue e ipocrite che si limitavano ad augurare agli epurati un futuro migliore. Ma, visto che espressioni di dissenso potevano avere gravi conseguenze sulle carriere future e sugli incarichi ricoperti o da ricoprire, la reazione prevalente fu quella del silenzio.

3. L’avvocatura italiana di fronte alle leggi razziali

Per comprendere appieno quale fu l’impatto delle leggi razziali sull’attività professionale degli avvocati ebrei è opportuno ricordare che, negli anni successivi all’avvento del fascismo, la classe forense era stata caratterizzata da una serie di contraddizioni [8]: a fronte di tanti avvocati che, per la loro indipendenza e per la loro volontà di difendere tutti coloro che si opponevano ai soprusi, subirono attentati alla loro vita e ai loro beni con aggressioni fisiche e distruzione delle abitazioni e degli studi legali, ve ne furono altri che, in numero considerevole, utilizzarono la loro adesione al fascismo per carriere politiche e anche per arricchimento personale [9]. Anche per gli avvocati il processo di restrizione dei margini di libertà, iniziato nel 1926, fu graduale e fu posto in atto, attraverso la revisione degli albi, un processo di epurazione che condusse alla cancellazione dagli albi di professionisti sgraditi al regime perché avevano svolto una pubblica attività in contrasto con gli interessi della nazione anche se il numero di avvocati epurati non risulta accertato in modo sicuro [10].

Già nel 1926 erano state attribuite importanti funzioni, svolte in precedenza dai consigli dell’ordine, al nuovo sindacato fascista degli avvocati cui fu consentito di svolgere anche rilevanti compiti nei procedimenti disciplinari e al quale fu attribuito il potere di designare la metà dei componenti dei consigli dell’ordine; fino a che, nel 1928, furono tolti ulteriori poteri ai consigli dell’ordine che vennero trasformati in commissioni mentre, nel 1933, furono definitivamente soppressi e tutte le loro competenze furono attribuite al sindacato fascista (che quindi rappresentava anche gli avvocati non iscritti al sindacato) mentre a livello centrale tutti i poteri vennero trasferiti ad una commissione centrale per gli avvocati e procuratori (che sostituiva il Consiglio superiore forense) composta da quindici avvocati cassazionisti tutti nominati dal ministro [11].

Insomma il sindacato fascista degli avvocati era divenuto in pochi anni un vero e proprio organo pubblico al quale, pur essendo di parte, erano attribuite funzioni istituzionali, che godeva di amplissimi poteri idonei a incidere pesantemente sull’attività professionale degli avvocati; e non è un caso che al suo presidente, Aldo Vecchini, siano stati successivamente conferiti incarichi di fiducia da parte dei vertici della Repubblica sociale italiana (Rsi) tra cui quello di presiedere il Tribunale straordinario di Verona che condannò a morte i congiurati del 25 luglio 1943.

Quando, nel 1938, intervengono i primi provvedimenti di discriminazione razziale il terreno era quindi già pronto per la loro applicazione contro la quale l’avvocatura, anche se lo avesse voluto, non aveva mezzi per reagire in modo adeguato. È però da rilevare che gli organismi fascisti degli avvocati anticiparono gli orientamenti normativi che solo nel 1939 saranno attuati nei confronti degli avvocati ebrei. In una riunione, tenuta il 13 ottobre 1938, del direttorio nazionale del sindacato nazionale fascista avvocati e procuratori, il presidente avv. Vecchini «prospetta la possibilità che, sulla base dei principi razziali, non si dia luogo alla ammissione di ebrei negli albi»; non risulta all’epoca adottato alcun provvedimento ma la proposta è significativa dell’aria che tirava tra gli avvocati fascisti anche in assenza di una norma che vietasse, fino a quel momento, l’iscrizione agli albi [12].

Nei confronti dell’esercizio della professione da parte degli avvocati ebrei il colpo di grazia verrà assestato l’anno successivo perché è solo con l’entrata in vigore della legge 29 giugno 1939 n. 1054 (pubblicata sulla Gazzetta ufficiale n. 179 del 2 agosto 1939) che il regime interviene, con grande rigore, vietando agli ebrei l’esercizio della professione di avvocato, procuratore e patrocinatore legale [13]. Gli avvocati ebrei potevano continuare ad esercitare la loro professione solo a favore di clienti ebrei purchè venissero iscritti in «elenchi speciali»; tra l’altro non fu mai chiarito se questa possibilità fosse consentita nei giudizi di Cassazione.

Questo divieto non valeva per coloro che avessero ottenuto la cd. “discriminazione” consistente nella mancata parziale applicazione delle norme antiebraiche prevista per i familiari di caduti nelle varie guerre e “per la causa fascista”; per i mutilati e invalidi di guerra; per i combattenti delle medesime guerre che abbiano conseguito almeno la croce al merito di guerra; per i mutilati, invalidi e feriti della causa fascista; per gli iscritti al Pnf negli anni dal 1919 al 1922 e nel secondo semestre del 1924; per i legionari fiumani, ovvero, con una clausola di chiusura, per chi avesse acquisito «eccezionali benemerenze» (in genere veniva concessa a chi aveva partecipato alla marcia su Roma). I discriminati potevano continuare a svolgere la loro professione ma dovevano essere iscritti in “elenchi aggiunti”.

4. I giudici ebrei dispensati dal servizio

I giudici ebrei in servizio, alla data dell’entrata in vigore del r.d.l. 17 novembre 1938, n. 1728, rientravano ovviamente nella previsione dell’art. 13 che vietava, tra l’altro, che le amministrazioni civili dello Stato potessero avere alle proprie dipendenze persone appartenenti alla razza ebraica.

Dalle ricostruzioni storiche effettuate a seguito dell’approvazione di queste leggi [14] furono dispensati dal servizio 14 magistrati i cui nomi è necessario ricordare: Cesare Costantini, Mario Di Nola, Mario Finzi, Ugo Foa, Mario Levi, Ugo Davide Levi, Fernando Minerbi, Umberto Muggia, Edoardo Modigliani, Mario Piperno, Vittorio Salmoni, Giuseppe Seczi, Giorgio Vital e Mario Volterra. Altri quattro (Amilcare Brizzolari, Pietro Freri, Antonino Martorana e Giuseppe Pagano) chiesero di essere messi a riposo prima del provvedimento di dispensa dal servizio.

Questo numero è stato ritenuto sottostimato perché ricavato solo dai provvedimenti di dispensa pubblicati sul bollettino del ministero; l’esame della graduatoria dei magistrati in servizio fino al 1938-39 farebbe invece emergere un numero ben maggiore di magistrati ebrei con la conclusione che «non è facile stabilire un dato preciso tra conversioni, cambiamenti nei cognomi, arianizzazioni, anodine diciture burocratiche, e via dicendo» [15]. L’Autore ricorda inoltre che, pochi mesi prima della promulgazione delle leggi razziali il ministero trasferì alcuni alti magistrati in sedi (probabilmente sgradite) mai raggiunte; il che determinò l’automatica decadenza dal servizio.

Va ancora ricordato che la dispensa dal servizio per motivi razziali riguardò anche i magistrati onorari e il personale del ministero (cancellieri e segretari) e che il problema della razza riguardava anche l’ammissione al concorso in magistratura; ovviamente non potevano essere ammessi coloro che non possedevano i requisiti razziali ma si crearono curiose situazioni tra cui quella di Paolo Barile, il futuro costituzionalista, che aveva sposato, il giorno prima dell’entrata in vigore delle leggi razziali, una donna di origine ebrea e che, dopo molte incertezze, fu poi ammesso al concorso risultando il primo in graduatoria [16].

5. Gli orientamenti giurisprudenziali sul contenuto delle leggi razziali

Ma come si posero i giudici italiani nei confronti di questa legislazione in un sistema istituzionale che, da molti anni, aveva ormai assunto caratteristiche dittatoriali − eliminando ogni possibilità di dissenso e la possibilità di espressione di alcuna forma di sovranità popolare − ma non aveva completamente eliminato ogni possibilità di libero giudizio da parte dei giudici pur mantenendo amplissime possibilità di condizionamento soprattutto con il controllo totale delle carriere?

Esistevano margini interpretativi che consentivano ai giudici di escludere le conseguenze più aberranti derivanti dalla legislazione razziale? A questa domanda deve darsi una risposta positiva: questi margini esistevano e va dato atto che i giudici italiani li hanno almeno in parte applicati, anche con qualche forzatura interpretativa, con un orientamento complessivo che è stato qualificato come un “generoso tradimento”, intendendosi per tradimento quello dello spirito delle leggi razziali [17].

Ciò avvenne in particolare all’impugnabilità dei provvedimenti del ministro che recepivano il parere del cd. “tribunale della razza”. Ma possiamo anche ricordare quelle sentenze, in particolare dei giudici di merito, che con un notevole sforzo interpretativo, ebbero a distinguere tra l’aspetto politico della normativa razziale – da cui discendeva la non impugnabilità dei provvedimenti del ministro – e gli aspetti patrimoniali e familiari che discendevano da questo riconoscimento sui quali era invece consentito il sindacato giurisdizionale [18].

Altri temi “sensibili” − che non è possibile, in questa sede, esaminare in modo dettagliato − furono affrontati dalla giurisprudenza di merito e di legittimità: in particolare i temi riguardanti i matrimoni tra ebrei e “ariani”, i temi societari nel caso di società con soci di origini diversi, le comproprietà con analoga ripartizione e i criteri di divisione delle proprietà e delle aziende. Si tratta di casi che ebbero soluzioni diversificate, spesso ispirate al principio di cui si è parlato all’inizio, e comunque mai o raramente condizionate da pregiudizi razziali [19].

6. Le leggi razziali e il ceto dei giuristi

Quello che colpisce, tra le reazioni del ceto giuridico ai provvedimenti di discriminazione, è la mancanza di alcuna manifestazione, anche non pubblica, di sostegno e solidarietà da parte dei colleghi degli epurati. In particolare non risulta che i colleghi dei professori universitari dispensati dal servizio perché ebrei alcuna reazione abbiano avuto contro queste leggi. Vi furono anzi quelli che plaudirono a questa normativa e vi furono invece quelli che tacquero contro la discriminazione operata nei confronti dei loro colleghi di fatto avallandola [20].

È stato poi osservato come la cultura giuridica italiana, soprattutto quella civilistica abbia, in larga parte, sostanzialmente ignorato la legislazione razziale; le numerose riviste giuridiche che avevano, nei decenni precedenti, acquisito larga diffusione, spazi ridottissimi hanno dedicato alla legislazione razziale limitandosi, nella più parte dei casi, a seguire l’evoluzione giurisprudenziale sui più rilevanti temi della razza affrontati dalla giurisprudenza dando conto di decisioni giudiziarie intervenute sugli aspetti maggiormente significativi di questa legislazione ma senza dedicare studi particolari alla medesima [21].

Ciò non significa che i giuristi civilisti fascisti non si siano dedicati al tema della razza ma i casi in cui questo interesse si è manifestato non sono, oltre che particolarmente approfonditi, numericamente rilevanti [22]. Del resto il sostanziale disinteresse per i temi razziali ha caratterizzato anche i programmi editoriali delle più importanti riviste giuridiche; una consistente parte delle quali rifiutò anche di escludere dai loro collaboratori giuristi di origine ebraica come richiedeva insistentemente la rivista La difesa della razza diretta da Telesio Interlandi [23].

È invece singolare l’apparente disinteresse per le leggi razziali da parte di pressoché tutte le riviste giuridiche comprese quelle (per esempio la Rivista italiana per le scienze giuridiche) dirette da giuristi legati al partito fascista come Pietro De Francisci o Salvatore Riccobono [24]. E ciò malgrado fossero in corso i lavori preparatori del nuovo codice civile che, seppur in modo superficiale (e tale da consentirne un rapido smantellamento subito dopo la caduta del regime), accoglieva alcuni dei principi fondamentali contenuti nelle leggi razziali [25].

Un esame complessivo (ma, ovviamente, superficiale) delle pubblicazioni giuridiche successive all’emanazione delle leggi razziali conferma come la cultura giuridica, nella sua assoluta prevalenza, tendesse ad ignorarle quasi a confermare l’esistenza di un disinteresse che non poteva che dimostrare una complessiva contrarietà ad un regime giuridico che stravolgeva principi di civiltà da quasi un secolo accolti nello stato italiano. Si pensi che la voce “razzismo” del Nuovo Digesto Italiano – la più importante banca dati giuridica della prima metà del secolo – fu pubblicata anonima! Poiché ciò era del tutto anomalo (questa procedura si utilizzava solo per le voci di rinvio o per quelle ripetitive) le ipotesi sono due: o chi la compilò o chi dirigeva la pubblicazione si vergognava del contenuto della voce e la fece pubblicare senza l’indicazione del suo nome.

7. La presenza ebraica nelle discipline forensi. La figura di Lodovico Mortara

È stato da tempo verificato come la presenza di persone di origine ebraica nelle professioni di tipo giuridico – ed in particolare dei professori universitari in materie giuridiche ma anche nell’attività forense (meno, a quanto consta, nell’attività giudiziaria) – fosse decisamente superiore da un punto di vista percentuale rispetto alla presenza percentuale ebraica nella società italiana.

Le ragioni di questa propensione sono complesse e ricollegate, verosimilmente, ad una serie di ragioni che, dopo l’Unità d’Italia, portarono gli ebrei a privilegiare le professioni liberali ed in particolare quelle di natura forense [26].

Senza alcuna pretesa di completezza per un tema che richiederebbe ben altro approfondimento mi piace ricordare la figura di un giurista di origine ebraica che ha segnato i primi decenni del ‘900 per le sue lucidissime analisi giuridiche, per il messaggio di adesione ai principi liberali del Risorgimento e per le capacità di anticipare principi che avrebbero trovato attuazione solo con il regime democratico [27].

Si tratta di Lodovico Mortara (ebreo, probabilmente non credente e figlio di un rabbino) che, nel 1923, ricopriva la carica di presidente della Cassazione di Roma e che sarebbe stato il candidato naturale a ricoprire la carica di primo presidente della Corte di cassazione nazionale che di lì a poco verrà unificata (l’unificazione era stata già disposta prima dell’avvento del regime fascista). Per evitare questo rischio il regime mise anticipatamente in pensione alcuni magistrati sgraditi (tra i quali, oltre a Mortara, anche Raffaele Di Notaristefani, procuratore generale presso la medesima Corte e già presidente dell’Associazione magistrati che aveva preso posizioni certamente non gradite al regime e Vincenzo Chieppa presidente pro tempore dell’associazione dei magistrati); e anche questo “giocare” sull’età di pensionamento dei magistrati (per blandirli con l’aumento dell’età pensionabile o eliminare qualche voce sgradita con la sua diminuzione) è un vizio che non è scomparso nel regime democratico come “riforme” degli ultimi anni valgono a dimostrare!

Oltre alle sue elevatissime capacità di giurista – dimostrate sia nell’insegnamento che nella pratica giudiziaria – di Mortara si ricorda che, nel 1907, aveva presieduto la Corte d’appello di Ancona che, con una sentenza storica (subito annullata dalla Cassazione di Roma) ritenne che le donne dovessero essere ammesse al voto in base all’ordinamento elettorale allora vigente.

8. I giuristi di regime

Non irrilevante è stata però la partecipazione di giuristi e di magistrati (anche di un certo livello di carriera) al dibattito sulla razza e che hanno messo la loro cultura giuridica non solo al servizio del regime ma anche dell’ideologia antiebraica.

Nella dottrina giuridica l’esempio più eclatante è quello di Giuseppe Maggiore, ordinario di diritto penale preso l’Università di Palermo, che si distinse, oltre che per l’affermazione che la parola del duce era superiore alla legge, nell’attacco antisemitico a Mortara da poco deceduto [28]. Ma Maggiore si spinse oltre anche sul piano teorico giungendo a condividere i principì del diritto penale affermatisi nella Germania nazista quali il venir meno del principio di legalità e del divieto di analogia nel diritto penale. E, ovviamente, fu uno dei più fervidi sostenitori delle leggi razziali; bastino queste parole per descrivere il personaggio: «Noi vogliamo sgiudaizzare il popolo italiano nella misura in cui è stato scristianizzato, ebraizzato e quindi disitalianizzato; il nostro proposito tende a conservare quanto si può più pura la razza italiana, evitando gli incroci, le misture, le contaminazioni, non solo di corpi ma di anime, avviamento fatale alla decadenza. Le mescolanze di razze preludono allo sfacelo delle nazioni» [29].

Non diverse, anche se meno rozze e fanatiche, le posizioni sulle leggi razziali di altri due illustri giuristi – Pietro De Francisci e Arrigo Solmi − che furono anche ministri della giustizia e anzi il secondo controfirmò anche alcune delle più rilevanti leggi di discriminazione degli ebrei [30].

Di altro spessore culturale è la persona di un ben più illustre giurista, Santi Romano, alla cui scuola si sono formate generazioni di giuristi (più modestamente anche lo scrivente sostenne su un suo testo l’esame universitario di filosofia del diritto). Al di là dell’adesione acritica al regime – che purtroppo caratterizzò gran parte della cultura giuridica universitaria – Santi Romano accettò anche di far parte (pur non contribuendo mai ad essa con suoi scritti) del comitato scientifico di una rivista (Il diritto razzista) dichiaratamente schierata con le teorie naziste sulla razza e avversata anche da larga parte della “cultura” razzista dichiaratamente fascista [31].

Vi furono anche giuristi ebrei, dichiaratamente fascisti, che videro la loro vita sconvolta dalle leggi razziali e furono costretti all’emigrazione. Tra questi possono essere ricordate, in particolare, la figura di Gino Arias che divenne ordinario di diritto corporativo all’Università di Roma, autore di un notissimo manuale riguardante questa materia tipicamente fascista (il testo ebbe tre edizioni in un solo anno) e, dopo le leggi razziali, rifiutò dignitosamente di essere discriminato ed emigrò in Argentina [32]; e quella di Giorgio Del Vecchio, illustre studioso di diritto romano, fascista fin da 1921, che partecipò alla marcia su Roma e divenne successivamente rettore dell’università di questa città, alla cui fascistizzazione contribuì, mantenendo però una sua relativa indipendenza di giudizio [33].

Tra i magistrati che asservirono al regime e alle sciagurate leggi antiebraiche la loro cultura giuridica vanno ricordati i vertici dell’istituzione giudiziaria e tra questi i procuratori generali presso la Corte cassazione che non si sottraevano, nei discorsi di inaugurazione dell’anno giudiziario, a celebrazioni laudative del regime. È stato ricordato in particolare, per rimanere alla nostra materia, il discorso inaugurativo del 1939 in cui il procuratore generale Luigi Albertini si lascia andare anche ad un elogio sperticato delle leggi razziali ed in particolare della loro natura antiebraica [34].

Tra i magistrati che maggiormente si dimostrarono fedeli al regime e sostenitori della legislazione discriminatoria ricordo Carlo Costamagna, di cui abbiamo già parlato, Mario Baccigalupi e Sofo Borghese, giudici del Tribunale di Milano e di Brescia. Di questi ultimi due risparmio al lettore le esternazioni laudative delle leggi razziali [35]. Non può però dimenticarsi come illustri giuristi, ancora nel 1943, pur senza piaggerie nei confronti del regime moribondo, fornivano però una giustificazione storica delle leggi razziali trovandone la giustificazione nel fatto che doveva ritenersi superato (“relegato in soffitta”) il principio dell’uguaglianza di capacità giuridica senza differenza di età, di sesso, di religione o di razza perché «la diversità di razza è ostacolo insuperabile alla costituzione di rapporti personali dai quali possono derivare alterazioni biologiche o psichiche alla purezza della nostra gente» [36].

Inutile ricordare come i pochi giuristi (professori universitari o magistrati) che furono sottoposti ad epurazione furono sospesi per poco tempo dalle loro funzioni che ripresero dopo poco ricoprendo alte cariche ad alcune delle quali abbiamo già accennato [37]. Per dire anche Giuseppe Maggiore e Pietro De Francisci, dopo brevi sospensioni, furono dopo poco tempo reintegrati nell’insegnamento.

9. I giuristi che non accettarono compromessi. Le figure di Ernesto Orrei, Giorgio La Pira e Mario Rotondi

Nel desolante panorama che abbiamo sommariamente descritto si staccano, per fortuna, le figure di alcuni giuristi, non ebrei, che ebbero il coraggio (in fin dei conti, salvo Rotondi come vedremo, non rischiavano la vita!) di difendere i colleghi ebrei espulsi dalle cattedre di insegnamento e costretti, in larga parte, ad emigrare. Non mi riferisco ai giuristi, anche illustri, che mai si compromisero con il fascismo (Calamandrei, Jemolo, i fratelli Galante Garrone, Vassalli e altri) ma a quelli che ebbero il coraggio di esprimersi esplicitamente contro la vergogna delle leggi razziali.

Con la premessa che, ovviamente, l’elenco non può che essere parziale mi limito ad indicare solo alcuni di questi giuristi. Uno di questi è Ernesto Orrei, un esponente radicale, libero docente di diritto costituzionale all’università di Roma (incarico da cui venne dichiarato decaduto nel 1937 da Bottai, ministro dell’educazione nazionale), che riuscì in modo continuativo ad esprimere le sue idee antifasciste e a far pubblicare (a Roma nel 1942!) un libro subito sequestrato, in cui criticava aspramente la legislazione antiebraica affermando che «questa esclusione degli ebrei dalla scuola e dalla biblioteca è quella che tocca più da vicino il fondo umano della società civile, la collaborazione di ogni paese al processo della conoscenza tra i popoli, il dovere dello Stato moderno di illuminare, illuminare nelle vie del sapere, senza limiti estrinseci alle esigenze del sapere medesimo. La scuola e la biblioteca sono come le chiese dello Stato moderno: non si respinge nessuno» [38].

Un’altra figura di giurista indipendente, più nota al grande pubblico anche per l’attività politica svolta come parlamentare e poi come sindaco di Firenze, è quella di Giorgio La Pira strenuo difensore dell’uguaglianza degli uomini indipendentemente dalla loro razza, religione etc. la cui rivista (Principi) venne chiusa d’autorità dal regime costringendo La Pira alla latitanza [39].

Ma senza giungere a queste conseguenze va ricordato che vi furono episodi positivi di giuristi che si ribellarono al conformismo dilagante per esempio consentendo agli studenti ebrei di laurearsi come peraltro previsto dalla legge per gli studenti in corso. In particolare mi sembra giusto ricordare l’episodio, riferito da Elio Toaff che aveva difficoltà a trovare un professore dell’università di Pisa che gli desse una tesi di laurea per potersi laureare; avendolo saputo il prof. Lorenzo Mossa si offrì di dargliela e sostenne vigorosamente le sue posizioni nella discussione della tesi [40].

Analoga opera di resistenza passiva fu posta in essere da Mario Rotondi, direttore della Rivista di diritto privato, che continuò a pubblicare saggi di giuristi ebrei, a mantenerli nel comitato scientifico, a pubblicarne i necrologi al momento della loro morte [41]. Da segnalare che Rotondi, nel 1932 professore ordinario presso l’università di Pavia, per evitare di prestare il giuramento al regime, il cui rifiuto avrebbe comportato la perdita della cattedra, si fece assumere dall’università cattolica di Milano.

Un solo esempio di come Rotondi considerasse le leggi razziali: nel 1942, recensendo sulla sua rivista il libro di Orrei che abbiamo in precedenza ricordato, parlando del presupposto etnico delle leggi razziali ne fornisce questo giudizio «non si sa se più balordo nelle sue premesse pseudo-scientifiche o iniquo nelle sue conseguenze».

A Milano Rotondi rimase anche durante l’occupazione nazista. Per esemplificare sulla tempra di studioso e di uomo di Rotondi: nel 1944 pubblica sulla rivista (édita a Milano!) il necrologio del giurista ebreo Cesare Vivante già espulso dall’università ed emigrato il cui nome, insieme a quelli di altri giuristi ebrei compariva, nel comitato scientifico della rivista, negli anni dal 1940 in poi. È poi da ricordare che, malgrado un duplice invito della casa editrice (la Cedam) − che pubblicava i suoi scritti e la rivista da lui diretta – volto ad escludere gli ebrei dai suoi collaboratori rifiutò più volte di adeguarsi alla richiesta di censurare questi autori e, per questo motivo, dovette cambiare editore [42].



[1] Si tratta di proposte, formulate da Vincenzo Manzini (che avrà un ruolo fondamentale nella redazione del codice penale del 1930) nella prolusione tenuta a Torino il 22 novembre 1910. Traggo queste informazioni dallo scritto di M. Sbriccioli, Le mani nella pasta e gli occhi al cielo. La penalistica italiana negli anni del fascismo, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, nn. 33/34 (2004/2005), p. 817.

[2] Su questa ideologia si veda P. Ungari, Alfredo Rocco e l’ideologia giuridica del fascismo, Morcelliana, Brescia, 1974.

[3] Si veda, anche sotto questo profilo, E. De Cristofaro, Codice della persecuzione. I giuristi e il razzismo nei regimi nazista e fascista, Giappichelli, Torino, 2008, pp. 327 ss.

[4] Sul Tribunale speciale per la difesa dello Stato si vedano gli scritti di C. Longhitano, Il Tribunale di Mussolini (Storia del Tribunale Speciale 1926-1943), Quaderni dell’Anppia, Palestrina, 1994; M. Franzinelli, Il Tribunale del duce. La giustizia fascista e le sue vittime (1927-1943), Mondadori, Milano, 2017. Sempre a cura dell’Anppia nel 2017 sono stati pubblicati gli atti del convegno, svoltosi il 25 novembre 2014, sul tema Il Tribunale speciale per la difesa dello Stato. Braccio giudiziario del fascismo. Il convegno si è svolto nell’aula del Palazzo di giustizia di Roma, in piazza Cavour, dove si celebravano i processi del Tribunale speciale ed ha avuto momenti particolarmente toccanti quando sono state sentite le testimonianze di due condannati dal Tribunale speciale.

[5] Il tema di carattere generale dell’applicazione nelle università delle leggi razziali non è stato fino ad oggi adeguatamente e complessivamente studiato. Gli effetti dell’applicazione delle leggi razziali nelle università italiane di Modena, Parma, Trieste, Bologna, Pisa, Firenze e Napoli, oltre che nel Politecnico di Torino, sono descritti nel testo di V. Galimi e G. Procacci (a cura di), “Per la difesa della razza”. L’applicazione delle leggi antiebraiche nelle università italiane, Unicopli, Milano, 2009. La situazione nell’Università di Pisa, anche per quanto riguarda gli effetti nel dopoguerra, è invece affrontata da F. Pelini e I. Pavan, La doppia epurazione. L’Università di Pisa e le leggi razziali tra guerra e dopoguerra, Il Mulino, Bologna, 2009. Si veda inoltre l’ampia analisi condotta da B. Sordi, Leggi razziali e università, in D. Menozzi e A. Mariuzzo (a cura di), A settant’anni dalle leggi razziali. Profili culturali, giuridici e istituzionali dell’antisemitismo, Carocci, Roma, 2010, p. 249.

[6] Si veda sul tema G. Turi, Il 1938 e gli intellettuali. Persecutori, vittime, spettatori, in Storia della Shoah in Italia. Vicende, memorie, rappresentazioni, Utet, Torino, 2010, vol. I, p. 338; al medesimo autore si rinvia anche per un esame delle reazioni che si ebbero, nell’ambiente universitario, dopo l’esclusione dall’insegnamento dei professori ebrei.

[7] Per la determinazione numerica dei professori universitari espulsi dall’insegnamento i numeri spesso divergono nelle varie ricerche anche se non in modo particolarmente significativo; quella riportata è la ricostruzione di Angelo Ventura (Il fascismo e gli ebrei. Il razzismo antisemita nell’ideologia e nella politica del regime, Donzelli, Roma, 2013, pp. 71 ss. e 104 ss.) secondo cui i professori ordinari definitivamente dispensati dal servizio perché ebrei furono 99. Renzo De Felice nella Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo (Einaudi, Torino, 1993) riporta (p. 290, nota 2) i dati, tratti nell’immediatezza del provvedimento, dalla pubblicazione Vita universitaria che, già nel fascicolo del 5 ottobre 1938 e in altri fascicoli successivi, riportava questi numeri sulle espulsioni dei docenti perché ebrei: professori universitari 96; professori di scuola media 174; liberi docenti 195. Si pensi che, solo dall’Università di Padova (dove peraltro esisteva una presenza consistente di docenti ebrei), furono espulsi 48 docenti.

[8] Uno studio completo ed aggiornato sui problemi riguardanti l’avvocatura nel periodo fascista è quello di A. Meniconi, La “maschia avvocatura”. Istituzioni e professione forense in epoca fascista (1922-1943), Il Mulino, Bologna, 2006. L’espressione “maschia avvocatura” del titolo è ripresa da un’espressione di Aldo Vecchini, segretario del sindacato nazionale fascista avvocati e procuratori negli anni Trenta. Di grande interesse, tra i vari argomenti affrontati nel saggio, è lo svilupparsi di un ampio dibattito − anche tra avvocati e studiosi fascisti e all’interno del sindacato fascista − riguardante il tema della compatibilità della concezione fascista dello Stato con la permanenza delle caratteristiche di tipo “liberale” che aveva la professione dell’avvocatura (vds. pp. 68 ss.). Maggiormente interessati alla realtà locale della provincia pisana sono i contributi raccolti in D. Cerri (a cura di), Le leggi razziali e gli avvocati italiani. Uno sguardo in provincia, Pisa University press, 2010, che riproduce gli atti di un convegno tenuto il 20 febbraio 2009. Un altro recente contributo, riguardante l’applicazione delle leggi razziali agli avvocati del foro di Torino, è quello di P. De Benedetti, Avvocati ebrei del Foro di Torino, in A. Meniconi e M. Pezzetti (a cura di), Razza e inGiustizia. Gli avvocati e i magistrati al tempo delle leggi antiebraiche, a cura del Senato della Repubblica e dell’Unione delle comunità ebraiche italiane, Roma, 2018, p. 153.

[9] Sulle carriere politiche ed economiche, fondate sull’adesione al Pnf e sullo svolgimento di compiti di rilievo all’interno e per conto del partito da parte di numerosi avvocati che crearono il loro successo professionale su questa base (vds. A. Meniconi, La “maschia avvocatura”, cit., pp. 73 ss.). Si leggano inoltre le parole, sull’aspetto economico, di M. Berlinguer, La crisi della giustizia nel regime fascista, cit., Migliaresi, Roma, 1944, pp. 68 ss. e di G. Focardi, Magistratura e fascismo. L’amministrazione della giustizia in Veneto 1920-1945, Marsilio, Padova, 2012, il quale ricorda (a p. 193) come il gerarca avv. Roberto Farinacci avesse comunicato alla commissione sugli illeciti arricchimenti (nell’agosto del 1943) di aver guadagnato circa 700.000 lire annue con spese per lo studio di circa 100.000 (per avere un parametro di valutazione di queste cifre va ricordato che la retribuzione annuale di un magistrato poteva indicativamente all’epoca variare, a seconda dell’anzianità, dalle 5.000 alle 15.000 lire annue).

[10] A. Meniconi, La “maschia avvocatura”, cit., 126, ricorda le valutazioni di A. Aquarone (secondo cui l’epurazione fu “moderata”) e di F. Salvemini che parlò invece di circa 2000 avvocati epurati (se si considera che nel 1926 gli avvocati iscritti agli albi erano 26.000 questo numero sembra eccessivo).

[11] Non credo esistano statistiche nazionali sulle percentuali di iscrizione degli avvocati al Pnf o di adesione al sindacato fascista. Quelle ricostruite da G. Focardi (Magistratura e fascismo. L’amministrazione della giustizia in Veneto 1920-1945, cit., pp. 182 ss.) riguardano solo il Veneto (comprensivo anche del Trentino Alto Adige) e mostrano una varietà di adesioni nelle varie circoscrizioni con percentuali via via decrescenti tra praticanti, procuratori e avvocati con percentuali più basse per gli iscritti al partito rispetto agli iscritti al sindacato. L’Autore ha calcolato che, nel 1941, l’85% degli avvocati veneti era iscritto al sindacato e il 69% al partito. Particolare tristezza genera la lettura delle pagine che l’Autore dedica (vds. pp. 190 ss.) a coloro che approfittarono in vario modo (in particolar modo accaparrandosi la clientela) del divieto per gli avvocati ebrei di svolgere la loro professione a fronte, per fortuna, di altri avvocati che si esposero al pericolo consentendo ai colleghi ebrei di lavorare nei loro studi.

[12] Il verbale della riunione è pubblicato sulla Rassegna del sindacalismo forense, 1938, 4.

[13] Il processo di espulsione degli avvocati ebrei dalla professione è stato di recente ben descritto da A. Meniconi, L’espulsione degli avvocati ebrei dalla professione forense, in A. Meniconi e M. Pezzetti (a cura di), Razza e inGiustizia. Gli avvocati e i magistrati al tempo delle leggi antiebraiche, cit., p. 99. Nel medesimo contributo sono riportati (pp. 103 ss.) i dati disponibili sulle espulsioni, discriminazioni e iscrizioni degli avvocati ebrei nelle varie sedi. Nel medesimo scritto sono ricostruiti anche gli orientamenti del Consiglio superiore forense in merito ai ricorsi proposti da numerosi avvocati (in particolare da quelli non discriminati) contro i provvedimenti del sindacato forense.

[14] Sull’atteggiamento che i giuristi adottarono nei confronti delle leggi razziali si veda l’ampio studio di G. Acerbi, Le leggi antiebraiche e razziali italiane ed il ceto dei giuristi, ed. Giuffrè, Milano, 2011. La letteratura sulle leggi razziali è molto vasta; solo esemplificativamente si ricorda che un ampio esame dei contenuti della rivista La difesa della razza è contenuto nello studio di F. Cassata, “La difesa della razza”. Politica, ideologia e immagine del razzismo fascista, Einaudi, Torino, 2008, e che una raccolta di documentazione sul tema è contenuta nel volume di A. Cavaglion e G.P. Romagnani, Le interdizioni del duce. Le leggi razziali in Italia, Claudiana, Torino, 2002.

[15] Si veda G. Focardi (Magistratura e fascismo. L’amministrazione della giustizia in Veneto 1920-1945, cit., pp. 201 ss.) che ricorda anche il caso di un magistrato (Emilio Sacerdote) che si dimise volontariamente prima dell’entrata in vigore delle leggi razziali. Sacerdote partecipò alla Resistenza e, dopo essere stato catturato, fu deportato prima a Flossemburg e poi a Bergen Belsen dove morì, per gli stenti patiti, qualche settimana dopo essere stato liberato dagli alleati. L’Autore riferisce anche di alcune testimonianze che attestano il suo coraggio e il suo valore. Uno dei magistrati dispensati dal servizio perché ebreo, Mario Finzi, subito dopo aver assunto il servizio fu dispensato dal servizio per l’entrata in vigore delle leggi razziali; aderì a Giustizia e Libertà e prestò assistenza a ebrei e partigiani; arrestato nel 1944 fu deportato ad Auschwitz dove morì alla fine del medesimo anno.

[16] L’episodio è ricordato da G. Focardi, Magistratura e fascismo. L’amministrazione della giustizia in Veneto 1920-1945, cit., p. 158.

[17] L’espressione «generoso tradimento» è di G. Speciale, Giudici e razza nell’Italia fascista, Giappichelli, Torino, 2007, pp. 59 ss.; testo che costituisce forse la più completa rassegna degli orientamenti giurisprudenziali sul tema dei criteri applicativi della legislazione antiebraica. Del medesimo Autore si veda, più di recente, G. Speciale, La giurisprudenza sulle leggi antiebraiche, in A. Meniconi e M. Pezzetti (a cura di), Razza e inGiustizia. Gli avvocati e i magistrati al tempo delle leggi antiebraiche, a cura del Senato della Repubblica e dell’Unione delle comunità ebraiche italiane. Roma, 2018, p. 113.

[18] Le più rilevanti sentenze di merito (ma anche dei giudici amministrativi) che si pronunziarono su questi temi sono riassunte da G. Speciale, La giurisprudenza sulle leggi antiebraiche, cit., pp. 113 ss. Si vedano inoltre le informazioni su questi esempi giurisprudenziali forniti da S. Falconieri, Consensi e rimozioni: la dottrina giuridica italiana e la legislazione razziale fascista, in D. Menozzi e A. Mariuzzo (a cura di), A settant’anni dalle leggi razziali. Profili culturali, giuridici e istituzionali dell’antisemitismo, Carocci, Roma, 2010, pp. 183 ss. Della medesima S. Falconieri [Tra “silenzio” e “militanza”. La legislazione antiebraica nelle riviste giuridiche italiane (1938-1943), in G. Speciale (a cura di), Le leggi antiebraiche nell’ordinamento italiano. Razza Diritto Esperienze, Patron, Bologna, 2013, p. 159] si veda un’accurata ricostruzione degli orientamenti, formatisi nella dottrina giuridica, sull’interpretazione di alcuni aspetti significativi delle leggi razziali.

[19] Per un’analisi dettagliate di alcune delle più significative decisioni in materia si rinvia ancora a G. Speciale, Giudici e razza nell’Italia fascista, cit., pp. 90 ss. L’Autore esamina anche casi in cui le decisioni emesse dopo la fine del regime fascista (vds. pp. 132 ss.) con la necessità di affrontare delicati problemi di natura intertemporale nonché i problemi sorti a seguito della legislazione risarcitoria del dopoguerra (pp. 142 ss.).

[20] Desolante è l’esame fatto da F. Franceschi (Le leggi antiebraiche del 1938 e la loro applicazione della Facoltà giuridica della R. Università degli Studi di Roma, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, rivista telematica, n. 38/2014, pp. 39 ss.) sulle reazioni (sostanzialmente inesistenti) che si ebbero tra i professori dell’Università di Roma sui provvedimenti di esclusione dei loro colleghi ebrei tra l’altro molto apprezzati nell’ambiente in precedenza (tra i quali uno stimato ex rettore, il prof. Del Vecchio, tra l’altro fascista della prima ora).

[21] Sulle reazioni del ceto dei giuristi nei confronti delle leggi razziali il più completo ed aggiornato esame è quello compiuto nell’opera di G. Acerbi, Le leggi antiebraiche e razziali italiane ed il ceto dei giuristi, cit. Per una non sempre coincidente ricostruzione si veda S. Gentile, La legalità del male. L’offensiva mussoliniana contro gli ebrei nella prospettiva storico-giuridica (1938-1945), Giappichelli, Torino, 2013, pp. 28 ss. Di recente il tema è stato affrontato da G. Canzio, Le leggi razziali e il ceto dei giuristi, in Dir. Pen. Contemp., 5 febbraio 2018.

[22] Se ne veda l’esame proposto da E. De Cristofaro, Codice della persecuzione. I giuristi e il razzismo nei regimi nazista e fascista, Giappichelli, Torino, 2008, pp. 261 ss.

[23] Sia consentito il rinvio − per l’esame di questa vicenda che costituisce una bella pagina riguardante il rifiuto di una parte della scienza giuridica di rendersi complice della discriminazione razziale − a C. Brusco, L’epurazione dei magistrati, le leggi razziali e il Foro italiano, ne Il Foro Italiano, 2014, V, p. 152.

[24] Anche per la ricostruzione degli orientamenti dei giuristi romanisti nei confronti dei problemi della razza rinvio a S. Gentile, La legalità del male, cit., pp. 86 ss.

[25] Si veda, su questo aspetto, la ricostruzione storica compiuta da S. Falconieri, La legge della razza. Strategie e luoghi del discorso giuridico fascista, il Mulino, Bologna, 2011, p. 175.

[26] Una ricostruzione più ragionata e argomentata di queste ragioni storiche è contenuta nello studio di S. Mazzamuto, I giuristi dell’ateneo pisano e la questione ebraica, in Riv. dir. commerc., 1995, I, p. 335 (nota 11).

[27] La figura di Lodovico Mortara è tratteggiata da S. Mazzamuto, I giuristi dell’ateneo pisano e la questione ebraica, cit., pp. 353 ss.

[28] Le parole di Maggiore che ricordano Mortara sono riportate da S. Mazzamuto, I giuristi dell’ateneo pisano e la questione ebraica, cit., p. 357. Per esemplificare sulla qualità intellettuale dell’attacco basti ricordare che Maggiore qualifica Mortara emissario «dell’internazionale israelita-moscovita» e lo accusa di aver lavorato indisturbato «ad assoggettare alla dittatura ebraico-massonica il Paese».

[29] G. Maggiore, Razza e fascismo, Palermo, 1939, p. 156.

[30] Per alcune conferme delle idee sulla razza dei due giuristi fascisti rinvio ad G. Acerbi, Le leggi antiebraiche e razziali italiane ed il ceto dei giuristi, cit., pp. 129 ss.; al quale si rinvia per ulteriori manifestazioni di condivisione delle idee razziste da parte di noti giuristi dell’epoca (Pietro Cogliolo, Gaspare Ambrosini, Renzo Sertoli Salis).

[31] Anche per un esame della vicenda di questa rivista, in tutto l’arco degli anni in cui venne pubblicata, rinvio a C. Brusco, La rivista “Il diritto razzista” (1939-1942), in Storia e memoria, rivista dell’Istituto ligure per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea, 2015, p. 158; si veda anche, sulla storia della medesima rivista, E. De Cristofaro, Codice della persecuzione. I giuristi e il razzismo nei regimi nazista e fascista, Giappichelli, Torino, 2008, pp. 381 ss.

[32] Traggo queste notizie da S. Mazzamuto, I giuristi dell’ateneo pisano e la questione ebraica, cit., pp. 360 ss.

[33] Per un sintetico esame della figura di Giorgio del Vecchio rinvio a F. Franceschi, Le leggi antiebraiche del 1938 e la loro applicazione della Facoltà giuridica della R. Università degli Studi di Roma, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, rivista telematica, n. 38/2014, pp. 7 ss.

[34] Se ne vedano i passi riportati da G. Acerbi, Le leggi antiebraiche e razziali italiane ed il ceto dei giuristi, cit., pp. 124 ss.

[35] Per chi fosse interessato all’esame di queste forme di deliranti esternazioni razziste rinvio ai seguenti scritti: di M. Baccigaluppi, Rinnovamento razziale nel pensiero giuridico, Bologna, 1939; Il principio razziale e gli italiani non regnicoli, Milano, 1938; La razza come principio giuridico, ne Il diritto razzista, 1940; di S. Borghese, Razzismo e diritto civile, in Monitore dei Tribunali, 1939, p. 353; Razzismo e diritto penale, in id., 1940, p. 65.

[36] Sono parole di Gaetano Azzariti, pronunziate ad una conferenza del marzo 1943, e riportate da G. Acerbi, Le leggi antiebraiche e razziali italiane ed il ceto dei giuristi, cit., p. 152.

[37] Le brillanti carriere di questi “giuristi” e di altri che ricoprirono nel dopoguerra posizioni di prestigio nell’amministrazione giudiziaria sono descritte da G. Neppi Modona, La magistratura e le leggi antiebraiche del 1938, in A. Meniconi e M. Pezzetti (a cura di), Razza e inGiustizia. Gli avvocati e i magistrati al tempo delle leggi antiebraiche, a cura del Senato della Repubblica e dell’Unione delle comunità ebraiche italiane, Roma, 2018, pp. 89 ss. e pp. 94 ss. Sullo sviluppo delle carriere degli epurati vds. ancora G. Acerbi, Le leggi antiebraiche e razziali italiane ed il ceto dei giuristi, cit., pp. 188 ss. In generale sull’inefficacia dei procedimenti di epurazione si veda lo studio di R. Canosa, Storia dell’epurazione in Italia. Le sanzioni contro il fascismo 1943-1948, Baldini&Castoldi, Milano, 1999.

[38] Vds. E. Orrei, Intorno alla questione ebraica. Lineamenti di storia e di dottrina, Tip. Consorzio Nazionale, Roma, 1942, p. 140. Per un più approfondito esame della figura e delle attività di Ernesto Orrei rinvio a S. Gentile, La legalità del male. L’offensiva mussoliniana contro gli ebrei nella prospettiva storico-giuridica (1938-1945), Giappichelli, Torino, 2013, pp. 81 ss. e a G. Acerbi (Le leggi antiebraiche e razziali italiane ed il ceto dei giuristi, cit., p. 162, nota 230-bis) il quale ricorda l’episodio di una perquisizione delle truppe naziste nello studio di Orrei il quale, saputo che l’ufficiale che dirigeva le operazioni era laureato in filosofia, gli fece leggere un brano (di un discepolo di Kant) il cui contenuto indusse il militare a sospendere l’operazione.

[39] Anche sulla figura di Giorgio La Pira rinvio a S. Gentile, La legalità del male, cit., pp. 85 ss.

[40] L’episodio è ricordato da G. Acerbi, Le leggi antiebraiche e razziali italiane ed il ceto dei giuristi, cit., pp. 165 ss., il quale ricorda anche che l’episodio costò a Mossa un tentativo di omicidio (furono sparati nei suoi confronti tre colpi di pistola). La figura anticonformista di Lorenzo Mossa è tratteggiata da O. Abbamonte, La politica invisibile. Corte di cassazione e magistratura durante il Fascismo, Giuffrè, Milano, 2003, pp. 90 ss.

[41] La storia della rivista fondata da Rotondi, e la vicenda umana del medesimo, è ricostruita da U. Santarelli, “Un illustre (e appartato) foglio giuridico” la Rivista di Diritto privato (1931-1944), in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, n. 16 (1987), p. 665. Si veda anche, su questa straordinaria figura di cittadino italiano, S. Gentile, La legalità del male, cit., pp. 32 ss.

[42] Queste vicende sono ricostruite da G. Acerbi, Le leggi antiebraiche e razziali italiane ed il ceto dei giuristi, cit., pp. 182 ss.

22/12/2018
Altri articoli di Carlo Brusco
Se ti piace questo articolo e trovi interessante la nostra rivista, iscriviti alla newsletter per ricevere gli aggiornamenti sulle nuove pubblicazioni.
Il caso della consigliera Rosanna Natoli. E’ venuto il momento del diritto?

Se nella vicenda della consigliera Rosanna Natoli l’etica, almeno sino ad ora, si è rivelata imbelle e se gran parte della stampa e della politica hanno scelto il disinteresse e l’indifferenza preferendo voltarsi dall’altra parte di fronte allo scandalo cha ha coinvolto un membro laico del Consiglio, è al diritto che occorre guardare per dare una dignitosa soluzione istituzionale al caso, clamoroso e senza precedenti, dell’inquinamento della giustizia disciplinare. L’organo di governo autonomo della magistratura può infatti decidere di agire in autotutela, sospendendo il consigliere sottoposto a procedimento penale per delitto non colposo, come previsto dall’art. 37 della legge n. 195 del 1958, contenente norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio Superiore della Magistratura. Questa peculiare forma di sospensione “facoltativa” può essere adottata con garanzie procedurali particolarmente forti per il singolo consigliere - la votazione a scrutinio segreto e un quorum deliberativo di due terzi dei componenti del Consiglio – ed è regolata da una normativa speciale, non abrogata né in alcun modo incisa dalle recenti disposizioni della riforma Cartabia che mirano a garantire il cittadino da effetti civili o amministrativi pregiudizievoli riconducibili al solo dato della iscrizione nel registro degli indagati. Le questioni poste dal caso Natoli sono troppo gravi e serie per farne materia di cavilli e di vuote suggestioni e per tutti i membri del Consiglio Superiore è venuto il momento dell’assunzione di responsabilità. Essi sono chiamati a decidere se tutelare l’immagine e la funzionalità dell’organo di governo autonomo o se scegliere di rimanere inerti, accettando che i fatti già noti sul caso Natoli e quelli che potranno emergere nel prossimo futuro pongano una pesantissima ipoteca sulla credibilità e sull’efficienza dell’attività del Consiglio Superiore. 

02/09/2024
L’imparzialità dei giudici e della giustizia in Francia…in un mondo dove gravitano i diritti fondamentali

Un viaggio nella storia del pensiero giuridico alla luce dell’esperienza francese, sulle tracce di un concetto connaturato al funzionamento della giustizia, reattivo ai tentativi di soppressione o mascheramento tuttora capaci di incidere sul ruolo del magistrato all’interno della società. Una società complessa e plurale, di cui egli è parte attiva a pieno titolo. Nella lucida e personalissima testimonianza di Simone Gaboriau, l’imparzialità emerge come principio-cardine dell’ordine democratico, fondato – necessariamente – sull’indipendenza dei poteri che lo reggono.
Pubblichiamo il contributo nella versione italiana e nella versione originale francese. 

16/05/2024
L’imparzialità del giudice: il punto di vista di un civilista

Il tema dell’imparzialità del giudice, di cui molto si discute riferendosi soprattutto all’esercizio della giurisdizione penale, presenta spunti di interesse anche dal punto di vista civilistico. Se è ovvio che il giudice debba essere indipendente e imparziale, meno ovvio è cosa per “imparzialità” debba intendersi. Si pongono al riguardo tre domande: se e quanto incidono  sull’imparzialità del giudice le sue convinzioni ideali e politiche e il modo in cui egli eventualmente le manifesti; se  l’imparzialità debba precludere al giudice di intervenire nel processo per riequilibrare le posizioni delle parti quando esse siano in partenza sbilanciate; entro quali limiti la manifestazione di un qualche suo pre-convincimento condizioni  l’imparzialità del giudice all’atto della decisione. Un cenno, infine, all’intelligenza artificiale e il dubbio se la sua applicazione in ambito giurisdizionale possa meglio garantire l’imparzialità della giustizia, ma rischi di privarla di umanità. 

04/05/2024
I test psicoattitudinali: la selezione impersonale dei magistrati

Certamente il lavoro del magistrato è molto impegnativo sul piano fisico, mentale e affettivo e vi sono situazioni - presenti, del resto, in tutte le professioni - in cui una certa vulnerabilità psichica può diventare cedimento e impedire l’esercizio sereno della propria attività. Esse si risolvono con istituti già presenti nell’ordinamento come la “dispensa dal servizio” o il “collocamento in aspettativa d’ufficio per debolezza di mente o infermità”. Invece il progetto di introdurre test di valutazione psicoattitudinali per l’accesso alla funzione di magistrato è inopportuno sul piano del funzionamento democratico delle Istituzioni e inappropriato sul piano psicologico perché, da un lato, sposta l’attenzione dal funzionamento complessivo della Magistratura come istituzione all’“idoneità” del singolo soggetto e, dall’altra, non prende in considerazione il senso di responsabilità , la principale qualità che deve avere un magistrato e la sola che valorizza appieno la sua competenza e cultura giuridica. 

03/04/2024