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La “particolare rilevanza delle questioni” tra camera di consiglio e udienza pubblica

di Giuliano Scarselli
Ordinario di diritto processuale civile, Università di Siena
Le prime applicazioni della Legge n. 197/2016 sul giudizio in Cassazione

1. In questo anno sono già intervenute importanti decisioni della Suprema Corte sulla riforma del giudizio di cassazione di cui alla L. 197/2016.

Ricordo, in primo luogo, questi provvedimenti:

a) il primo è l’ordinanza 395 del 10 gennaio (6° sez. 3°), la quale ha rimarcato come la riforma sia stata ispirata da “esigenze di semplificazione, snellimento e deflazione del contenzioso” e abbia inteso “modulare il giudizio di legittimità in ragione di una più generale suddivisione del contenzioso in base alla valenza nomofilattica, o meno, delle cause”, con scelta conforme sia alla nostra carta costituzionale sia alle norme Cedu, e che in tal contesto viene a declinarsi il nuovo art. 380 bis c.p.c., che, seppur abbia soppresso il precedente “opinamento”, “non è tale da vulnerare il diritto alla difesa, giacché trattasi di esplicitazione interlocutoria di mera ipotesi di esito decisorio”, visto che, in ogni caso, “la garanzia del contraddittorio è comunque assicurata dalla trattazione scritta della causa”.

b) Il secondo è l’ordinanza 4541 del 22 febbraio (6° sez. 3°), la quale ha tenuto a precisare che “va disattesa ogni doglianza sul carattere immotivato e succinto della proposta del relatore: la novella del 2016 non prevede affatto ed in alcun modo che la proposta possa e debba essere motivata… e del resto giammai si configura in alcun processo alcun diritto della parte a conoscere – e tanto meno particolareggiatamente – in via preventiva l’opinamento o l’orientamento del relatore o del giudicante in genere sul tema da decidere, in modo da potere, appunto invia preventiva, interloquire al riguardo”.

c) Il terzo è l’ordinanza 5374 del 2 marzo (6° sez. T), la quale, nel dichiarare infondata una istanza di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea perché le scelte del legislatore, in ragione di una più generale suddivisione del contenzioso in base alla valenza nomofilattica, sono conforme ai principi costituzionali e comunitari, ha ripetuto i principi già affermati da Cassazione 395/2017, ribadendo che il nuovo giudizio camerale è “procedimento ordinario non partecipato”, che il “contraddittorio è assicurato dalla trattazione scritta della causa”, e che la soppressione del c.d. “opinamento” appartiene “all’esercizio della discrezionalità del legislatore in ambito processuale e non è tale da vulnerare il diritto alla difesa”.

Se, pertanto, le problematiche che la riforma pone sono essenzialmente due, e sono quelle: a) di stabilire cosa debba precisare il relatore nel momento in cui avvia un ricorso in camera di consiglio; b) e di stabilire quando una causa presenti quella “particolare rilevanza” tale da dover andare in udienza pubblica; ad entrambe la Cassazione ha già risposto senza dubbi: il relatore non ha alcun obbligo di precisare alcunché nella proposta, e un ricorso può essere mandato in camera di consiglio puramente e semplicemente (così soprattutto Cass. n. 4541 del 22 febbraio); e in udienza pubblica vanno solo le questioni a “valenza nomofilattica”, poiché la riforma ha riservato “a quelle prive di siffatto connotato un procedimento camerale, tendenzialmente assunto come procedimento ordinario non partecipato” (così Cass. 395 del 10 gennaio e Cass. 5374 del 2 marzo).

Ho già avuto modo di esternare il mio disappunto alla recente riforma del giudizio di cassazione di cui alla L. 197/2016, ed ho già avuto modo di rilevare come questa riforma da una parte mi sembri di dubbia costituzionalità e di dubbia aderenza alla normativa comunitaria, e dall’altra mi sembri illogica, considerato che sottrae al processo di cassazione un valore risalente all’illuminismo, quale quello dell’udienza pubblica, solo per consentire il risparmio di tre ore alla settimana, tanto è da stimare il tempo che i giudici della cassazione impiegano per le udienze pubbliche.

Ora, però, più che criticare le scelte del legislatore, si tratta di valutare come questa riforma, che ormai è legge, possa e/o debba essere applicata.

Ed è a questo più pratico aspetto che sono dedicate le riflessioni che seguono.

2. Preliminarmente, desidero dare alcune precisazioni, su meccanismi che forse non a tutti sono chiari.

Con la riscrittura dell’art. 375 c.p.c. noi abbiamo oggi due percorsi con i quali un ricorso può essere deciso in camera di consiglio: a) un ricorso può andare in camera di consiglio per una ipotesi di cui al primo comma dell’art. 375 c.p.c., ovvero quando lo stesso è inammissibile, improcedibile, manifestamente fondato o manifestamente infondato; b) oppure parimenti un ricorso può essere deciso in camera di consiglio per una ipotesi di cui al secondo comma dell’art. 375 c.p.c., ovvero “in ogni altro caso” nel quale non vi sia “particolare rilevanza della questione”.

Ora, però, a seconda che la camera di consiglio sia data per una ipotesi di cui al primo comma dell’art. 375 c..c., oppure per una ipotesi di cui al secondo comma dell’art. 375 c.p.c., cambia qualcosa, ovvero: nel primo caso si applica l’art. 380 bis c.p.c., mentre nel secondo caso si applica l’art. 380 bis 1.

Abbiamo così un doppio binario, fissato dallo stesso legislatore: se la camera di consiglio è dovuta in base al primo comma dell’art. 375 c.p.c., allora il relatore, ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., formula una proposta, asserendo che vi sono gli estremi dell’art. 375 nn. 1-5 c.p.c., e il ricorso è deciso in camera di consiglio in apposita sezione, ovvero in sezione sesta. In questi casi la proposta e il decreto che fissa l’adunanza sono comunicati alle parti almeno venti giorni prima, e questi possono produrre memorie almeno cinque giorni prima dall’adunanza. Il ricorso viene deciso con ordinanza.

Se viceversa il ricorso non ha gli estremi di cui al primo comma dell’art. 375 c.p.c., ovvero non ricade nelle fattispecie di cui ai nn. 1-5 dell’art 375 c.p.c., allora, come già nel vecchio sistema, il ricorso passa per la decisione ad una sezione semplice.

La novità della riforma, però, è che anche le sezioni semplici possono oggi decidere in camera di consiglio se a loro volta ritengono che la questione non sia di particolare rilevanza.

In questo caso la sezione semplice applica l’art. 380 bis 1 c.p.c.: si dà comunicazione agli avvocati e alla procura generale almeno quaranta giorni prima dall’adunanza che il ricorso verrà deciso in camera di consiglio. La procura generale potrà depositare in cancelleria le sue conclusioni scritte non oltre venti giorni prima dell’adunanza, mentre gli avvocati potranno presentare le loro memorie non oltre dieci giorni prima dell’adunanza. La Corte giudicherà senza l’intervento del pubblico ministero e delle parti.  

Dunque, il ricorrente che aspiri a discutere in udienza pubblica il proprio ricorso deve oggi superare due ostacoli: deve dapprima superare il giudizio della sesta sezione, che deve escludere che il ricorso possa decidersi in via breve ai sensi del primo comma dell’art. 375 c.p.c.; e deve superare il giudizio della sezione semplice, che deve ritenere che le questioni sollevate siano di particolare rilevanza.

In ogni altro caso il ricorso è deciso in camera di consiglio.

Un ultima precisazione: la camera di consiglio viene portata a conoscenza degli avvocati in modo diverso a seconda che questa si abbia presso la sesta sezione ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c. oppure presso le sezioni semplici ai sensi dell’art. 380 bis 1; se il ricorso viene deciso dalla sesta sezione nei casi del primo comma dell’art. 375 c.p.c. ciò avviene “su proposta del relatore” (art. 380 bis c.p.c.), e in questo caso la proposta è comunicata alle parti unitamente al decreto che fissa l’adunanza; al contrario, se la camera di consiglio è disposta dalla sezione semplice nei casi del secondo comma dell’art. 375 c.p.c., alle parti arriva solo una comunicazione, senza aggiunta di alcunché, comunicazione del tutto eguale a quella che arriva se la discussione del ricorso avviene in udienza pubblica. Ciò in quanto, al contrario dell’art. 380 bis c.p.c., l’art. 380 bis 1 c.p.c. si limita a dire che “è data comunicazione”, senza far menzione di una proposta, come avviene nell’ipotesi dell’art. 380 bis c.p.c.

Si tratta di differenza di non secondaria importanza.

La giurisprudenza sopra richiamata, infine, è tutta relativa a camere di consiglio di cui al primo comma dell’art. 375 c.p.c.

Sono infatti ordinanze pronunciate dalla sesta sezione per inammissibilità del ricorso (395/2017), manifesta fondatezza (4541/2017), e manifesta infondatezza (5374/2017).

3. Date queste premesse, vediamo le questioni.

Se il ricorso rientra in uno dei casi di cui al primo comma dell’art. 375 c.p.c., il relatore formula una proposta di definizione in camera di consiglio presso la sesta sezione ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c.

Al riguardo, è fuori da ogni seria discussione che il legislatore abbia soppresso il vecchio opinamento, modificando il testo dell’art. 380 bis c.p.c.; quindi va da sé che non può più pretendersi che la proposta del relatore contenga le ragioni, seppur succinte, per le quali il ricorso va in camera di consiglio.

Sia però consentito osservare che sopprimere l’opinamento non significa automaticamente liberare il relatore da ogni onere nello stendere la proposta.

Al riguardo, peraltro, sul punto è stato sottoscritto un protocollo tra la Corte di cassazione e il Consiglio nazionale forense in data 15 dicembre 2016. Al punto 5, titolato Proposta di trattazione camerale presso la sesta sezione ex art. 380 bis c.p.c., si stabilisce che la proposta del relatore deve quanto meno indicare “quali siano i pertinenti precedenti giurisprudenziali di riferimento e le ragioni del giudizio prognostico di infondatezza dei motivi di ricorso, anche mediante una valutazione sintetica e complessiva degli stessi, ove ne ricorrano i presupposti”[1]. E peraltro in quel protocollo si scrive che questa scelta tende a contemperare due contrapposte esigenze, quali quelle di dare “adeguata informazione circa le ragioni dell’avvio del ricorso alla trattazione in adunanza camerale” con l’altra volta a dar seguito alla volontà del legislatore di sopprimere il vecchio opinamento.

Dunque, è abbastanza sorprendente che Cass. 4541/2017 non rispetti il protocollo, e affermi in modo netto che la novella del 2016 non prevede affatto, ed in alcun modo, che la proposta possa e debba esser motivata.

Non ho simpatia per i protocolli, e ritengo che i giudici non ne siano vincolati; ritengo però che la soluzione intermedia contenuta nel protocollo sopra menzionato sia, come si scrive, un giusto equilibrio tra due contrapposte esigenze, mentre confermare l’orientamento di Cass. 4541/2017 sarebbe al contrario favorire una esigenza senza interessarsi minimamente della tutela dell’altra.

Credo, peraltro, che salvaguardare un contenuto minimo della proposta, sulla falsariga del protocollo, sia necessario non solo per il diritto di difesa della parte, ma anche al fine di consentire a tutti di conoscere gli orientamenti giurisprudenziali (seppur in misura minima) sulla “manifesta infondatezza” del 1° comma dell’art. 375 c.p.c.

E va da sé che per avere un minimo di idee su quali ricorsi vadano in camera di consiglio e quali viceversa alle sezioni semplici, si ha la necessità che la proposta ex art. 380 bis c.p.c. contenga un minimo di motivazione.

Ed anzi, deve dirsi che questo minimo di motivazione della proposta ex art. 380 bis c.p.c. svolge anche una funzione di nomofilachia, perché evita che la sezione dello spoglio abbia di fatto un diritto pieno, incontrollato e potestativo alla assegnazione dei ricorsi in un percorso piuttosto che in altro, e consente a tutti di avere un “idea” sui ricorsi da ritenere manifestamente infondati rispetto a quelli che non presentino queste caratteristiche.

4. Abbiamo poi rilevato che l’art. 380 bis 1 c.p.c., rispetto all’art. 380 bis c.p.c., non prevede che l’avvio di un ricorso in camera di consiglio si dia con una proposta, bensì prevede che ciò avvenga con comunicazione, comunicazione che ovviamente non contiene alcuna specificazione delle ragioni della scelta.

Io credo che questa sia una lacuna dell’art. 380 bis 1 c.p.c., perché in questo modo non si avrà mai un provvedimento che esterni le ragioni della “particolare rilevanza”; e credo che anche in questo caso l’esigenza che su ciò si formino invece degli orientamenti giurisprudenziali dovrebbe considerarsi non solo a salvaguardia del diritto di difesa della parte ma anche a tutela della stessa funzione di nomofilachia.

Il protocollo sopra richiamato cerca di risolvere la questione al punto 7 Istanza di trattazione della causa in pubblica udienza[2], e già si riescono in argomento a trovare due pronunce della seconda sezione, che affermano, sostanzialmente in modo conforme al protocollo, che la decisione del presidente di avviare alla camera di consiglio un ricorso non impedisce tuttavia al collegio di rimandare la decisione alla pubblica udienza[3].

Non so se questa sia la soluzione migliore.

A me sembra che la sezione dovrebbe avere un solo momento per stabilire se un ricorso va deciso in camera di consiglio oppure in udienza pubblica. Una volta presa la decisione, non vedo come si possa tornare su di essa, e consentire una decisione in senso inverso. Peraltro questo meccanismo appesantisce il procedimento, nel quale si inseriscono le memorie delle parti finalizzate non tanto alla decisione di merito bensì a far tornare nel binario dell’udienza pubblica un ricorso già avviato alla camera di consiglio. Né mi sembra che, a sostegno del protocollo, possa sostenersi l’applicabilità dell’ultimo comma dell’art. 380 bis c.p.c. per analogia, e ciò perché il legislatore, con riferimento ai ricorsi dinanzi alle sezioni semplici, ha aggiunto al codice, specificamente, l’art. 380 bis 1 c.p.c., e non pare allora possibile applicare per analogia una disposizione, l’art. 380 bis c.p.c., quando il legislatore per le sezioni semplici ne ha prevista una diversa, con diverso contenuto.

Ritengo, però, che il problema principale da risolvere non sia questo, bensì sia quello di imporre alle sezioni, nell’avviare un ricorso alla camera di consiglio, semplicemente di indicare le ragioni per le quali le questioni da decidere non siano di “particolare rilevanza”.

E sotto questo profilo faccio presente che la comunicazione che destina un ricorso alla camera di consiglio, rispetto a quella che fissa l’udienza pubblica, dovrebbe contenere un minimo di motivazione al fine di evitare un evidente difetto dell’art. 380 bis 1; difetto che, se non colmato, potrebbe presentare vizi di costituzionalità.

5. Veniamo al tema principale: cosa deve intendersi per questione di “particolare rilevanza”?

Su questo la Cassazione ha già risposto: la questione è di particolare rilevanza se ha “valenza nomofilattica”.

È tema ripetuto tanto nei provvedimenti sopra menzionati, quanto nello stesso protocollo, ove si precisa che la riforma del 2016 “si impernia sulla distinzione tra giudizi che hanno valenza nomofilattica, destinati alla trattazione nella pubblica udienza, e giudizi privi di tale carattere, destinati alla trattazione in camera di consiglio non partecipata”.

L’equiparazione “particolare rilevanza”/“valenza nomofilattica”, però, a me personalmente non convince, e qui ne spiego le ragioni.

6. In primo luogo ritenere che la questione fatta valere con il ricorso sia “particolarmente rilevante” quanto abbia “valenza nomofilattica”, significa leggere e interpretare il giudizio di cassazione in una chiave esclusivamente giuspubblicistica che non condivido.

La legge asserisce che si ha pubblica udienza sulla “particolare rilevanza” della questione, non sulla “valenza nomofilattica”. Equiparare questi momenti significa sbilanciare l’equilibrio pubblico/privato tutto sull’aspetto pubblico, e si tralascia così che il giudizio in cassazione è strutturato anche nell’interesse dei privati[4].

Nessuno mette in discussione che la Corte di cassazione debba svolgere funzione di nomofilachia; tuttavia nel nostro sistema, da sempre, questa funzione si realizza in modo indiretto, ovvero si realizza attraverso la decisione di una impugnazione fatta valere da privati a tutela di diritti soggettivi.

Escludere l’elemento privatistico del giudizio di cassazione, e considerare la rilevanza delle questioni solo in una ottica di nomofilachia, significa azzerare il ruolo e gli interessi delle parti private in cassazione, con una operazione ermeneutica a mio parere discutibile, fintanto che il sistema preveda che il giudizio si inizi con un ricorso e possa chiudersi in rito in caso di rinuncia allo stesso.

7. In secondo luogo dare per equivalenti “particolare rilevanza”/“valenza nomofilattica”, non mi sembra corretto nemmeno sotto lo stesso profilo della nomofilachia.

Ed infatti, detta equivalenza porterebbe allora a ritenere che solo le sentenze a seguito di udienza pubblica hanno valore nomofilattico, non tutto il resto.

Al contrario, par evidente, tutte le decisioni della Corte svolgono funzioni di nomofilachia, e non solo le sentenze pronunciate a seguito di udienza pubblica.

Solo a titolo di esempio nessuno, penso, metterebbe in discussione la funzione nomofilattica delle pronunce sopra richiamate Cass. 395, 4541 e 5374 del 2017: eppure dette pronunce sono ordinanze, e sono state pronunciate in camera di consiglio dalla sesta sezione in ipotesi ex art. 375, 1° comma, c.p.c.

È bene allora essere chiari su questo punto: tutto ciò che fa la Corte ha valenza nomofilattica, e, da sempre, questa valenza nomofilattica è stata riconosciuta ad ogni provvedimento della Corte. Dal punto di vista della nomofilachia non si è mai posta una distinzione in base alle forme dei provvedimenti, né vedo come si potrebbe.

È pertanto errato porre lo spartiacque tra udienza pubblica e camera di consiglio nella “valenza nomofilattica della questione”, anche perché, così impostata la questione, le conseguenze logiche potrebbero essere solo due: a) o tutto va in udienza pubblica perché tutto, o quasi tutto, ha valenza nomofilattica in cassazione; b) oppure ciò che non va in udienza pubblica non ha valenza nomofilattica.

Poiché nessuna di queste alternative è accettabile, in quanto né tutto può andare in udienza pubblica, né la funzione nomofilattica può essere esclusa alle ordinanze, va da sé che il criterio è errato, perché, appunto, non corrisponde a logica.

8. Si potrebbe però replicare che in alcuni casi questa valenza nomofilattica è più forte, e sono solo quelli i casi che devono essere destinati all’udienza pubblica.

Più che sulla “valenza nomofilattica”, allora, lo spartiacque andrebbe posto sull’impegno che è richiesto alla Corte per svolgere questa “valenza nomofilattica”.

L’impegno più forte la Corte lo avrebbe sostanzialmente in tre ipotesi: a) quando la questione è nuova; b) quando la questione è controversa; c) quando vi è la necessità di mutare l’orientamento giurisprudenziale.

Il problema è che questi casi tendono a sovrapporsi con quelli per i quali il ricorso deve essere deciso dalle sezioni unite ex art. 374 c.p.c., ed infatti non è facile distinguere i casi di “particolare importanza” ex art. 374 c.p.c., da assegnare alle sezioni unite, rispetto ai casi di “particolare rilevanza” ex art. 2° comma 375 c.p.c., da assegnare alle sezioni semplici in udienza pubblica.

Direi che è imbarazzante chiedersi che differenza vi sia tra “particolare importanza” e “particolare rilevanza”, ed è chiaro allora che la “valenza nomofilattica” è criterio inadeguato per capire quando una ricorso debba essere deciso in camera di consiglio piuttosto che in udienza pubblica.

Possiamo solo dire che questa riforma lascia molta discrezionalità alla Corte nel gestire queste differenze; e tuttavia appare necessario avere una bussola di orientamento sulle tante alternative possibili con le quali la Corte può decidere un ricorso[5].

9. Per dare corretto significato alla espressione “particolare rilevanza” ex art. 375,2° comma c.p.c., tale da una parte da contrapporla alla “particolare importanza” dell’art. 374 c.p.c., e dall’altra da non identificarla nella c.d. “valenza nomofilattica”, io proporrei di ripescare la contrapposizione tra ius constitutionis e ius litigatoris, letta però nel suo autentico significato.

Direi, così, che le sezioni semplici decidono in camera di consiglio nei casi di ius litigatoris, mentre decidono in udienza pubblica in tutti i casi di ius constitutionis

Come è data la distinzione?

Ricordo che, in origine, la sentenza era da considerare contra ius constitutionis quando pronunciata con errori di diritto sulla esistenza e/o sul contenuto delle norme, ovvero con errori giuridici posti nella premessa maggiore dell’attività logica del giudice, mentre era da considerare contra ius litigatoris quando viziata da errori nella ricostruzione del fatto, oppure da errori di diritto non rientranti nella categoria dello ius constitutionis, quali quelli relativi alla sussunzione della norma al fatto, legati alla premessa minore dell’attività logica del giudice

Questa contrapposizione, una volta riadattata all’odierno giudizio di cassazione, porterebbe a ritenere rientranti nello ius litigatoris le ipotesi di omissione di un fatto decisivo per il giudizio ex art. 360 n. 5 c.p.c., e le ipotesi nelle quali il giudice abbia disatteso in concreto una legge o un principio di diritto senza però affermare alcun principio giuridico errato o in contrasto con il diritto vivente. Viceversa, nelle ipotesi in cui il vizio della sentenza impugnata sia nella premessa maggiore del ragionamento del giudice, ovvero il giudice abbia affermato l’esistenza di un diritto che non esiste, o negato un diritto che esiste, l’ipotesi è di ius constitutionis, e la fattispecie, se arriva alla sezione semplice, dovrebbe, a mio parere, essere sempre decisa a seguito di pubblica udienza.

In questo modo: a) la “particolare rilevanza” tenderebbe a distinguersi dalla “particolare importanza” di cui all’art. 374 c.p.c., e non vi sarebbe così il rischio di sovrapposizioni tra fattispecie da udienza pubblica e fattispecie da sezioni unite; b) la “particolare rilevanza” acquisterebbe un significato diverso rispetto a quello di “valenza nomofilattica”, a tutela di tutte le altre decisioni della cassazione pronunciate fuori dall’udienza pubblica; c) infine la “particolare rilevanza” verrebbe interpretata senza azzerare il ruolo delle parti in giudizio, che potrebbero contare sulla udienza pubblica in tutti i casi nei quali il giudice di merito abbia deciso sui loro diritti affermando cose o principi in contrasto con la legge.

Questa soluzione, infine, consentirebbe di contenere i casi di ordinanze che cassano sentenze.

Prima ciò avveniva nei rarissimi casi di manifesta fondatezza ex art. 375, 1° comma c.p.c.; oggi, invece, rischia di essere un fenomeno generalizzato ai sensi dell’art. 375, 2° comma c.p.c.

Anche solo da un punto di vista formale, se non addirittura estetico, credo sia preferibile contenere al massimo i casi nei quali una sentenza di una Corte di appello viene cassata per violazione di legge da una ordinanza.



[1] Espressamente si legge nel protocollo: “Quanto alla proposta del relatore di trattazione camerale si conviene che tale proposta dovrà indicare: - quanto alla prognosi di inammissibilità e improcedibilità, a quale ipotesi si faccia riferimento (tramite menzione del dato normativo, o, in alternativa, del precedente, o ancora una breve formula libera); - quanto alla prognosi di manifesta fondatezza, quale sia il motivo manifestamente fondato e l’eventuale precedente giurisprudenziale di riferimento; - quanto alla prognosi di manifesta infondatezza, quali siano i pertinenti precedenti giurisprudenziali di riferimento e le ragioni del giudizio prognostico di infondatezza dei motivi di ricorso, anche mediante una valutazione sintetica e complessiva degli stessi, ove ne ricorrano i presupposti”.

[2] Si legge nel punto 7 del protocollo che “Si conviene che, qualora un ricorso sia avviato alla trattazione camerale di sezione ordinaria, le parti possano richiedere motivatamente, nella memoria depositata a norma dell’art. 380 bis 1 c.p.c. o con apposita istanza, che la trattazione avvenga in pubblica udienza indicando la questione di diritto di particolare rilevanza che, a loro avviso, giustifica la discussione pubblica”.

[3] Da segnalare, infatti, due ordinanze interlocutorie della seconda sezione (n. 5533 e 5534 del 6 marzo 2017), con le quali si è affermato che la Corte a sezioni semplici, dopo aver chiamato un ricorso in camera di consiglio, ben può rimetterlo alla pubblica udienza, e ciò sia perché deve essere consentita l’analogia del disposto del 1° comma dell’art. 376 richiamato dall’art. 380 bis c.p.c., e sia perché “anzi tale applicazione analogica appare imposta dal principio per cui il Collegio non può essere vincolato dalla valutazione al riguardo operata dal presidente della sezione ai sensi dell’ultima parte del primo comma dell’articolo 377”. 

[4] Il giudizio è attivato da una parte privata, è finalizzato a rimuovere una sentenza che incide su suoi diritti soggettivi, la parte privata assume i costi del giudizio e i rischi della soccombenza e paga il contributo unificato, il processo è a parti contrapposte con un contraddittorio affatto diverso rispetto a quello che si ha nei giudizi di merito, le parti possono rinunciare al ricorso ex art. 390 c.p.c., e soprattutto la decisione che assume la Corte non è un parere ma è una sentenza, che ne cassa o ne conferma un’altra, incidendo sui diritti sostanziali dei litiganti.

[5] Abbiamo infatti un ventaglio piuttosto articolato di ipotesi, che non è inutile focalizzare:

a) il ricorso è manifestamente infondato (375, 1° comma): deciso in camera di consiglio dalla sesta sezione;

b) il ricorso è manifestamente fondato (375, 1° comma): deciso in camera di consiglio dalla sesta sezione;

c) il ricorso non è né manifestamente fondato né manifestamente infondato (375,2° comma): deciso dalle sezioni semplici in camera di consiglio;

d) il ricorso non è né manifestamente fondato né manifestamente infondato e attiene a questione di “particolare rilevanza” (375,2° comma): deciso dalle sezioni semplici in pubblica udienza;

e) il ricorso ha ad oggetto questioni di “particolare importanza”: deciso dalle sezioni unite in pubblica udienza.

30/03/2017
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