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La sentenza sulla legge Madia, una decisione (forse) troppo innovatrice

di Giacomo D'Amico
Professore associato di diritto costituzionale, Università di Messina
Il verdetto in esame non può passare inosservato. Il numero di commenti a caldo della sua pubblicazione lo dimostra. Questa decisione obbliga la comunità scientifica ad interrogarsi sin da subito su alcune ricadute pratiche

1. Considerazioni introduttive in tema di «incalcolabilità» del diritto e delle decisioni giudiziarie

La sentenza n. 251 del 2016 costituisce una di quelle decisioni (peraltro non rare nella giurisprudenza della Corte costituzionale italiana e, in genere, dei Tribunali costituzionali) che, giungendo a conclusioni particolarmente innovative, presentano plurime chiavi di lettura e meritano di essere studiate per evidenziare se la novità costituisca uno sviluppo coerente della giurisprudenza precedente o rappresenti un momento di svolta, se non di rottura, rispetto al passato. Gli esempi che potrebbero farsi al riguardo sono tanti, assai varie sono le tematiche interessate e parimenti diversificati sono i profili di novità introdotti. In una certa misura, la capacità di “innovare” la propria giurisprudenza rientra nella natura e nel carattere della Corte costituzionale, «organo formalmente estraneo al sistema della tripartizione dei poteri, ma sostanzialmente dotato di cómpiti di giustizia, più che solo di stretta giurisdizione, esso svolge come una funzione respiratoria dell’ordinamento, indispensabile nella dimensione costituzionale della convivenza»[1].

La sentenza n. 251 rientra, a pieno titolo, nel genus di pronunzie sopra indicato. Essa, infatti, sembra andare ben al di là di una mera evoluzione della giurisprudenza precedente, di cui pure parla lo stesso giudice delle leggi nella “sintesi” della pronunzia de qua[2]. Lo sviluppo «in senso evolutivo», richiamato nella sintesi citata, presuppone, infatti, un elemento di discontinuità in un quadro di sostanziale continuità rispetto al precedente. Ma, talvolta, l’aggiunta di un ulteriore elemento di discontinuità o di rottura determina, in maniera netta, il superamento delle affermazioni pregresse, con la conseguenza che non si può più parlare di una mera evoluzione bensì di una decisa innovazione.

In questo senso sembra muoversi la sentenza in parola con la quale la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di alcune disposizioni della legge n. 124 del 2015, recante deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche (meglio nota come legge Madia)[3], nella parte in cui prevedevano che i relativi decreti legislativi fossero adottati previa acquisizione del parere reso in sede di Conferenza unificata, anziché previa intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni.

In sostanza, sull’assunto di un inestricabile intreccio di competenze legislative dello Stato e delle Regioni, la Corte ha imposto la ricerca dell’intesa prima dell’adozione di alcuni dei decreti legislativi previsti nella legge. Basterebbero, forse, già queste poche parole per cogliere la portata di una decisione che fa discendere dal principio costituzionale di leale collaborazione[4] una sostanziale trasformazione nell’esercizio della funzione legislativa delegata (se non di quella legislativa tout court) in materie che interferiscono con le competenze regionali.

L’ampiezza e la complessità delle questioni che stanno dietro a questa pronunzia, unitamente ai profili di assoluta novità del decisum, fanno venire alla mente le riflessioni di Natalino Irti sulla «incalcolabilità» del diritto e sul «decidere secondo valori». L’illustre maestro, richiamando il pensiero di Schmitt sulle clausole generali, sottolinea «l’irruzione di criteri di giudizio, che non si richiamano alla logica sussuntiva della fattispecie e offrono immediata risposta alle situazioni di vita». Si tratta di criteri «che riposano, non più sull’oggettività di norme calcolabili, ma sull’incontrollabile soggettivismo della decisione»[5].

Aggiunge Irti: «La calcolabilità non esclude il nichilismo giuridico (…) ma lo rinserra in vincoli procedurali e in coerenze argomentative: appunto, il salvagente della forma»[6]. In questa prospettiva, dunque, l’unico argine è costituito dai «vincoli procedurali» e dalle «coerenze argomentative». La scelta è pertanto «fra un volere creativo di calcolabile oggettività e un volere immerso nell’immediato soggettivismo».

Pur nei limiti del giudizio deciso con la sentenza qui annotata, è questa la direzione di marcia che deve essere seguita nella disamina della decisione de qua. In sostanza, fino a che punto è stato garantito il «salvagente della forma»? In che misura la presente pronunzia assicura quella «coerenza argomentativa» tale da assicurare un minimo di «calcolabilità» della stessa? Sono queste le domande alle quali si tenterà di fornire una risposta.

2. La tempistica della decisione e qualche proposta “audace” sulla gestione dei tempi

La sentenza n. 251 offre diversi livelli di lettura e, all’interno di essi, differenti chiavi di interpretazione. Il primo livello di lettura – sempre piuttosto opinabile – è senz’altro quello politico o, rectius, di polemica politica, che, nel caso di specie, concerne i tempi di deposito e di pubblicazione di questa decisione rispetto sia all’esercizio della delega censurata sia allo svolgimento del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016[7].

La sentenza in esame è stata, infatti, depositata in cancelleria il 25 novembre 2016 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale, serie Corte costituzionale del 30 novembre 2016, n. 48, dunque pochi giorni prima dello svolgimento del referendum costituzionale. Non vi è dubbio che l’agenda della Corte non possa essere condizionata dai tempi della politica o della campagna referendaria (e in genere, di quella elettorale), specie se, come in questo caso, non vi è una diretta incidenza sul giudizio in corso ma solo un generico riflesso sull’azione politica del Governo in carica. In realtà, però, in qualche caso è sembrato che la Corte, attraverso il rinvio di questioni già fissate, abbia voluto smorzare le tensioni politiche. Si allude, in particolare, al recente rinvio dell’udienza pubblica di discussione delle questioni sollevate sulla legge elettorale (n. 52 del 2015), originariamente fissata il 4 ottobre 2016.

Più complesso appare il discorso relativo alla tempistica rispetto all’esercizio di una parte della delega in parola. Infatti, il termine per l’adozione del decreto legislativo sulla dirigenza pubblica (ex art. 11 della legge n. 124 del 2015) scadeva il 26 novembre 2016 (in virtù della proroga disposta dallo stesso art. 11, co. 2, periodo 3)[8]. Il decreto de quo era stato approvato in via definitiva dal Consiglio dei ministri il 24 novembre 2016 e quindi, al momento del deposito della sentenza, era all’esame del Presidente della Repubblica per la sua emanazione. Come si vede, il deposito della sentenza è avvenuto fra l’approvazione definitiva di uno dei decreti delegati più importanti (e quindi più attesi) e la sua emanazione da parte del Capo dello Stato.

Ancora una volta occorre ribadire che nessun vincolo a carico della Corte può desumersi dalla tempistica prevista per l’esercizio della delega ma, forse, sarebbe stato opportuno attendere l’adozione di quest’ultimo decreto, anche in ragione del fatto che erano già stati emanati altri decreti previsti nelle disposizioni della legge delega dichiarate incostituzionali.

In proposito, si potrebbe obiettare che, in ragione della natura procedimentale del vizio rilevato dalla Corte e della sua inevitabile ricaduta sulla validità dei decreti delegati, sarebbe stato preferibile che il giudizio della Corte si svolgesse prima dell’emanazione degli stessi decreti. Ma c’erano i tempi tecnici perché la Corte decidesse entro la scadenza del primo termine previsto nella legge di delega (28 agosto 2016)?

L’atto introduttivo del giudizio sulla delega (ric. n. 94 del 2015) è stato depositato in cancelleria il 19 ottobre 2015 ed è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 16 dicembre 2015, n. 50. Com’è noto, l’art. 35 della legge n. 87 del 1953 prevede che, nel caso del giudizio in via d’azione e dell’impugnazione degli statuti regionali, «la Corte costituzionale fissa l’udienza di discussione del ricorso entro novanta giorni dal deposito dello stesso». Questa disposizione è costantemente interpretata nel senso che il decreto di fissazione (e di nomina del relatore) deve essere adottato entro novanta giorni dal deposito del ricorso e non nel senso che l’udienza deve avere luogo entro il termine in parola. A ciò si aggiunga che l’art. 9 della legge cost. n. 1 del 1953 prevede che «il Presidente della Corte, quando lo ritenga necessario, può con provvedimento motivato ridurre fino alla metà i termini dei procedimenti».

Il decreto di fissazione dell’udienza è del 7 aprile 2016 (mentre i 90 giorni previsti scadevano il 17 gennaio) e il ricorso è stato discusso nell’udienza del 19 ottobre 2016. Da quanto appena detto sembrerebbe dedursi che, anche senza ricorrere alla riduzione dei termini, la Corte avrebbe potuto calendarizzare e decidere le questioni di legittimità costituzionale della legge Madia prima della scadenza del termine delle deleghe censurate. Occorre, però, precisare che nell’anno 2015 sono stati depositati ben 104 ricorsi in via d’azione (che, ovviamente, si aggiungono a quelli promossi negli anni precedenti e non ancora decisi), con la conseguenza di creare un inevitabile rallentamento nella fissazione e nella discussione degli stessi.

Ragionando in questi termini si arriva alla conclusione (apparentemente contraddittoria) che, per un verso, appare inopportuno il deposito della sentenza della Corte un giorno prima della scadenza di una delle deleghe, mentre, per altro verso, sarebbe stata preferibile (ma non del tutto praticabile per le ragioni tecniche sopra esposte) una decisione prima dell’adozione di tutti i decreti legislativi (e non solo di uno).

Alla luce di quanto detto, una soluzione praticabile poteva essere quella della riduzione dei termini, in modo da pervenire alla definizione del giudizio di costituzionalità prima dell’adozione dei decreti, ma, in prospettiva futura, può ipotizzarsi anche un’altra via d’uscita, praticabile in tutti i casi di ricorso promosso da una o più Regioni nei confronti di una legge di delega. L’art. 35, nel testo modificato dall’art. 9 della legge n. 131 del 2003, prevede che «qualora la Corte ritenga che l’esecuzione dell’atto impugnato o di parti di esso possa comportare il rischio di un irreparabile pregiudizio all’interesse pubblico o all’ordinamento giuridico della Repubblica, ovvero il rischio di un pregiudizio grave ed irreparabile per i diritti dei cittadini, trascorso il termine di cui all’articolo 25, d’ufficio può adottare i provvedimenti di cui all’articolo 40». L’art. 40, com’è noto, prevede la possibilità di una sospensione, «per gravi ragioni», dell’esecuzione degli atti che hanno dato vita al conflitto di attribuzione tra Stato e Regione ovvero tra Regioni.

In sostanza, la Corte, in un giudizio promosso in via d’azione nei confronti di una norma di delega (e quindi in pendenza del termine per il suo esercizio), potrebbe, qualora ne sussistano le condizioni, disporre la sospensione dell’efficacia della norma di delega impugnata, in modo da consentire lo svolgimento del sindacato di costituzionalità evitando il decorso del termine della delega stessa. In questo modo il giudizio della Corte avverrebbe nel rispetto dei tempi tecnici, senza forzature e contrazioni del contraddittorio, e, al contempo, non si esaurirebbe il tempo a disposizione del Governo per l’esercizio della delega, che sarebbe sospeso.

Questa soluzione va, però, incontro a tre ostacoli.

Il primo deriva dalla natura apparentemente “audace” o “temeraria” della soluzione proposta, aggravata dal fatto che fin qui non è mai stata disposta dalla Corte la sospensione dell’efficacia di una legge o di un atto avente forza di legge. Quanto appena detto non preclude, di per sé, l’utilizzo di questo strumento (stante la perdurante vigenza della previsione normativa), ma certamente presuppone una convinta adesione di larga parte dei giudici costituzionali[9]. Ma ciò che rende “audace” la proposta qui formulata è la ricaduta politica che la sospensione di una legge statale (che, peraltro, può essere disposta anche d’ufficio[10]) avrebbe sul piano dei rapporti tra la maggioranza parlamentare e le opposizioni, oltre che dei rapporti tra la Corte stessa e gli organi di indirizzo politico. A conti fatti, però, nel caso di impugnativa in via principale di una delega in corso di esercizio, questa soluzione eviterebbe gli inconvenienti legati alle conseguenze della eventuale decisione di accoglimento sui decreti emanati o emanandi.

Il secondo ostacolo è legato al superamento di un’obiezione di fondo: l’eventuale sospensione dell’efficacia della norma di delega comporta automaticamente la sospensione del decorso del termine per il suo esercizio? Non sembrerebbe esservi dubbio alcuno sulla risposta positiva, posto che, altrimenti, la sospensione finirebbe con il vanificare l’esercizio stesso della delega o con il ridurre significativamente il tempo a disposizione del Governo delegato[11].

Infine, il terzo ostacolo concerne la sussistenza dei presupposti per l’adozione del provvedimento di sospensione. In questo caso, infatti, la Corte dovrebbe preventivamente accertare «il rischio di un irreparabile pregiudizio all’interesse pubblico o all’ordinamento giuridico della Repubblica, ovvero il rischio di un pregiudizio grave ed irreparabile per i diritti dei cittadini», che deriverebbero dall’esercizio di una delega incostituzionale.

Se questi ostacoli risultano superabili (come pare), la soluzione prospettata si appalesa come la più congeniale per evitare molte delle difficoltà operative che la dichiarazione di incostituzionalità di una norma di delega pone in caso di totale o parziale esercizio della stessa.

3. Il thema decidendum

Un secondo livello di lettura è quello giuridico-costituzionale che, a sua volta, può trovare svolgimento secondo prospettive di indagine diverse. Si pensi, solo a titolo esemplificativo, alle seguenti: rapporti tra competenze legislative statali e regionali, rapporti tra legislatore delegante e delegato; riflessi sul sistema delle fonti; ricadute di tipo ordinamentale sul c.d. sistema delle Conferenze.

Nel giudizio definito con la sentenza n. 251 del 2016 la Corte costituzionale era chiamata a decidere sul ricorso promosso dalla Regione Veneto avverso numerose norme contenute in sette articoli[12] della legge n. 124 del 2015. Pur riguardando disposizioni – e quindi aree tematiche – diverse, la gran parte delle censure[13] mosse dalla ricorrente era accomunata dalla medesima ratio, che consisteva nell’asserita compressione delle competenze legislative regionali in alcuni ambiti materiali e soprattutto in materia di organizzazione amministrativa degli uffici regionali, oltre che nella violazione del principio di leale collaborazione e di alcuni parametri “extracompetenziali”[14] (artt. 3 e 97 Cost.).

Dunque, le questioni promosse investivano vari profili della «riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche» (oggetto della delega, come riportato nel titolo della legge), così sinteticamente individuabili: la cittadinanza digitale (art. 1), la dirigenza pubblica (art. 11), il lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni (art. 17), le partecipazioni azionarie delle amministrazioni pubbliche (art. 18) e i servizi pubblici locali di interesse economico generale (art. 19). Alle disposizioni appena individuate si aggiungevano: l’art. 16, concernente le procedure e i criteri comuni per l’esercizio delle deleghe legislative di semplificazione (previste negli artt. 17, 18 e 19), e l’art. 23, recante le disposizioni finanziarie.

Per ciascuna di queste disposizioni o blocchi di disposizioni la Regione Veneto muoveva dall’assunto della loro interferenza con ambiti materiali riservati alla sua competenza legislativa (che erano dettagliatamente individuati) e, di conseguenza, stigmatizzava l’insufficienza dei meccanismi collaborativi previsti dalla legge, consistenti unicamente nella previsione dell’acquisizione del parere della Conferenza unificata di cui all’art. 8 del d.lgs. n. 281 del 1997. In particolare, la ricorrente si doleva della violazione del principio di leale collaborazione sotto tre profili (indicati nel punto 1, lett. i, ii e iii, della parte motiva del ricorso), che erano sostanzialmente ribaditi per ciascun blocco di censure:

i) il termine per il parere della Conferenza unificata era ritenuto «eccessivamente breve»;

ii) il suddetto parere era considerato «uno strumento di partecipazione inidoneo ad assicurare una adeguata ponderazione degli interessi e delle esigenze delle autonomie». Al riguardo, era richiamata la sent. n. 31 del 2005 ed in particolare il seguente passaggio: «Ciò rende necessario garantire un più incisivo coinvolgimento di tali enti nella fase di attuazione delle disposizioni censurate mediante lo strumento dell’intesa» (corsivo non testuale);

iii) «la prescrizione collaborativa, quando non vi sia una interferenza con le materie regionali, non può ridursi (come fa invece la norma impugnata) al semplice decorso del tempo, previsto come unica condizione per l’adozione unilaterale dell’atto ad opera dello Stato». Ancora una volta era richiamata una pronunzia della Corte (sent. n. 39 del 2013) e, in particolare, il passaggio in cui si afferma che l’accentramento dell’esercizio di funzioni amministrative da parte dello Stato «può aspirare a superare il vaglio di legittimità costituzionale solo in presenza di una disciplina che prefiguri un iter in cui assumano il dovuto risalto le attività concertative e di coordinamento orizzontale, ovverosia le intese, che devono essere condotte in base al principio di lealtà».

In sintesi, le censure formulate dalla Regione ricorrente si articolavano nei seguenti tre punti:

1) la disciplina dettata dalla legge de qua interferisce, in numerose parti, con le competenze legislative regionali (in primis, in materia di organizzazione amministrativa regionale);

2) siffatte interferenze non sono risolvibili «con il mero criterio della prevalenza del legislatore statale»;

3) la forma di raccordo con le Regioni, prevista nelle disposizioni impugnate, è «altamente insufficiente, lesiva del principio di bilateralità, in quanto il mancato raggiungimento dell’accordo (il cui termine peraltro è decisamente troppo breve) legittima, di per sé, l’assunzione unilaterale di atti normativi in contrasto con quanto ripetutamente affermato dalla giurisprudenza costituzionale» (punto 6 del ricorso).

4. Petitum e decisum a confronto: una decisione extra petita?

Se, dunque, quelle sopra riportate erano le ragioni di censura addotte dalla ricorrente, la doglianza, formulata da quest’ultima circa l’inidoneità e l’inadeguatezza della previsione di un mero parere sugli schemi di decreti legislativi attuativi della delega, è stata interpretata dalla Corte come una richiesta di un intervento più forte della stessa Regione già nella fase di formazione dei decreti e non, invece, come la domanda di un’additiva di intesa nella fase di attuazione della normativa delegata.

In realtà, dalla lettura del ricorso introduttivo del giudizio deciso con la sentenza n. 251 e del Ritenuto in fatto della medesima decisione sembra dedursi che il petitum della Regione ricorrente non consisteva affatto in una richiesta di intesa nel procedimento di formazione dei decreti. Non vi è, infatti, alcuna traccia di questa domanda nel ricorso (sia nella parte motiva sia nelle conclusioni), né, di conseguenza, nella sintesi operata dalla Corte nella motivazione in fatto della pronunzia. Inoltre, la Regione Veneto, a sostegno dell’inidoneità della mera previsione del parere, richiama (punto 1, lett. ii. del ricorso) la sentenza n. 31 del 2005 là dove si afferma la necessità di «un più incisivo coinvolgimento di tali enti nella fase di attuazione delle disposizioni censurate mediante lo strumento dell’intesa». In questo caso, però, le disposizioni impugnate non erano contenute in una legge delega e, quindi, l’attuazione a cui la Corte fa riferimento è quella in sede amministrativa.

Nella sentenza n. 251 del 2016, il giudice delle leggi riprende la motivazione della decisione appena citata con la differenza (non marginale) che in questo caso l’attuazione della normativa impugnata è quella che si realizza con l’adozione dei decreti legislativi. La Corte, dunque, va oltre la domanda formulata dal ricorrente. D’altra parte, se quest’ultimo davvero avesse voluto chiedere l’additiva di intesa per l’adozione dei decreti legislativi, probabilmente si sarebbe preoccupato di motivare la necessità del superamento di una giurisprudenza granitica in senso opposto alla sua domanda, motivazione che, invece, è del tutto assente nel ricorso.

Ciò nonostante, non ci si deve certo stupire che la Corte vada al di là della domanda del ricorrente. Non si tratta, peraltro, di un caso isolato. Sorprende, invece, l’apparente disinvoltura con cui i giudici costituzionali ritengono di poter superare i loro numerosi precedenti tutti conformi nel ritenere che le procedure di leale collaborazione non trovano applicazione nell’esercizio della funzione legislativa.

A questo punto, però, è necessario riassumere i passaggi essenziali della motivazione della sentenza qui commentata (punto 3 del cons. dir.). La Corte parte dalla constatazione della complessità delle norme contenenti le deleghe censurate, oltre che della complessità degli stessi «fenomeni sociali» disciplinati, evidenziando la «fitta trama di relazioni» dalla quale emergono interessi distinti, riconducibili alle competenze normative sia dello Stato sia della Regione. Al riguardo è richiamata la costante giurisprudenza costituzionale che impone di verificare l’esistenza di una materia prevalente sulle altre, sì da poter individuare, in maniera precisa, la relativa competenza legislativa.

Qualora siffatta operazione risulti impossibile, l’unico modo per venire a capo di questa «concorrenza di competenze» è il ricorso al principio di leale collaborazione e agli strumenti a tal fine previsti, in primis pareri e intese. In proposito la Corte riprende una formula, presente più volte nelle sue pronunzie, secondo cui l’applicazione del principio di leale collaborazione è tanto più apprezzabile alla luce della «perdurante assenza di una trasformazione delle istituzioni parlamentari e, più in generale, dei procedimenti legislativi». Questa precisazione, dopo il fallimento del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, è probabile che sparisca dalle decisioni del giudice delle leggi, essendo ormai divenuta nient’altro che una clausola di stile.

A sostegno dell’esigenza di assicurare un adeguato coinvolgimento delle Regioni, mediante lo strumento dell’intesa, la Corte richiama anche la sua giurisprudenza sulla c.d. attrazione in sussidiarietà. Sebbene si precisi che si tratta di una «diversa ipotesi», che presuppone l’esistenza di «esigenze unitarie» tali da giustificare l’attrazione sia della funzione amministrativa sia di quella legislativa, il giudice delle leggi sottolinea la comune (rispetto al giudizio sulla legge Madia) necessità di «una disciplina che prefiguri un iter in cui assumano il dovuto risalto le attività concertative e di coordinamento orizzontale, ovverosia le intese, che devono essere condotte in base al principio di lealtà».

Dunque, la Corte richiama la sua consolidata giurisprudenza sull’imprescindibilità di reiterate trattative al fine del raggiungimento dell’intesa per la formazione degli atti amministrativi attuativi delle norme censurate, nel caso in cui queste ultime incidano su competenze legislative diverse, con la precisazione che, anche in queste ipotesi, «lo Stato non abdic[a] al suo ruolo di decisore» qualora le trattative non giungano ad un esito positivo.

Fino a questo punto la sentenza n. 251 potrebbe essere letta come una coerente prosecuzione della giurisprudenza consolidata. L’elemento di rottura è introdotto come una eccezione all’orientamento prevalente con le seguenti parole:

«È pur vero che questa Corte ha più volte affermato che il principio di leale collaborazione non si impone al procedimento legislativo. Là dove, tuttavia, il legislatore delegato si accinge a riformare istituti che incidono su competenze statali e regionali, inestricabilmente connesse, sorge la necessità del ricorso all’intesa.

Quest’ultima si impone, dunque, quale cardine della leale collaborazione anche quando l’attuazione delle disposizioni dettate dal legislatore statale è rimessa a decreti legislativi delegati, adottati dal Governo sulla base dell’art. 76 Cost.

Tali decreti, sottoposti a limiti temporali e qualitativi, condizionati quanto alla validità a tutte le indicazioni contenute non solo nella Costituzione, ma anche, per volontà di quest’ultima, nella legge di delegazione, finiscono, infatti, con l’essere attratti nelle procedure di leale collaborazione, in vista del pieno rispetto del riparto costituzionale delle competenze».

Sulla base di queste considerazioni la Corte passa all’esame nel merito delle censure mosse e, dopo aver accertato l’esistenza in quattro casi di un inestricabile intreccio di competenze, dichiara l’illegittimità costituzionale degli artt. 11, 17, 18 e 19 (gli ultimi tre in combinato disposto con l’art. 16) della legge n. 124 del 2015 nella parte in cui prevedono che i «relativi decreti legislativi attuativi» siano adottati previo parere della Conferenza unificata, anziché previa intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni.

5. I profili critici della motivazione

Il cuore della motivazione della sentenza n. 251, sintetizzato nel paragrafo precedente, si espone alle seguenti considerazioni critiche:

a) innanzitutto, il superamento dell’orientamento giurisprudenziale consolidato, secondo cui le procedure di leale collaborazione non possono trovare applicazione nell’esercizio della funzione legislativa, è realizzato individuando un’ipotesi eccezionale dai contorni indefiniti («Là dove, tuttavia, il legislatore delegato si accinge a riformare istituti che incidono su competenze statali e regionali, inestricabilmente connesse, sorge la necessità del ricorso all’intesa»). Perché mai solo qualora il legislatore delegato si accinga a riformare istituti che incidono su competenze statali e regionali è necessario il ricorso all’intesa? E se non si tratta di riformare istituti ma semplicemente di dettare una disciplina nuova per mezzo di delegazione legislativa valgono sempre le stesse considerazioni? E se a dettare la nuova disciplina è il Parlamento con una legge ordinaria cambia qualcosa? E perché mai la necessità del ricorso all’intesa dovrebbe venir meno nel caso di una legge ordinaria, anziché di un decreto legislativo[15]?

b) «Quest’ultima si impone, dunque, quale cardine della leale collaborazione anche quando l'attuazione delle disposizioni dettate dal legislatore statale è rimessa a decreti legislativi delegati, adottati dal Governo sulla base dell’art. 76 Cost.». Il ragionamento sviluppato dalla Corte in questo punto sembra spostare i termini della precedente giurisprudenza dalla natura dei procedimenti coinvolti (nel senso che, prima, le procedure collaborative si applicavano ai procedimenti di formazione degli atti amministrativi ma non a quelli degli atti legislativi) al tipo di attività esercitata (nel senso che, oggi, le procedure collaborative si applicano in caso di attuazione della normativa censurata, a prescindere che questa avvenga con atti amministrativi o con decreti legislativi). Così facendo, però, l’argomentazione della Corte si espone all’obiezione che l’esclusione delle procedure collaborative dall’esercizio della funzione legislativa si giustificava sulla base dell’esigenza di assicurare il libero svolgimento di quest’ultima, limitando i casi di codecisione alle sole ipotesi «imposte, direttamente o indirettamente, dalla Costituzione» (fra le tante, sentenza n. 33 del 2011[16]). Se si ragiona, invece, in termini di “attuazione”, il decreto legislativo viene degradato al rango di un qualsiasi atto amministrativo, svilendo la sua natura di atto avente forza di legge.

c) «Tali decreti, sottoposti a limiti temporali e qualitativi, condizionati quanto alla validità a tutte le indicazioni contenute non solo nella Costituzione, ma anche, per volontà di quest’ultima, nella legge di delegazione, finiscono, infatti, con l’essere attratti nelle procedure di leale collaborazione, in vista del pieno rispetto del riparto costituzionale delle competenze». Nel punto in esame la Corte discute di un’inevitabile attrazione («finiscono […] con l’essere attratti») dei decreti legislativi nelle procedure di leale collaborazione. Fin qui il giudice delle leggi aveva parlato di un’attrazione delle competenze amministrative e legislative (peraltro sulla base di una disposizione costituzionale, l’art. 118, che prevede una mutevole allocazione delle funzioni amministrative) ma mai dell’attrazione di atti normativi. Probabilmente, in questo caso l’attrazione deve essere interpretata in senso atecnico rispetto all’ipotesi della c.d. chiamata in sussidiarietà. Resta comunque un alone di incertezza sul significato di questa espressione.

d) Inoltre, stupisce non poco il fatto che fino alla sentenza n. 251 mai la Corte ha riscontrato un intreccio di competenze, così inestricabile da rendere necessario il ricorso all’intesa nella fase di formazione dei decreti legislativi, mentre nel presente giudizio siffatta inestricabile concorrenza di competenze viene rilevata ben quattro volte in altrettante disposizioni di delega. Eppure anche in passato la Corte aveva dovuto affrontare riforme organiche di interi settori normativi, si pensi, per tutti, ai giudizi svoltisi a seguito delle impugnazioni regionali del Codice dell’ambiente o del Codice dei contratti pubblici.

e) Infine, sulla scorta della pregressa giurisprudenza costituzionale non pare possibile conciliare il decisum della sentenza qui commentata con quanto affermato in passato, anche in modo piuttosto rigoroso[17]. Non occorrono particolari sforzi per rinvenire, pure in tempi recenti, affermazioni della Corte nella direzione opposta, nel senso cioè di riconoscere che «l’esercizio della funzione legislativa non è soggetto alle procedure di leale collaborazione»[18]. In proposito, la Corte ha anche precisato che «Meccanismi cooperativi potrebbero applicarsi ai procedimenti legislativi solo in quanto la loro osservanza fosse prevista da una fonte costituzionale, in grado di vincolare il legislatore statale, evenienza che qui certamente non ricorre» (sentenza n. 250 del 2015, punto 5 del cons. dir.).

È, però, nelle pronunzie più risalenti che si trovano le affermazioni più interessanti: ad esempio, nella sentenza n. 196 del 2004 si legge che «non è individuabile un fondamento costituzionale dell’obbligo di procedure legislative ispirate alla leale collaborazione tra Stato e Regioni» (nel caso di specie le ricorrenti sostenevano che dall’art. 11 della legge cost. n. 3 del 2011 fosse desumibile il principio costituzionale che prescrive «la partecipazione regionale al procedimento legislativo delle leggi statali ordinarie, quando queste intervengono in materia di competenza concorrente»). Inoltre, nella medesima decisione, la Corte richiama il contenuto dell’art. 2 del d.lgs. n. 281 del 1997, il quale prevede «solo un parere non vincolante della Conferenza Stato-Regioni sugli “schemi di disegni di legge e di decreto legislativo o di regolamento”, mentre non prevede ovviamente nulla di analogo per i decreti-legge, la cui adozione è consentita, ai sensi dell’art. 77, secondo comma, Cost., solo “in casi straordinari di necessità e di urgenza”; né è pensabile che il parere della Conferenza Stato-Regioni possa essere chiesto sul disegno di legge di conversione, che deve essere presentato immediatamente alle Camere e non può che avere il contenuto tipico di un testo di conversione».

Nella successiva sentenza n. 272 del 2005 la Corte riprende le argomentazioni appena esposte aggiungendo che «lo scrutinio di costituzionalità deve, invece, essere svolto con riferimento alla verifica del rispetto del principio di leale collaborazione in relazione alle singole disposizioni di disciplina della fase di attuazione delle disposizioni stesse. Né vale il richiamo operato dalla ricorrente a quanto statuito da questa Corte con la sentenza n. 520 del 1995, con la quale si è dichiarata la illegittimità costituzionale dell'art. 2, comma 1, della legge 24 febbraio 1995, n. 46, recante conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 23 dicembre 1994, n. 727, «nella parte in cui non prevede il parere delle Regioni interessate» nella fase, però, attuativa, relativa al «procedimento di riduzione delle quote individuali spettanti ai produttori di latte bovino». Inoltre, con una decisione coeva il giudice delle leggi aveva precisato che «non vi sono dubbi che un atto di intesa non possa produrre una vera e propria fonte normativa» (sentenza n. 270 del 2005, punto 19 del cons. dir.).

La rapida disamina delle principali pronunzie in materia dimostra, in modo evidente, che il semplice riferimento al principio di leale collaborazione non può costituire il fondamento costituzionale di cui è privo l’obbligo di procedure legislative ispirate al canone della concertazione e della codecisione.

Peraltro, è da notare che il caso deciso dalla Corte con la sentenza n. 251 del 2016 è ben diverso da quello in cui il ricorso a procedure collaborative è previsto dallo stesso legislatore delegante, il quale può liberamente decidere di coinvolgere nelle forme che reputa opportune le Regioni, per mezzo del sistema delle Conferenze. Altra cosa è, invece, l’imposizione di un obbligo al legislatore delegante di prevedere siffatte forme di coinvolgimento, addirittura nella forma dell’intesa.

6. Qualche considerazione finale sulle conseguenze della sentenza n. 251

Non vi è dubbio che la sentenza in esame non sia passata e non possa passare inosservata. D’altra parte, già il numero di commenti a caldo della sua pubblicazione lo dimostra. Questa decisione, oltre agli effetti “di lungo periodo” che potrà avere, obbliga la comunità scientifica ad interrogarsi sin da subito su alcune ricadute pratiche che possono essere così individuate:

a) La natura dell’intesa: l’unico modo per “contenere” gli effetti (altrimenti davvero dirompenti) della pronunzia in parola è quello di intendere l’intesa “imposta” come un’intesa in senso debole e non in senso forte[19]. In sostanza, l’imposizione del ricorso all’intesa in caso di inestricabile intreccio di competenze statali e regionali deve essere letta come obbligo a svolgere reiterate trattative affinché si possa giungere ad una soluzione condivisa, con la particolarità che, trattandosi di una legge delega, lo svolgimento di queste trattative dovrà conciliarsi con i tempi per l’esercizio della delega.

b) La sorte dei decreti legislativi già emanati: nell’ultimo punto del considerato in diritto la Corte, con una frase sibillina, precisa che «Le pronunce di illegittimità costituzionale, contenute in questa decisione, sono circoscritte alle disposizioni di delegazione della legge n. 124 del 2015, oggetto del ricorso, e non si estendono alle relative disposizioni attuative. Nel caso di impugnazione di tali disposizioni, si dovrà accertare l’effettiva lesione delle competenze regionali, anche alla luce delle soluzioni correttive che il Governo riterrà di apprestare al fine di assicurare il rispetto del principio di leale collaborazione». È stato acutamente rilevato che, probabilmente, quest’ultima affermazione è il frutto del compromesso raggiunto in seno al Collegio all’esito della decisione sopra esposta[20]. Ciò nondimeno, resta l’incertezza sul significato di questa frase. Trattandosi, infatti, di un vizio procedurale (mancato ricorso all’intesa per l’adozione di alcuni decreti legislativi) non si comprende cosa debba ulteriormente accertarsi («si dovrà accertare l’effettiva lesione delle competenze regionali»). È stato rilevato che, in questo caso, sarebbe stato più coerente “travolgere” i decreti delegati con l’illegittimità conseguenziale[21] ma a questa obiezione si può replicare notando come la Corte sia piuttosto restia a utilizzare questo strumento nei giudizi promossi in via d’azione, stante la natura politica delle relative impugnazioni. Occorre aggiungere che, nel momento della decisione sulla delega, erano già stati depositati tre ricorsi avverso altrettanti decreti.

Semmai la sorte dei decreti già emanati deve essere distinta a seconda della norma di riferimento nella legge di delega. In particolare, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di quattro norme di delega (artt. 11, 17, 18 e 19, in combinato disposto con l’art. 16), una delle quali non ancora esercitata, due esercitate solo in parte, una interamente esercitata.

La delega di cui all’art. 11, in materia di dirigenza pubblica, è stata esercitata dal Governo solo per quel che riguarda la dirigenza sanitaria (d.lgs. n. 171 del 2016). Quella di cui all’art. 17 è stata esercitata solo per quel che concerne il licenziamento disciplinare (d.lgs. n. 116 del 2016) ma non per gli altri profili concernenti il lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche. La delega prevista all’art. 18 ha portato all’adozione del d.lgs. n. 175 del 2016 in materia di società a partecipazione pubblica. Infine, la delega in materia di servizi pubblici locali (art. 19) non è stata ancora esercitata e quindi sarà necessaria l’adozione di un decreto legislativo previa intesa in Conferenza Stato-Regioni.

Al contempo, però, la stessa ricorrente (Regione Veneto) ha impugnato, in via d’azione, tre decreti legislativi: il d.lgs. n. 171 del 2016 (ex art. 11 della legge n. 124 del 2015) con il ricorso n. 75 del 2016[22]; il d.lgs. n. 175 del 2016 (ex art. 18 della legge n. 124 del 2015) con il ricorso n. 76 del 2016[23]; il d.lgs. n. 179 del 2016 (ex art. 1 della legge n. 124 del 2015) con il ricorso n. 77 del 2016[24].

Qual è la sorte di questi ricorsi pendenti? Abbastanza scontata nel senso della non fondatezza appare quella del ric. n. 77 del 2016, alla luce del fatto che la Corte, nella sentenza qui commentata, ha escluso che l’art. 1 della legge delega violi le competenze regionali.

Parimenti segnata ma nel senso opposto (ovverosia della fondatezza) appare la sorte degli altri due decreti (nn. 171 e 175 del 2016), posto che la Corte ha già accertato l’interferenza con le competenze regionali. È, però, plausibile ritenere che nelle more del giudizio di costituzionalità il Governo adotti nuovi decreti nelle materie in questione, rispettando il vincolo procedurale imposto dalla sentenza n. 251. Di conseguenza, è probabile che i relativi giudizi si concludano con una decisione di estinzione nel caso di rinuncia al ricorso accettata dal resistente.

Nel frattempo, i decreti già adottati ed entrati in vigore continueranno a produrre i loro effetti, salva ovviamente la possibilità che venga sollevata una questione di legittimità costituzionale in via incidentale. Quest’ultima soluzione sembra segnare il destino del d.lgs. n. 116 del 2016 (sempre che, nel frattempo, non sia adottato un nuovo decreto previa intesa). In tal caso, infatti, il decreto non è stato oggetto di impugnazione in via d’azione, per cui l’unico modo per far valere il vizio in procedendo derivante dall’illegittimità dell’art. 17 della legge di delega è quello di adire la Corte in via incidentale.

c) Le sedi della concertazione: non vi è dubbio che la decisione in esame determini un deciso rafforzamento del sistema delle Conferenze che continua ad essere privo di un’esplicita previsione nella Carta costituzionale ma che, ciò nonostante, rappresenta sempre più il “braccio armato” del modello di regionalismo italiano. Non vi è decisione di rilievo regionale che non passi oggi dal filtro delle Conferenze, in cui peraltro sono rappresentati solo gli esecutivi regionali. Il fallimento del referendum sul testo di riforma costituzionale, che prevedeva la trasformazione del Senato in una Camera delle autonomie, ha poi determinato un effetto indiretto di potenziamento del sistema delle Conferenze, che è rimasto l’unico luogo di concertazione. In particolare, la sentenza n. 251, sostituendo la previsione del parere in Conferenza unificata con quella di un’intesa in Conferenza Stato-Regioni, dà un riconoscimento significativo a quest’ultima rispetto alla Conferenza unificata in cui sono presenti anche gli enti locali. D’altra parte, discutendosi di competenze legislative, non poteva essere altrimenti.

L’indubbio rafforzamento del sistema delle Conferenze stride, ancor di più, alla luce dei limiti che queste sedi concertative presentano, primo fra tutti il deficit di pubblicità dei lavori e l’insufficiente collegamento con le assemblee legislative regionali[25]. Queste considerazioni devono far riflettere sull’opportunità, stante il fallimento del disegno di riforma della Costituzione[26], di “rispolverare” la previsione dell’art. 11 della legge cost. n. 3 del 2001, che prevede l’integrazione con i rappresentanti delle Regioni, delle Province autonome e degli enti locali della Commissione bicamerale per le questioni regionali.

d) I riflessi sul sistema delle fonti: la sentenza in parola merita di essere esaminata anche per i suoi riflessi sul sistema delle fonti. Innanzitutto, è da chiedersi perché l’intreccio di competenze statali e regionali obblighi alla previsione di un’intesa sulla formazione dei decreti legislativi e non già a monte sulla stessa legge di delega. Se il fondamento dell’imposizione del ricorso all’intesa è individuato nell’inestricabile concorrenza di competenza, pare plausibile ritenere che già nel momento della “formazione” della delega debba trovare spazio il coinvolgimento delle Regioni. Se così non fosse la Corte sarebbe incorsa in una contraddizione: ammettendo, per un verso, che la legge di delega abbia una propria autonomia lesiva delle competenze regionali ma, per altro verso, che la lesione di queste competenze si produca a seguito della mancata previsione dell’intesa per i relativi decreti e non già per il fatto stesso di legiferare su siffatta materia[27].

Occorre inoltre chiedersi se il decreto legislativo adottato previa intesa (imposta dalla concorrenza di competenze) costituisca una nuova species del genus decreto delegato. Il solo fatto di essere stato adottato previa intesa sembra condurre al riconoscimento di una maggiore forza passiva, al punto da non poter essere modificato da un decreto legislativo o da una legge che non siano adottati previa intesa. Men che meno da un decreto-legge che, per sua natura, non può soggiacere a siffatti vincoli procedurali. Se così fosse, avremmo una nuova fonte atipica, in palese contraddizione con il necessario fondamento costituzionale di questa tipologia di fonti[28].

e) I rapporti tra legislatore statale e legislatore regionale: una riflessione finale deve essere riservata alla complessiva portata di questa sentenza sul piano dei rapporti tra Stato e Regioni. Detto banalmente, si tratta di una decisione filo-regionalista o filo-statalista? Apparentemente il rispetto del riparto di competenze è assicurato dall’imposizione dell’intesa, ma, anche a prescindere dal fatto che il ricorrente chiedesse la caducatoria secca delle norme impugnate[29], la sentenza de qua bilancia la sottrazione in capo ai legislatori regionali delle competenze legislative in alcune materie con la previsione di un coinvolgimento dei loro esecutivi, traducendosi a conti fatti in una deminutio per l’autonomia legislativa regionale[30]. Francamente non sembra questa la strada per la realizzazione di un regionalismo maturo che veda le sedi della rappresentanza politica regionali come autentici protagonisti almeno sul piano legislativo, ma forse non c’è da stupirsi molto di ciò, se è vero che il regionalismo italiano da tempo ha smarrito il sentiero di marcia e procede a tentoni.

 


[1] Secondo l’acuta definizione data dall’attuale Presidente della Corte (Relazione del Presidente Paolo Grossi sulla giurisprudenza costituzionale del 2015, in occasione della riunione straordinaria della Corte costituzionale, Roma, Palazzo della Consulta, lunedì 11 aprile 2016, disponibile in www.cortecostituzionale.it, p. 2 del paper), che sintetizza magistralmente i caratteri tipici della giurisdizione costituzionale.

[2] Il riferimento è alla Sintesi della sentenza n. 251 del 2016 relativa ad alcune deleghe della legge di riforma delle pubbliche amministrazioni, p. 1, redatta dalla stessa Corte e pubblicata in www.cortecostituzionale.it.

[3] Si tratta, com’è noto, della legge che prevede una profonda riforma della pubblica amministrazione, al punto da essere definita da F. Merusi, con un’espressione iperbolica, una legge “zibaldone” fondata sull’utilizzo di una «tecnica di “distrazione” dell’opinione pubblica» (L’“imbroglio” delle riforme amministrative, Mucchi Editore, Modena, 2016, spec. p. 30 ss.).

[4] Sulle declinazioni di questo principio, con riferimento al sistema delle Conferenze, si rinvia, fra i tanti scritti, a C. Bertolino, Il principio di leale collaborazione nel policentrismo del sistema costituzionale italiano, Giappichelli, Torino, 2007, spec. pp. 32 ss.; S. Agosta, La leale collaborazione tra Stato e Regioni, Giuffrè, Milano, 2008, spec. pp. 57 ss.; S. Mangiameli, Il principio cooperativo nell’esperienza italiana del primo e del secondo regionalismo, Aracne, Roma, 2008, spec. pp. 78 ss. e 117 ss.

[5] N. Irti, Un diritto incalcolabile, Giappichelli, Torino, 2016, p. 8.

[6] In questi termini Natalino Irti si era già espresso in Il salvagente della forma, Laterza, Roma-Bari, 2007, passim, ma la citazione è tratta da N. Irti, Un diritto incalcolabile, cit., p. 13.

[7] Sui tempi di decisione e di deposito della sentenza si veda J. Marshall (pseudonimo), La Corte costituzionale, senza accorgersene, modifica la forma di Stato?, in Giorn. dir. amm., 6/2016, pp. 709 s.

[8] Il termine per l’esercizio della delega sulla dirigenza pubblica era fissato per il 28 agosto 2016 ma l’art. 11, co. 2, periodo 3, prevede che «se il termine previsto per il parere [delle Commissioni parlamentari] cade nei trenta giorni che precedono la scadenza del termine previsto al comma 1 o successivamente, la scadenza medesima è prorogata di novanta giorni»; il termine per il parere scadeva il 25 ottobre 2016 e quindi quello per l’esercizio della delega è stato prorogato al 26 novembre.

[9] Si ritiene che sia necessaria la convinta adesione di larga parte dei giudici costituzionali non perché sia necessaria una maggioranza qualificata ma solo per evitare divisioni laceranti in seno al collegio.

[10] Al riguardo, né l’art. 35 (per i giudizi in via d’azione) né nell’art. 40 (per i conflitti tra enti) prevedono la necessità di un’istanza di parte.

[11] Secondo il Prof. Antonio Ruggeri, che ringrazio per il prezioso confronto su questo punto, la sospensione dell’efficacia della norma di delega e del suo termine determinerebbe una manipolazione “mascherata” degli effetti temporali della norma de qua ad opera della Corte, che può risultare contraddittoria con l’eventuale, successivo rigetto della questione di legittimità costituzionale.

[12] In particolare, ad essere impugnati erano i seguenti articoli: art. 1, comma 1, lettere b), c) e g), e comma 2; art. 11, comma 1, lettere a), b), numero 2), c), numeri 1) e 2), e), f), g), h), i), l), m), n), o), p) e q), e comma 2; art. 16, commi 1 e 4; art. 17, comma 1, lettere a), b), c), d), e), f), l), m), o), q), r), s) e t); art. 18, lettere a), b), c), e), i), l) e m), numeri da 1) a 7); art. 19, lettere b), c), d), g), h), l), m), n), o), p), s), t) e u); art. 23, comma 1.

[13] Fanno eccezione solo le questioni promosse avverso gli artt. 1, comma 1, e 23 della legge n. 124 del 2015 per violazione degli artt. 81 e 119 Cost., che, peraltro, sono state dichiarate inammissibili per un (evidente) difetto di motivazione sulla loro fondatezza.

[14] Con questo aggettivo si allude ai parametri costituzionali diversi da quelli relativi al riparto di competenze tra Stato e Regioni.

[15] J. Marshall (pseudonimo), La Corte costituzionale, senza accorgersene, modifica la forma di Stato?, cit., p. 706, rileva che limitare l’obbligo dell’intesa al solo caso di adozione di un decreto legislativo rischierebbe di avere un effetto disincentivante sul ricorso alla delega legislativa.

[16] In proposito, si cita non casualmente questa pronunzia in cui la Corte equipara al formale coinvolgimento in sede consultiva della Conferenza (che, nel caso di specie, non c’era stato) l’acquisizione, «sia pure in modo irrituale», di un parere.

[17] Negli stessi termini J. Marshall (pseudonimo), La Corte costituzionale, senza accorgersene, modifica la forma di Stato?, cit., pp. 705 ss. In senso diverso S. Agosta, Nel segno della continuità (più che della vera e propria svolta) l’apertura alla leale collaborazione tra Stato e Regioni della sent. n. 251/2016 sulla delega in materia di riorganizzazione della P.A., in corso di stampa di Quad. cost., 1/2017; A. Poggi, G. Boggero, Non si può riformare la p.a. senza intesa con gli enti territoriali: la Corte costituzionale ancora una volta dinanzi ad un Titolo V incompiuto, in federalismi.it, 25/2016, spec. p. 7, secondo i quali «La pronuncia in commento rappresenta quindi l’ultimo di una serie di tentativi da parte della Corte costituzionale di supplire alla perdurante assenza di istituzioni parlamentari che garantiscano la partecipazione delle autonomie territoriali al procedimento legislativo; allo stesso tempo, tuttavia, lungi dal qualificarsi come un’innovazione di carattere epocale, tale supplenza è stata circoscritta al procedimento legislativo delegato, oltreché coerentemente sviluppata nel solco di soluzioni organizzative già adottate non soltanto con riferimento a fonti secondarie, ma anche in relazione alle richiamate situazioni nelle quali il legislatore si era già trovato a disciplinare “fattispecie aggrovigliate” sulla base di esigenze unitarie (è il caso della “chiamata in sussidiarietà”, almeno nel suo modello originario)» (corsivi aggiunti).

[18] Fra le tante, sentenze nn. 65 e 43 del 2016, n. 250 del 2015, n. 63 del 2013, nn. 79 e 33 del 2011, nn. 278, 112, 100 e 16 del 2010, nn. 298, 284, 249 e 225 del 2009, nn. 371, 159 e 9 del 2008, nn. 401, 387 e 98 del 2007, n. 133 del 2006, n. 272 e 31 del 2005, n. 196 del 2004 e n. 437 del 2001.

[19] In questi termini E. Balboni, La Corte richiede e tutela la leale collaborazione tra Stato e Regioni… e l’intendenza seguirà, in Forum di Quad. cost., 10 gennaio 2017, p. 2.; A. Poggi, G. Boggero, Non si può riformare la p.a. senza intesa con gli enti territoriali: la Corte costituzionale ancora una volta dinanzi ad un Titolo V incompiuto, cit., p. 7 s. Sulla distinzione tra intese deboli e intese forti si veda, da ultimo, A. Candido, La leale collaborazione tra intese deboli e forti: una contrapposizione sbiadita, in Giur. cost., 1/2016, pp. 15 ss. ma spec. pp. 19 s. Sulla difficoltà di discernere le intese deboli dai pareri A. D’Atena, Sulle pretese differenze tra “intese deboli” e pareri nei rapporti tra Stato e Regioni, in Giur. cost., 6/1991, pp. 3908 s.

[20] E. Balboni, La Corte richiede e tutela la leale collaborazione tra Stato e Regioni… e l’intendenza seguirà, cit., p. 3.

[21] Così J. Marshall (pseudonimo), La Corte costituzionale, senza accorgersene, modifica la forma di Stato?, cit., p. 705.

[22] Pubblicato nella Gazzetta Ufficiale, serie Corte costituzionale, 28 dicembre 2016, n. 52.

[23] Pubblicato nella Gazzetta Ufficiale, serie Corte costituzionale, 4 gennaio 2017, n. 1.

[24] Pubblicato nella Gazzetta Ufficiale, serie Corte costituzionale, 4 gennaio 2017, n. 1.

[25] Al riguardo, si veda il Documento approvato dalla Commissione parlamentare per le questioni regionali a conclusione dell’indagine conoscitiva sulle forme di raccordo tra lo Stato e le autonomie territoriali, con particolare riferimento al ‘sistema delle Conferenze’, trasmesso alle Presidenze il 18 ottobre 2016, spec. p. 48 ss.

[26] A. Poggi, G. Boggero, Non si può riformare la p.a. senza intesa con gli enti territoriali: la Corte costituzionale ancora una volta dinanzi ad un Titolo V incompiuto, cit., pp. 14 ss., individuano il «vero nodo» della questione nella necessità di una sede di raccordo «legislativa per le riforme di “sistema”».

[27] Cfr. J. Marshall (pseudonimo), La Corte costituzionale, senza accorgersene, modifica la forma di Stato?, cit., p. 706.

[28] Su questi temi, che non possono essere qui adeguatamente affrontati, si rinvia ai più recenti studi in materia di delega legislativa, che prefigurano gli sviluppi della giurisprudenza costituzionale nei casi in cui la legge delega preveda l’acquisizione di un parere o addirittura di un’intesa in sede di Conferenza: E. Frontoni, Pareri e intese nella formazione del decreto legislativo, Editoriale Scientifica, Napoli, 2012, pp. 162 ss.; A. Alberti, La delegazione legislativa tra inquadramenti dogmatici e svolgimenti della prassi, Giappichelli, Torino, 2015, pp. 133 ss.; G. Marchetti, La delegazione legislativa tra Parlamento e Governo: studio sulle recenti trasformazioni del modello costituzionale, Giuffrè, Milano, 2016, pp. 308 ss.

[29] Nei paragrafi precedenti si è cercato di illustrare le ragioni per le quali si ritiene che la decisione della Corte sia andata extra petita.

[30] Sembra trattarsi, quindi, dell’ennesimo percorso di ricentralizzazione del regionalismo italiano (così M. Belletti, Percorsi di ricentralizzazione del regionalismo italiano nella giurisprudenza costituzionale. Tra tutela di valori fondamentali, esigenze strategiche e di coordinamento della finanza pubblica, Aracne, Roma, 2012).

23/01/2017
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