Magistratura democratica
Magistratura e società

Magistratura e associazionismo: in mezzo al guado

di Enrico Scoditti
consigliere della Corte di cassazione

L’associazionismo giudiziario ha apportato un contributo determinante per la costituzionalizzazione della figura del giudice funzionario di origine napoleonica. Il ripristino della carriera ha innescato i processi degenerativi che sono sotto gli occhi di tutti. A un primo passo per la possibile uscita dal guado in cui si trova l’associazionismo può contribuire la rete delle riviste dei magistrati.

La grave crisi dell’associazionismo giudiziario ha origini lontane. Essa non può essere affrontata se la riflessione non viene allargata al senso dello stesso associazionismo e al perché a un certo punto una siffatta esperienza ha acquistato centralità nella vita quotidiana dei magistrati. Genesi e sviluppo dell’associazionismo non sono a loro volta comprensibili se disancorati dal modello istituzionale mediante cui in Italia ha preso forma l’attività giurisdizionale. Il punto di avvio della riflessione deve dunque essere il modello del giudice funzionario, collocato all’interno di un apparato amministrativo, ma con le garanzie di indipendenza derivanti dal sistema costituzionale dell’autogoverno. Con l’avvento della Repubblica è stato recepito il modello del funzionario reclutato per concorso di origine napoleonica, ma è venuto meno l’inserimento nella gerarchia amministrativa. L’esempio italiano corrisponde in realtà al sistema diffuso nell’Europa continentale, salvo il caso tedesco, il quale non conosce il reclutamento mediante concorso. Deve essere tuttavia chiara la distinzione fra la forma istituzionale attraverso cui viene esercitata la funzione e la sostanza giurisdizionale di quest’ultima.

C’è una doppia caratterizzazione, quella di giudice e quella dell’assetto istituzionale, che può avere le forme più varie. Il vecchio Hegel colloca l’esercizio della giurisdizione nella società civile e non nello Stato perché il diritto viene attuato nel caso concreto, nel mondo cioè delle cosiddette cerchie particolari, anche se il grande filosofo non manca di includere nella struttura del potere esecutivo i singoli magistrati[1]. La forma istituzionale del funzionario non è naturalmente congenita alla funzione giudiziaria. Quella forma risponde alle esigenze del contesto istituzionale e della stessa struttura del diritto. Nel sistema statunitense, come è noto, vigono i criteri della nomina da parte di un altro potere costituzionale e dell’elezione diretta. Quei criteri rispondono a esigenze di bilanciamento fra poteri e di rappresentatività sociale del giudice che contraddistinguono la realtà nord-americana, alla luce della formazione del diritto non per via dell’atto di posizione del sovrano ma in forma cumulativa e progressiva mediante la casistica giudiziaria. Altre esigenze sono alla base del modello europeo-continentale. L’affermazione del modello napoleonico risponde all’identificazione di diritto e legge, quale superamento dell’antico regime nel quale la funzione giurisdizionale, depositaria del diritto e frammista a funzioni amministrative, era espressione dell’antica società per ceti. Il giudice espressione della società doveva essere spazzato via in nome dell’introduzione del principio di sovranità, transitato grazie alla rivoluzione del 1789 dalla forma assolutistica a quella democratica. Lo ius dicere doveva diventare legisdizione. Nell’ottica del cosiddetto legicentrismo era necessario il giudice funzionario, non distinguibile sotto questo aspetto dalla burocrazia amministrativa, fedele esecutrice della legge.

Giudice e burocrate svolgono una funzione diversa: il primo provvede all’attuazione del diritto, il secondo promuove l’interesse pubblico nei limiti del diritto. La struttura mediante cui questa funzione viene svolta è tuttavia la medesima ed è quella del funzionario reclutato per concorso, salvo l’introduzione del principio dell’autogoverno della magistratura con l’ordinamento repubblicano. Nel codice genetico del moderno magistrato di tradizione europeo-continentale c’è dunque il funzionario, sia quanto al rapporto con il diritto che quanto all’ideologia del ceto burocratico. Per una sorta di eterogenesi dei fini, al momento del passaggio all’ordinamento repubblicano il reclutamento per concorso ha acquistato un nuovo senso, funzionale alla nuova geografia del potere costituzionale. Da garanzia della fedele esecuzione della legge la selezione per concorso è diventata garanzia dell’autonomia e indipendenza della magistratura nel contesto della trasformazione di quest’ultima, per effetto dell’introduzione del principio dell’autogoverno, in potere diffuso. La nuova esigenza istituzionale non è quella americana dei checks and balances o della rappresentatività sociale, né tanto meno quella della creazione di un corpo di fedeli esecutori burocratici della legge, ma è quella dell’indipendenza dagli altri poteri, e segnatamente il potere esecutivo nella cui gerarchia amministrativa la magistratura era stata collocata una volta che l’antico regime era definitivamente tramontato. Anzi la fedeltà (soltanto) alla legge, come prevede la norma costituzionale, diventa garanzia d’indipendenza, e a quest’ultima mira pertanto, nel nuovo contesto dell’autogoverno, anche il reclutamento per concorso. Le istituzioni sono macchine imperfette, che nel corso del tempo progrediscono (quando non peggiorano) e acquistano sempre nuovi significati o qualità. Il corpo della magistratura, all’indomani della Costituzione, era ed è un corpo di funzionari reclutati per concorso, con tutto quanto ne consegue. La forma burocratica reca con sé non solo una certa visione del rapporto con la norma, ma anche una particolare ideologia di ceto, le cui caratteristiche sono le aspettative di carriera con le relative aspirazioni di promozione, il trattamento retributivo, lo status e il prestigio rispetto ad altri apparati.

È qui che entra in gioco l’associazionismo giudiziario. Non si tratta dell’origine storica perché la nascita dell’Associazione generale fra i magistrati d’Italia risale addirittura al 1909. Il vero atto di nascita dell’associazionismo, quale soggetto in grado di modificare il volto del giudice funzionario, è nel 1965 a Gardone, nel corso del XII congresso nazionale dell’Associazione nazionale magistrati, e nel contributo dato negli anni immediatamente successivi all’abolizione della carriera in magistratura, dando attuazione al principio costituzionale per il quale «i magistrati si distinguono fra loro soltanto per funzioni» (art. 107, comma 3, Cost.). Con il passaggio a una magistratura senza carriera fu sferrato un colpo durissimo alla forma burocratica dell’esercizio della funzione giudiziaria. Ma l’opera importante dell’associazionismo riguardò anche il rapporto fra il magistrato e la legge.

Guardando alla storia alle nostre spalle possiamo dire che il vero compito dell’associazionismo giudiziario è stato quello di liberare la funzione costituzionale, che il magistrato assolve, dalla cappa burocratica, in ciò che quest’ultima aveva di incompatibile con il nuovo assetto costituzionale. L’associazionismo è stato dunque un veicolo decisivo di costituzionalizzazione della magistratura. Si trattava di restituire alla funzione giurisdizionale il peso centrale rispetto alla contingente forma istituzionale, spostando l’asse di gravità dal funzionario al giudice. A partire da Gardone la soggezione alla legge diventa soggezione al diritto perché, come si scrisse nella mozione finale del congresso, il giudice «deve essere consapevole della portata politico-costituzionale della propria funzione di garanzia, così da assicurare, pur negli invalicabili confini della sua subordinazione alla legge, un’applicazione della norma conforme alle finalità fondamentali volute dalla Costituzione»[2]. Affonda in quegli anni l’habitus ormai quotidiano del giudice di interpretazione del diritto alla luce della complessità delle sue fonti, non solo quella nazionale, ma anche quelle sovranazionali e internazionali, con le inevitabili conseguenze anche sul piano della norma da applicare. Nel lontano 1997, nel saggio di apertura di un numero monografico della rivista Democrazia e diritto che si inseriva nel dibattito aperto dall’istituzione della Commissione parlamentare per la riforma costituzionale (cd. “Bicamerale D’Alema”), proposi di modificare l’art. 101, comma 2, Cost. nel senso: «i giudici sono soggetti soltanto alla Costituzione», immaginando una forma di controllo di costituzionalità diffuso da coordinare con quello accentrato della Corte costituzionale[3]. Quella proposta, oggi, nel contesto pluralistico delle fonti del diritto, non ha più senso ed è invece un bene che la nostra Carta fondamentale contenga la previsione di soggezione (soltanto) alla legge, non solo per il suo significato di garanzia dell’indipendenza della magistratura, ma anche perché, proprio in un ambiente di pluralismo delle fonti, è significativo che il giudice riconosca la centralità della forma di legge quale espressione della sovranità democratica. Proprio la maturazione e la consapevolezza della magistratura italiana circa la moderna complessità dell’esperienza giuridica può renderla immune da linee di fuga come la disapplicazione della norma nazionale per violazione della Cedu, come in passato qualcuno ha ritenuto, o da forme di competizione fra giurisdizione comune e giurisdizione costituzionale circa la tutela dei diritti fondamentali[4]. Non è più in discussione l’emancipazione della funzione giudiziaria dall’originaria impronta burocratica del giudice funzionario. Non è più necessario affermare, come fu fatto a Gardone, che ius dicere è nozione più ampia di legisdizione. Ciò che oggi è in discussione, anche nei termini drammatici che la cronaca quotidiana ha rappresentato, è l’altro lato dell’impronta burocratica del giudice funzionario, l’ideologia di ceto. Torniamo così al guado da cui, con il nostro titolo, eravamo partiti.

Nel 2006, fermo il principio della parità di retribuzione indipendentemente dalle funzioni svolte, viene reintrodotta la carriera e l’ideologia del ceto burocratico si riaffaccia prepotentemente. In un’altra stagione, negli anni sessanta, l’associazionismo si battette contro l’incompatibilità di quell’ideologia con la funzione giudiziaria e vinse la battaglia. Questa volta le aspirazioni di carriera si combinano con il principio dell’autogoverno e l’associazionismo, o meglio una certa versione dell’associazionismo, anziché la soluzione diventa il problema. Le aspirazioni di carriera sono legittime in un ordinamento burocratico che non conosce l’autogoverno dei funzionari amministrativi e non è un caso che la gerarchia costituisca un principio fondante degli apparati burocratici. Quando però alle “volontà di potenza” che germinano dal basso è data la possibilità di autogovernare la carriera mediante l’intermediazione dell’associazionismo, si apre una falla nel sistema attraverso la quale può entrare una diversa declinazione del rapporto fra magistratura e istituzioni dell’autogoverno. I fatti venuti alla luce quest’ultimo anno rappresentano il prodotto di tutto questo. Non è il modello del giudice funzionario la causa, lo è la deriva cui quel modello si presta nell’ambito del mix di carrierismo e autogoverno.

La caratterizzazione di giudice deve tornare a prevalere su quella di funzionario. L’associazionismo è davvero in mezzo al guado se è vero, come ha detto il Presidente Mattarella nel corso del suo intervento alla cerimonia del 18 giugno scorso, che «è indispensabile porre attenzione critica sul ruolo e sull’utilità stessa delle correnti interne alla vita associativa dei magistrati». In queste parole non si coglie la messa in discussione del principio dell’associazionismo giudiziario in quanto tale, perché esse seguono il richiamo alla necessità di «superare ogni degenerazione del sistema delle correnti» e precedono la riaffermazione del valore della dialettica fra le diverse posizioni «sui temi della organizzazione della giustizia e sul valore della giurisdizione». È questo il punto su cui misurare oggi ruolo ed utilità delle correnti. Proviamo a immaginare possibili vie d’uscita dal guado.

Il Presidente Mattarella ha identificato il soggetto protagonista oggi, quasi il titolare di un passaggio di testimone rispetto alla funzione formativa che in passato ebbe a svolgere l’associazionismo. «La Scuola superiore, particolarmente in questo momento, assume un ruolo decisivo per la formazione etica e professionale dei magistrati. Appare, pertanto, necessario che dedichi sessioni di studio apposite ai doveri di correttezza e trasparenza nell’esercizio delle funzioni giudiziarie affinché siano tradotti nei comportamenti a cui è tenuto ciascun magistrato, non soltanto nello svolgimento dell’attività giudiziaria ma anche nel servizio reso negli organi di governo autonomo». All’educazione costituzionale della magistratura che l’associazionismo svolse in decenni lontani subentra oggi un’istanza formativa di tipo diverso, di cui il soggetto responsabile è nelle parole del Presidente Mattarella la Scuola superiore, erede peraltro dell’importante lavoro formativo svolto dal Consiglio superiore della magistratura.

L’associazionismo potrebbe svolgere in questo quadro una funzione di sostegno dell’attività cui è preposta la Scuola. Quando parliamo di associazionismo intendiamo soprattutto il circuito delle riviste che lo esprimono. Nella fase del guado in cui si trova l’associazionismo, le riviste possono acquistare un ruolo da protagonista. La Magistratura, Questione giustizia, Giudice donna, Giustizia insieme, Il diritto vivente, Ars Iuris, sperando di non averne tralasciata nessuna, dovrebbero fare rete ed entrare in una logica cooperativa, concependo se stesse come sostegno alla formazione etica e professionale dei magistrati cui la Scuola è preposta.

Alle riviste dovrebbe inoltre essere affidato il compito di costituire il centro di elaborazione di idee per l’autogoverno. Dovrebbe questo (o tornare a) essere il cuore dell’associazionismo oggi. Il Consiglio superiore della magistratura determina l’indirizzo politico in tema di organizzazione della giustizia. Come è stato efficacemente scritto, se è vero che sono state attribuite al Csm le funzioni in materia di amministrazione della giurisdizione che spettavano al Ministro della giustizia e quindi al Governo, non si può «dubitare della natura “politica” di tali funzioni, non potendo cessare di essere tali solo in ragione del passaggio da un soggetto ad un altro»[5]. L’istituzione dell’autogoverno esprime così l’«indirizzo politico-giudiziario» quale amministrazione della giurisdizione come finalità generale[6]. Alla determinazione di questo peculiare indirizzo politico contribuisce il confronto di posizioni di cui è inevitabile che soggetti associativi si facciano portatori. Le riviste dovrebbero costituire la principale sede della discussione pubblica sulle scelte dall’autogoverno e sulle sue linee di sviluppo. Attraverso la rete delle riviste l’associazionismo dovrebbe dispiegarsi come spazio di democrazia dibattimentale rispetto a quella decidente dell’autogoverno. Di questa grande platea di discussione e confronto, sede di controllo e proposte, la scadenza elettorale dovrebbe essere solo l’effetto secondario. Ciò che dovrebbe qualificare l’associazionismo non dovrebbe essere la partecipazione alla tornata elettorale per il Csm e per gli altri istituti dell’autogoverno ma, per riprendere un’espressione cara a Jürgen Habermas, il “fuoco radical-democratico” che le riviste dovrebbero contribuire a tenere vivo, sulla base di un modello di magistrato politicizzato nel senso di partecipe delle dinamiche politico-giudiziarie dell’autogoverno. È il primo passo da compiere per una possibile uscita dal guado.


 
[1] G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Roma-Bari, 1987, pp. 176 ss.

[2] Citazione tratta da E. Bruti Liberati, Magistratura e società nell’Italia repubblicana, Laterza, Roma-Bari, 2018, p. 71.

[3] E. Scoditti, Riforma costituzionale e giurisdizione, in Democrazia e diritto, n. 1/1997, pp. 1 ss.

[4] Il riferimento è al vasto dibattito aperto dal famoso obiter dictum di Corte cost., 14 dicembre 2017, n. 269, per il cui commento rinvio a E. Scoditti, Giudice costituzionale e giudice comune di fronte alla carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea dopo la sentenza costituzionale n. 269 del 2017, in Foro italiano, 2018, I, c. 406.

[5] R. Romboli, Quale legge elettorale per quale Csm: i principi costituzionali, la loro attuazione e le proposte di riforma, in questa Rivista online, 25 maggio 2020, www.questionegiustizia.it/data/doc/2537/romboli-legge-elettorale-csm.pdf.

[6] G. Silvestri, Principi costituzionali e sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura, in Sistema penale, 20 giugno 2020, https://sistemapenale.it/it/opinioni/gaetano-silvestri-principi-costituzionali-e-sistema-elettorale-del-consiglio-superiore-della-magistratura 

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