Se effettivamente dovessimo dare ragione a Keynes, e fossimo veramente schiavi dei pensieri di qualche professore defunto, piuttosto che di meccaniche meno eburnee, potrebbe essere utile (cercare di) individuare l’occulta e libresca determinante del nostro (non esaltato) stato presente. Dopo tutto, dal Gan ‘Eden a Sigmund Freud, la cultura occidentale ha mostrato di far molto assegnamento sul potere insito nel (ri-)trovare il vero nome delle cose, per appropriarsi di esse, conoscerle, fuggirle, sdrammatizzarle, guarire dai loro influssi ecc.
Ritenere che intraprendere un tentativo del genere possa, oltre che apportare una qualche consapevolezza su strutture profonde di pensiero (quelle che interessano meno di tutte le altre), contribuire a gettare luce sull'attuale “crisi d’identità” (ancora, la ricerca del “nome”) della magistratura, può apparire rivelatore di un’ambizione che vira alla temerità.
Tenterò comunque di scrivere qualche riga in proposito.
Prendendo le mosse da quello che è generalmente ovvio, più che banale in filosofia, già ampiamente recepito nelle scienze sociali e, per quello che qui maggiormente interessa, magistralmente già esplorato in campo giuridico: ci accade di vivere nell’età del nichilismo, discendenti consapevoli o meno di Nietzsche e dei suoi detrattori ed epigoni, spesso ugualmente ammaliati dal capostipite.
Per uno scrupolo di neutralità, rifacciamoci alla descrizione del nichilismo dell’Encyclopaedia Britannica on-line: «In the 20th century, nihilism encompassed a variety of philosophical and aesthetic stances that, in one sense or another, denied the existence of genuine moral truths or values, rejected the possibility of knowledge or communication, and asserted the ultimate meaninglessness or purposelessness of life or of the universe» (nel ventesimo secolo il nichilismo ha ricompreso una serie di posizioni estetiche e filosofiche che, in vari sensi, hanno negato l’esistenza di autentici valori o verità morali, respinto la possibilità della conoscenza o della comunicazione e asserito la finale assenza di significato e di scopo della vita o dell’universo).
Benché convenientemente (e sterilmente) rimosse dall'industria dell'incoscienza, le chiavi di decifrazione contemporanee del vivere-nel-mondo sono divenute: i. il lutto per la perdita della capacità del cristianesimo (e delle religioni dalle ambizioni ugualmente egemoniche) di farsi cornice assiologica e pre-politica indiscutibile (se non proprio indiscussa) – la morte del divino -; ii. la tragica disillusione nei confronti dei totalitarismi, surrogati del liquido amniotico religioso perduto – la morte del politico -; iii. l’accecante evidenza seguita alla Shoah della disponibilità di milioni di esseri (dis)umani di farsi esecutori di un disegno di annichilimento ‘industriale’ e ‘scientifico’ (tanto più spietato, indiscriminato e ottuso, quanto più industriale e scientifico) di interi popoli – la morte dell’umano e della speranza riposta in un superamento umanista della politica totalitaria -.
Volendo riassumere: «Sono il figlio naturale [siamo – tutti - i figli naturali] di una coppia diabolica, il fascismo e lo stalinismo […]. Hitler non è morto a Berlino, anzi ha vinto la guerra, vincitore sui suoi vincitori, in quella notte di pietra in cui ha fatto precipitare l’Europa. Stalin non è morto a Mosca e neppure al XX Congresso, anzi è qui tra noi, passeggero clandestino di una Storia che tuttora va assillando e piegando alla sua demenza […]. Se fossi un poeta canterei l’orrore di vivere e i nuovi Arcipelaghi che il domani ci prepara. Se fossi un musicista direi le risate imbecilli e i pianti impotenti, l’atroce baraonda che fanno gli sbalestrati, mentre, accampati tra le rovine, attendono il colpo fatale» (B.H. Lévy, La barbarie dal volto umano, Marsilio, 1977, p. 1).
Un passo indietro, mi si dirà, si rischia inutilmente la vertigine. Dopotutto, noi magistrati risolviamo litigi tra privati e valutiamo le responsabilità di singoli per condotte pressoché universalmente riprovate: è davvero necessario investirsi in una così scabrosa ricerca/presa d’atto di (non)senso?
Credo che sia non solo necessario, ma assai più urgente adesso di quando la coscienza collettiva poteva ancora ripararsi dietro valori (o illusioni) pretesamente universali ed esclusivisti.
«If 'gainst yourself you be incensed, we'll put you, like one that means his proper harm, in manacles, then reason safely with you» (se sei adirato con te stesso, ti porremo, come a uno che vuole farsi del male, in manette, e quindi discorreremo senza rischi con te) (W. Shakespeare, The tragedy of Coriolanus, Atto I, Scena IX): il magistrato, nel quadro politico ed esistenziale post-Shoah, collabora con altri poteri dello stato al progetto minimalista del costituzionalismo tardo-novecentesco. Questo progetto è scettico circa la possibilità di promuovere la Libertà e il Progresso sognati dai non-conformisti religiosi (i nostri “eretici”), dai philosophes, dai proto-socialisti, dagli uomini di scienza avant Hiroshima, Nagasaki e lo zyklon-b, e, smarrito e consapevole del proprio smarrimento, cerca di ‘mettere le manette’ a consorzi sociali (tentati di dimenticare, per il bene della sopravvivenza psichica collettiva, di essere) potenzialmente sempre esposti alla marea montante della follia collettiva, al rischio di ri-convertirsi in muta di predatori psicotici, anomici ma fanatici, capaci di dominare qualsiasi segreto della natura fisica, ma ciechi di fronte a quella umana, neppure più riconosciuta.
Spogliata dei suoi abbellimenti, delle sue patenti di nobiltà, delle sue figure retoriche, la costituzione contemporanea vive (deve vivere, ed è la sua legittimazione e la sua tragedia) tra le rovine spirituali di chi ha assistito all’indicibile, all'irredimibile. Sottende costantemente l’ammonimento secondo cui quello che è stato non è che “possa ripetersi”, ma si ripeterà certamente, e in forma e misura peggiori. L’umanità contemplata dal costituzionalismo contemporaneo è eternamente en sursis, disarmata di fronte al proprio potenziale annichilente o auto-annichilente (impossibile saperlo prima della catastrofe). Deve porre la dignità umana quale proprio fondamento irrinunciabile perché, paradossalmente, nell’universo senza più certezze condivise il pericolo più grande è rappresentato dall’irragionevole (e dunque irresistibile) infatuazione collettiva per l’Idea Salvifica di turno, l’Idea alla quale può sacrificarsi tutto (che finisce per significare: possono essere sacrificati tutti).
Il governo del mondo contemporaneo, e il costituzionalismo, la sua coscienza, operano un perpetuo esorcismo degli spettri della Shoah, dell’olocausto nucleare, dell’autoestinzione del genere umano, sforzandosi di mantenere concentrato lo spirito delle élites e delle masse su un’effimera (ma per questo tanto più preziosa) “buona vita”, regolata da valori di prudenza, tolleranza, ascolto, mediazione. La convivenza civile, la società e i loro frutti più elevati sono tanto mirabili quanto fragili. La perdita del centro consiste proprio, in un senso piuttosto significativo, nella dolorosa comprensione della mancata coincidenza tra ciò che è degno di essere conservato e ciò che ha una qualche possibilità concreta di conservarsi (nichilismo come presa d'atto dell'entropia valoriale).
Se questo è oggi il costituzionalismo, la crisi d’identità del magistrato (anche di quello che preferisce ignorare questa chiave di volta dell’edificio che abita e contribuisce a mantenere) appare più agevolmente analizzabile.
In un primo senso – come detto, già compiutamente indagato – il magistrato, con la morte della religione, della politica, dell'umanesimo, ha perduto la propria neutralità/irresponsabilità: in un universo a-valoriale, deve giustificare ciascuna scelta da un punto di vista assiologico (seppure “debole”), cercando ripetutamente un “consenso minimo” fondato sulle ragioni della preservazione della “tregua”. In questo senso i canti (o le ingiunzioni, più o meno perentorie) che lo chiamano all’adesione organicista allo “spirito del momento” sono, da una parte, richiami comodi e seducenti al nascondimento dietro (anti)valori (soi-disant) forti, che promettono (ingannevolmente) di sollevarlo dalla responsabilità etica ri-accogliendolo presso un miraggio di tecnicistica “correttezza” e “accuratezza” nell'interpretazione (in senso minimale), ma danno (dovrebbero dare) i brividi che accompagnano il presentimento del prossimo crollo.
Se i valori sostanziali di vertice del nuovo ordinamento sono la tolleranza e la difesa della dignità, come stupirsi del fatto che il magistrato sia chiamato a interpretare un copione in tanti luoghi lacunoso, dovendo adattarsi a una realtà che non vuole (non può volere) soluzioni tranchant, ferrei sillogismi, immancabili automatismi? Dopotutto, è la Certezza che ci ha privati di ogni certezza.
Ma, ancora, la costituzione è rapporto, oltreché valore; convivenza, oltreché affermazione. Nell'universo non-nichilista delineare la relazione della magistratura con gli altri poteri non è particolarmente importante: la magistratura applica valori indiscussi, in sintonia con il legislativo e l'esecutivo; la divisione dei poteri è strumentale, recessiva di fronte al Divino, al Politico. Nell'universo nichilista il valore del magistrato risiede, forse anche più che in quel che afferma, nel fatto che la sua sola presenza dia corpo a una voce concorrente, a un argine alla monodia, a un'istanza di “ripensamento”, a una chambre haute diffusa. Egli è uno dei diversi ostacoli posti all'affermazione incondizionata dell'Idea Salvifica, che porta inevitabilmente con sé l'esigenza che a essa tutta la macchina del potere si pieghi, prestandole ogni possibilità espressiva, espansiva e repressiva.
Ma tutto questo, tornando all'attualità, cosa significherebbe? Forse che la 'stanchezza', la lâcheté etica, il carrierismo spicciolo e disperatamente autoreferenziale, i meschini favori e il loro commercio sarebbero espressione del nichilismo dei magistrati, rivelerebbero il dilagare di un nichilismo giudiziario?
Dovrebbe essere chiaro che intendo quasi l'opposto: queste manifestazioni di puerilità caratteriale, culturale e morale sono permesse dall'oblio del sentimiento trágico del giudicare, del fare giurisdizione. La lunga (e quanto contrastata) applicazione alla vita magistratuale delle lezioni del costituzionalismo dell'era nichilista, con il suo inestimabile ma vulnerabilissimo patrimonio di infinita prudenza e mirabile equilibrio, ha finito per ingenerare un autocompiacimento (fortunatamente non turbato per molti anni da troppe epifanie “sistemiche” dell'Orrore) che ha permesso la banalizzazione della meschinità e dell'insouciance di qualcuno, private del loro carattere cataclismico solo per l'ammortizzatore accumulato grazie all'eroismo di molti, al “ricordare” la pesantezza del fardello nichilista di moltissimi, che da decenni intraprendono il faticoso esercizio della passeggiata sul filo che sovrasta la gehenna, e che hanno accumulato il patrimonio che qualche “scialacquatore etico” ritiene a sua personale e capricciosa disposizione, perché incapace di avvertire (e non avvertito in altro modo) che non si riprodurrà (non potrà riprodursi) altrettanto velocemente di quanto faccia la sua avidità.
La perdita di fiducia e indipendenza che l'oblio del nichilismo sta causando ha portato molti di noi a interrogarsi (magari inconsciamente, o in termini diversi da quelli che ho proposto) sull'insensato danno che infieriamo a un sottilissimo bilanciamento di pacifica convivenza tra persone e tra istituzioni, e qualcuno sente che ombre cupe si riavvicinano, ed è il momento che le decisioni serie siano restituite agli Adulti, a chi non ha dimenticato la sacralità (tutta terrena) del nostro lavoro: preservare, autant que faire se peut, l'illusione della possibilità di una vita sottratta all'impero di Eris e Disnomia.
La fumeria d'oppio della “barca che si governa da sola” ha chiuso.
Perché - povera, ma fondamentale, constatazione - questo ci insegna il nichilismo: la normalità è il bene più artificiale, concettoso, raro e prezioso. Il primo a finire in frantumi sotto le scarpe dei chierici che hanno tradito.