I sistemi costituzionali danno luogo ad architetture complesse e fragili, dalle basi non sempiterne. Poiché incardinati sul metodo dialettico e sulla promozione del pluralismo, può capitare loro di formare oggetto di discussione: è un’eventualità da essi accettata, come precipitato irrinunciabile del ripudio nei confronti del pensiero unico.
Accade, dunque, che nel dibattito politico delle liberaldemocrazie possano attecchire ideologie illiberali e antidemocratiche, che alle elezioni repubblicane si presentino – ad esempio – partiti monarchici, e che gruppi organizzati chiedano e ottengano cittadinanza politica, pur tradendo la propria ostilità nei confronti dei presupposti fondativi dell’ordinamento.
È uno dei paradossi della democrazia, chiamata ogni giorno a fare i conti con sé stessa per mantenere fede alla propria identità: ciò, anche quando determinate forze tentino di metterne in luce i nervi scoperti, cercando di piegare le istituzioni e le procedure democratiche ai controvalori propugnati dalle prime.
Una recente sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Piemonte ribadisce l’attitudine dei principi fondamentali a conformare direttamente la funzione pubblica, e rammenta l’intensa correlazione sussistente fra diritti e doveri nella trama costituzionale.
La rappresentante piemontese di una formazione della destra extraparlamentare chiedeva al comune di Rivoli l’assenso a collocare un gazebo – per ragioni di propaganda politica – nella via cittadina intitolata a due giovani partigiani, i fratelli Arduino e Agostino Piol (quest’ultimo insignito della medaglia d’oro al valor militare).
Alcuni mesi prima il locale consiglio comunale aveva vincolato la giunta a sollecitare – nei riguardi di tutti gli aspiranti concessionari di suolo pubblico – la formalizzazione di una dichiarazione, attestante il ripudio del «fascismo» e del «nazismo», nonché l’adesione «ai valori dell'antifascismo posti alla base della Costituzione repubblicana, ovvero i valori di libertà, di democrazia, di eguaglianza, di pace, di giustizia sociale e di rispetto di ogni diritto umano, affermatisi nel nostro Paese dopo una ventennale opposizione democratica alla dittatura fascista e dopo i 20 mesi della Lotta di Liberazione dal nazifascismo».
L’interessata si impegnava per iscritto a «riconoscersi nei valori della Costituzione, [a] non voler ricostituire il disciolto Partito Fascista, [a] non voler effettuare propaganda razzista o comunque incitante all’odio», così come «a rispettare tutte le leggi ed i regolamenti del nostro ordinamento giuridico».
L’omissione di ogni riferimento alla Lotta di Liberazione, tuttavia, induceva l’amministrazione a ritenere incompleta – e, dunque, inadeguata – la produzione dell’istante, e comportava il rigetto della richiesta.
Ne scaturiva un contenzioso giudiziario, definito dalla seconda sezione del succitato Tribunale con la decisione n. 447 del 18 aprile 2019.
La pronuncia si distingue per la cristallina riaffermazione di alcuni capisaldi dell’intelaiatura costituzionale, confrontandosi con l’estensione dei diritti di libertà e il mosaico assiologico della Repubblica.
La premessa del percorso decisorio è data dall’affermazione – compiuta con provvidenziale franchezza – della limitatezza dei diritti fondamentali.
Soltanto a una narrazione malaccorta – ancorché disgraziatamente fortunata – le situazioni giuridiche enunciate in Costituzione possono apparire incondizionate. Ma, se così fosse, presto o tardi la loro incontenibilità ne snaturerebbe l’essenza, autorizzando la tirannia di alcune a discapito di altre.
L’intera evoluzione del discorso sui diritti fondamentali è permeata dalle esigenze del bilanciamento: non a caso, una feconda parte dell’elaborazione pretoria – riveniente sia dai giudici comuni sia dalla Consulta – affida al canone di ragionevolezza l’armonizzazione delle molteplici istanze emergenti dalla quotidianità.
La composizione reciproca dei diritti di matrice costituzionale ambisce, pertanto, a scongiurare il rischio della disgregazione delle fondamenta dell’ordinamento, verosimilmente scaturente dall’ipotesi d’indiscriminata prevalenza di un diritto su quelli rimanenti: nella consapevolezza di come gli assolutismi giuridici non possano trovare asilo all’interno del perimetro costituzionale.
Ciò vale vieppiù per la libertà di manifestazione del pensiero (politico), pure invocata dalla ricorrente a sostegno della denunziata antigiuridicità del provvedimento comunale da lei avversato.
Operando una sintetica ma esaustiva ricognizione dei principali snodi normativi individuabili in materia, il Tribunale amministrativo puntualizza la fallacia dell’argomento a mente del quale la libertà d’esternazione e propaganda di cui all’art. 21 della Costituzione legittimi ogni forma di proselitismo politico, e sottragga alla pubblica autorità il compito di saggiarne – sebbene estrinsecamente – la consonanza all’assetto valoriale scolpito in Costituzione.
«I valori dell’antifascismo e della Resistenza e il ripudio dell’ideologia autoritaria propria del ventennio fascista sono valori fondanti la Costituzione repubblicana del 1948, […] perché sottesi implicitamente all’affermazione del carattere democratico della Repubblica italiana e alla proclamazione solenne dei diritti e delle libertà fondamentali dell’individuo», precisa il Collegio.
È bene sottolineare come la motivazione della sentenza riposi non già su considerazioni moraleggianti bensì su specifici addentellati positivi – fra i quali la XII disposizione transitoria e finale della Carta, e l’art. 1, legge n. 645/1952 – la cui lettura circolare consente al Tribunale di esplorare i margini entro i quali si posiziona la libertà in discorso, incompatibile – come osservato dalla pronuncia – con la denigrazione dei «valori della resistenza».
Per questa via, la statuizione perviene al proprio passaggio baricentrico.
Il generico richiamo all’osservanza della Costituzione – quand’anche apertamente professato dalla richiedente – si dimostra apparente, insincero e stilistico, laddove deliberatamente mutilato della sua naturale conclusione: la condivisione sostanziale del significato ascrivibile alla Lotta di Liberazione, evidentemente invisa all’interessata e conseguentemente taciuta nella sua dichiarazione d’intenti.
Il giudice amministrativo rimarca, in proposito, come «Dichiarare di aderire ai valori della Costituzione, ma nel contempo rifiutarsi di aderire ai valori che alla Costituzione hanno dato origine e che sono ad essa sottesi, implicitamente ed esplicitamente, significa vanificare il senso stesso dell’adesione, svuotandola di contenuto e privandola di ogni valenza sostanziale e simbolica».
Alla luce del testo normativo – e del contesto in cui il primo si inserisce – la determinazione comunale viene, allora, mandata esente da censure.
Alla sentenza, d’altra parte, va ascritto anche un altro merito: l’aver rilanciato la responsabilità della pubblica amministrazione nell’attuazione e nella salvaguardia dei principi sui quali ruotano i cardini della democrazia.
Si trascura troppo spesso – a ben vedere – l’apporto potenzialmente proveniente dallo Stato-amministrazione nella realizzazione dei valori costituzionali, enfatizzando – talvolta ripetitivamente – il ruolo della legislazione, quale strumento di concretizzazione normativa dei precetti veicolati dalla Carta del 1948, e della giurisdizione, intesa – certamente non a torto – come sede elettiva per la tutela dei diritti, la rimozione delle patologie e l’interpretazione conforme a Costituzione.
Gli apparati pubblici, però, andrebbero riacquisiti senza eccessive remore al novero degli organi in grado di cooperare per la migliore riuscita del “progetto” socioeconomico e politico delineato dalla Legge fondamentale italiana: nell’ambito delle – peraltro capillari – competenze assegnate alla P.a., infatti, la diffusione e la prossimità degli uffici amministrativi offrono ai medesimi una postazione privilegiata dalla quale contribuire all’effettività dei diritti, e alla perpetuazione dell’esperienza associata.
La vicenda disputata – e, in maniera peculiare, la decisione derivatane – parimenti interrogano, in ultima analisi, il cittadino e il magistrato.
All’uno indicano come l’esercizio di una facoltà costituzionale vada sempre declinato nel rispetto del pari diritto altrui, e in leale corrispondenza – giuridicizzata e imposta, a tacer d’altro, dall’art. 54, comma uno, Cost. – al superiore sostrato assiologico di cui giornalmente si nutrono i rapporti intersoggettivi, soprattutto nella loro dimensione collettiva.
All’altro ricordano l’autentica consistenza della funzione svolta, esortandolo a rifuggire da una concezione burocratica e meccanicistica della giurisdizione, per riscoprire le notevoli possibilità esprimibili – attraverso di essa – nell’assicurare pienezza e pervasività ai principi, ai diritti e ai doveri costituzionali.