Magistratura democratica
Prassi e orientamenti

Responsabilità civile del magistrato per inosservanza di orientamento giurisprudenziale consolidato?

di Enrico Scoditti
consigliere della Corte di cassazione
È stata rimessa alle Sez. unite della Cassazione la questione della responsabilità civile del magistrato per inosservanza di orientamento giurisprudenziale consolidato. Nello scritto si propone di interpretare «violazione manifesta della legge» in termini di travisamento linguistico della disposizione o di fatto accertato ma rimasto privo di effetti giuridici nonostante l’esistenza di previsione legislativa

1. Per l’interpretazione conforme a Costituzione di «violazione manifesta della legge»

È stata rimessa alle Sezioni unite della Corte di cassazione, per un’udienza che si terrà al principio del nuovo anno, la questione assai delicata della responsabilità civile del magistrato per inosservanza di orientamento giurisprudenziale consolidato. Benché il caso all’attenzione del giudice di legittimità sia soggetto al regime previgente, nel quale rilevava ancora «la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile» e non l’attuale «violazione manifesta della legge», il supremo collegio non potrà sottrarsi alla questione di fondo che la responsabilità civile del magistrato pone con riferimento alla cd. clausola di salvaguardia contemplata dalla legge 13 aprile 1988 n. 117 («nell'esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l'attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove»), e cioè cosa si intenda per attività interpretativa insindacabile. Definire infatti cosa è «grave violazione di legge» o «violazione manifesta della legge» è necessario, come si vedrà più avanti, per comprendere a quali condizioni l’inosservanza di orientamento giurisprudenziale consolidato costituisca un illecito giudiziario. Spezzato il nesso fra negligenza inescusabile e violazione manifesta della legge, con la collocazione della prima solo in sede di azione di rivalsa nei confronti del magistrato, viene in primo piano in tutto il suo spessore la differenza fra interpretazione insindacabile ed illecito.

La rottura di quel nesso (e la stessa sostituzione di «grave» con «manifesta» quale attributo della violazione) rinviene la propria evidente origine nell’inclusione nella legge n. 117 del 1988 anche della responsabilità euro-unitaria dello Stato imputabile ad organo giudiziario. L’uniformazione disciplinare di illecito giudiziario di diritto interno ed illecito euro-unitario dello Stato imputabile ad organo giudiziario ha rappresentato un’operazione di ortopedia legislativa non rispondente a criteri di razionalità per l’estrema eterogeneità delle due forme di illecito. Ciò di cui lo Stato risponde, nel caso di violazione del diritto dell’Unione europea in danno del singolo, è proprio ciò di cui il giudice non risponde: l’interpretazione del diritto. Come disse la Corte di giustizia nel caso Köbler, è proprio nell’esercizio dell’attività interpretativa da parte dell’organo giudiziario di ultima istanza che può verificarsi una violazione manifesta del diritto dell’Unione europea. L’affermazione del giudice euro-unitario era perfettamente coerente dal punto di vista del diritto unionale.

Nella responsabilità euro-unitaria non vengono in rilievo le salvaguardie che presiedono alla funzione giudiziaria perché si tratta della responsabilità dello Stato nella sua unità, in modo indipendente dall’organo che agisce, tant’è che è prevista, come è noto, anche la responsabilità per omissione o cattivo esercizio della funzione legislativa con riferimento all’attuazione di direttive. La responsabilità non è dell’organo (giudiziario o legislativo) ma dello Stato nella sua unità quale membro dell’Unione europea, ragione per la quale non intervengono le guarentigie a protezione della funzione istituzionale dell’organo, legislativo o giudiziario. La responsabilità euro-unitaria dello Stato è dunque proprio una responsabilità da attività interpretativa, sia pure nei limiti della violazione manifesta, secondo i canoni fissati dalla Corte del Lussemburgo (e ripresi dal comma 3-bis, aggiunto nel 2015 all’art. 2 della legge n. 117 del 1988). L’interpretazione del diritto da parte del giudice perde la garanzia dell’insindacabilità una volta immessa nel circuito dell’Unione europea.

Ciò che non è coerente è l’omologazione sul piano disciplinare della responsabilità (dello Stato) per violazione del diritto euro-unitario con la responsabilità del magistrato per i danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie. Non ha ovviamente senso tornare oggi ad una proposta che a suo tempo formulammo, e cioè quella di una legge ad hoc sulla responsabilità dello Stato per violazione del diritto dell’Unione, che affrontasse in modo organico la materia, a partire dalla questione della prescrizione, senza toccare la legge n. 117 del 1988 [1]. È però necessario avere chiaro che buona parte delle difficoltà interpretative derivanti dalle modifiche apportate dalla legge 27 febbraio 2015, n. 18 discendono dall’innaturale combinazione di organismi del tutto differenti.

La prima difficoltà risiede proprio nella nuova formulazione della clausola di salvaguardia: «fatti salvi i commi 3 e 3-bis ed i casi di dolo, nell'esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l'attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove». I commi 3 e 3-bis dell’art. 2 sono quelli che definiscono la colpa grave per cui c’è responsabilità. Quel «fatti salvi» sembra dire che anche la violazione manifesta della legge è attività interpretativa, la quale però è interpretazione che dà luogo a responsabilità. Se così fosse, il diritto civile penetrerebbe nel cuore dell’esercizio della funzione giurisdizionale. Salvo che per la violazione del diritto dell’Unione europea, la premessa della responsabilità civile dovrebbe essere l’estraneità della condotta alla tipica manifestazione di giurisdizione. Diversamente l’attività giudiziaria verrebbe equiparata all’azione della pubblica amministrazione, la cui responsabilità civile per violazione di interessi legittimi sussiste proprio con riferimento alla tipica manifestazione di amministrazione e cioè l’esercizio del potere amministrativo (l’aporia della sottoposizione al diritto civile del provvedimento amministrativo, che di quel diritto grazie alla norma attributiva del potere rappresenta la deroga, è risolta mediante la configurazione dell’azione risarcitoria in termini di puro rimedio che si aggiunge all’azione di annullamento). Il dato della responsabilità civile per tipica manifestazione di giurisdizione non verrebbe sdrammatizzato dalla previsione dell’azione diretta nei confronti del magistrato solo per l’ipotesi dei danni derivanti da fatti costituenti reato, sia perché resterebbe l’aporia della sottoposizione al diritto civile dell’attività giurisdizionale, sia perché il titolo dell’azione nei confronti dello Stato è comunque quello della responsabilità civile del magistrato (ora estesa anche alla violazione manifesta del diritto dell’Unione europea la quale, per la giurisprudenza comunitaria, era espressione, come si è detto, della responsabilità dello Stato nella sua unità e non del singolo organo o funzionario).

Bisogna pertanto fare opera di interpretazione conforme a Costituzione e mantenere la clausola di salvaguardia nell’ambito del bilanciamento del principio costituzionale di indipendenza della magistratura (artt. 101, 104 e 108 Cost.) con quello di responsabilità dei funzionari e dipendenti dello Stato (art. 28 Cost.). Deve quindi concludersi nel senso che i casi di colpa grave non costituiscono interpretazione di norme di diritto o valutazione del fatto e delle prove, attività sottratte alla responsabilità civile in quanto identificative della funzione giudiziaria, salvo il caso della violazione manifesta del diritto dell'Unione europea, nel quale la compatibilità di responsabilità ed esercizio dell’attività interpretativa discende dall’assorbimento dell’illecito dell’organo giudiziario in quello dello Stato considerato nella sua unità. Tutto precipita così nella differenziazione della «violazione manifesta della legge» dalla «attività di interpretazione di norme di diritto».

2. Il travisamento linguistico della disposizione

Nel vigore della vecchia disciplina si soleva definire «grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile» come «violazione evidente, grossolana e macroscopica della norma ovvero una lettura di essa in termini contrastanti con ogni criterio logico o l'adozione di scelte aberranti nella ricostruzione della volontà del legislatore o la manipolazione assolutamente arbitraria del testo normativo o ancora lo sconfinamento dell'interpretazione nel diritto libero» [2]. Quella definizione non può più essere mantenuta una volta che sia venuta meno la negligenza inescusabile (benché, nei limiti che saranno indicati, possa tornare utile in sede di azione di rivalsa). Ma anche con riferimento al regime previgente, non può non rilevarsi l’assenza di contorni precisi della definizione, che rimette all’apprezzamento soggettivo i concreti contenuti di cosa sia una «violazione evidente, grossolana e macroscopica della norma». È necessario introdurre dei criteri di tendenziale prevedibilità e certezza in ordine a cosa sia violazione, grave o manifesta, della legge. Bisogna in particolare dotarsi di uno strumento ermeneutico che consente di stabilire in anticipo quale sia la linea di demarcazione fra «violazione manifesta della legge» e «attività di interpretazione di norme di diritto».

Riprendendo qui il filo di osservazioni già svolte su questa rivista e altrove [3], allo scopo di sottrarre l’interpretazione di norme di diritto alla condotta sussumibile nell’illecito bisogna muovere dalla distinzione, risalente a Crisafulli, fra disposizione e norma. La disposizione è il puro enunciato linguistico considerato quale significante, prima che all’esito dell’attività interpretativa acquisti il proprio significato normativo. La disposizione trapassa in norma grazie all’interpretazione, la quale estrae dall’enunciato linguistico il precetto che ivi è depositato. Il senso linguistico della disposizione segna il confine in presenza del quale si arresta il tentativo di interpretazione in modo conforme a Costituzione per cedere il passo all’incidente di legittimità costituzionale. È vero che la disposizione prima dell’interpretazione è muta e che «non c’è significato senza interpretazione» [4]. L’enunciato linguistico significa qualcosa solo all’esito del procedimento interpretativo. Esso però crea il necessario attrito senza del quale l’interpretazione è destinata a girare a vuoto [5]. Benché l’enunciato linguistico non viva fuori delle interpretazioni, esso è in grado di dire dei “no” e di non ammettere determinate ricostruzioni interpretative. Non tutti i significati normativi possono essere estratti dalla disposizione. «Ci sono interpretazioni che l’oggetto da interpretare non ammette» [6].

Ebbene, violazione manifesta della legge si ha quando non vengono rispettati i “no” che l’enunciato linguistico frappone. Essa attiene al piano della disposizione e corrisponde all’inosservanza del senso linguistico dell’enunciato posto dal legislatore. Mentre l’attività interpretativa (insindacabile) concerne la norma (in cui trapassa la disposizione), la condotta sussumibile nell’illecito si ferma al livello della disposizione e concerne quell’attività, precedente l’interpretazione, che concerne la recezione del dato, ossia la percezione della portata semantica della disposizione. Inerendo l’illecito alla percezione e non alla valutazione, il paradigma analitico che viene in rilievo è lo stesso dell’errore di fatto nel caso della revocazione di sentenze, per cui potrebbe parlarsi di «errore revocatorio» su norme. «Violazione manifesta della legge» può dunque essere definita come travisamento linguistico della disposizione. Se la responsabilità civile si colloca al livello della percezione e non della valutazione, si è fuori dell’attività interpretativa e del tratto costitutivo della funzione giudiziaria. C’è responsabilità civile appunto perché non c’è giurisdizione, quale estrazione della norma dalla disposizione, ma mera (erronea) percezione della portata linguistica della disposizione.

Ancora una volta bisogna tornare alle distinzioni imposte dall’omologazione di legge e diritto dell’Unione europea sul piano della responsabilità per violazione manifesta. Non è un caso che l’art. 2, comma 3, parli di «legge» e di «diritto dell’Unione europea»: mentre con la nozione di «legge» viene in rilievo la distinzione fra disposizione e norma, e si parla di violazione manifesta della legge e non del diritto perché l’illecito concerne la disposizione, con la nozione di «diritto», a proposito dell’Unione europea, viene in rilievo la norma nella sua precettività perché l’illecito concerne proprio l’esito interpretativo, come si è visto. La norma ordinaria di cui all’art. 3, comma 2, della legge n. 117 del 1988 va quindi interpretata in modo conforme alla Costituzione per quanto riguarda la violazione manifesta della legge, da riferire alla portata linguistica della disposizione prima dell’attività interpretativa, ed in modo conforme al diritto ed alla giurisprudenza euro-unitari per quanto riguarda la «violazione manifesta del diritto dell’Unione europea», da estendere anche alla norma ed all’interpretazione, con il temperamento del carattere manifesto della violazione, precisato dalla giurisprudenza della Corte di giustizia e recepito dal comma 3-bis dell’art. 2. Non può sfuggire che il grado di chiarezza e precisione della norma, nonché di inescusabilità e gravità dell’inosservanza, menzionati dal comma 3-bis dell’art. 2, costituiscono criteri che, ricondotti alla violazione manifesta della legge, ben possono essere rappresentativi del travisamento linguistico.

Inutile dire che la diversità delle fattispecie, assistite da logiche tutt’affatto differenti, avrebbe suggerito, anziché tale ambivalenza interpretativa, una distinzione sul piano della disciplina. La diversità di comune illecito giudiziario ed illecito euro-unitario si ricompone tuttavia in sede di azione di rivalsa nei confronti del magistrato sulla base del comune riferimento (al dolo e) alla negligenza inescusabile. A questo proposito, come si è anticipato, può tornare utile la nozione di «grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile» e può affermarsi che vi è negligenza inescusabile se, all’esito del travisamento linguistico della disposizione di diritto interno o del procedimento interpretativo in manifesta violazione del diritto dell’Unione europea, il giudice decida la controversia sulla base di una «violazione evidente, grossolana e macroscopica della norma ovvero una lettura di essa in termini contrastanti con ogni criterio logico o l'adozione di scelte aberranti nella ricostruzione della volontà del legislatore o la manipolazione assolutamente arbitraria del testo normativo o ancora lo sconfinamento dell'interpretazione nel diritto libero».

3. Il fatto accertato ma rimasto privo di effetti giuridici nonostante l’esistenza di previsione legislativa

Prima di passare al tema dell’inosservanza di orientamento giurisprudenziale consolidato è necessario un ulteriore chiarimento. Se si opera un raffronto fra l’art. 2 della legge n. 117 e l’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ. emerge che, a proposito della colpa grave del magistrato, si parla solo di violazione di norma di diritto e non anche di falsa applicazione. Questo vuol dire che c’è responsabilità civile quando c’è travisamento linguistico della disposizione e non anche quando c’è mancata sussunzione del fatto nella norma? È bene ricordare che costituisce illecito disciplinare nell’esercizio delle funzioni giudiziarie la grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile (art. 2, comma 1, lett. g), del d.lgs. n. 109 del 2006). Alla falsa applicazione di legge, determinata da ignoranza, non può non darsi rilievo in sede di responsabilità civile, ma a quali condizioni? Quando la mancata sussunzione del fatto nella norma, o l’applicazione di una norma in luogo di un’altra, costituiscono violazione manifesta del diritto?

Si tratta, ancora una volta, di distinguere fra l’ignoranza e la falsa applicazione risultante da attività interpretativa la quale, per quanto censurabile sul piano dei rimedi processuali, non si traduce in illecito civile. Anche stavolta bisogna dotarsi di uno strumento ermeneutico che fornisca un criterio di tendenziale prevedibilità e certezza circa la fattispecie di responsabilità civile.

Al pari del travisamento linguistico della disposizione, l’ignoranza attiene ad una fase precedente quella valutativo-interpretativa e cioè a quella meramente percettiva: ignoranza è la mancata percezione del fatto dell’esistenza di una norma all’interno dell’ordinamento giuridico. Mentre l’ignoranza può avere conseguenze disciplinari, la falsa applicazione di norma di diritto non può di per sé essere fonte di responsabilità civile. La violazione manifesta della legge non ricorre quando il giudice applica una norma in luogo di un’altra perché qui, mediante il collegamento degli effetti giuridici al fatto, c’è esercizio di attività interpretativa. Non c’è responsabilità civile quando il giudice sussume il fatto nella norma perché il collegamento degli effetti al fatto presuppone l’interpretazione ed è manifestazione di attività giurisdizionale. Quando il giudice applica una norma in luogo di un’altra c’è responsabilità civile solo se la falsa applicazione sia stata determinata dal travisamento linguistico della disposizione, ma in tal caso torniamo a quanto è stato osservato sopra.

C’è responsabilità civile quando il giudice accerta un fatto ma ometta di collegarvi effetti giuridici laddove invece nell’ordinamento è presente una norma che a quel fatto, previsto in via astratta e generale, colleghi determinate conseguenze giuridiche. Se accertato il fatto il giudice lo lasci privo di qualificazioni, omettendo di collegarvi l’effetto previsto dalla legge, vi è violazione manifesta della legge per la mancata percezione dell’esistenza nell’ordinamento della disciplina giuridica di quel fatto.

Il criterio del fatto accertato, ma rimasto privo di effetti giuridici, nonostante l’esistenza di una disciplina giuridica, rappresenta uno strumento di identificazione della violazione manifesta della legge, nei casi di falsa applicazione di norma, dotato di maggiore certezza e prevedibilità rispetto a quello della motivazione. Il dovere di motivare ha un sicuro rilievo sul piano disciplinare, ma l’insufficienza di motivazione non può essere presupposto di responsabilità civile sia per i rischi di soggettivismo nella concreta valutazione dell’illecito che il criterio motivazionale reca con sé, sia perché, indipendentemente dall’assolvimento dell’onere di motivazione, se il giudice ha collegato degli effetti giuridici al fatto vuol dire che ha interpretato il diritto ed esercitato la giurisdizione (tant’è che un vizio di motivazione riguardo al diritto non è configurabile in sede di sindacato di legittimità, dovendosi solo guardare all’erronea interpretazione o applicazione della norma di legge, ossia all’esattezza del diritto applicato). In realtà, la carenza di motivazione non ha alcun nesso eziologico con il danno ingiusto, il quale consegue come è evidente alla violazione manifesta della legge, né la presenza della motivazione riconduce a diritto una condotta non iure perché ciò che non dà luogo a responsabilità è l’attività di interpretazione del diritto e non l’esistenza di una motivazione (la quale così non ha alcuna efficacia esimente rispetto al danno determinato da violazione manifesta della legge).

Inutile dire che anche nel caso del fatto accertato e rimasto privo di conseguenze giuridiche soccorrono i parametri forniti dall’art. 2, comma 3-bis, della legge n. 117 (grado di chiarezza e precisione della norma, nonché di inescusabilità e gravità dell’inosservanza), particolarmente significativi ai fini della percezione dell’esistenza di una norma in contesti disciplinari resi complessi da una legislazione particolarmente farraginosa.

In conclusione, la nozione di violazione manifesta della legge, riguardata con la lente del vizio di violazione o falsa applicazione di norme di diritto che connota il sindacato di legittimità, acquista la duplice valenza del travisamento linguistico della disposizione e del fatto accertato ma rimasto privo di effetti giuridici nonostante l’esistenza di una previsione di legge.

4. A quali condizioni l’inosservanza di orientamento giurisprudenziale consolidato costituisce illecito civile

Veniamo così al tema dell’inosservanza di orientamento giurisprudenziale consolidato. Sulla base di quanto abbiamo premesso, e cioè violazione manifesta del diritto quale travisamento linguistico della disposizione o omesso collegamento di effetti giuridici al fatto accertato, l’indirizzo giurisprudenziale non può venire in rilievo nel suo carattere di interpretazione del diritto. Se la mancata osservanza dell’indirizzo giurisprudenziale consolidato viene, sic et simpliciter, equiparata a violazione manifesta della legge si ricadrebbe nell’orbita dell’attività interpretativa insindacabile. Ciò che le Sezioni unite della Corte di cassazione dovranno accertare non è quando ricorra un orientamento giurisprudenziale consolidato (e di qui ricavarne la responsabilità per mera inosservanza), ma a quali condizioni l’inosservanza di quest’ultimo si traduca in violazione manifesta della legge. È evidente che la norma vive nell’ordinamento in base alle sue interpretazioni e che indirizzo interpretativo consolidato è quello che corrisponde al diritto vivente. Ma l’inosservanza del diritto vivente non corrisponde di per sé ad illecito civile: sarebbe come dire che la mera violazione della legge corrisponda a responsabilità per colpa grave, il che non è perché deve ricorrere il carattere manifesto della violazione. Se così è, anche con riferimento all’orientamento giurisprudenziale consolidato si ripropongono i criteri della distinzione fra disposizione e norma e del mancato collegamento di effetti giuridici al fatto accertato.

Conviene riportare a questo punto un’importante precisazione di Alessandro Pizzorusso: «Mentre l’opera del legislatore − e, più precisamente, di qualunque titolare di funzioni normative corrispondenti ad una fonte-atto − consiste esclusivamente nella produzione di disposizioni [...], l’opera del giudice e degli altri soggetti che interpretano il diritto in vista della sua applicazione alle fattispecie concrete si risolve nell’elaborazione di norme, le quali assumono concretezza esclusivamente nell’ambito dell’atto di applicazione di esse (nel quale vengono ad essere, per così dire, incorporate), ma che possono però assumere anche il ruolo proprio delle disposizioni in vista di ulteriori applicazioni future in occasione delle quali non si guardi più alla disposizione originaria (o al fatto corrispondente alla previsione di una fonte-atto), bensì alla norma che già ha trovato applicazione considerata nel suo aspetto di ‘precedente’. In questa ipotesi naturalmente è ovvio che tra il momento dell’elaborazione della norma (ad esempio, sotto forma di ratio decidendi di una sentenza) e quello della sua utilizzazione come disposizione potrà svilupparsi ulteriormente la normale attività di accertamento dei fatti normativi, di interpretazione dei testi, ecc.» [7]. 

Se l’orientamento giurisprudenziale consolidato acquista la posizione di disposizione in vista delle future applicazioni della norma risultante dal diritto vivente, la violazione manifesta della legge risiede non nell’erronea applicazione dell’orientamento in discorso (che è attività che resta nell’ambito dell’attività interpretativa), ma nel travisamento linguistico degli enunciati corrispondenti all’indirizzo giurisprudenziale. L’enunciato non è percepito nella sua portata letterale, ancor prima che su di esso si sviluppi l’attività interpretativa. La responsabilità civile ricorre nel caso di errore meramente percettivo circa il diritto vivente solo nel caso della legge perché, se ci spostiamo sul piano del diritto dell’Unione europea, l’illecito risiede proprio nel contrasto con la giurisprudenza della Corte di giustizia al livello dell’interpretazione, come prevede espressamente del resto l’art. 2, comma 3-bis, della legge n. 117 coerentemente alla natura della trasgressione euro-unitaria.

Violazione manifesta della legge, nel caso di inosservanza del diritto vivente, si ha poi non nel caso della mera non applicazione dell’indirizzo consolidato, ma nel caso in cui, accertato un fatto non si collegano ad esso effetti giuridici laddove invece, in base al diritto vivente, il fatto dovrebbe essere produttivo di effetti. Se il giudice, in luogo degli effetti che deriverebbero dall’applicazione dell’orientamento interpretativo consolidato, collega al fatto altri effetti giuridici, nulla quaestio perché il collegamento degli effetti al fatto presuppone l’interpretazione ed è manifestazione di attività giurisdizionale, a meno che la non applicazione dell’indirizzo consolidato sia derivata da travisamento linguistico degli enunciati corrispondenti al detto indirizzo, nel qual caso si cade nell’illecito civile. Come si è detto, non rileva l’eventuale carenza di motivazione (suscettibile di conseguenze solo sul piano disciplinare) perché il collegamento di effetti al fatto è indice della presenza di attività interpretativa, sia pure di segno difforme dall’indirizzo consolidato. Ciò che rileva è l’assenza di effetti giuridici del fatto accertato a causa della mancata percezione dell’esistenza di un diritto vivente che invece configuri quel fatto come produttivo di conseguenze giuridiche.

Nel perimetro così definito, travisamento linguistico degli enunciati o fatto accertato rimasto improduttivo di effetti giuridici, può in conclusione ritenersi esistente nell’ordinamento la responsabilità civile del magistrato per inosservanza di orientamento giurisprudenziale consolidato.



[1] E. Scoditti, Violazione del diritto dell’Unione europea imputabile all’organo giudiziario di ultimo grado: una proposta al legislatore, in Il Foro italiano, 2012, IV, col. 22.

[2] Cass. 18 marzo 2008, n. 7272, id., 2009, I, col. 2496.

[3] E. Scoditti, La nuova responsabilità per colpa grave ed i compiti dell’interprete, in Questione Giustizia, 2015, n. 3, p. 175 ss.; Id., La responsabilità civile del pubblico ministero per omessa perquisizione: la sottile linea fra percezione e valutazione, id., 26 giugno 2017; Id. La nuova responsabilità civile dei magistrati-Le nuove fattispecie di “colpa grave”, in Il Foro italiano, 2015, V, col. 317.

[4] R. Guastini, Interpretare e argomentare, Milano, 2011, p. 403.

[5] J. McDowell, Mente e mondo, Torino, 1999, p. 11 ss.

[6] U. Eco, Ci sono delle cose che non si possono dire, in Alfabeta2, 2012, n. 17. Massimo Luciani ha di recente sottoposto a severa critica la distinzione disposizione/norma: tale distinzione per un verso smarrirebbe il carattere normativo della disposizione, affidando all’interprete il potere di creare la norma, per l’altro, corrispondendo anche la norma ad un enunciato linguistico, finirebbe in un regressus ad infinitum (M. Luciani, Interpretazione conforme a Costituzione, in Enciclopedia del diritto. Annali, IX, Milano, 2016, p. 391 ss.). In realtà, la definizione che Luciani propone di interpretazione come ascrizione di significato a enunciati dotati normatività giuridica ben si adatta alla distinzione fra disposizione e norma.

[7] A. Pizzorusso, Fonti (sistema costituzionale delle), in Digesto discipline pubblicistiche, VI, Torino, 1991, p. 415.

10/12/2018
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