Magistratura democratica
Magistratura e società

Ricordo di un magistrato eroe *

di Federico Grillo Pasquarelli
consigliere presso la Sezione Lavoro della Corte d’appello di Torino
Il 19 dicembre 2019 la Corte d’appello di Torino ha onorato la memoria del consigliere Carlo Alberto Ferrero, nel 75º anniversario del suo assassinio per mano dei nazifascisti

Carlo Alberto Ferrero era nato a Mondovì il 22 dicembre 1888; prese parte alla Prima Guerra Mondiale e fu decorato con Croce di Guerra; laureatosi in giurisprudenza all’Università di Torino ed entrato in magistratura, fu Pretore a Chiusa Pesio, poi giudice del Tribunale di Cuneo e successivamente Presidente del Tribunale di Nuoro; nella primavera del 1943 venne nominato consigliere della Corte d’Appello di Torino. Durante la guerra, la sua famiglia era sfollata a Chiusa Pesio (CN) e lui era solito raggiungerla quando gli impegni dell’ufficio glie lo consentivano.

Nel novembre 1943 fu emanato il primo bando di reclutamento nell’esercito della Repubblica Sociale Italiana, che chiamava alle armi i giovani delle classi 1923-1924-1925, minacciando le pene stabilite dal codice militare di guerra per i renitenti alla leva, e provvedimenti anche a carico dei capi famiglia. Il bando fu trasmesso al podestà di Chiusa Pesio mediante telegramma della Prefettura di Cuneo; il podestà indisse una riunione, che si tenne il 15 febbraio 1944, convocando i genitori dei giovani chiamati alle armi e i personaggi più stimati del paese, lesse il testo del bando, si espresse a favore dell’arruolamento, ma disse che voleva conoscere il parere dei presenti. Carlo Alberto Ferrero prese la parola e fece osservare che il contenuto del bando contrastava con le disposizioni di legge, che prevedevano sanzioni a carico dei renitenti alla leva, ma non stabilivano pene a titolo di rappresaglia contro i familiari; aggiunse che, poiché il telegramma proveniva da un’autorità politica e non militare, sorgeva il dubbio che si trattasse di un provvedimento imposto dal comando tedesco di occupazione; concluse, quindi, che non si poteva fare opera di persuasione sui giovani, perché non si poteva dare loro alcuna assicurazione sulla loro destinazione e sul loro impiego.

Le sue parole furono certamente riferite, da qualcuno dei presenti, alle gerarchie provinciali fasciste; sta di fatto che, dopo quella riunione, i militi della Guardia Nazionale Repubblicana di Cuneo ebbero l’ordine di arrestare Carlo Alberto Ferrero e andarono più volte a cercarlo nella sua abitazione di Chiusa Pesio, senza però trovare nessuno, perché il giudice aveva diradato le sue visite in paese e la moglie, avvisata per tempo, riusciva a mettersi in salvo.

Alla fine di novembre 1944 Carlo Alberto Ferrero, colpito da una leggera bronchite, accompagnò ugualmente la famiglia da Torino a Chiusa Pesio, ma questo aggravò la malattia ed egli non poté rientrare a Torino nei tempi previsti: in una lettera al suo Presidente di Sezione, si scusa di non poter partecipare all’udienza del 1° dicembre “pur avendo cause in spedizione”.

Tra il 9 e il 10 dicembre 1944 Chiusa Pesio fu occupata da un reparto esploratori della 34ª Divisione di Fanteria della Wehrmacht, ai comandi del capitano Heinrich Schubert, per un rastrellamento esteso a tutto il territorio della Valle Pesio; non riuscendo a catturare partigiani, che si erano allontanati per tempo, i tedeschi si diedero alle rappresaglie contro i civili inermi, incendiando abitazioni, sequestrando bestiame, biciclette e apparecchi radio, ed uccidendo in pochi giorni 12 uomini, nessuno dei quali era armato, e tra questi due ragazzi appena sedicenni.

La sera del 15 dicembre giunsero a Chiusa Pesio il commissario federale di Cuneo del Partito Fascista Repubblicano ed un milite della Brigata Nera di Cuneo, originario di Chiusa Pesio, e furono visti consegnare ad un ufficiale tedesco, ai piedi della scalinata della chiesa dell’Annunziata, un elenco di persone sospettate di partecipare al movimento di liberazione nazionale: il nome di Carlo Alberto Ferrero figurava tra i primi della lista, come successivamente confermato da alcuni testimoni che videro quell’elenco.

Il giorno successivo cominciarono le operazioni di arresto dei sospettati; nella notte tra il 16 ed il 17 dicembre, militari tedeschi bussarono violentemente alla porta della casa di Carlo Alberto Ferrero, lui stesso andò ad aprire e fu arrestato insieme al figlio Pier Giuseppe, diciottenne: i due furono portati nell’asilo infantile del paese, dove si trovavano già una ventina di ostaggi.

Sottoposto ad interrogatorio due volte, il 17 e il 18 dicembre, fu accusato di essere organizzatore di bande partigiane, di fare propaganda contro la guerra nazifascista, e di avere espresso posizioni critiche sulle rappresaglie minacciate dal regime fascista nei confronti dei familiari dei renitenti alla chiamata alle armi della Repubblica di Salò; le accuse, secondo i tedeschi, erano fondate sulle dichiarazioni di numerosi “banditi” catturati in montagna. Carlo Alberto Ferrero cercò di difendersi, dichiarando di essere un magistrato, di recarsi di rado da Torino a Chiusa Pesio, dove conduceva una vita appartata; chiese di conoscere le prove contro di lui e di essere messo a confronto con chi lo accusava, ma i tedeschi non gli diedero risposta.

Alla moglie – alla quale fu consentito di visitarlo più volte durante la prigionia – Carlo Alberto Ferrero apparve sempre sereno e tranquillo: le faceva coraggio, dicendo che l’affermazione dei tedeschi che ci fossero dei partigiani che lo accusavano era completamente falsa, che non c’erano prove contro di lui e che, nella peggiore delle ipotesi, i tedeschi l’avrebbero processato, avrebbero sentito i testimoni e poi l’avrebbero liberato. Anche il parroco del paese poté visitarlo ed ottenne dal comandante tedesco la promessa che, in caso di eventuali esecuzioni degli arrestati, sarebbe stato avvertito in tempo, per poter prestare assistenza spirituale ai condannati.

La sorveglianza dei locali dell’asilo da parte dei tedeschi non era ferrea, tanto che alcuni ostaggi riuscirono a fuggire; Carlo Alberto Ferrero volle restare perché, confidando in un regolare processo, riteneva che una sua eventuale fuga avrebbe potuto essere interpretata come un’ammissione di colpevolezza.

Nel frattempo, il Presidente del Tribunale di Cuneo, Sinisi, ed il Procuratore della Repubblica, Cottafavi, si recarono al Comando tedesco di polizia per avere informazioni su Ferrero, ma non ottennero altro che generiche rassicurazioni; anche il Presidente della Corte d’Appello di Torino, Ciro Gini, si rivolse all’Alto Commissario per il Piemonte, pregandolo di adoperarsi per ottenere la liberazione di Ferrero.

Al mattino del 19 dicembre quasi tutti gli ostaggi furono mandati a Cuneo, a piedi, e qui liberati; furono trattenuti solo due ostaggi, Carlo Alberto Ferrero ed il giovane Mauro Bernardino, di 22 anni, che era stato catturato perché omonimo di un partigiano, il cui nome compariva nell’elenco consegnato ai tedeschi dai fascisti.

Alle ore 14 dello stesso giorno gli ultimi due detenuti furono portati al Caffè del Popolo, dove si era installato il comando tedesco, e furono sottoposti ad un processo sommario, durato pochi minuti, davanti ad una corte marziale presieduta dal capitano Schubert: ai prigionieri non fu consentita alcuna difesa, e la sentenza fu di condanna a morte. Scortati da sei soldati, i due condannati – costretti a portare al collo un cartello, quello del giudice con la scritta “Traditore”, e quello del giovane con la scritta “Bandito” – furono portati fuori dell’abitato, spinti con le canne dei fucili a camminare nel fosso a fianco della strada; il soldato che chiudeva il gruppo aveva in mano una frusta, con la quale colpì ripetutamente i due condannati.

Sul luogo dell’esecuzione, in località Pietra Scritta, Carlo Alberto Ferrero rifiutò la benda, ma non gli fu nemmeno concessa una “regolare” fucilazione: un tedesco gli sparò un colpo al volto da distanza ravvicinata, il giudice cadde a terra e riuscì a rialzarsi, sanguinante, gridando qualcosa al suo feritore; allora, lo stesso tedesco gli sparò altri colpi al volto e al petto, sotto i quali Ferrero cadde definitivamente a terra. I due cadaveri, deturpati dalle percosse ricevute pre e post mortem, e lasciati sul posto tutta la notte, sotto la pioggia, furono ritrovati solo il giorno successivo, dal parroco – che non era stato avvisato dell’esecuzione – e da altri paesani; vennero portati al cimitero, il parroco poté impartire loro una benedizione, ma non gli fu concesso di celebrare i funerali.

Dopo la Liberazione, le tre persone individuate come coloro che avevano fornito ai tedeschi il nominativo di Carlo Alberto Ferrero furono giudicate dalla Corte d’Assise di Cuneo, Sezione speciale: con sentenza del 27 marzo 1947, due imputati furono e condannati alla pena di morte e il terzo a 30 anni di reclusione. La sentenza fu impugnata dagli imputati e la Corte di Cassazione, con sentenza del 7 marzo 1949, commutò la pena di morte di uno degli imputati nella pena dell’ergastolo (essendo stata, nel frattempo, abolita la pena di morte) ed annullò le altre due condanne per difetto di motivazione sulla responsabilità personale, rinviando a nuovo giudizio davanti alla Corte d’Assise di Torino. Quest’ultima, con sentenza del 27 febbraio 1950 confermò le due condanne, riducendo le pene a 24 e a 15 anni di reclusione (in gran parte condonati).

Gli imputati proposero nuovo ricorso per cassazione e la Suprema Corte, con sentenza del 19 giugno 1952, annullò la prima decisione della Corte d’Assise di Cuneo per mancata instaurazione del rapporto processuale nei confronti di uno degli imputati, in allora latitante, rinviando gli atti alla Corte d’Assise di Ancona; anche le condanne degli altri due vennero annullate, con rinvio alla Corte d’Assise d’Appello di Ancona.

Con sentenza del 23 luglio 1953 la Corte d’Assise di Ancona confermò la dichiarazione di colpevolezza del primo e lo condannò a 20 anni di reclusione; ma la vicenda giudiziaria si concluse solo nel 1954, davanti alla Corte d’Assise d’Appello di Ancona, con l’assoluzione di tutti e tre gli imputati dall’accusa di omicidio aggravato per insufficienza di prove e con la dichiarazione di non doversi procedere nei loro confronti quanto al reato di collaborazionismo, per intervenuta amnistia.

Nel maggio del 1994, nei locali della Procura Generale Militare di Roma, fu scoperto per caso il tristemente noto “armadio della vergogna”, l’armadio – con le ante chiuse a chiave e rivolte verso il muro, perché a nessuno venisse in mente di aprirlo – che conteneva i fascicoli processuali relativi alle stragi nazifasciste consumatesi in Italia tra il settembre 1943 e l’aprile 1945. I fascicoli furono inviati alle Procure Militari competenti per territorio, e la Procura Militare di Torino iniziò il procedimento a carico dell’ex-capitano Heinrich Schubert, comandante del reparto della 34ª Divisione della Wehrmacht che aveva occupato Chiusa Pesio nel dicembre 1944, accusandolo di omicidio aggravato di 14 civili italiani. Il giudizio, svoltosi nella contumacia dell’imputato, si è concluso con la sentenza del Tribunale Militare di Verona del 22 – 29 settembre 2009 n. 47, che ha dovuto dichiarare l’estinzione del reato per morte del reo: il capitano Schubert, infatti, era morto nel maggio del 2009 a Darmstadt, dove aveva vissuto come stimato geometra e tranquillo pensionato.

Dunque, per la morte di Carlo Alberto Ferrero e degli altri 13 civili trucidati a Chiusa Pesio nel dicembre 1944, nessuno è stato condannato.

Carlo Alberto Ferrero non ha lasciato discendenti diretti ancora in vita: questa è una ragione in più perché noi, i magistrati della Corte d’Appello di Torino di oggi, ci sentiamo i suoi veri, attuali, discendenti diretti, e ci assumiamo il compito di mantenere viva la sua memoria.

Concludo questo ricordo con le parole di Primo Levi: “meditate che questo è stato”. Questo orrore è accaduto veramente, e quindi potrebbe accadere ancora. Il nostro impegno sia quello di impedirlo, ora e sempre.

[*] Il testo riproduce l’intervento svolto nel corso della cerimonia commemorativa.

21/12/2019
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