Sono giorni decisivi per la riforma dell’ordinamento penitenziario. Che, pur decimata per ragioni politiche, rimane uno snodo fondamentale per imboccare, anche culturalmente, la strada di una pena più sensata, dignitosa e rispettosa del dettato costituzionale. I decreti legislativi varati dal Governo sono stati riconsegnati dalle due Camere con pareri formalmente favorevoli, ma l’elenco delle “condizioni” poste (non semplici “osservazioni”) è talmente lungo da tradire il desiderio politico di uno stop. Il rischio concreto è che non si faccia in tempo a tagliare il traguardo prima del 4 marzo e che tutto slitti a dopo, con forti incognite legate all’incertezza del quadro politico uscente dalle urne. Ma il problema tecnico nasconde, in realtà, un problema politico, che dovrà essere sciolto appunto nei prossimi giorni.
Diciamoci la verità: una riforma del carcere come questa, per quanto parziale, è considerata troppo “eversiva” rispetto a un senso comune che – dispiace dirlo – ha smarrito ogni riferimento costituzionale anche grazie a politiche dissennate sulla sicurezza e ad allarmismi funzionali solo a raccogliere consensi. Una riforma del carcere come questa è troppo impopolare per essere approvata proprio alla vigilia delle elezioni, per di più da un Governo che, a parte il Ministro della giustizia Andrea Orlando, forse non ne percepisce neppure la reale portata ma soltanto la carica “eversiva” e perciò teme di pagarne il prezzo nell’urna, a vantaggio di chi, in primis Lega e Movimento 5 Stelle, cavalca slogan del tipo: «È un regalo ai mafiosi». E pazienza se questa rappresentazione è il prodotto di fake news ben confezionate anche con il contributo di qualche magistrato e comunque nel silenzio della maggior parte dei magistrati.
Ci sono momenti – e questo è uno di quelli – in cui il silenzio è un lusso che nessuno si può permettere. Oggi, infatti, è la stessa Costituzione ad essere percepita come “eversiva” rispetto a un senso comune diffuso e fuori controllo, che si nutre di odio, vendetta, intolleranza, discriminazioni, emarginazioni… . La “Costituzione eversiva” può sembrare un paradosso ma è purtroppo un dato di fatto e tanto dovrebbe bastare a mobilitarsi ad ogni livello, per riconciliare il Paese reale con i valori costituzionali. Nessuno può chiamarsi fuori.
Da questo punto di vista, l’approvazione della riforma del carcere è una cartina di tornasole della credibilità dello spirito costituzionale rivendicato e celebrato dalle forze politiche per i 70 anni della Costituzione. Il varo dei decreti sarebbe un segnale positivo in questa direzione.
La delega prevede una procedura rafforzata per cui, fermo restando che i pareri delle Camere sono obbligatori ma non vincolanti, il Governo deve fare un altro passaggio parlamentare se ritiene di non adeguarsi a tutte o ad alcune delle “condizioni” eventualmente indicate dal Parlamento.
Orlando è determinato ad andare avanti sulla strada già tracciata, senza cioè snaturare la riforma. Quindi, salvo qualche piccola correzione, non cambierà i testi. Che a questo punto dovranno però ripassare in Consiglio dei ministri nella versione corretta per poi essere rispediti alle Camere con la motivazione sul mancato adeguamento. E le Camere avranno 10 giorni di tempo per pronunciarsi.
Non è stato un buon segnale che il Governo abbia “saltato” il Consiglio dei ministri dell’8 febbraio, rimandando tutto alla successiva riunione a Palazzo Chigi, al momento prevista per il 21. A quel punto, però, i 10 giorni a disposizione delle Camere scadranno il 3 marzo. Impossibile immaginare un Consiglio dei ministri per quella data. Se ne riparlerà dopo il voto (le nuove Camere dovrebbero insediarsi tra il 21 e 22 marzo e in ogni caso la delega scade ad agosto).
A meno che, però, non ci sia una ferma volontà politica di bruciare i tempi.
Governo e maggioranza dovrebbero anzitutto decidere di intestarsi la riforma anche a pochi giorni dal voto e poi accelerare al massimo i tempi per consentire al Consiglio dei ministri di anticipare il varo definitivo entro febbraio.
Uno scenario irrealistico, che induce a considerare la riforma già spacciata, soprattutto se si considera l’incertezza politica post voto.
Ma si può davvero accettare che, ad un passo dall’approvazione, tutto sfumi?
La riforma è un’occasione unica per voltare pagina sull’esecuzione penale e aprire la strada a una diversa concezione della pena. Che a molti sembrerà eversiva o rivoluzionaria mentre ai Costituenti sembrò semplicemente rispettosa della dignità della persona, oltre che conveniente per la sicurezza collettiva. Settanta anni fa, i Costituenti decisero che il carcere non sarebbe più stato un «cimitero dei vivi» e già allora esclusero che fosse l’unico modo per scontare la pena. Non avevano sottomano statistiche ma soltanto l’esperienza diretta di un carcere vendicativo che mortificava la dignità umana, supremo valore da tutelare anche dietro il muro di cinta. Con il passare del tempo, quella lungimiranza ha trovato conferma nelle statistiche, secondo le quali chi sconta la pena in modo flessibile – cioè in modo operoso, fruendo anche di misure alternative e comunque con un costante contatto con l’esterno – ha un tasso di recidiva del 30%, che sale al 70% per chi sconta la pena chiuso dietro le sbarre. Inoltre, le statistiche ci dicono anche che chi sconta pena in un contesto penitenziario rispettoso del dettato costituzionale ha una recidiva di 10 punti inferiore a chi, invece, affolla le patrie galere nell’ozio e nel degrado. Eppure, questo ritorno in termini di sicurezza collettiva viene ignorato proprio da chi agita le folle con l’argomento della sicurezza.
Ecco perché è doveroso mobilitarsi, e subito, per far approvare i decreti e trasformare questa piccola-grande riforma anche in un’occasione di riconciliazione del Paese reale con i suoi valori fondamentali.
Donatella Stasio