Magistratura democratica
Magistratura e società

Storia di una transizione tradita

di Rita Sanlorenzo
avvocata generale, Procura generale Corte di cassazione, vicedirettrice di Questione Giustizia

Recensione a L’epurazione mancata. La magistratura tra fascismo e Repubblica, a cura di Antonella Meniconi e Guido Neppi Modona (2022)

Nella transizione dal regime fascista alla nuova forma repubblicana assunta dall’Italia a seguito della guerra partigiana e del varo della Costituzione del ’48, una delle prime esigenze presentatesi al nuovo governo democratico fu, come ovvio, quella di un radicale ricambio del personale che aveva agito sotto la vecchia amministrazione.

L’operazione è risultata fallimentare, almeno per quel che riguarda le figure di maggior spicco, se è vero che la gran parte degli alti funzionari rimase al proprio posto senza che le rispettive carriere riportassero serie ripercussioni. Il bilancio non cambia per quel che riguarda l’epurazione che dovette necessariamente e prioritariamente riguardare la magistratura: per avere un riferimento concreto, basta considerare il dato quantitativo. I processi di epurazione furono circa 400 su circa 1000 casi esaminati, quando la magistratura all’epoca era composta in tutto da 4000 magistrati. Gli esiti sanzionatori furono però molto pochi, dal momento che in tutto si contano 55 collocamenti a riposo e 56 dispense dal servizio.

Il tutto assume poi un maggior rilievo, se si considera che i magistrati erano essi stessi ad essere investiti del compito di compiere l’epurazione, non solo per quel che riguardava il loro interno, ma altresì nei riguardi degli altri corpi burocratico-amministrativi e politici della neonata Repubblica. 

Nello stesso tempo epuratori ed epurandi, in largo numero inseriti nelle Commissioni di epurazione dopo il 1943, i magistrati appartengono d’altro canto ad uno degli apparati necessariamente coinvolti con il regime e con la Repubblica di Salò. Eppure, come si ricorda nella illuminante introduzione a firma di Antonella Meniconi e di Guido Neppi Modona, curatori del volume “L’epurazione mancata. La magistratura tra fascismo e Repubblica” (Il Mulino, pp. 338, € 32,00), ad ogni seria operazione di depurazione delle istituzioni e degli apparati dalle presenze troppo compromesse con il regime, sarebbe stata preliminare una seria e profonda defascistizzazione della magistratura, quantomeno tra gli alti gradi chiamati a presiedere e comporre quelle Commissioni deputate al compito nei confronti delle altre amministrazioni. Questa operazione, il giudizio è unanime, non riuscì.

Di qui quel circuito vizioso che reca in sé le premesse del fallimento: che trova compiuta descrizione, attraverso un’analisi approfondita e minuziosa, nel volume che si arricchisce, oltre all’ampio saggio dei curatori, dei contributi di giovani studiosi e della ripubblicazione di un saggio del 1999 di Pietro Saraceno, padre di un filone di ricerca storica sulla magistratura che supera l’analisi di leggi e giurisprudenza per approdare allo studio degli uomini e delle loro storie personali.

L’opera si compone di studi tematici, dedicati rispettivamente alla ricostruzione di quanto accadde nell’ambito del Tribunale speciale, ovvero in relazione all’introduzione delle leggi ebraiche; o ancora circa i comportamenti di alcuni magistrati durante i venti mesi della Repubblica sociale. Altri temi sviluppati riguardano ciò che avvenne in Cassazione a seguito dell’epurazione, dando atto della sostanziale continuità nei vertici della magistratura; per chiudere poi con la ricostruzione delle vicende che prima e dopo il fascismo hanno segnato l’associazionismo dei magistrati. 

Quello che colpisce l’attenzione del lettore, forse anche oltre ogni considerazione d’insieme, è l’analisi specifica delle singole carriere che coloro che furono salvati dall’epurazione svilupparono nei decenni successivi al 1946.  Il più famoso forse è il caso di Gaetano Azzariti, già presidente del Tribunale della razza: e che fu riabilitato da Togliatti, Ministro della Giustizia negli anni 1945/46, per rimanere prima a capo dell’ufficio legislativo di via Arenula, fino ad essere nominato (nel 1955) presidente della Corte costituzionale. 

Sono meno noti ma ugualmente significativi, tra i tanti, i casi dei magistrati Alliney e Baccigalupi.

Carlo Alliney fu nominato nel maggio 1944 capo di gabinetto nell’Ispettorato della razza col compito di inasprire le leggi antisemite del 1938: ciononostante, nel 1968 venne nominato presidente di sezione della corte di appello di Milano.

Mario Baccigalupi, in magistratura dal 1931 al 1965, fu il vero teorizzatore dell’edificio giuridico razziale italiano: il paradigma razziale assurge a valore fondante dell’intero mondo giuridico che sotto questa lente viene riletto e risistemato. collegato alla razza. Nonostante la sua forte personale compromissione nella costruzione di quel sistema legislativo, fu prosciolto in prima istanza e dunque rimase in servizio fino alle funzioni in cassazione.

I diversi studi contenuti nel volume, che intessono una ricostruzione approfondita delle parabole individuali che si compirono negli anni precedenti, e poi successivi alla caduta del fascismo, riescono a restituirci la visione di un tratto di storia italiana fondamentale, capace di riverberare i suoi effetti fino ai nostri giorni: una storia che è stata fortemente segnata da una transizione incompiuta, da un cambiamento che però non ha saputo recidere le radici con il passato di un regime dittatoriale che ha espresso il peggio di sé nell’emanazione di quelle leggi razziali che rappresentano tuttora la vergogna incancellabile dalla storia del nostro Paese.  Nelle pagine di questa storia, e di queste storie, ritorna, nelle diverse prospettazioni, l’interrogativo che riguarda anche noi, oggi, e che riguarda la stessa possibilità di portare a termine una epurazione effettiva ed autentica, capace di involgere anche (e soprattutto) i vertici giudiziari, maggiormente compromessi nell’appoggio prestato al regime. Un’azione troppo radicale avrebbe sicuramente causato la difficoltà oggettiva per la neonata Repubblica nel dover gestire una pressocché totale decapitazione dell’ordine giudiziario, o quantomeno un forte vuoto d’organico, con la conseguente necessità di procurare urgentemente un ricambio non facile né, in fondo, gradito dai componenti dell’ordine. Ma il compromesso trovato si attestò su un tipo di risposta troppo carente ed acquiescente rispetto alle compromissioni col fascismo. 

La conseguenza, tra le altre, fu che continuò a prevalere la formazione culturale di quel tipo di giuristi nonostante il mutamento dell’ordinamento giuridico e l’adozione dei valori costituzionali: negli anni ‘50 la visione autoritaria del diritto espressa dai magistrati e in particolare dai vertici di cassazione, discende direttamente dal clima in cui ebbero a formarsi. Epurazione mancata significò anche lentezza e ritardo nell’assimilare ed attuare i nuovi valori costituzionali: ciò che condizionò pesantemente la fase di passaggio al nuovo ordinamento repubblicano.

Se dunque mancò la volontà di accelerare e di rendere effettiva la transizione, il cambiamento venne favorito invece dalla ripresa dell’attività associativa. Dopo l’autoscioglimento del 1925 (sancito dalla pubblicazione sull’ultimo numero de La Magistratura del noto editoriale L’idea che non muore, dove così si sintetizzano le ragioni della scelta: «la mezzafede non è il nostro forte: la vita a comodo è troppo semplice per spiriti semplici come i nostri. Ecco perché abbiamo preferito morire», l’Associazione rinasce nel 1945, e l’anno dopo l’Assemblea elegge il Comitato direttivo centrale, in un clima che esprimeva forti spinte di cambiamento, soprattutto contro il permanere dell’ordinamento giudiziario varato dal fascismo. Vengono eletti, accanto a magistrati già fortemente compromessi con il regime, altri che viceversa avevano dato prova di fiero antifascismo, fra cui Domenico Peretti Griva e Vincenzo Chieppa, già segretario generale al momento dell’autoscioglimento. Il risultato delle elezioni segna dunque un forte momento di discontinuità e di disallineamento rispetto all’orientamento effettivo della magistratura del secondo dopoguerra. L’Anm si pone di lì in avanti sulla linea della progressiva adesione ai valori della Costituzione, e soprattutto della conquista di una effettiva indipendenza dal potere politico: certo, il cammino si mostrerà ancora (troppo) lungo ed impervio,  ma sarà coronato dal traguardo del Congresso di Gardone, nel 1965, «il momento del contributo più alto che i giudici hanno dato al rinnovamento delle istituzioni e alla rifondazione della cultura giudiziaria, basata sui valori della Costituzione democratica antifascista» (così M.Guglielmi, https://www.magistraturademocratica.it/articolo/la-nuova-sfida-di-fedelta-alla-costituzione_3040.php)

Certo, quel risultato fu ottenuto vent’anni dopo la fine del regime: impossibile non vedere in questo rallentamento il portato di una volontà chiara che si opponeva al cambiamento ed alla netta adesione ai valori democratici ed antifascisti. Quelle resistenze e soprattutto, quelle omissioni, allungano la loro ombra sino ai giorni nostri, come già hanno oscurato tante opache vicende giudiziarie che hanno segnato la vita repubblicana. L’incapacità, o il rifiuto, di sapersi guardare dentro, e di far valere una scelta incondizionata per la difesa e l’affermazione dei valori dettati dalla nostra Costituzione, per un corpo professionale, o meglio, per un ordine indipendente quale la magistratura, cui è affidata la funzione di amministrare la giustizia, pone un’ipoteca gravosa sulla stessa credibilità della propria azione, e sulla necessità di guadagnare e di conservare la fiducia dei cittadini. Questa lezione dovrebbe essere ben presente a tutti i magistrati, e dovrebbe valere anche per questi tempi travagliati.

18/02/2023
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