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Sulla distinzione tra ius constitutionis e
ius litigatoris

di Giuliano Scarselli
Ordinario di diritto processuale civile, Università di Siena
1. L’importanza di distinguere lo ius constitutionis dallo ius litigatoris dopo la riforma del giudizio di cassazione di cui alla legge 197/2016 nonché dopo il decreto del Primo Presidente del 14 settembre 2016 sulla sinteticità degli atti 2. La contrapposizione ius constitutionis - ius litigatoris nel diritto romano tardoclassico 3. La funzione di nomofilachia della Corte di cassazione dal codice del Regno d’Italia alla nostra carta costituzionale 4. Il corretto concetto di ius constitutionis e le storpiature che oggi si danno nel distinguere lo ius constitutionis dallo ius litigatoris 5. Conclusioni

Contra constitutiones autem iudicatur, cum de iure constistutionis, non de iure litigatoris pronuntiatur; quo casu appellatio necessaria est

DIGESTO, 49.8.1.2.

 

 

 

1. Da un po’ di tempo non si riesce più a parlare della cassazione senza far riferimento allo ius constitutionis e allo ius litigatoris. Sono espressioni entrate in forza nel lessico giuridico di chi si occupi di questi temi, e sono espressioni che, non avendo un preciso significato tecnico, assumono di volta in volta varie sfumature. Normalmente, quando si parla di ius constitutionis si fa riferimento all’attività nobile della Cassazione, da contrapporre a quella meno nobile dello ius litigatoris. Le questioni di particolare importanza sono ius constitutionis; quelle di minor importanza ius litigatoris. Per i più, lo ius constitutionis attiene alla funzione pubblica della Corte, mentre lo ius litigatoris a quella privata. Spessissimo lo ius constitutionis è identificato nella nomofilachia, mentre lo ius litigatoris è legato solo alla definizione dei casi concreti nell’interesse delle parti. Salve però queste generali contrapposizioni, nessuno, che io sappia, ha mai cercato di approfondire l’autentico significato di queste espressioni, né ha mai spiegato come si possa, con un certo rigore, separare lo ius constitutionis dallo ius litigatoris. Si dirà che distinguere lo ius constitutionis dallo ius litigatoris è ermeneutica di scarso interesse. Il fatto è che in questo anno la contrapposizione ha assunto invece, a mio parere, rilevanza centrale.

È successo, infatti, che la legge 25 ottobre 2016 n. 197 ha previsto, per la prima volta nella storia del giudizio di cassazione in Italia, che tutti i ricorsi debbano essere decisi in camera di consiglio, esclusi solamente quelli di “particolare rilevanza della questione di diritto”, che continuano a trattarsi in udienza pubblica secondo le vecchie regole. Ed è successo, parimenti, che il 14 settembre 2016 il Primo Presidente abbia emesso un decreto non giurisdizionale titolato La motivazione dei provvedimenti civili: in particolare, la motivazione sintetica, con il quale ha precisato che in cassazione si debbano separare i provvedimenti che attengono allo ius constitutionis rispetto agli altri e che “per tutti gli altri provvedimenti, per i quali non sia stata individuata ed esplicitata la valenza nomofilattica, debbono essere adottate tecniche più snelle di redazione motivazionale”.

Da oggi, così, ius constitutionis significa anche udienza pubblica, mentre ius litigatoris tende a significare camera di consiglio; ius constitutionis significa decisione assunta con sentenza. Ius litigatoris significa al contrario questione da decidere con ordinanza. Ius constitutionis è la “particolare rilevanza della questione di diritto”, mentre lo ius litigatoris è tutto ciò che ai giudici della cassazione non interessa (o interessa meno).

A questo punto, allora, distinguere lo ius constitutionis dallo ius litigatoris non è più fatto teorico e dottrinale, ma è al contrario aspetto pratico e concreto, poiché, sulla base di ciò, si fanno dipendere, appunto, l’esistenza dell’udienza pubblica o della camera di consiglio, della sentenza o dell’ordinanza, della motivazione estesa oppure di quella redatta con appositi moduli del CED.

Il tema non può dunque non essere approfondito, se anche si pensa che lo stesso documento approvato dall’Assemblea generale della Corte di cassazione (25 giugno 2015) prevede la riformulazione dello stesso art. 111 Cost., nel senso di dar accesso in cassazione solo nei “casi nei quali è ravvisabile la necessità di formulare principi giuridici di valenza generale”.

2. Come si fa, dunque, a separare le questioni di ius constitutionis rispetto a quelle di ius litigatoris? Come e quando nascono queste espressioni, estratte dal diritto romano? Mi permetto di ricordare quanto segue. Il diritto romano distingueva la quaestio facti dalla quaestio iuris, e da tali questioni potevano discendere, per la sentenza, l’error iuris e l’error facti. Per evitare che, grossolanamente, e come in origine, l’error iuris comportasse la nullità della sentenza, e l’error facti rendesse invece necessario l’appello a fronte di una sentenza da considerare valida, nel diritto romano tardo classico si pose la distinzione tra ius constitutionis e ius litigatoris, e si stabilirono criteri di questo genere:

 a) la sentenza era da considerare contra ius constitutionis quando pronunciata con errori di diritto sulla esistenza e/o sul contenuto delle norme, ovvero con errori giuridici posti nella premessa maggiore dell’attività logica del giudice;

b) la sentenza era invece da considerare contra ius litigatoris quando viziata da errori nella ricostruzione del fatto, oppure da errori di diritto non rientranti nella categoria dello ius constitutionis, quali quelli relativi alla sussunzione della norma al fatto, legati alla premessa minore dell’attività logica del giudice.

La sentenza contra ius constitutionis era da ritenere inesistente, e la sua inesistenza/nullità poteva esser fatta valere in ogni tempo; al contrario la sentenza contra ius litigatoris era valida ed efficace, e solo per sanare l’errore commesso dal giudice, poteva essere oggetto di impugnazione. Tutto ciò si trova in modo chiaro nel Digesto (49.8.1.2.), nel passo che ho riportato in testa a questo scritto.

Peraltro, in quel passo, non si dà una definizione della contrapposizione tra ius constitutionis e ius litigatoris, ma si procede con un esempio. Si dice: se il giudice dichiari che né il numero dei figli, né una determinata età, né alcun privilegio in capo al richiedente possano esonerarlo dai servizi pubblici (munera) o dall’ufficio della tutela (ovvero il giudice, contrariamente al diritto vigente, affermi l’inesistenza di una norma in vigore), egli pronuncia contra ius constitutionis, e la sua sentenza è inesistente/nulla. Se invece il giudice non neghi che dette circostanze possano effettivamente comportare l’esonero dai servizi pubblici o dalla tutela, così come infatti le norme dispongono, ma non le accerti per errore nella persona del richiedente, egli allora pronuncia contra ius litigatoris, e la sentenza in questi casi, al contrario, è valida ed efficace, e solo può essere rimossa con l’impugnazione dell’appello.

Il passo del Digesto, e questa esemplificazione, vengono così comunemente interpretate dalla dottrina romanista nel senso che la contrarietà allo ius constitutionis, e quindi la nullità della sentenza, vi è quando il giudice, nel sillogismo logico, erra nel porre la premessa maggiore, affermando, anche in via di interpretazione, l’esistenza di una norma che non esiste, o negando l’esistenza di una norma che c’è. Viceversa se il giudice pone correttamente la premessa maggiore, ma erra nella ricostruzione del fatto, o nel percorso logico che, data la premessa minore del fatto, porta alla conclusione, allora il giudice pronuncia sentenza contra ius litigatoris. Vi sono, ovviamente, tra gli studiosi di diritto romano, discussioni sull’interpretazione del principio del Digesto, e per queste possiamo rinviare agli studi giuridici, ad esempio, di Filippo Vassalli o di Riccardo Orestano. Ma sono discussioni su aspetti di contorno, che non interessano il problema che qui stiamo affrontando. Per quello che a noi interessa, si ribadisce, il giudice pronuncia contra ius constitutionis quando erra nel porre la regola giuridica della premessa maggiore del sillogismo; pronuncia al contrario contra ius litigatoris quando erra nella ricostruzione del fatto o nella sussunzione della norma al fatto. Si dirà: ma tutto questo che pertinenza ha con l’odierno giudizio di cassazione? Esatto. È questione che non ha pertinenza con il giudizio di cassazione. Ed infatti, se prendiamo le mosse dal Regno d’Italia, di ius constitutionis e ius litigatoris non v’è traccia né nel Commentario del codice di procedura civile di Mancini-Pisanelli-Scialoja, né nella imponente voce monografica Cassazione di Enrico Caberlotto del Digesto Italiano. Di più: è espressione che non si trova mai, parlando del giudizio e della Corte di cassazione, fino agli anni ’20. Non la si trova nel trattato di Luigi Mattirolo, nel commentario di Ludovico Mortara, nelle istituzioni di Giuseppe Chiovenda. Né queste espressioni sono state, non dico studiate, ma nemmeno usate, dai giuristi del passato che si occuparono della cassazione: da Giuseppe Pisanelli a Carlo Lessona, da Matteo Pescatore a Vittorio Emanuele Orlando.

Riscopre invece la distinzione tra ius constitutionis e ius litigatoris Piero Calamandrei con uno scritto minore giovanile La teoria dell’error in iudicando nel diritto italiano intermedio, apparso nella Rivista critica di scienze sociali del 1914. Con esso, tuttavia, Calamandrei si limita a richiamare la contrapposizione per come si era formata in età tardoclassica, senza storpiature particolari, e riassume: “La distinzione delle sentenze in due classi, secondoché esse violassero lo ius constitutionis o lo ius litigatoris si basava dunque su un criterio di ordine costituzionale. Finché il giudice si limitava a commettere errori nell’accertamento del fatto o nell’applicazione della norma al fatto, egli rimaneva nel campo di funzioni a lui demandato, e, se commetteva degli errori, li commetteva nell’ambito del suo potere (ius litigatoris); ma se il giudice si metteva in aperto contrasto col precetto della legge allora eccedeva il potere che l’ordinamento pubblico gli aveva attribuito e non funzionava più come organo giurisdizionale” (ius constitutionis). Lo stesso Calamandrei però avverte che la distinzione perde di significato con il basso Medioevo, quando si inizia invece a ritenere che “la sentenza passata in giudicato pro veritate habetur e la sua autorità è tanta che essa può fare de non ente ens, de falso verum et de albo nigrum”. Dalla sentenza inesistente perché contra ius constitutionis alla sentenza appellabile perché contra ius litigatoris si passa così alla sentenza che, ove non impugnata, e in quanto passata in giudicato, è sempre efficace e vera, sulla falsariga di quello che per noi sarà successivamente l’art. 162 c.p.c. Di nuovo, si potrebbe ribadire che la contrapposizione tra ius constitutionis e ius litigatoris, per come sorta storicamente e per come riportata dallo stesso Piero Calamandrei, non ha pertinenza con il giudizio di cassazione. Il problema è che, successivamente, Piero Calamandrei si cimentò con il tema della cassazione, e scrisse su essa due ponderosi volumi; e in quei volumi, ovviamente, non fece a meno di riportare quanto aveva già precedentemente scritto, e quindi riportò anche lo scritto giovanile sopra menzionato, ma lo fece nella parte introduttivo-storica dello studio sulla cassazione (vol. I, 21 e ss.; e 46 e ss.), senza attribuire a questa contrapposizione alcun valore specifico. Prova ne è che queste dissertazioni del Calamandrei non condizionarono la successiva dottrina sulla cassazione, che continuò ad occuparsi del tema senza quasi mai, ancora, far riferimento allo ius constitutionis e ius litigatoris. Niente di ciò, infatti, si trova ancora nella Logica del giudice e il suo controllo in cassazione di Guido Calogero, nel Manuale di Enrico Redenti, nella voce dell’Enciclopedia del Diritto di Salvatore Satta, nel Manuale di Virgilio Andrioli, nel saggio Il vertice ambiguo di Michele Taruffo; e così di seguito.

3. Solo ai nostri giorni, per combinazioni difficilmente ricostruibili, queste espressioni diventano moda. E come tutte le cose che fanno moda, anche queste perdono il loro autentico significato, e ne acquistano un altro, a seconda dei bisogni. Così, contra ius constitutionis non sono più le sentenze inesistenti perché pronunciate dal giudice in assenza o spregio di norme giuridiche; contra ius constitutionis sono viceversa tutte le sentenze che consentono alla cassazione di poter emanare pronunce aventi funzione di nomofilachia, ovvero pronunce in grado di fissare principi giuridici da rispettare in futuri casi. Parimenti contra ius litigatoris non sono più le sentenze con errata ricostruzione dei fatti o con violazione di legge relativamente alla sua applicazione concreta al fatto, ma sono tutte le questioni che interessano solo il ricorrente, e non consentono alla cassazione, con la pronuncia che si chiede, di svolgere funzione di nomofilachia. La distinzione ius constitutionis - ius litigatoris diventa così ancella della nomofilachia, e ad essa si attribuisce una contrapposizione pubblico-privato inesistente.

Sia consentito allora, anche sotto questo profilo, ricordare che, così come è odierna la storpiatura del significato che si attribuisce allo ius constitutionis rispetto allo ius litigatoris, allo stesso modo è odierna la funzione di nomofilachia per come sempre più valorizzata. La cassazione, infatti, agli inizi, nient’altro faceva se non annullare le sentenze che contenessero une contravention espresse au teste de la loi. Essa non nasceva per fissare principi di diritto o, meno ancora, per uniformare orientamenti giurisprudenziali. Nasceva, puramente e semplicemente, per cassare le sentenze pronuncia in violazione di legge. Non a caso, le prime Corti di cassazione d’Italia (1817, Regno delle due Sicilie; 1838, Granducato di Toscana; 1847 Regno di Sardegna) provvedevano tutte, solo e soltanto, a controllare la legalità delle sentenze pronunciate in secondo grado, e ad annullare quelle pronunciate in violazione di legge. A seguito dell’Unità d’Italia, la cassazione veniva recepita nella legge sull’ordinamento giudiziario r.d. 2626/1865, e ad essa veniva affidato il compito, in base all’art. 122, di assicurare la “esatta osservanza della legge, e non di indicare principi di diritto per uniformare gli orientamenti della giurisprudenza. E stesso ruolo veniva confermato alla Cassazione dalla successiva legge di ordinamento giudiziario l. 2786/1923, contestuale alla soppressione della c.d. Corti regionali in favore della Cassazione di Roma. Anche quella legge, nell’art. 61, adoperava la stessa espressione già usata dall’art. 122 r.d. 2626/1865, e assegnava ancora alla Corte di cassazione il compito di assicurare la “esatta osservanza della legge”. Solo l’art. 65 del r.d. 12/1941 avrebbe previsto che la Corte di cassazione “assicura l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale”, ovvero solo nel 1941, per la prima volta, veniva riconosciuta alla Corte di cassazione una funzione di nomofilachia, che le precedenti leggi sull’ordinamento giudiziario non prevedevano. E credo non dovrebbe essere oggetto di dubbio che il passaggio dalla sola “osservanza della legge” degli anni 1865 e 1923, alla “uniforme interpretazione” e alla “unità del diritto oggettivo nazionale” del 1941, costituiva lo sviluppo e il risultato di quegli orientamenti politici manifestatesi nel ventennio. E parimenti credo non dovrebbe essere oggetto di dubbio che la dizione dell’art. 65 r.d. 12/1941, quanto meno al suo origine, e salva la diversa e moderna interpretazione che oggi si dà di quella medesima disposizione di legge, fosse tipica di quel periodo, e rispondente alla logica autoritaria e gerarchica propria del fascismo. Sotto altro profilo deve ricordarsi che erra chi sostiene che il principio di nomofilachia si trovi nella nostra Carta costituzionale. La vicenda “nomofilachia” in assemblea costituente può essere infatti così riassunta.

Piero Calamandrei, in seconda sottocommissione, chiedeva che la Costituzione riconoscesse alla Cassazione una funzione di nomofilachia e proponeva un art. 12, 2° comma, per il quale “al vertice dell’ordinamento giudiziario, unica per tutto lo stato, siede la Corte di cassazione, istituita per mantenere l’unità del diritto nazionale attraverso la uniformità dell’interpretazione giurisprudenziale e per regolare le competenze tra i giudizi”. L’idea che la nomofilachia fosse recepita in Costituzione veniva però opposta da più di un componente della sottocommissione: vi si opponeva per primo Targetti, e poi Bozzi, Ambrosini, Di Giovanni, Castiglia, ed altri. Calamandrei veniva così messo in minoranza, tanto che lui stesso, nella seduta pomeridiana del 20 dicembre 1946, a verbale, “dichiara di aderire alla proposta di Targetti e di ritirare il capoverso in esame”. Parallelamente Giovanni Leone presentava un diverso art. 17, il quale semplicemente diceva che “in ogni causa devono essere osservati tre gradi di giurisdizione”.

Questo progetto, a differenza di quello di Calamandrei, non mirava a costituzionalizzare il principio di nomofilachia, ma solo ad assicurare ai cittadini il terzo grado di giudizio, inteso come controllo di legalità nell’applicazione della legge. Dopo ampi discussioni, la proposta di Giovanni Leone veniva approvata con l’art. 102 del progetto di costituzione, per il quale “Contro le sentenze pronunciate in ultimo grado da qualsiasi organo giurisdizionale ordinario o speciale, è sempre ammesso il ricorso alla Corte di cassazione”. Quando, dai lavori della sottocommissione si passava a quelli dell’Assemblea, Calamandrei, con dubbio comportamento, dopo aver ritirato il suo progetto in sottocommissione, lo riproponeva all’Assemblea (seduta pomeridiana del 27 novembre 1947). Avverso ciò riprendeva la parola Targetti, ricordando la vicenda della sottocommissione e il ritiro dello stesso Calamandrei di quel testo e rimproverava il collega: “L’onorevole Calamandrei si contraddice”. La proposta non aveva seguito nemmeno in Assemblea. L’Assemblea, infatti, discusse solo la proposta di Giovanni Leone, approvata dalla sottocommissione con l’art. 102. Il testo di Giovanni Leone, senza sostanziali modificazioni, veniva poi confermato dall’Assemblea, e andrà a formare, come è noto, l’odierno art. 111 Cost., penultimo periodo.

4. Date queste premesse, vengo al punto. Se non riusciamo a fare a meno della distinzione tra ius constitutionis e ius litigatoris, usiamo allora queste espressioni in modo corretto, e poniamo in modo corretto lo spartiacque tra ciò che deve essere ricondotto allo ius constitutionis rispetto a ciò che al contrario deve esser considerato ius litigatoris. È contra ius constitutionis ogni pronuncia del giudice del merito emanata in violazione di legge, tanto negando l’esistenza della norma che c’è, quanto affermando l’esistenza di una norma che non c’è. Ius litigatoris si ha solo quando il giudice del merito abbia ricostruito il fatto in modo errato, oppure abbia commesso errori nella sussunzione della norma al fatto. Se però si pensa che la ricostruzione del fatto non è sindacabile in Cassazione, e anche il percorso logico del giudice, dopo la modifica del n. 5 dell’art. 360 c.p.c., non sembra parimenti aspetto che possa stare sotto il controllo della Cassazione, ne segue che le uniche ipotesi di ius litigatoris sono quelle dell’omissione di un fatto decisivo per il giudizio ex art. 360 n. 5 c.p.c. Dopo di che, poiché la violazione di legge può indifferentemente essere tanto sostanziale quanto processuale, ogni violazione di legge, per ogni altro numero di cui all’art. 360 c.p.c., dà sempre una fattispecie di ius constitutionis, atteso che in tutti questi casi si contesta infatti al giudice del merito di aver posto, nella premessa maggiore del sillogismo, un principio di diritto errato. Dunque: è evidente che la Corte di cassazione deve occuparsi dello ius constitutionis; ma occuparsi dello ius constitutionis significa solo occuparsi delle violazioni di legge, non altro. E tutte le violazioni di legge sono eguali, perché tutte le violazioni di legge danno luogo a sentenze contra ius constitutionis. Ogni altra attribuzione di significato alla contrapposizione ius constitutionis - ius litigatoris non solo è antistorica, ma non è nemmeno possibile, poiché non è possibile graduare, in termini di valore, le violazioni di legge. Pregherei allora di smettere di usare questa distinzione per raggiungere altri obiettivi, o per perseguire fini deviati rispetto ad essa. In sostanza, smettiamo di storpiare queste espressioni per giustificare la selezione delle questioni e/o dei ricorsi, o per porre in essere operazioni analoghe. Mi permetto qui di indicare, e commentare, le maggiori e più diffuse storpiature di questa contrapposizione.

a)    Una prima è questa: lo ius constitutionis ha ad oggetto la questione di diritto che interessa tutti; lo ius litigatoris ha invece ad oggetto una questione di diritto che interessa solo il ricorrente. Par evidente che una distinzione di questo genere non può darsi. Se la questione è di diritto, la questione non può non interessare sempre tutti. Ogni questione di diritto può sempre ripresentarsi in casi futuri, e se la cassazione, nel risolvere quella questione di diritto, fissa un principio, par evidente che quel principio può trovare sempre futura applicazione in futuri giudizi di merito. Non ci sono principi di diritto che interessano tutti e principi di diritto che interessano solo il ricorrente. Tutto ciò che è violazione di legge è ius constitutionis, e ogni sentenza pronunciata in violazione di legge è sempre una sentenza contra ius constitutionis. Tutto interessa sempre tutti.

b)    Una seconda storpiatura è questa: lo ius constitutionis ha ad oggetto una questione di diritto complessa; lo ius litigatoris ha invece ad oggetto una questione di diritto semplice. Dire che anche questa ripartizione non può darsi. La complessità della questione attiene solo al lavoro del giudice della cassazione, non alla rilevanza della violazione di legge. Ed anzi, paradossalmente, più la questione di diritto che il giudice della cassazione deve risolvere è semplice, più è forte la violazione di legge che il giudice del merito ha commesso. In ogni caso siamo sempre contra ius constitutionis: alle volte, magari, con maggiore intensità, altre volte con intensità minore. Ma è sempre e solo un aspetto di misura, che non intacca il concetto.

c)     Una terza storpiatura è questa: lo ius constitutionis ha ad oggetto una questione di diritto sui grandi aspetti; lo ius litigatoris ha invece ad oggetto una questione di diritto sui piccoli aspetti. In questo modo sarebbero ius litigatoris (che so) le questioni giuridiche in materia di condominio, di vicinato, di piccolo valore economico, di giurisdizione volontaria, etc.; sarebbero al contrario ius constitutionis le questioni giuridiche relative ai diritti della personalità, dell’impresa, della famiglia, del lavoro. Anche questa distinzione, sia consentito, non ha fondamento. Una distinzione di questo genere porterebbe a ritenere che la tutela giuridica è differente a seconda delle materie coinvolte. Al contrario, la tutela che si presta alle violazioni di legge deve essere sempre la medesima. Non vi sono materie di serie A e di serie B. I diritti che vengono fatti valere in cassazione sono tutti eguali, anche ai sensi dell’art. 3 Cost.

d)    E veniamo alla principale delle storpiature: lo ius constitutionis ha ad oggetto una questione di diritto da decidere; lo ius litigatoris ha invece ad oggetto una questione di diritto già decisa. Questa è, a mio parere, la principale delle storpiature, ed è quella che tende ad assimilare lo ius constitutionis alla nomofilachia. Se la questione è da decidere perché è nuova, oppure perché l’orientamento va mutato, oppure perché su essa vi sono contrasti giurisprudenziali, allora essa è importante, è ius constitutionis; viceversa se si tratta solo di ribadire principi già affermati, e non v’è alcuna necessità né di risolvere contrasti né di mutare orientamenti, allora la questione non è importante, è ius litigatoris. Questa impostazione non può essere condivisa non solo perché usa in modo del tutto inappropriato la distinzione ius constitutionis - ius litigatoris, ma anche per due fondamentali ragioni: 1) perché questa divisione è già stata fatta dal legislatore nella contrapposizione sezioni unite – sezioni semplici di cui all’art. 374 c.p.c., e non può essere di nuovo utilizzata, attraverso il criterio ius constitutionis - ius litigatoris, per contrapporre l’udienza pubblica alla camera di consiglio, la sentenza all’ordinanza, la motivazione estesa a quella redatta con modelli CED; 2) e soprattutto perché, a ben vedere, quando la cassazione, nell’accogliere un ricorso, deve solo ripetere un principio di diritto già affermato, lì evidentemente la violazione del giudice del merito è stata più forte e palese, lì evidentemente il giudice del merito ha commesso errori più gravi, perché ha disatteso un orientamento esistente, che per questo va ribadito.

Se noi riteniamo che questi casi sono meno importanti (ius litigatoris), noi riteniamo che la Corte di cassazione debba apprestare minor impegno e minor attenzione proprio dinanzi alle violazioni di legge più gravi.

Viceversa, se da una parte è vero che la cassazione deve prestare massimo impegno dinanzi alle questioni nuove, oppure dinanzi a quelle che servono per risolvere contrasti, o mutare orientamenti esistenti, pari attenzione deve egualmente prestare anche dinanzi alle violazioni di legge più gravi, ai comportamenti del giudice del merito più in conflitto con il diritto vivente. Altrimenti le sentenze maggiormente contra ius constitutionis sono quelle che consideriamo di ius litigatoris, cadendo così non solo in evidente contraddizione, ma anche rinnegando, o ridimensionando, una esigenza di giustizia che non v’è bisogno di illustrare oltre.

5. In conclusione, io credo che potrebbe aprirsi discussione su questi punti:

a)    in primo luogo si dovrebbe evitare di usare le espressioni ius constitutionis - ius litigatoris in funzione della nomofilachia, atteso che esse riguardano altri aspetti ed hanno significato, anche storico, completamente diverso;

b)    in secondo luogo credo che, se dette espressioni devono essere usate, ad esse vada allora attribuito il loro autentico significato, senza storpiature fuorvianti;

c)    conseguentemente, si dovrebbe prendere atto che tutte le questioni fatte valere in Cassazione attengono allo ius constitutionis, con esclusione dei soli ricorsi ex art. 360 n. 5 c.p.c.;

d)    sempre conseguentemente, dovrebbero allora andare in Camera di consiglio, alla luce della nuova l. 197/2016 e alla luce del nuovo decreto del Primo Presidente del 14 settembre 2016, solo i ricorsi ex art. 360 n. 5 c.p.c., e ciò oltre i ricorsi da respingere per manifesta infondatezza ex art. 375 c.p.c.;

e)    in tutti gli altri casi, se il ricorso non è manifestamente da respingere, atteso che con esso viene denunciata l’esistenza di una sentenza pronunciata contra ius constitutionis, la procedura dovrebbe seguire l’iter dell’art. 379 c.p.c. secondo le regole generali, e salva la discussione presso le sezioni unite nei casi di cui all’art. 374 c.p.c.

f)     Ciò sarebbe inoltre conforme all’idea di non portare in Camera di consiglio, 25/30 cause alla volta, poiché ciò impedirebbe lo svolgimento di un approfondimento collegiale delle questioni, e mortificherebbe la qualità delle decisioni che una Corte suprema deve dare.

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In copertina: Corrado Giaquinto, La Pace e la Giustizia (1759-1760) - Museo del Prado, Madrid

13/01/2017
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