Attualità e qualità della giustizia amministrativa tra trasformazioni del potere pubblico e strumentazioni processuali
Di là dalle origini storiche del modello di giustizia amministrativa, vengono oggi in primo piano il mutamento delle forme di esercizio del potere pubblico e, fermo il rispetto del principio di separazione dei poteri, l’evoluzione della giurisdizione amministrativa nella direzione di un apprezzamento sostanziale e commisurato alla realtà dell’azione amministrativa.
Benché sia al fondamento del dualismo giurisdizionale, il dibattito pubblico italiano poco usa rammentare che il giudice amministrativo esprime il temperamento possibile del principio di separazione dei poteri. Lo è dalla nascita, per offrire un rimedio di giustizia contro l’attività amministrativa contraria a leggi o – come poi la giurisprudenza avrebbe precisato sull’eccesso di potere – distorta per mezzi o per fini. Come già nel 1872 in Francia, nacque da noi nel 1889 per rimediare al vuoto di giustizia che l’accezione stretta del principio (secondo il rigido modello belga a giurisdizione unica del 1831) aveva generato nel 1865 abolendo i “tribunali speciali del contenzioso amministrativo”. Per il cittadino che non vantasse un intangibile “diritto civile o politico”, il previsto risultato era – lo disse nel 1864 alla Camera Pasquale Stanislao Mancini alle viste di quella legge – il «ch’ei si rassegni»: il diniego di tutela in giustizia dalle prevaricazioni da mala amministrazione. Il nuovo organo “per la giustizia amministrativa”, dallo speciale potere di annullamento di atti e provvedimenti ha caratterizzato la svolta. E nel tempo, in una progressione di oltre centotrenta anni, la giurisdizione amministrativa si è perfezionata. È un equilibrio raggiunto gradualmente, ma un risultato che offre al cittadino uno strumento efficace e affidabile a difesa della pretesa alla legalità dell’azione pubblica.
Di quell’origine rimane lo schema elaborato mediante la creazione concettuale, con lessico da pandettistica, dell’“interesse legittimo”: appunto il diritto alla legalità dei comportamenti amministrativi. Tre volte la Costituzione lo menziona (artt. 24, 103 e 113) configurandone la tutela mediante un differenziato giudice (artt. 103, 108 e 125): rappresentazione italiana, giustapposta al diritto soggettivo da cui ontologicamente si distingue per dire quanto invece compete al giudice civile. È singolare tanta dignità offerta al concetto di base del nostro dualismo: non per soggetti del rapporto, come nell’archetipo francese, ma per la oggettiva posizione davanti all’esercizio titolato del potere pubblico.
Dopo oltre centotrent’anni, quella svolta mostra una straordinaria attualità. Leggi e pratica hanno ormai marcato la connotazione professionale del giudice amministrativo, la sua specializzazione, la capacità satisfattiva delle sue decisioni, esempio di pienezza ed efficacia di tutela. Il tutto sotto l’egida della collegialità quasi totale (salva l’estrema urgenza): forma organizzativa che ha mantenuto questa giustizia al riparo da personalizzazioni e protagonismi e che ha contribuito a garantire ponderazione, autorevolezza e costanza delle decisioni.
Sicché l’evoluzione di questo giudice, specie negli ultimi decenni, lo connota – a usare le parole della Corte costituzionale – per «piena dignità di giudice ordinario per la tutela, nei confronti della pubblica amministrazione, delle situazioni soggettive» diverse da quelle sui “diritti” (Corte cost., 6 luglio 2004, n. 204).
Al tempo stesso, il potere pubblico è mutato e continua a mutare. I suoi confini sono diventati malcerti a causa della sua trasformazione; ma anche a causa della dispersione della sovranità, della moltiplicazione morfologica delle capacità pubbliche in ragione dei settori e della forza intrinseca dei relativi destinatari. Constatato questo panorama mobile e il proliferare degli ordinamenti di settore, si potrebbe rilevare che forse non esiste più un unitario diritto amministrativo e che si hanno tanti diritti amministrativi distinti per settori di intervento: per ognuno la cura degli interessi pubblici assume forme e modi propri. È da riflettere su quanto l’idea di codificazione mediante una legge generale sul procedimento, la legge n. 241 del 1990, attesa ma anche novellata, esprima un’idea ancora unitaria del diritto amministrativo; e quanto quest’idea sia costretta a confrontarsi, nell’accelerazione storica, con questa crescente pluralità introdotta dalla grande trasformazione delle istituzioni e delle variegate loro governances.
Deriva da questi fenomeni che la tradizionale verticalità dell’espressione del potere, l’universale provvedimento amministrativo, cede il passo a forme diversificate di intervento, a negoziazioni o a coinvolgimenti decisionali, pur senza abdicare alla cura di interessi della generalità: che permane a distinguere il pubblico amministrare. E senza contare, per le forme, che spesso il potere assume modi non pubblicistici, pur rimanendo connessi alla funzione o al servizio pubblico.
Si tace qui delle nuove sfide di giustizia che la tecnologia impone, come la sindacabilità degli atti di governo “privato” della nuova, digitale, platea magna civitatis: a partire dall’identificazione della congrua istanza di giustizia riguardo a tale forma privata di incidenza pubblica, che al più si tempera con modelli di oversight, cioè di giustizia interna e nel proprio nome.
Insomma, oggi da un lato si ha un giudice che, in questo lungo tempo, ha raggiunto un alto livello di capacità e che – sollecitato dal dialogo europeo – ha imparato a presentarsi come improntato ai canoni del diritto al giudice indipendente e imparziale, del processo celere e ad eguaglianza di armi, dell’esecuzione piena delle sue decisioni: vale a dire al trittico di standard in cui comunemente – sul piano internazionale, convenzionale e costituzionale – si esprime il fair trial; da un altro, una fenomenologia del potere – sulle cui mutevoli prevaricazioni deve dire il diritto – sempre più nuova, complessa, variegata.
Se quella era la ragione primigenia della giustizia amministrativa, oggi va considerato che – fermo il punto d’equilibrio nella separazione dei poteri, che sempre ne identifica l’ubi consistam – è ormai la particolare expertise del giudice amministrativo e la sua strumentazione che, nella concretezza dell’ordinamento, ne avvalorano la legittimazione sostanziale: in linea con le connotazioni pretese dall’opinione pubblica e che oggi debbono caratterizzare qualsiasi giurisdizione.
Vi contribuiscono la ricordata collegialità, che rende impersonali e credibili le sue decisioni, e la capacità di una risposta celere. Il tempo è bene giuridico e questa consapevolezza è entrata nell’organizzazione del processo. Così, la tempistica di esaurimento dei gradi in tema di contratti pubblici è ormai la più sollecita in Europa, inferiore all’anno e mezzo. Vi contribuisce poi la strumentazione servente all’effettività delle decisioni, messa a punto con il codice del processo amministrativo del 2010: dai poteri incisivi sull’azione amministrativa, come il porre nel nulla gli effetti di contratti pubblici già stipulati accordando una tutela specifica; o il sostituire, in ottemperanza, alle amministrazioni inadempienti l’incisiva longa manus sostitutiva del commissario ad acta. Si tratta di affinati strumenti che danno effettività alla giurisdizione. Quanto a efficienza, un ruolo primario – lo constatiamo nell’emergenza sanitaria – è quello della digitalizzazione integrale da processo amministrativo telematico, in atto da quattro anni: non lascia spazio a differimenti.
Ma soprattutto è il parametro del giudicare che ha registrato un’incisiva evoluzione. Per spill-over di formule di derivazione eurounitaria, il nostro giudice pratica ormai un sindacato dell’operato amministrativo che rileva l’eccesso di potere nella irragionevolezza dell’agire amministrativo o nella violazione del principio di proporzionalità, sulla base del noto triplice test (idoneità all’obiettivo; necessarietà ovvero minor sacrificio rispetto allo scopo; adeguatezza ovvero tollerabilità per stretta proporzionalità). È un sindacato ulteriore rispetto al parametro, tradizionale e formale, della violazione di legge, proprio del giudice civile (lo mostra l’esperienza del sindacato sulle ordinanze-ingiunzione per illeciti amministrativi): tanto più incisivo quando la lite si presenta, più che triangolare (cioè tra parti contendenti l’uso di un potere pubblico, come sui contratti pubblici, dalla valutazione “algoritmica” delle evenienze procedimentali), come bilaterale, dove il fronteggiarsi con l’azione pubblica postula la ricerca della giusta misura. Sicché all’apprezzamento formale dell’eccesso di potere, che si usava inferire da figure sintomatiche di discontinuità o torsione dell’azione pubblica, si va ormai affiancando un apprezzamento sostanziale e commisurato alla realtà dell’azione amministrativa. Il che fa del sindacato sull’eccesso di potere il più attuale proprium del giudice amministrativo: corrisponde alla comune percezione dell’esigenza di giustizia, discostandolo dai formalismi che ne indebolivano il modo di valutare e, soprattutto, lo rendevano dall’esterno non comprensibile. Ne viene un’estensione della qualità della giustizia amministrativa.
Insomma, le trasformazioni degli ultimi lustri da un lato guardano a un panorama diverso: ma dall’altro disegnano anche una riconsiderazione sul ruolo del giudice che lo mette in condizione di affrontare la sfide della giuridificazione e della giurisdizionalizzazione. Naturalmente, restano latenti rischi che si è visto seriamente emergere per il giudice ordinario, come collateralismi o, peggio, il biasimevole fenomeno delle porte girevoli tra giustizia e politica: per questo giudice più impattanti perché capaci di compromettere i risultati di una lunga evoluzione nel tempo verso quegli standard che vogliono la iurisdictio ben distinta dal livello politico del gubernaculum, i cui atti egli giudica. Sta alla capacità e responsabilità di chi ha il munus del governo autonomo evitarli.
Ma una volta accettato che, nell’interesse del cittadino, a fronte delle declinazioni del potere non possa che esserci un attrezzato giudice, e constatato che il mito risalente della giurisdizione unica sottrae tutele anziché garantirne e urta contro la realtà che porta le giurisdizioni a moltiplicarsi finanche nel common law, si richiedono ponderati ma solleciti interventi. L’alternativo riparto di giurisdizione per materie anziché per situazioni riflette quelle frammentazioni del potere. Ma dovrebbe indurre a considerare i rischi della moltiplicazione delle insicurezze giuridiche: perché, ricorda quella sentenza n. 204 del 2004, anche la giurisdizione esclusiva non può che riguardare controversie riferite a un pubblico potere. Sicché saggezza e sensibilità dovrebbero indurre a riprendere gli indirizzi aperti dal lungimirante Memorandum tra i vertici delle giurisdizioni del 15 maggio 2017 per identificare una via italiana a una ragionata partecipazione alle decisioni sul riparto, alla luce di una comune cultura della giurisdizione.