L’invasione della sfera del legislatore come eccesso di potere giurisdizionale: una sintetica ricognizione e taluni spunti di riflessione
Lo scritto intende fornire una sintetica ricognizione della giurisprudenza su quel peculiare profilo di eccesso di potere giurisdizionale che si configura nella cd. “invasione” del giudice amministrativo nella sfera del potere legislativo e che – anche dopo la sentenza n. 6/2018 della Corte costituzionale – rimane nell’orbita del sindacato riservato alla Corte di cassazione dall’art. 111, comma 8, Cost. Al momento ricognitivo dello stato della giurisprudenza in medias res si correlano, poi, ulteriori indicazioni tratte da pronunce della Cassazione rese anche in ambiti differenti, ma pur attinenti al rapporto tra “giudice e legge”, volte a innescare eventuali temi di possibile discussione pure nell’ambito proprio dell’eccesso di potere giurisdizionale.
1. La modulazione del sindacato della Corte di cassazione sulle decisioni del Consiglio di Stato per «motivi inerenti alla giurisdizione», ai sensi dell’art. 111, comma 8, Cost. e degli artt. 362 cpc e 110 cpa, ha indubbiamente risentito del tenore impresso alla norma costituzionale dall’interpretazione che ne ha dato il giudice delle leggi con la sentenza n. 6 del 2018, la quale ha rappresentato una sorta di spartiacque del diritto vivente.
Tale cesura, e con essa il mutamento di rotta, trovano piena evidenza, del resto, nella stessa ordinanza interlocutoria n. 19598 del 2020, con cui le sezioni unite civili della Cassazione hanno interrogato la Corte di giustizia dell’Unione europea sulla compatibilità del diritto eurounitario (artt. 4, par. 3 e 19, par. 1, Tue; artt. 2, parr. 1 e 2, e 267 Tfue, letti anche alla luce dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea) rispetto a una «prassi interpretativa» maturata sulle anzidette norme a seguito della citata sentenza della Corte costituzionale e della «giurisprudenza nazionale successiva che, modificando il precedente orientamento, ha ritenuto che il rimedio del ricorso per cassazione sotto il profilo del cosiddetto “difetto di potere giurisdizionale”, non possa essere utilizzato per impugnare sentenze del Consiglio di Stato che facciano applicazione di prassi interpretative elaborate in sede nazionale confliggenti con sentenze della Corte di giustizia, in settori disciplinati dal diritto dell’Unione europea (nella specie, in tema di aggiudicazione degli appalti pubblici)».
2. L’orientamento giurisprudenziale mutato, come è noto, era quello che (a partire da Cass., sez. unite, nn. 13659/2006 e 30254/2008) faceva leva su un più ampio concetto di giurisdizione, ritenendo sindacabili non soltanto le norme sulla giurisdizione che individuano «i presupposti dell’attribuzione del potere giurisdizionale», ma anche quelle che stabiliscono «le forme di tutela» attraverso cui la giurisdizione si estrinseca, nei casi in cui la violazione delle stesse comporta un diniego di giustizia.
Di qui, l’affermazione di un concetto di giurisdizione in senso “dinamico” (o “funzionale” o “evolutivo”), in forza del quale il sindacato sull’eccesso di potere giurisdizionale si viene ad estendere anche alla violazione della legge, sostanziale e/o processuale, qualora essa consegua a un’interpretazione «abnorme o anomala», ovvero a uno «stravolgimento» delle «norme di riferimento», di rito o di merito, nazionali o sovranazionali (tra le altre: Cass., sez. unite, nn. 20413/2015, 10501/2016, 14042/2016, 956/2017, 11520/2017).
3. Tale ricostruzione è stata, dunque, messa in crisi dalla menzionata sentenza n. 6 del 2018, che ha ritenuto il sindacato della Corte di cassazione sulle decisioni del giudice amministrativo, per motivi inerenti alla giurisdizione, essere consentito solo in “astratto” (e non “in concreto”) e senza che si possa validamente dare seguito – come invece ha inteso l’indirizzo giurisprudenziale innanzi rammentato – a “soluzioni intermedie”, volte a graduare qualitativamente la gravità del vizio, così da aprire un indebito spazio alla verifica dell’eccesso di potere giurisdizionale su sentenze “abnormi” o “anomale” ovvero sullo “stravolgimento radicale delle norme di riferimento”.
4. Il perimetro segnato dalla pronuncia della Corte costituzionale – che (cfr. Cass., sez. unite, n. 8311/2019) è stata reputata “vincolante” per il giudice regolatore della giurisdizione e questo perché «detta pronuncia ha identificato gli ambiti dei poteri attribuiti alle differenti giurisdizioni dalla Costituzione, nonché i presupposti ed i limiti del ricorso ex art. 111, ottavo comma, Cost., così decidendo una questione che involge l’interpretazione di norme costituzionali e l’identificazione dei confini tra poteri da queste stabiliti (con riguardo a quelli tra le giurisdizioni contemplate dal parametro), che non può non spettare alla Corte costituzionale, quale interprete ultimo delle norme costituzionali» – è, dunque, quello circoscritto «alle sole ipotesi di difetto assoluto di giurisdizione, e cioè quando il Consiglio di Stato o la Corte dei conti affermi la propria giurisdizione nella sfera riservata al legislatore, o all’amministrazione (cosiddetta invasione o sconfinamento), ovvero, al contrario, la neghi sull’erroneo presupposto che la materia non può formare oggetto, in via assoluta, di cognizione giurisdizionale (cosiddetto arretramento); nonché a quelle di difetto relativo di giurisdizione, quando il giudice amministrativo o contabile affermi la propria giurisdizione su materia attribuita ad altra giurisdizione o, al contrario, la neghi sull’erroneo presupposto che appartenga ad altri giudici».
5. In questo contesto, si vuole resecare e mettere a fuoco quella che, tra le dette ipotesi di eccesso di potere giurisdizionale, è definita come “sconfinamento” nella (o “invasione” della) sfera del legislatore.
È ipotesi che, all’evidenza, intercetta piani di ponderoso impegno a livello giuridico-concettuale, come possono essere le interrelazioni tra jus positum e funzione di interpretazione delle norme, tra fonte legislativa e formante giurisprudenziale, le quali, a loro volta, si dipanano in svariati rivoli tematici (con effetti, tuttavia, rilevanti nella prassi applicativa), non ultimi quelli che coinvolgono i profili della certezza del diritto e dell’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica, quali principi-valori comunque serventi di quel principio-valore che è architrave di un ordinamento costituzionale democratico, ossia l’eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge.
Non è certo compito né intenzione del presente scritto indagare campi del giuridico così estesi; con esso verrà invece dato rilievo, in estrema sintesi, alla giurisprudenza della Cassazione in materia di eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera riservata al legislatore, per poi attingere ulteriori spunti di una possibile e futura più ampia riflessione anche da taluni pronunciamenti non immediatamente pertinenti al sindacato sui motivi inerenti alla giurisdizione, sebbene calibrati anch’essi sulle interferenze tra attività legislativa e attività interpretativa giudiziale.
6. È jus receptum l’affermazione per cui non può affatto configurarsi un eccesso di potere giurisdizionale ai danni del legislatore rinvenendolo in un’attività di individuazione interpretativa, che è connotato tipico, imprescindibile dello jus dicere. In linea di principio, infatti, l’interpretazione della legge non trasmoda di per sé in eccesso di potere giurisdizionale, perché essa rappresenta, per l’appunto, il proprium della funzione giurisdizionale e non può, dunque, integrare di per sé sola la violazione dei limiti esterni della giurisdizione da parte del giudice amministrativo, così da giustificare il ricorso previsto dall’art. 111, comma 8, Cost., tranne i soli casi di applicazione di una norma creata ad hoc dal giudice speciale (tra le molte: Cass., sez. unite, nn. 11380/2016, 4395/2017, 14437/2018, 16957/2018, 20169/2018, 27755/2018, 543/2019).
Un’evenienza, questa, che non trova riscontro le volte in cui il giudice speciale (ma anche ordinario) individui una regula juris facendo uso dei suoi poteri di rinvenimento della norma applicabile attraverso l’ermeneusi della disposizione posta dal legislatore, magari facendo uso anche dell’integrazione analogica del quadro normativo (Cass., sez. unite, nn. 20698/2013 e 27341/2014).
In tal senso si dispiega il compito interpretativo rimesso al giudice, volto alla ricerca della voluntas legis applicabile nel caso concreto, anche se questa abbia desunto non dal tenore letterale delle singole disposizioni, ma dalla ratio che esprime il loro coordinamento sistematico, potendo dare luogo tale operazione, tutt’al più, a un error in iudicando, non alla violazione dei limiti esterni della giurisdizione speciale (Cass., sez. unite, nn. 22784/2012, 20360/2013, 27770/2020, 29653/2020).
Il campo è, però, delimitato dal significante testuale dell’enunciato normativo, «dai cui plurimi significati possibili muove la dinamica dell’inveramento della norma nella concretezza dell’ordinamento ad opera della giurisprudenza» (così Cass., sez. unite, n. 27755/2018).
E, tuttavia, l’elasticità quel significante presenta un punto di rottura oltre il quale è anche messa in discussione, come tale, l’attività di interpretazione giudiziale, sia essa a vocazione “evolutiva” che di natura “correttiva” (di una precedente interpretazione della medesima norma).
Il limite di tolleranza va, però, oltre il mero disallineamento tra orientamenti formatisi sulla medesima norma, non potendo il valore e la forza del “precedente”, quand’anche proveniente dal giudice di vertice del plesso giurisdizionale, collocarsi sullo stesso piano della cogenza che esprime la fonte legale (cfr. anche Corte cost., n. 230/2012), alla quale il giudice è, soltanto, soggetto (art. 101 Cost.).
Del resto, ciò preserva dalla stessa cristallizzazione dell’interpretazione giudiziale, poiché «la vivenza della norma (anche fuori dalla metafora morfologica) è una vicenda, per definizione, aperta» (Cass., sez. unite, n. 15144/2011), sebbene, non solo in forza della sua provenienza (a maggior ragione se questa riguardi il giudice di vertice del plesso giurisdizionale), ma anche della sua persuasività, essa aspiri comunque ad assumere il connotato della tendenziale stabilità e ad avere un seguito generale, in armonica coerenza con la funzione nomofilattica esercitata da quel giudice ed esaltata dalle riforme processuali più recenti (quelle, segnatamente, degli ultimi tre lustri, a partire dal d.lgs n. 40/2006).
Di tanto dà contezza e dimensione l’affermazione sul «rilievo meramente teorico» che assume la figura dell’eccesso di potere giurisdizionale per sconfinamento nella sfera legislativa, «in quanto – postulando che il giudice applichi, non la norma esistente, ma una norma da lui creata – potrebbe ipotizzarsi solo a condizione di poter distinguere un’attività di produzione normativa inammissibilmente esercitata dal giudice, da un’attività interpretativa, la quale in realtà non ha una funzione meramente euristica, ma si sostanzia in un’opera creativa della volontà della legge nel caso concreto» (Cass., sez. unite, n. 24175/2004).
Non si tratta soltanto di assunto argomentativo, ma di una constatazione già allora descrittiva di una situazione di fatto nell’esperienza del sindacato svolto dalla Cassazione in questo specifico ambito, che, anche successivamente, non ha fatto registrare eccezioni significative.
7. L’indagine – come accennato – può ora ampliarsi anche in direzioni diverse, ma che possano vantare un qualche riflesso sul tema di elezione e in grado di innescare, semmai in un prossimo futuro, un dibattito aperto a riflessioni ulteriori.
Sovviene, anzitutto, la lettura che le sezioni unite civili (con la sentenza n. 11747/2019) hanno dato dell’art. 2, comma 3, lett. a della l. n. 117/1988, nel testo anteriore alle modifiche apportate dalla l. n. 18/2015, ossia della locuzione «grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile», che connota la relativa fattispecie di responsabilità civile dello Stato-giudice e che viene a sottrarsi alla clausola di salvaguardia di cui al comma 2 del citato art. 2, a mente della quale «[n]ell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove».
Lo iato tra ipotesi sanzionata civilmente e processo interpretativo che ne è esente viene colmato attraverso una triade di fasi logiche prodromiche alla stessa attività ermeneutica siccome produttive di “errore” (individuazione della disposizione, individuazione degli effetti giuridici della fattispecie, ascrizione di significato alla disposizione), nelle quali è possibile rinvenire il perno centrale della complessiva verifica nel rilievo attribuito al «significato della disposizione, intesa quest’ultima come fatto, come elaborato linguistico preso in considerazione dal giudice che non ne comprende la portata semantica».
Di qui, ossia nell’incomprensione radicale dell’enunciato (e, quindi, nella “inesplicabilità” della negligenza, intesa come “non spiegabile” in rapporto alla concreta vicenda processuale portata alla cognizione del giudice), la possibilità di scorgere nell’attività del giudice lo sconfinamento «nel provvedimento abnorme o nel diritto libero»; figura, quest’ultima, che si rivela icasticamente descrittiva di un’appropriazione di un potere (quello del legislatore) che non è del giudice.
Dunque, il significante testuale e la sua tensione oltre un certo limite, oltrepassato il quale viene a smagliarsi del tutto la trama semantica, costituiscono i fattori concludenti, anche nell’indagine compiuta da Cass., sez. unite, n. 11747/2019 (che ribadisce, sul piano delle fonti, la appartenenza alla legge del piano di produzione delle norme), di quel transito che dissimula nell’attività di interpretazione la posizione di una norma non prima esistente nell’ordinamento, così da far superare il crinale (che quasi si tramuta in “bilico”) del disvelamento compiuto di esso, in tutte le sue potenzialità deontiche, nel quale si riconosce altrimenti la funzione cd. dichiarativa della giurisprudenza.
Di questo contesto è parte integrante anche la motivazione del provvedimento giudiziario, come elemento non dirimente, ma cooperante nella verifica del superamento di quel crinale oltre il quale, come detto, è l’esistenza stessa della giurisdizione a essere posta in discussione rispetto al potere legislativo.
Tuttavia, la giustificazione argomentativa deve presentarsi come il lógos, effettivo e concludente, attraverso il quale una (consapevole) scelta ermeneutica si rende “spiegabile”, così da accreditarne davvero l’appartenenza al circuito dello jus dicere e non dissimularne lo sconfinamento nell’area di produzione di una norma in precedenza inesistente; e (come messo in evidenza dalla sentenza delle sezioni unite) nel senso così delineato non è la più o meno estesa articolazione del discorso giuridico ad ergersi a fattore che, di per sé, rende riconoscibile quella scelta come reale esito di attività di interpretazione.
Qui entra in gioco, piuttosto, la ragionevolezza della decisione, ossia quel giudizio complesso, che si distacca dalla pura logica formale e dalla semplice mediazione, per incontrare poli opposti, offerti anzitutto dalla singolarità del caso concreto, ineludibile punto di partenza nell’attività giurisdizionale, per poi saggiarne necessariamente la tenuta rispetto al sistema complessivo.
Se davvero la ragionevolezza compone le tensioni latenti tra le norme dai contenuti non armonici, questo – ma qui si aprono orizzonti ben più ampi rispetto allo specifico e ristretto tema del presente scritto – non può che avvenire attraverso un’argomentazione che sia convincente e che indichi chiaramente la fondatezza delle scelte effettuate dal giudice. Di tanto si alimenta quella che è stata definita come “dottrina morale dell’interpretazione” e che potrebbe anche tradursi come “etica della responsabilità del giudice”, per cui il test definitivo si concentra nell’essere l’unica interpretazione “dicibile” quella di cui si ha la “certezza morale che sia insuperabile”.
8. Taluni dei contenuti del ragionamento decisorio espresso dalla sentenza ora esaminata possono rintracciarsi, quantomeno come direttrici di orientamento dell’analisi del rapporto tra jus positum e interpretazione del giudice, anche nell’approdo nomofilattico costituito da Cass., sez. unite, n. 2061/2021, che (nell’ambito della fattispecie negoziale, dapprima solo social-tipica e poi legalmente tipizzata, del leasing finanziario) ha delineato il perimetro entro il quale può svolgersi l’interpretazione cd. evolutiva o storico-evolutiva, della quale si è, anzitutto, riaffermata con decisione la «forza propulsiva (…) affinché l’ordinamento giuridico risponda, in ogni momento, alle esigenze cangianti della realtà socio-economica di riferimento, nei confronti della quale l’interprete deve sempre tendere lo sguardo attento a cogliere l’emersione di nuove ed effettive esigenze meritevoli di tutela».
Anche in questa occasione le sezioni unite ribadiscono come l’attività di interpretazione delle norme, come tale, non possa comunque superare «quei limiti che si impongono nel suo svolgimento e che danno la misura della distinzione di piani sui quali operano, rispettivamente, il legislatore e il giudice»: il primo deputato a introdurre «nell’ordinamento un quid novi che rende obbligatorio per tutti un precetto o una regola di comportamento»; il secondo ad applicare «al caso concreto la legge intesa secondo le comuni regole dell’ermeneutica (Corte cost. n. 155 del 1990)» e in tal modo a disvelarne «il significato corretto, pur sempre insito nella stessa, in un dato momento storico, quale espressione di un determinato contesto sociale e culturale».
E ancora una volta è rimarcata (sulla scorta di quanto già affermato da Cass., sez. unite, n. 4135/2019) la natura “dichiarativa” della funzione assolta dalla giurisprudenza, in quanto «riferita ad una preesistente disposizione di legge, della quale è volta a riconoscere l’esistenza e l’effettiva portata, “con esclusione formale di un’efficacia direttamente creativa”».
In continuità con i propri precedenti, la Cassazione rammenta, dunque, che la dinamica dell’inveramento della norma nella concretezza dell’ordinamento ad opera dell’attività interpretativa del giudice è, dunque, segnata «dal limite di tolleranza ed elasticità dell’enunciato, ossia del significante testuale della disposizione che ha posto, previamente, il legislatore e dai cui plurimi significati possibili (e non oltre) muove necessariamente».
È chiaramente percepibile l’eco dell’insegnamento bettiano, di stampo antiformalista, che in quel saldo presupposto (per l’appunto l’enunciato, il “testo legale”, assunto in coerenza con la “totalità dell’ordinamento”) fissa comunque il confine dell’interpretazione, il cui superamento porterebbe a riconoscerla non più utile, dovendosi fare spazio alle «esigenze di politica legislativa le quali non possono che essere pienamente appagate se non con una riforma del diritto positivo: riforma che deve restare di competenza della legge».
Nella sentenza n. 2061/2021 si rinvengono, però, due ulteriori affermazioni di principio.
Anzitutto, la non utilizzabilità del procedimento analogico (o interpretazione/integrazione analogica) di cui all’art. 12 delle “preleggi” in assenza della disposizione (analogia legis) o del “principio generale dell’ordinamento” (analogia iuris) «all’interno dell’ordinamento (quali norme frutto dell’attività interpretativa svolta) nel momento in cui il giudice si trova a doverli applicare, non potendo egli fare opera creativa nei termini appena evidenziati». Il che, in altri termini, stravolgerebbe il ricorso all’analogia, da strumento/metodo di interpretazione della legge a meccanismo di assunzione di una prerogativa non esercitabile dal giudice, bensì di appannaggio del solo legislatore.
In secondo luogo, la non interferenza dell’attività interpretativa «sul terreno della vigenza della legge che è connessa alla sua entrata in vigore come dalla stessa predeterminata con regole generali (artt. 10, 11, 14 e 15 disp. sulla legge in generale) o specifiche vincolanti per l’interprete».
Sotto questo profilo, quindi, risulta inibito al giudice, anche tramite il procedimento analogico, ascrivere efficacia retroattiva a una disposizione che ne è priva, così da violare la regola posta dall’art. 11 delle “preleggi”, giacché «l’efficacia temporale della fonte [è] disponibile solo per il legislatore e pure per esso in termini tali da non poterne fare uso arbitrario» (come messo in risalto anche da una ormai consolidata giurisprudenza costituzionale: tra le molte, Corte cost., nn. 104 e 194 del 2018).
L’eccezionalità dell’efficacia retroattiva di una norma, in deroga al richiamato art. 11, sebbene non sia assistita da garanzia costituzionale (a tale livello l’irretroattività della legge trova, infatti, presidio immediato soltanto nella materia penale: art. 25 Cost.), «fonda pur sempre un vincolo tendenziale nell’attività dello stesso legislatore, che non può debordare (Cass., S.U., n. 8631 del 2020) da quei limiti (seppure non assoluti, ma bilanciabili con altri principi costituzionali) che il Giudice delle leggi ha inteso come “valori di civiltà giuridica”, tra cui, eminentemente, “il rispetto del principio di ragionevolezza”, “la tutela dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale principio connaturato allo Stato di diritto”, “la coerenza e la certezza dell’ordinamento giuridico”, “il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario” (tra le molte, sentenze n. 397 del 1994, n. 209 del 2010, n. 308 del 2013, n. 69 del 2014)».
Con l’ulteriore puntualizzazione che quei limiti (e, segnatamente, la certezza del diritto e la tutela dell’affidamento) sono assunti come «cogenti (e non solo per legislatore, ma anche per il formante giurisprudenziale) pure in ambito di diritto sovranazionale, sia eurounitario (…), che convenzionale».
9. Non può, infine, mancare un riferimento alla citata ordinanza interlocutoria n. 19598 del 2020, là dove essa viene a configurare, in una dimensione trans-ordinamentale del sistema processuale nazionale, la nozione di eccesso di potere giurisdizionale per mancata conformazione al diritto dell’Unione, quale ipotesi suscettibile di dare luogo all’esercizio di un potere «di cui è radicalmente privo per aver compiuto un’attività di diretta produzione normativa che non compete neanche al legislatore nazionale».
In questa dimensione è proprio il vincolo conformativo che origina dal primato del diritto eurounitario che orienta finalisticamente, anche nella componente interpretativa, le prerogative in cui si estrinseca l’attività di ius dicere del giudice nazionale in quanto giudice “comunitario di diritto comune”.
La dottrina ha colto questa differenza rispetto alla stessa attività cognitiva esercitata dal giudice all’interno del solo ordinamento nazionale, in quanto (come detto in precedenza) dotata di discrezionalità nel suo svolgimento seppur se coordinato da norme prescrittive (segnatamente, artt. 11 e 12 delle “preleggi”), ascrivendo, invece, carattere di “inderogabilità e vincolatività” all’interpretazione conforme imposta dall’ordinamento unionale, che integrerebbe piuttosto un “effetto normativo”, nella combinazione tra norma sovranazionale (non self-executing) e norma di diritto interno.
Lettura questa che, in ambito di applicazione del diritto europeo, ridimensiona in modo sensibile quell’ampio margine di azione ermeneutica di cui gode il giudice nazionale all’interno del proprio ordinamento e che solo in quest’ambito consente, quindi, come possibile una censura di sconfinamento nella sfera del legislatore là dove l’interprete si faccia direttamente creatore della norma o renda “inesplicabile” il significato attribuito a una disposizione di legge.
10. Come inizialmente accennato, la digressione su approdi nomofilattici anche diversi da quelli immediatamente pertinenti al tema dell’eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera del legislatore ha avuto di mira, per una eventuale futura riflessione a più ampio raggio, l’emersione di possibili, ipotetici elementi ulteriori rispetto a quelli tradizionalmente utilizzati dalla giurisprudenza di settore.
Questa riflessione non può che inserirsi nell’ormai maturata consapevolezza di un contesto esperienziale che registra, da tempo, la crisi del tradizionale rapporto tra giudice e la legge, tema che – a conclusione di questo scritto – merita, dunque, qualche breve considerazione, a mo’ di guida retrospettiva dell’indagine svolta.
La portata di quella crisi è stata scolpita da pagine illuminanti di sommi giuristi: le posizioni di merito – incalcolabilità giuridica, crisi della fattispecie, eclissi del diritto civile, inventio iuris – sono differenti, ma l’analisi converge nel ravvisare ciò che è stato definito come lo “spostamento” del “baricentro della giuridicità dal momento della posizione della regola a quello della sua applicazione”.
La causa originaria di questa vera e propria metánoia non riguarda tanto, e di per sé, la discrezionalità del giudice, che è attributo consustanziale alla sua attività e che transita, per l’appunto, attraverso l’interpretazione.
Del resto, da sempre il legislatore, accanto alle regole, ha posto i principi, le norme aperte o le cd. clausole generali, rimettendone al giudice il riempimento, essendo innegabile – senza dover indugiare su teorie particolari, che spaziano dall’ermeneutica al cognitivismo, dall’ipertestualismo al contestualismo – che il giudice non può essere iconizzato come “bocca della legge” (semmai ciò sia stato vero anche sotto l’impero del codice di Napoleone).
L’origine della criticità del rapporto giudice-legge, come sappiamo, è proprio nel mutamento del paradigma rispetto al quale la discrezionalità del giudice è venuta ad operare: l’avvento della Costituzione, che ha fatto lievitare il livello della fonte di riferimento, non solo gerarchicamente, ma sotto il profilo valoriale, monopolizzando il bilanciamento tra gli interessi sociali. Successivamente, con l’affermazione delle fonti sovranazionali, si è innestato un ulteriore, ma significativo fattore di complicazione. Come evidenziato da acuta dottrina, registriamo un evidente scarto tra “sistema delle fonti” e “sistema delle norme”, quest’ultimo capace di acquistare spazi di “libertà dal condizionamento esercitato dal primo”.
Dunque, svanita l’idea, tradizionale, di un sistema normativo gerarchicamente armonico, ontologicamente dato e, quindi, preesistente rispetto al momento interpretativo, si è fatto più difficile valutare quel grado di tolleranza e di elasticità dell’enunciato della disposizione, che, come visto, assume rilievo centrale nella riflessione sull’eccesso giurisdizionale per “sconfinamento”, per cui è divenuto sempre più opaco il confine oltre il quale poter apprezzare il punto di rottura che fa perdere l’ancoraggio necessario alla lex scripta.
È stata, tuttavia, una maturazione lenta, che ha visto muovere passi significativi soprattutto nell’ultimo trentennio.
Occorre, infatti, attendere gli anni ottanta perché la Cassazione, dapprima timidamente, apra alla drittwirkung dei principi costituzionali con il “danno biologico”.
Ma il “cambio di passo” – l’esaltazione delle virtualità ermeneutiche di un paradigma ben diverso dalla legge – probabilmente si deve proprio alla Corte costituzionale, che a metà degli anni novanta ha assegnato centralità alla dottrina dell’interpretazione conforme a Costituzione, cui poi è seguita quella della conformità eurounitaria e convenzionale.
Il viatico ci viene da quel passo, assai noto, della sentenza n. 356 del 1996, secondo cui «le leggi si dichiarano costituzionalmente illegittime solo perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali».
La dottrina dell’interpretazione conforme non è stata solo una tecnica peculiare di ingaggio dell’incidente di costituzionalità, ma un mutamento culturale profondo del rapporto tra legge e giudice: l’“impossibilità” evocata dalla sentenza ha aperto un solco, che via via – beninteso, anche per il concorso di altri fattori, sia endogeni (tra cui la crisi della politica o il disordine e l’incuria delle norme) che esogeni (come detto, il rapporto con le fonti sovranazionali e, con esso, l’affermarsi della tutela multilivello dei diritti fondamentali) – si è fatto sempre più ampio e che ha inciso nel rapporto tra giudice e legge scritta.
Oggi, però, proprio dalla Corte costituzionale ci viene non solo un rinnovato monito a considerare come bene prezioso, anche sotto il profilo della sicurezza giuridica e della certezza del diritto, le virtù della lex scripta (così, con forza, la sentenza n. 115/2018), ma soprattutto l’indicazione di una nuova stagione dell’interpretazione conforme a Costituzione, questa volta incline a restringerne le potenzialità, poiché – diversamente dal recente passato (come espressamente rileva la sentenza n. 15/2018; successivamente, cfr. la sentenza n. 54/2019, che esprime la direzione di un orientamento ormai coeso) – è sufficiente un’adeguata motivazione circa l’impedimento a tale esito interpretativo e tanto proprio in ragione del tenore eminentemente letterale della disposizione attinta dal dubbio di costituzionalità.
Lo scarto con quanto predicato dalla sentenza del 1996 è netto: l’enunciato che dà corpo alla disposizione nuovamente irrompe, anche in ambito di legalità costituzionale, come elemento non solo irrinunciabile, ma anche indefettibile della trama, comunque complessa, che segna il rapporto del giudice con la legge e di cui lo specifico profilo qui indagato – tassello di quella trama e, al contempo, parte dei «motivi inerenti alla giurisdizione» indicati dall’art. 111, comma 8, Cost. – non sembra aver esaurito la propria vena problematica.