Magistratura democratica

Riflessioni sparse sul dualismo giurisdizionale non paritario

di Marcello Clarich

La recente ordinanza delle sezioni unite della Corte di cassazione, 18 settembre 2020, n. 19598 ha rimesso in discussione l’equilibrio fra giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa: l’Autore esplora i diversi profili di interferenza fra le giurisdizioni, con la consapevolezza della difficoltà di individuare nella Costituzione soluzioni che risolvano gli inconvenienti derivanti dal sistema dualistico della giurisdizione.

1. Il saggio “a quattro mani” di Enrico Scoditti e di Giancarlo Montedoro, magistrati appartenenti agli organi di vertice rispettivamente della giurisdizione ordinaria e amministrativa, intitolato Il giudice amministrativo come risorsa[1], interviene in una fase critica dell’equilibrio tra le due giurisdizioni. 

A rimetterlo in discussione è intervenuta infatti l’ordinanza delle sezioni unite della Corte di cassazione 18 settembre 2020, n. 19598, che ha disposto un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea della questione dei limiti del proprio sindacato sulle sentenze del Consiglio di Stato, nei casi in cui queste non applichino in modo corretto il diritto europeo. Con questa iniziativa, potenzialmente dirompente, le sezioni unite si pongono in dichiarato contrasto con la Corte costituzionale che, con la sentenza 18 gennaio 2018, n. 6, ha offerto un’interpretazione restrittiva dei motivi di giurisdizione ai sensi dell’art. 111, comma 8 della Costituzione. Il giudice delle leggi ha chiuso così gli spazi dell’interpretazione evolutiva fatta propria dalla Corte di cassazione, volta a includere tra i motivi di giurisdizione anche casi di errores in judicando particolarmente gravi a opera di sentenze del Consiglio di Stato ritenute “abnormi” o “anomale”, che operano «uno stravolgimento radicale delle norme di riferimento»[2]. Nell’equilibrio tra le due giurisdizioni, la Corte costituzionale ha così riaffermato le prerogative esclusive del giudice amministrativo nell’interpretazione delle norme sostanziali e processuali da esso applicate, che ora le sezioni unite rimettono in discussione.

L’elevatissimo numero dei commenti all’ordinanza delle sezioni unite, alla quale dedicano un passaggio anche Scoditti e Montedoro, è di per sé sintomatico del fatto che essa tocca un nervo scoperto, cioè i rapporti tra giurisdizione ordinaria e amministrativa all’interno delle coordinate tracciate dalla Costituzione, che i due autori esaminano sotto vari profili.

In realtà il problema affonda le sue radici nella stessa genesi dell’art. 111, comma 8 della Costituzione e, ancor prima, nella scelta operata alle origini dell’evoluzione del sistema della giustizia amministrativa di affidare all’organo di vertice della giurisdizione ordinaria il potere di dirimere i conflitti di attribuzione tra «i tribunali ordinari ed altre giurisdizioni speciali» (art. 3, punto 3 della legge 31 marzo 1877, n. 3761), piuttosto che, sull’esempio francese, a un Tribunal des conflits, organo composto in modo paritario da magistrati dei due ordini giudiziari. Da sempre, dunque, il dualismo giurisdizionale affermatosi nel nostro ordinamento ebbe i caratteri di un dualismo non perfettamente paritario.

 

2. Il tema, com’è noto, fu oggetto di dibattito in sede di Assemblea costituente, nel corso del quale fu avanzata e poi respinta la proposta radicale caldeggiata da Piero Calamandrei di ritornare al modello dell’unità della giurisdizione all’interno delle coordinate poste dalla legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E. L’art. 12 del progetto posto alla base della discussione stabiliva che «l’esercizio del potere giudiziario in materia civile, penale e amministrativa appartiene esclusivamente ai giudici ordinari» i quali erano investiti anche del potere di annullare, revocare o modificare gli atti amministrativi per motivi di legittimità o, nei casi stabiliti dalla legge, anche di merito (art. 14). In ogni caso il progetto prevedeva l’istituzione presso gli organi giudiziari ordinari di sezioni specializzate per le controversie tra il cittadino e la pubblica amministrazione (art. 13).

La ragione principale avanzata da Calamandrei a giustificazione di questa proposta si ricollegava agli «inconvenienti che oggi si verificano per la distinzione tra giurisdizione su diritti e giurisdizione su interessi, tra giurisdizione di merito e giurisdizione di legittimità», con conseguente «difficoltà di trovare un giudice per ogni categoria di cause». La proposta non incontrò il favore dei Costituenti, tuttavia non sulla base di argomenti di principio, bensì in considerazione degli «ottimi servigi» resi dal Consiglio di Stato (Giovanni Leone), della mancanza nel giudice ordinario di «quella preparazione, quella forma mentis, quelle attitudini necessarie per interpretare certe disposizioni di legge» (Costantino Mortati), nonché delle prove di indipendenza dimostrate dai giudici amministrativi durante la dittatura fascista.

Mantenuto, dunque, il dualismo giurisdizionale affermatosi con l’istituzione della IV sezione del Consiglio di Stato a opera della legge 31 marzo 1889, n. 5992, e stabilizzatosi nei decenni successivi, restava tuttavia aperta la questione dei rapporti tra giudice ordinario e giudice amministrativo all’interno di un sistema fondato sul principio dell’unità non organica, ma soltanto funzionale della giurisdizione.

Su questo problema, risolto all’esito della discussione in seno all’Assemblea costituente con l’art. 111, comma 8, Cost., che limita il sindacato sulle sentenze del Consiglio di Stato ai «soli motivi inerenti alla giurisdizione», furono valutate varie soluzioni.

Una prima opzione consisteva nel rimettere interamente al legislatore ordinario la definizione dei presupposti e dei limiti del ricorso per cassazione contro le decisioni dei giudici speciali, introducendo così solo una garanzia minima tesa a escludere che un siffatto rimedio possa essere espunto del tutto dal legislatore ordinario. Un’altra opzione era quella di omologare il ricorso per cassazione con riferimento alle giurisdizioni speciali a quello previsto in via generale con riferimento al giudice ordinario, attribuendo così alla Corte di cassazione una funzione nomofilattica anche nei confronti delle sentenze del Consiglio di Stato. Una terza opzione era quella di attribuire alla Corte costituzionale la competenza a risolvere i conflitti di giurisdizione insorgenti tra giurisdizione ordinaria e giurisdizione speciale.

Quest’ultima proposta venne formulata da Costantino Mortati sulla base di una serie di motivazioni. In primo luogo, poiché la Costituzione confermava la duplicità della giurisdizione – prevedendo per essa una unità non organica ma solo funzionale, fondata su «una divisione dei vari ordini di giudici in sistemi diversi (…) ognuno dei quali fa parte a sé, ognuno dei quali ha una propria organizzazione» – i conflitti tra ordini giudiziari assumono un carattere costituzionale, e dunque appare appropriato che di essi sia investita la Corte costituzionale. Infatti, allorché un ordine giudiziario si pronuncia su una materia attribuita dalla Costituzione ad altro ordine giudiziario, ciò si traduce in «un’alterazione dell’ordine costituzionale dei poteri giurisdizionali».

In secondo luogo, la regola introdotta, come si è visto, nel 1877 di affidare la risoluzione dei conflitti alle sezioni unite della Corte di cassazione costituisce una «anomalia» in quanto si attribuisce questo compito «ad un organo della giurisdizione ordinaria, cioè ad un organo di quel potere che in un certo modo è parte in causa, perché il conflitto verte fra gli organi giudiziari ordinari e gli organi di giurisdizione speciali». E in proposito Mortati richiama, non a caso, il modello francese del Tribunale dei conflitti, composto in modo paritario, come si è già detto, da giudici espressione di entrambe le magistrature.

In terzo luogo, una volta operata la scelta di conservare le giurisdizioni speciali, ammettere il sindacato da parte della Corte di cassazione sull’interpretazione delle leggi operata dai giudici speciali poteva apparire contraddittorio. 

Pertanto, secondo Mortati, quand’anche non si dovesse accogliere la proposta di investire la Corte costituzionale dei conflitti di giurisdizione, quanto meno occorrerebbe limitare il sindacato della Corte di cassazione «soltanto all’eccesso di potere giudiziario, cioè alla mancanza o difetto assoluto di giurisdizione».

In definitiva, l’art. 111, comma 8, Cost. è il frutto di un compromesso che mantiene gli inconvenienti del sistema messi in evidenza da Calamandrei e che genera tensioni pressoché inevitabili tra giudice ordinario e giudice amministrativo.

 

3. Il saggio di Scoditti e di Montedoro si propone di risolvere o quanto meno di attenuare, a Costituzione invariata, i problemi emersi nella prassi e accentuatisi in epoca più recente.

Le premesse del ragionamento sono fondate sui dati testuali della Carta costituzionale. In particolare, l’art. 24, comma 1, attribuisce una posizione di perfetta paritarietà (cioè senza “alcuna gerarchia”) ai diritti soggettivi e agli interessi legittimi affidati alla cognizione rispettivamente del giudice ordinario e del giudice amministrativo. Del resto, è ormai assodato in giurisprudenza il riconoscimento al giudice amministrativo di una «piena dignità di giudice ordinario» per la tutela degli interessi legittimi e il ruolo di «giudice naturale della legittimità dell’esercizio della funzione pubblica»[3].

Il giudice civile merita, poi, l’attributo di “ordinario” che si giustifica in ragione della originarietà dei diritti soggettivi, che in molti casi si fondano direttamente nella Costituzione, senza cioè l’interposizione del legislatore richiesta invece per la definizione degli interessi legittimi. 

Quanto all’equilibrio tra le due giurisdizioni, una delle ragioni di tensione è rinvenuta anche in quella che i due Autori definiscono come «imponente, per qualità e quantità, estensione delle materie di giurisdizione esclusiva», che ha determinato un vero e proprio «mutamento costituzionale materiale» – promosso nel corso del tempo dal legislatore ordinario e consacrato dall’art. 133 del codice del processo amministrativo, che contiene un lungo elenco delle materie – rispetto all’impostazione accolta dall’art. 103 della Costituzione. Quest’ultimo sembra conferire carattere eccezionale, come avveniva del resto nel 1948, all’attribuzione al giudice amministrativo della cognizione dei diritti soggettivi, come chiarito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 204/2004 che, come noto, ha posto fine al tentativo del legislatore ordinario di sostituire il criterio di riparto tradizionale, fondato sulla distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi, con quello dei “blocchi di materie”, che assegnava al giudice amministrativo in quelle a lui attribuite anche la cognizione non collegata in alcun modo all’esercizio del potere.

La dilatazione della giurisdizione esclusiva, pur all’interno dei confini tracciati dalla giurisprudenza costituzionale, determina inevitabilmente una frizione tra i due ordini giudiziari. 

Infatti, da un lato, il giudice ordinario si vede sottratti ambiti di giurisdizione che gli spetterebbero in linea di principio. Dall’altro, il giudice amministrativo è chiamato a operare un sindacato su rapporti paritari con i quali ha minor familiarità, se è vero che il nocciolo fondamentale della giurisdizione amministrativa è il sindacato sull’esercizio del potere in tutte le sue possibili manifestazioni dirette e indirette (art. 7 cpa). L’argomento della specializzazione del giudice amministrativo in relazione al sindacato sul potere e sugli interessi legittimi a giustificazione della bontà di una giurisdizione speciale potrebbe, da questo punto di vista, ritorcersi contro il giudice amministrativo e avvalorare la pretesa a ridurre il più possibile l’ambito della giurisdizione esclusiva.

In ogni caso, anche in un sistema giurisdizionale improntato al policentrismo resta il problema di assicurare in qualche modo una configurazione omogenea a situazioni giuridiche soggettive aventi la medesima consistenza. Il problema della nomofilachia sui diritti soggettivi, anche quelli attribuiti alla giurisdizione del giudice amministrativo, non trova oggi una soluzione soddisfacente. Appare arduo, a Costituzione invariata, imboccare la via di interpretare l’art. 111, comma 8, nel senso di ammettere il ricorso in Cassazione contro le sentenze del Consiglio di Stato per violazione di legge limitatamente ai casi nei quali esse si pronuncino su diritti soggettivi.

Che la cognizione dei diritti soggettivi da parte del giudice amministrativo costituisca un elemento meno naturale è confermato anche dalla vicenda dell’azione risarcitoria collegata alla lesione degli interessi legittimi. Come noto, la sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione n. 500/1999 la manteneva in capo al giudice ordinario, mentre il cpa la devolve al giudice amministrativo (art. 30), e ciò all’esito di contrasti giurisprudenziali tra giudice ordinario e amministrativo anche in ordine alla questione della pregiudizialità tra azione di annullamento e azione risarcitoria.

La soluzione accolta dal codice è in linea con la concezione cd. rimediale dell’azione risarcitoria avallata dalla stessa Corte costituzionale, che ha considerato il risarcimento del danno da lesione di interesse legittimo non già come una materia, bensì come una tecnica di tutela che si aggiunge a quella dell’annullamento del provvedimento illegittimo. In dottrina c’è chi ha espresso dubbi su questa soluzione ermeneutica se è vero che il fatto illecito, secondo l’art. 1183 del codice civile, costituisce la fonte di una obbligazione e, dunque, di una relazione “diritto soggettivo - obbligo”.

Comunque sia, anche alla luce della prassi interpretativa, non è priva di fondamento l’opinione secondo la quale il giudice amministrativo ha ancor oggi una minore familiarità rispetto al giudice ordinario con le questioni risarcitorie. Del resto, ciò è riconosciuto in qualche modo dallo stesso cpa, che consente al giudice, accertato l’an del risarcimento, di rimettere in prima battuta all’accordo delle parti la determinazione del quantum secondo i criteri stabiliti dallo stesso giudice (art. 34, comma 4). 

Su un altro fronte, quello delle controversie in materia di lavoro pubblico privatizzato, l’esperienza concreta dal passaggio dalla giurisdizione amministrativa alla giurisdizione ordinaria operato con il d.lgs 31 marzo 1998, n. 80 sembra dimostrare, secondo molti commentatori, che il giudice ordinario abbia a sua volta una minor dimestichezza nell’apprezzare la specificità di un contenzioso che coinvolge una pubblica amministrazione non soltanto come datore di lavoro controparte contrattuale del dipendente pubblico, ma anche in relazione ad atti amministrativi di tipo organizzativo, che il giudice ordinario può eventualmente disapplicare.

Insomma, “a ciascuno il suo”, verrebbe da concludere.

Un altro aspetto delicato nei rapporti tra giudice ordinario e giudice amministrativo è il contenzioso relativo ai provvedimenti del Consiglio superiore della magistratura in materia di incarichi direttivi dei magistrati ordinari, che rientra naturaliter nella giurisdizione del giudice amministrativo involgendo procedure di tipo comparativo e situazioni giuridiche di interesse legittimo (pretensivo). Come rilevano Montedoro e Scoditti, questo tipo di contenzioso ha dato origine in passato non soltanto a conflitti di attribuzione sollevati dal Csm e risolti in favore del giudice ordinario dalla Corte costituzionale, ma anche in tempi più recenti a ricorsi in Cassazione per eccesso di potere giurisdizionale nel tentativo da parte del giudice ordinario di recuperare il ruolo di decisore di ultima istanza. Può apparire infatti incongruente che il giudice ordinario, al quale la Costituzione assegna una posizione di preminenza nel sistema improntato al dualismo giurisdizionale, sia sottoposto alle decisioni ultime del giudice amministrativo per ciò che riguarda le carriere dei propri magistrati. Ma anche su questo punto, a Costituzione invariata, non sembrano a portata di mano soluzioni diverse dall’appello formulato dai due Autori a «una riflessione approfondita e spassionata del tema, che riporti il tutto alla fisiologia del sistema».

 

4. Una criticità di fondo posta dall’assetto attuale del dualismo giurisdizionale continua a essere quella messa in evidenza da Calamandrei, e cioè gli inconvenienti pratici derivanti dalle difficoltà a tracciare in modo univoco, nei casi concreti, la linea di confine tra giurisdizione ordinaria e giustizia amministrativa, ciò che è dimostrato dall’ampio contenzioso innanzi alla Corte di cassazione. 

Se ci si pone infatti nella prospettiva della giustizia come “servizio pubblico” offerto ai cittadini, l’incertezza sul giudice al quale rivolgersi per accedervi costituisce una disfunzione sempre meno tollerabile, specie in una fase nella quale è sempre più avvertita l’esigenza di una rapida soluzione delle controversie. 

Innegabili, infatti, sono l’incremento dei costi e la dilatazione dei tempi derivanti dal contenzioso avente per oggetto le questioni di giurisdizione che può comportare, per esempio, la rimessione del giudizio in primo grado nei casi in cui la sentenza appellata abbia erroneamente declinato la giurisdizione (art. 105 cpa), oppure la translatio judicii nei casi in cui la Corte di cassazione, in particolare all’esito di un giudizio di impugnazione di un giudizio svoltosi innanzi al giudice ordinario, conclude nel senso che investito della giurisdizione sia il giudice amministrativo (art. 11, comma 4, cpa). 

A questo riguardo, la difficoltà di tracciare i confini della giurisdizione del giudice amministrativo riguardano tre versanti principali e cioè: la distinzione tra interesse di fatto e interesse legittimo, il primo non sottoponibile alla cognizione di alcun giudice; la distinzione tra interesse legittimo e diritto soggettivo, quest’ultimo attribuito di regola alla giurisdizione del giudice ordinario; i confini delle materie che la legge devolve alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

Sul primo versante, l’individuazione degli interessi meritevoli di tutela in sede giurisdizionale, in base ai noti criteri della individuazione e della qualificazione, appare spesso incerta. E questo proprio perché, diversamente da quanto accade nel caso dei diritti soggettivi definiti in gran parte in modo puntuale e univoco dalle norme di legge o da fonti negoziali, nel caso degli interessi legittimi le norme di conferimento del potere amministrativo non individuano con precisione in astratto gli interessi qualificabili come interessi legittimi, preoccupandosi piuttosto di definire i presupposti e le modalità di esercizio del potere. Ne discende, come affermato di recente dalla Corte di cassazione, che il processo amministrativo svolge «una funzione di autentica individuazione degli interessi meritevoli di tutela» (Corte di cassazione, sez. unite, 2 agosto 2019, n. 20820) e ciò in sede di valutazione della sussistenza dell’interesse ad agire inteso, sulla scia dell’impostazione più tradizionale ora in fase di superamento, come effettiva titolarità di un interesse legittimo da accertare in limine litis, piuttosto che, com’è pacifico nel processo civile, come mera affermazione di tale titolarità. 

Non sembra, in definitiva, soddisfare l’esigenza di certezza del diritto una situazione nella quale la titolarità della situazione giuridica sostanziale fatta valere in giudizio non risulta conoscibile ex ante, sulla base delle norme sostanziali, ma soltanto a valle di un iter processuale che si conclude all’esito di un giudizio di cassazione.

Sul secondo versante, la distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi continua a dar filo da torcere alla giurisprudenza, perché i criteri usualmente utilizzati a questo fine non si prestano a un’applicazione univoca. In particolare, il criterio fondato sulla distinzione tra potere discrezionale e potere vincolato non è risolutivo. Infatti, se è vero che in presenza di un potere discrezionale la posizione giuridica soggettiva vantata è sempre e necessariamente un interesse legittimo, in presenza di un potere vincolato il quadro è meno chiaro. Infatti, la giurisprudenza opera una subdistinzione tra vincoli posti dalla legge nell’interesse e a garanzia del soggetto privato e vincoli che abbiano come funzione di tutelare in via primaria l’interesse pubblico (Consiglio di Stato, ad. plen., 3 settembre 2019, n. 9). Solo nel primo caso la situazione giuridica può essere qualificata come diritto soggettivo, mentre nel secondo caso essa va qualificata come interesse legittimo. Tuttavia, il criterio dello scopo della norma è fonte di incertezza, poiché quasi mai la norma stessa lo individua in modo esplicito.

Sul terzo versante, la casistica giurisprudenziale dimostra che i confini delle materie devolute alla giurisdizione esclusiva sono spesso incerti e le soluzioni adottate sembrano rispondere a una logica più empirica che di principio. Del resto, la sentenza n. 204/2004 della Corte costituzionale ha chiarito che, affinché le materie possano essere devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, non è sufficiente che sia presente un «generico coinvolgimento dell’interesse pubblico». Devono essere invece materie che, in assenza di una disposizione legislativa che opera tale devoluzione, «contemplerebbero pur sempre, in quanto vi opera la pubblica amministrazione-autorità, la giurisdizione generale di legittimità». 

Tuttavia, distinguere nei casi concreti se si supera la soglia del generico coinvolgimento dell’interesse pubblico e se la controversia richiede la valutazione di legittimità di provvedimenti espressione di pubblici poteri non è scontato. Così, per fare un solo esempio emblematico tratto dalla materia di gestione del ciclo dei rifiuti, che rientra nella giurisdizione esclusiva in base all’art. 133, comma 1, lett. p del cpa, l’azione risarcitoria proposta nei confronti del gestore del servizio da un privato che lamenti un danno alla salute e l’intollerabilità delle immissioni da un impianto di trattamento dei rifiuti ricade nella giurisdizione ordinaria se le modalità tecniche di esercizio dell’esercizio dell’impianto dipendono da scelte del gestore. Ricade, invece, nella giurisdizione amministrativa se tali modalità sono stabilite direttamente da provvedimenti della pubblica amministrazione (Corte di cassazione, sez. unite, 8 maggio 2017, n. 11142). Per quanto il criterio sia chiaro in astratto, l’applicazione concreta richiede una disamina non agevole degli atti di regolazione e di concessione e degli obblighi imposti al concessionario.

Fonte di incertezza sono anche le possibili interferenze tra potere di annullamento attribuito, di regola, al giudice amministrativo e potere di disapplicazione dei provvedimenti illegittimi, del quale è investito il giudice ordinario. Da un lato, il giudice amministrativo ha affermato il proprio potere di disapplicare i regolamenti contrastanti con disposizioni di legge anche nell’ambito della giurisdizione generale di legittimità, e ciò in base al principio della gerarchia delle fonti e, dunque, ritenendo recessiva la dimensione formale di atti amministrativi, che sono soggettivamente imputabili a un apparato amministrativo ancorché idonei a produrre norme giuridiche di rango secondario (da ultimo, Consiglio di Stato, sez. II, 9 gennaio 2020, n. 219). Dall’altro, il giudice ordinario, con particolare riferimento alle sanzioni pecuniarie della Banca d’Italia, ha affermato la propria giurisdizione e il proprio potere di disapplicare gli atti di natura regolamentare aventi per oggetto il procedimento di irrogazione delle sanzioni impugnate innanzi al giudice amministrativo, in quanto considerate come atti meramente presupposti rispetto al provvedimento sanzionatorio oggetto di un parallelo giudizio di opposizione innanzi alla Corte d’appello di Roma (Corte di Cassazione, sez. unite, 18 febbraio 2020, n. 4365), andando di contrario avviso rispetto a quanto sostenuto dal Consiglio di Stato, che aveva affermato la propria giurisdizione in considerazione del fatto che il ricorrente risulta titolare di una posizione giuridica soggettiva di interesse legittimo a ottenere l’annullamento dei regolamenti impugnati (Cons. Stato, VI sez., 9 ottobre 2018, n. 5800).

 

5. A Costituzione invariata, non è facile individuare soluzioni che risolvano gli inconvenienti derivanti dal sistema dualistico della giurisdizione. Il saggio di Scoditti e Montedoro richiama, per quanto riguarda la convergenza nella nomofilachia della Corte di cassazione e del Consiglio di Stato, il precedente famoso del concordato giurisprudenziale concluso nel 1929 dagli allora presidenti della Corte di cassazione e del Consiglio di Stato, Mariano D’Amelio e Santi Romano, e avente per oggetto il criterio del riparto di giurisdizione fondato sulla causa petendi (piuttosto che sul petitum), nonché il Memorandum sottoscritto il 15 maggio 2017 dai vertici delle Corti superiori come esempi dai quali trarre ispirazione. Esso ipotizza anche l’introduzione per legge del “transito” tra magistrature, in modo da consentire una composizione delle sezioni unite della Corte di cassazione con la partecipazione di magistrati del Consiglio di Sato nella veste di esperti in grado di fornire un apporto di cultura specializzata in diritto amministrativo.

Si tratta di proposte che meritano attenzione, anche se alcuni commentatori hanno espresso in passato qualche dubbio, almeno con riguardo a quest’ultima, circa la compatibilità con l’attuale assetto costituzionale che pone un divieto rigido di istituzione di giudici speciali.

Non è possibile prevedere quale sarà la decisione della Corte di giustizia dell’Unione europea in ordine alle questioni sottoposte al suo esame dall’ordinanza delle sezioni unite già citata. Potrebbe anche darsi che la Corte non si addentri in questioni interpretative di diritto interno, facendosi carico di chiarire la portata dell’art. 111, comma 8 della Costituzione italiana. 

È forse più probabile che la Corte si limiti a esaminare il quesito specifico, e cioè se, come ritenuto dal Consiglio di Stato nella sentenza oggetto del ricorso in Cassazione, debbano essere negati la legittimazione e l’interesse a proporre le censure volte al travolgimento dell’intera gara da parte di un’impresa esclusa dalla procedura dalla stazione appaltante. E ciò alla luce degli orientamenti della Corte di giustizia dell’Ue contrari a questa interpretazione restrittiva e volti, invece, a riconoscere l’obbligo del giudice amministrativo di esaminare nel merito le censure proposte da un ricorrente pur in presenza di una eccezione (o di un ricorso incidentale cd. escludente) volto[i] a contestare la legittimazione processuale, al fine di soddisfare l’interesse strumentale alla ripetizione della gara.

Se questo fosse l’esito, la Corte di cassazione dovrebbe ritornare, come peraltro stava già facendo, a operare il sindacato sulle sentenze del Consiglio di Stato all’interno delle coordinate indicate dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 6/2018. Se, invece, la Corte di giustizia entrasse per così dire nell’“agone” tra le Corti supreme nazionali, sconfessando l’interpretazione restrittiva della Corte costituzionale e facendo invece rivivere l’interpretazione evolutiva dei motivi di giurisdizione – che quasi inevitabilmente la Corte di cassazione applicherebbe non solo nei casi involgenti il diritto europeo, ma, per ragioni di coerenza, anche nei casi involgenti soltanto questioni di diritto nazionale –, il dualismo giurisdizionale finirebbe per assegnare alla Corte di cassazione una preminenza ancor più marcata. E non è chiaro, a questo punto, quale potrebbe essere la reazione non solo da parte del giudice amministrativo, ma anche da parte della Corte costituzionale. Se è consentito il ricorso a un’immagine, il fuoco continuerebbe a covare sotto la cenere.

In entrambi i casi, gli auspici contenuti nel saggio di Scoditti e Montedoro andrebbero attentamente considerati da parte della comunità dei giuristi (non solo dei magistrati) che hanno a cuore la funzionalità del servizio pubblico della giustizia, nell’interesse preminente del cittadino-utente.

Tra le soluzioni, pur imperfette e non risolutive, si potrebbe anche immaginare che, al di fuori del contesto formale di una controversia sottoposta al loro esame, i magistrati di cassazione, specie quelli afferenti alle Sezioni Unite, si facciano carico di esprimere orientamenti in via preventiva su possibili questioni interpretative generali relative al riparto di giurisdizione, traendo ispirazione da una tecnica adottata dalle amministrazioni pubbliche in Germania che va sotto il nome di “Antizipierte Verwaltungspraxis”. In base a questa tecnica, utilizzata allo scopo di promuovere la certezza e la prevedibilità delle decisioni nei casi singoli, le amministrazioni elaborano e comunicano all’esterno le prassi interpretative che intendono adottare in relazione a nuove leggi e regolamenti. Un qualche gruppo di lavoro informale al massimo livello, eventualmente integrato da componenti esterne, potrebbe cioè proporre, in modo non vincolante per i giudici ordinari e amministrativi e neppure per le stesse sezioni unite, soluzioni interpretative, almeno nei casi più rilevanti, man mano che sorga l’esigenza di un chiarimento in seguito a mutamenti legislativi o a casi particolarmente significativi che iniziano a essere posti all’attenzione dei giudici di merito.

In una fase storica nella quale emergono, anche a livello europeo, sviluppi tesi a favorire strumenti di soft law e di moral suasion, pur nella consapevolezza di possibili obiezioni, potrebbe essere anche questa una strada per deflazionare il contenzioso sulla giurisdizione. 

Del resto, già oggi sia la Corte di cassazione sia il Consiglio di Stato possono enunciare il principio di diritto nell’interesse della legge, senza assumere una decisione sul caso concreto, in relazione a questioni ritenute di particolare importanza (art. 363 cpc e art. 99, comma 5, cpa), esercitando la funzione nomofilattica, per così dire, allo stato puro. Si tratterebbe di esercitare un’analoga funzione meramente persuasiva, in via informale, facendo leva sull’autorevolezza di chi esprime l’orientamento.

 

 

1. In questo fascicolo.

2. Per esempio, Corte di cassazione, sez. unite, 20 maggio 2016, n. 1051.

3. Cfr., rispettivamente, Corte costituzionale, nn. 204/2004 e 140/2007.