Introduzione
Dopo circa sei anni la Rivista Trimestrale di Questione giustizia torna al tema del giudice amministrativo. La prospettiva adottata dal fascicolo n. 3 del 2015 era quella dell’unitarietà della giurisdizione, coerentemente del resto alla tradizione di questa rivista, da sempre attenta all’unitarietà quale valore da perseguire. Questa volta l’impostazione del fascicolo è più problematica, perché apre alla discussione sulle diverse prospettive, sulla base della sollecitazione proveniente dallo scritto a quattro mani che per l’occasione viene ripubblicato all’inizio del numero. Gli interventi che seguono, raccolti con il contributo competente ed esperto di Giancarlo Montedoro, mirano a evidenziare i diversi punti di vista che vengono in gioco. Il fascicolo, in realtà, va oltre il dilemma “unità o pluralità” delle giurisdizioni e tenta di fornire una visione di più largo spettro sul giudice ammnistrativo.
Sulla questione dell’unitarietà delle giurisdizioni, il dibattito non è riducibile a due posizioni, i favorevoli e i contrari, perché vi sono una serie di graduazioni derivanti dalla circostanza che in gioco non c’è solo una tradizione secolare, ma anche e soprattutto l’assetto costituzionale. Un punto deve, tuttavia, essere chiaro: la giustificazione della conservazione della pluralità delle giurisdizioni non può riposare sull’eredità della storia. La giustizia amministrativa è sorta nel 1889, con l’istituzione della quarta sezione del Consiglio di Stato quale organo giurisdizionale, per la tutela dei “diritti minori” di fronte al privilegio, conferito all’amministrazione, di modificare unilateralmente le situazioni soggettive dei privati, facendo valere le proprie pretese senza una previa verifica giudiziale (cd. imperatività del provvedimento amministrativo). Gli organi di giustizia amministrativa entrano nella Costituzione con questo marchio di origine. Il pluralismo di giurisdizioni, se deve oggi essere mantenuto, va emancipato da quella genesi storica e va iscritto nel costituzionalismo contemporaneo, la cui cifra è quella del pluralismo istituzionale. Il potere contemporaneo non è solo democratico, è anche plurale, e tale pluralismo si proietta sull’intero spettro dell’organizzazione istituzionale, e dunque anche sugli apparati della giurisdizione. Si può anzi dire che è il pluralismo, oggi, il vero precipitato del costituzionalismo liberale che dette i natali alla quarta sezione del Consiglio di Stato.
Proprio l’iscrizione nel costituzionalismo contemporaneo del pluralismo giurisdizionale comporta, poi, la necessità della piena costituzionalizzazione dell’ordinamento della magistratura amministrativa, con il conseguimento degli standard di autonomia e indipendenza che la Costituzione prefigura all’art. 104 per la magistratura ordinaria. Inoltre, il punto di vista del pluralismo istituzionale, quale chiave del pluralismo delle giurisdizioni, non lascia insensibili gli altri soggetti del pluralismo, e in particolare la Corte di cassazione. In un quadro pluralistico non può non essere preso alla lettera il settimo comma dell’art. 111 della Costituzione, nel quale la Cassazione viene a costituire un soggetto ulteriore, e quindi terzo, rispetto agli organi giurisdizionali ordinari e speciali. La norma costituzionale individua qui il momento di ricomposizione del sistema pluralistico, identificando la Cassazione come funzione e non plesso giurisdizionale, quale Corte che svolge, a differenza degli altri organi giurisdizionali anche di vertice, un sindacato di pura legittimità. L’identificazione dell’organo in base alla funzione, che è quella di giudice degli atti giurisdizionali, spoglia la Cassazione, limitatamente alla regola generale del settimo comma (e all’eccezione contemplata dal comma successivo), della sua natura di giudice ordinario. Sono molte le conseguenze che potrebbero ricavarsi da questa conclusione. Di certo va superata la vecchia tesi che spiega l’assegnazione alla Corte di cassazione del compito di giudice del riparto di giurisdizione con l’argomento della riserva, alla giurisdizione ordinaria, del compito in discorso perché il giudizio sulla giurisdizione sarebbe un giudizio sui limiti dei diritti soggettivi. Non c’è solo l’equiordinazione di diritti soggetti e interessi legittimi nel sistema costituzionale (art. 24, comma 1), entrambi proiezione più o meno intensa di diritti fondamentali alla stessa maniera, a imporre il superamento di tale tesi, ma anche la terzietà della Cassazione, adottando una visione pluralistica, rispetto al tronco della giustizia ordinaria da cui proviene.
Spostando il quadro all’interno della giurisdizione amministrativa, non può sfuggire il profondo cambiamento che da qualche tempo è in corso. Il riferimento non è qui solo al mutamento del volto costituzionale del giudice amministrativo, ormai giudice che ha cognizione dei diritti soggettivi nel larghissimo fronte della giurisdizione esclusiva, anche laddove siano in gioco direttamente diritti fondamentali, ma anche all’evoluzione della logica del giudizio amministrativo, «da strumento di garanzia della legalità dell’azione amministrativa a giurisdizione preordinata alla tutela di pretese sostanziali» (Cons. Stato, sez. VI, 25 febbraio 2019, n. 1321), secondo un topos ormai largamente diffuso. Eppure, ancora fino a pochi anni fa l’adunanza plenaria, limitando la portata del principio dispositivo, riconosceva che sullo sfondo del processo amministrativo restava l’interesse generale dell’intera collettività «ad una corretta gestione della cosa pubblica» (Cons. Stato, ad. plen., 27 aprile 2015, n. 5). Forse l’evoluzione della giustizia amministrativa non si è ancora compiuta, e il passaggio dall’ottica oggettiva del controllo della legalità dell’azione amministrativa a quella soggettiva della tutela della pretesa sostanziale del privato è soltanto uno step verso uno stadio ulteriore. Fra la concezione oggettiva del giudizio amministrativo e quella soggettiva può farsi spazio infatti una terza concezione, quella della «tutela della giustizia nell’amministrazione» (art. 100 Cost.). Spinge in questa direzione l’utilizzo sempre più diffuso del principio di proporzionalità quale canone di controllo dell’esercizio del potere autoritativo (da ultimo, ad esempio, Cons. Stato, sez. VI, 24 marzo 2020, n. 2061). Giustizia nell’amministrazione è giusta proporzione nel rapporto a somma zero che ricorre fra l’interesse pubblico e quello privato. Anche l’amministrazione, con l’adozione del provvedimento, produce diritto e incrementa l’ordinamento giuridico. Alla produzione giuridica è immanente la pretesa di giustizia (su cui si veda il contributo di chi scrive in appendice a questo fascicolo). Compito del giudice amministrativo è accertare se quella pretesa sia stata soddisfatta. Si tratta di una chiave di lettura che non corrisponde né alla mera garanzia della legalità dell’azione amministrativa, né alla semplice tutela della pretesa sostanziale, isolatamente prese. Piuttosto, la giustizia nell’amministrazione sembra ricomprendere, all’interno di una visione unitaria, sia la dimensione oggettiva che quella soggettiva del giudizio amministrativo.
L’attenzione alla concezione di fondo è importante, perché la giustizia amministrativa si trova in un momento delicato sul piano identitario. Due visioni sembrano essere in campo.
Da una parte, la tendenza all’inquadramento dell’esercizio del potere amministrativo nelle maglie del diritto comune attraverso l’estensione del canone civilistico della buona fede anche all’attività autoritativa (in questa direzione Cons. Stato, ad. plen., 4 maggio 2018, n. 5 e, più di recente, Cons. Stato, sez. II, 20 novembre 2020, n. 7237), tendenza che è riemersa nel deferimento da parte del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana all’adunanza plenaria della questione della natura della responsabilità della pubblica amministrazione per violazione degli interessi legittimi. La questione è stata sollevata con una chiara opzione in favore della responsabilità contrattuale cd. da contatto sociale. Una tendenza di questo tipo lascia aperto il seguente interrogativo: come conciliare l’utilizzo delle categorie del diritto civile con la deroga al diritto comune che si compie mediante l’esercizio del potere attribuito dalla norma?
Dall’altra parte, la visione tradizionale riemersa nella recente risposta che è pervenuta dall’adunanza plenaria al Consiglio di giustizia amministrativa (Cons. Stato, ad. plen., 23 aprile 2021, n. 7): l’asimmetria di posizioni che caratterizza l’esercizio unilaterale del potere nell’interesse pubblico è incompatibile con l’obbligazione di diritto civile e dunque la responsabilità è da illecito aquiliano, che prescinde dalla previa esistenza di un rapporto obbligatorio.
La giustizia amministrativa è probabilmente ad un bivio: spingere nella direzione della civilizzazione del potere amministrativo oppure puntare a una combinazione di modernità e tradizione. La via della civilizzazione, se seguita in modo rigoroso, può sollevare una questione d’identità e di senso della giustizia amministrativa. Scegliere il secondo corno dell’alternativa implica tenere insieme la modernità di un giudice amministrativo ormai garante dei diritti fondamentali nelle materie di giurisdizione esclusiva con la tradizione di un controllo giurisdizionale la cui maggiore incisività rispetto al diritto comune paritario si coglie «sotto il profilo della valutazione dell’effettiva funzionalizzazione dell’attività, che implica, tra l’altro, anche la considerazione dei motivi che spingono l’azione della pubblica amministrazione» (Cons. Stato, sez. IV, 3 maggio 2011, n. 2618). L’interesse legittimo, quale svolgimento rovesciato del potere, resta di quest’ultimo ancora un formidabile punto di vista critico.
Il diritto amministrativo, a differenza del diritto comune, che è il diritto degli eguali (salvo discipline speciali come quelle dei rapporti di lavoro o dei rapporti di consumo), presuppone l’asimmetria di potere fra amministrazione e privato ed appresta gli strumenti necessari per la tutela rispetto all’esercizio sproporzionato del potere. Il giudice amministrativo è il giudice di un rapporto di potere, non di una relazione fra eguali, quale quella che viene in rilievo quando l’amministrazione segue moduli convenzionali – art. 11 della legge n. 241/ 1990, che non a caso richiama (ma solo «in quanto compatibili») i principi del codice civile. La buona fede che l’art. 1 della legge sul procedimento amministrativo menziona, quale forma del rapporto fra cittadino e pubblica amministrazione unitamente alla collaborazione, corrisponde non alla regola di diritto civile, ma a un principio generale dell’ordinamento che ha la funzione, al pari della collaborazione, di modellare l’esercizio del potere. Dato il principio di autonomia privata, il giudice ordinario non tutela la giustizia nel contratto, salvi i casi previsti dall’ordinamento (come la lesione ultra dimidium del contratto concluso con approfittamento dell’altrui stato di bisogno o l’eccessiva onerosità sopravvenuta), benché la questione dei margini di intervento giudiziale sul negozio in funzione di riequilibrio delle prestazioni sia oggi ampiamente dibattuta. Viceversa il giudice amministrativo, stante l’asimmetria di potere fra amministrazione e privato, è organo «di tutela della giustizia nell’amministrazione» (art. 100 Cost.), con possibilità quindi di penetrazione nel merito in una misura che al giudice dei diritti soggettivi non è consentita. L’asimmetria di potere non si ricompone con un diritto paritario ma, come insegna la vicenda ultracinquantennale del diritto del lavoro, mediante un diritto diseguale che assuma e faccia propria quell’asimmetria. Il vecchio e blasonato interesse legittimo ha dunque ancora molto da dirci.
Avviamoci alla conclusione. In uno degli scritti di questo fascicolo si fa valere una concezione non proprietaria della giurisdizione. È un monito diretto ai soggetti del pluralismo giurisdizionale affinché non si concepiscano come proprietari della giurisdizione. Si può forse allargare l’orizzonte dell’esortazione e chiedere alla giurisdizione nel suo complesso di non sentirsi proprietaria del diritto. Intercettiamo a questa altezza la sfida del tempo che verrà dopo la pandemia.
Il Covid-19 ha realizzato una nuova unificazione del genere umano. Sembra qui avverarsi la profezia di Giacomo Leopardi nello Zibaldone e poi, soprattutto, nella Ginestra: ciò che può ricomporre e unificare l’umanità divisa è l’odio verso una natura nemica e vera origine dell’infelicità. Contro «l’empia natura» è data oggi la possibilità di una nuova «social catena». Mai come nella seconda metà del Novecento l’Europa ha vissuto l’esperienza della socializzazione dell’infelicità. Il diritto ha rappresentato l’anello essenziale di questa nuova socialità. L’ingresso in una Costituzione, come quella italiana, del conflitto sociale (attraverso la porta dell’art. 3 capoverso), muta radicalmente il volto del diritto. Grazie alla moderna Costituzione, il giuridico non è più solo garanzia dell’ordine oggettivo dei rapporti affidata alla giurisdizione, ma è anche veicolo di trasformazione sociale, affidata ai disegni del legislatore. La potenza del diritto si dispiega non solo dal punto di vista passivo della preservazione delle situazioni soggettive, ma anche da quello attivo dell’instaurazione di nuovi ordini sociali. Il diritto è ad un tempo limite e dispiegamento della forza: è questa la felix culpa del costituzionalismo democratico novecentesco. Nell’immaginario collettivo degli ultimi decenni è cresciuta l’immagine del giudice tutore dei diritti. A questa immagine ha corrisposto un progresso irrinunciabile della civiltà del diritto e vi corrisponde inoltre l’esigenza sempre viva e inestinguibile della garanzia dei diritti. È bene, però, che quell’immagine oggi non monopolizzi l’intero campo dell’esperienza giuridica, che abbandoni un certo titanismo che talvolta l’ha accompagnata e che lasci spazio al ritorno finalmente della grande politica, produttrice di diritto in grado di ridisegnare una società a misura di Costituzione.