Il possibile contributo della giurisprudenza per una pubblica amministrazione all’altezza del cd. Recovery Fund
Da tempo in ambito Ue si afferma che gli elementi principali per misurare la qualità delle amministrazioni pubbliche degli Stati membri sono il capitale umano e la capacità di creare “benessere sociale”. Nel nostro ordinamento, le quattro importanti riforme della p.a. varate nell’ultimo trentennio avevano tutte i suddetti obiettivi, il cui raggiungimento però non può dirsi pienamente ottenuto, perché “le leggi camminano sulle gambe degli uomini”. Ora tale raggiungimento è improcrastinabile e per la sua realizzazione può essere utile anche il contributo della giurisprudenza, purché basato su un proficuo dialogo tra giudici ordinari e giudici amministrativi che consenta anche di prevenire i conflitti di giurisdizione. Come è avvenuto per il lavoro pubblico.
1. Assicurare il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione (art. 97 Cost.) / 2. La cd. maladministration / 3. La “cultura del cambiamento” basata sulla fiducia circolare / 4. La sfida del Recovery Fund / 5. Alla ricerca di un linguaggio comune tra giudici ordinari e amministrativi
1. Assicurare il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione (art. 97 Cost.)
Da tempo accade che la Commissione europea rivolga reiterate raccomandazioni agli Stati membri Ue perché rendano le rispettive pubbliche amministrazioni più efficienti e trasparenti.
Del resto, dalle rilevazioni Ue risulta che il settore pubblico è il comparto più grande dell’Unione. Occupa circa 75 milioni di persone, ossia il 25 per cento circa della forza lavoro totale, con una spesa pubblica che rappresenta quasi il 50 per cento del Pil.
In questo ambito si è più volte sottolineato che le riforme attuate negli Stati membri a partire dalla metà degli anni novanta del Novecento, se per certi versi, hanno migliorato l’efficacia in termini di costi e l’efficienza delle pubbliche amministrazioni, per contro hanno prodotto un progressivo peggioramento della fiducia dei cittadini nei poteri pubblici, della coesione sociale e dell’attrattiva del pubblico impiego.
La principale ragione di questi risultati deludenti viene individuata nel fatto che ci si sia preoccupati soprattutto della riorganizzazione delle strutture e delle procedure formali – spesso gestite dall’alto, seguendo una logica politica o di bilancio −, dimenticando di sviluppare il potenziale umano, di ripensare il funzionamento della pubblica amministrazione o di cambiare la cultura amministrativa.
In linea generale, per la maggioranza degli studiosi del settore, un reale miglioramento della qualità dei servizi pubblici presuppone che si focalizzi l’attenzione prioritariamente sullo sviluppo delle potenzialità dei dipendenti, mentre nella maggior parte degli Stati Ue ci si concentra prevalentemente sulle prestazioni, sicché la gestione dei processi prevale sulla gestione delle persone.
Inoltre, in alcuni Stati Ue (compresa l’Italia) gli approcci a livello centrale e periferico spesso non sono coerenti sicché, considerato il ruolo fondamentale del livello regionale e locale nella fornitura di servizi (e, in alcuni casi, nella regolamentazione), onde assicurare una funzione pubblica più qualificata ed efficiente, sarebbe necessario un migliore coordinamento tra i tutti i livelli di governo.
Si aggiunge che, in molti Paesi, la ristrutturazione formale prolungata e intensiva ha portato a una generale “stanchezza da riforme”, che ha avuto − e ha tuttora in molti ordinamenti, compreso il nostro − effetti di avvertita mortificazione nel loro ruolo da parte dei dipendenti, che oltre a poter generare comportamenti sbagliati (di varia intensità), soprattutto rende estremamente arduo riscoprire il senso, il valore e la dignità del pubblico impiego, considerato il fondamentale fattore produttivo in grado di incidere significativamente sulla qualità dei servizi resi ai cittadini.
Questo si è verificato anche nel nostro Paese, nel quale, a partire dalla fondamentale legge n. 241 del 1990, si sono avute ben quattro grandi riforme della p.a.[1] con la diffusione, anche in questo settore, di forme di lavoro flessibile (spesso oltre i limiti consentiti), sulla scia del famoso rapporto («Job Study») dell’Ocse sull’occupazione, del 1994[2], e l’insieme di questi interventi legislativi non è riuscito a cambiare significativamente il funzionamento della p.a. nel senso di orientarlo al servizio e alla ricerca del bene comune.
Quanto al lavoro flessibile, la sua “abusiva” utilizzazione da parte delle pubbliche amministrazioni può considerarsi un effetto perverso dell’applicazione della logica del profitto anche in questo ambito, nell’idea originaria di aumentare l’efficienza delle amministrazioni stesse, mentre si tratta di una logica sicuramente impropria, specialmente per i settori-chiave del lavoro pubblico, quali le scuole pubbliche e le università, gli uffici giudiziari e le aziende sanitarie.
Infatti le pubbliche amministrazioni, specialmente nei suddetti settori, sono chiamate a operare per creare “valore”, sicché le loro strategie e capacità di gestione devono essere valutate proprio in quest’ottica, che è l’unica che può consentire un reale miglioramento del servizio.
Solo da un’adeguata creazione di “valore” possono – indirettamente – prodursi profitti e quindi benessere sociale, che è uno degli elementi per misurare la qualità delle amministrazioni pubbliche degli Stati membri in sede Ue.
Del resto, a questo risultato puntavano i nostri Costituenti quando hanno stabilito che i pubblici uffici devono essere organizzati «in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione» e l’aggiunta del primo comma, a opera dell’art. 2 della legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1, certamente non ha modificato questa impostazione ma forse l’ha rafforzata.
Infatti, come affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 247 del 2018, nell’articolazione teleologica del precetto costituzionale come modificato, l’equilibrio di bilancio ex post corrisponde all’assenza di un disavanzo al termine dell’esercizio finanziario, ma «il buon andamento presuppone anche che al positivo risultato finanziario faccia riscontro una corretta e ottimale erogazione dei servizi e delle prestazioni sociali rese alla collettività».
Sotto tale profilo, «il miglior rapporto tra equilibrio del bilancio e buon andamento dell’azione amministrativa risiede in un armonico perseguimento delle finalità pubbliche attraverso il minor impiego possibile delle risorse acquisite mediante i contributi e il prelievo fiscale; in sostanza, un ottimale rapporto tra efficienza ed equità».
2. La cd. “maladministration”
Anche in un quadro costituzionale chiaro, si è comunque preferito perseguire in modo persistente la suindicata logica di tipo aziendalistico, emblematicamente dimostrata dalla sostituzione, a opera del d.lgs 30 dicembre 1992, n. 502, delle «Unità sanitarie locali» con le «Aziende sanitarie locali».
E per avere immediata contezza dei guasti dell’applicazione della logica del profitto al settore dei servizi pubblici essenziali e, in particolare, alla Sanità, può essere sufficiente considerare le recenti gravi difficoltà riscontratesi in molte Regioni da parte del Servizio sanitario per poter far fronte – pur con medici, infermieri e personale sanitario in genere di preparazione elevata e di grande dedizione, nonostante il trattamento retributivo inadeguato alle loro importanti e difficili funzioni – alla gestione della pandemia, specialmente nella fase iniziale.
Va anche detto che, per un fenomeno di eterogenesi dei fini, la logica aziendalistica – unita al nostro prevalente individualismo –, anziché portare a una razionalizzazione dei costi, ha favorito l’aumento dei casi di cattiva amministrazione (che, anche se non assurgono a livello di reati, creano comunque dei danni) oltre a quelli di corruzione intesa in senso ampio e in senso stretto, tutti fenomeni che hanno costi elevati umani e materiali.
Secondo i dati della Corte dei conti, gli effetti distorsivi delle irregolarità e degli illeciti penali nel pubblico impiego sono particolarmente incisivi nei settori in cui è più alto il livello della spesa, tra i quali quello della Sanità, oltre a quelli della realizzazione di opere pubbliche e della prestazione di altri servizi.
Anche senza arrivare a comportamenti penalmente rilevanti, va sottolineato che, nell’ambito della gestione del rapporto di lavoro pubblico, il ruolo della giurisprudenza sia ordinaria (del lavoro) sia amministrativa è stato ed è significativo al fine di porre l’attenzione sui fenomeni di cd. “maladministration” – “cattiva amministrazione” –, consistenti in condotte che, pur non essendo fonte di responsabilità penale ma di altro tipo o, addirittura, non essendo sanzionabili, tuttavia contrastano con la necessaria cura dell’interesse pubblico e pregiudicano l’affidamento dei cittadini nell’imparzialità delle amministrazioni e dei soggetti che svolgono attività di pubblico interesse, generando situazioni di contrasto con l’ordinamento giuridico: conflitti di interessi, nepotismo, clientelismo, partigianeria, occupazione di cariche pubbliche, assenteismo, sprechi, inutili lungaggini e così via.
Tali comportamenti possono essere realizzati sia dai dipendenti in moltissimi modi (ad esempio, nelle forme dell’assenteismo, dell’utilizzo scorretto del tesserino marcatempo, della cd. “burocrazia difensiva” oppure della violazione della normativa in materia di incompatibilità e cumulo di impieghi e incarichi oltre che di inconferibilità degli incarichi stessi, fattispecie di recente esaminata da Cass., sez. unite, 11 novembre 2020, n. 25369) sia dalle pubbliche amministrazioni, alle quali, nel loro ruolo di datrici di lavoro, è imposto di fare in modo che nell’ambiente di lavoro vi sia la serenità necessaria per il corretto espletamento delle prestazioni lavorative, sicché il giudice può valutare la relativa condotta al fine di escludere che i provvedimenti adottati abbiano avuto il solo fine di mortificare la personalità e la dignità del dipendente (fra le tante: Cass., 19 febbraio 2016, n. 3291; Cass., 14 luglio 2016, n. 14388; Cass., 10 novembre 2017, n. 26684; Cass., 27 aprile 2018, n. 10285, nonché, mutatis mutandis, Cons. Stato, sez. VI, 25 febbraio 2019, n. 1321, di cui si dirà più avanti).
Le cause delle indicate “deviazioni” sono molteplici, ma per la relativa prevenzione – che rappresenta, anche per l’Ue, la strategia vincente – la strada principale da seguire è quella di porre al centro i valori e i principi professionali tipici della pubblica amministrazione, che ne dovrebbero proprio costituire le fondamenta.
Per il nostro ordinamento ciò significa che, in tutto il pubblico impiego – contrattualizzato e non –, i dipendenti si possano realmente sentire al servizio della Nazione, come recita, d’altronde, il primo comma dell’art. 98 Cost., e così rispettare il dovere di adempiere le loro funzioni «con disciplina ed onore» (art. 54, comma 2, Cost.) e al contempo essere di esempio per gli utenti in modo che questi, a loro volta, uniformino la loro condotta al «dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi» (art. 54, comma 1, Cost.).
Tutto questo, ovviamente, salva restando la preparazione tecnica che rappresenta una pre-condizione ineliminabile e che, per chi ha compiti di coordinamento o dirigenziali, dovrebbe essere affiancata da una specifica preparazione per lo svolgimento di tali compiti, come accade in molti Stati Ue, visto che la dirigenza pubblica è «l’attore centrale del processo riformatore e motore della gestione del mutamento», sia esso in atto o atteso[3].
Di conseguenza, anche la problematica del diritto al risarcimento del danno arrecato da un comportamento della p.a. lesivo di canoni della buona fede e correttezza[4] sarebbe ridimensionata − se non superata −, in quanto i dirigenti degli apparati, inseriti in un contesto lavorativo diverso e più conforme nei fatti al “buon andamento”, sarebbero portati a uniformare i loro comportamenti ai suddetti canoni (di buona fede e correttezza) piuttosto che ricorrere alla cd. “burocrazia difensiva”[5], in quanto sarebbe proprio quest’ultima pratica a poterli esporre al rischio di essere chiamati a rispondere dei danni cagionati da un comportamento che − sia se scorporato dal contesto in cui si inserisce, sia se valutato all’interno di tale contesto – potrebbe essere ritenuto di maladministration perché in contrasto con la necessaria cura dell’interesse pubblico e pregiudizievole per l’affidamento dei cittadini nell’imparzialità delle amministrazioni e dei soggetti che svolgono attività di pubblico interesse.
3. La “cultura del cambiamento” basata sulla fiducia circolare
La qualità dei servizi erogati dalle pubbliche amministrazioni è anche un indicatore valido del buon funzionamento generale di uno Stato.
Per la maggioranza degli studiosi del settore, e anche per la Ue, per assicurare servizi di qualità a costi contenuti le amministrazioni pubbliche devono poter contare sull’apporto dei dipendenti, oltre ad adottare nuove procedure e strumenti di gestione tra i quali oggi si pone in primo piano la digitalizzazione.
La performance dei dipendenti e la loro motivazione a continuare a fornire adeguati contributi deve essere sostenuta e riconosciuta, e questo richiede una forte assunzione di responsabilità da parte della dirigenza, che deve essere consapevole che la qualità dei risultati dell’ente è fortemente influenzata dalla qualità dell’impegno e delle competenze possedute dal personale.
Tutto questo è strettamente correlato al livello di fiducia dei cittadini nella p.a. e nella sua capacità di produrre benessere sociale.
Per suscitare – o risvegliare – la fiducia dei cittadini nella p.a., è necessario che le pubbliche amministrazioni e, per esse, i loro dipendenti abbiano fiducia in loro stessi.
Questa fiducia “circolare” è alla base della democrazia.
Basta ricordare che Pericle, nel famoso discorso ricordato come «Elogio della democrazia ateniese»[6], affermava che uno dei capisaldi di quella democrazia era che: «ogni ateniese cresce sviluppando in sé una felice versatilità, la fiducia in se stesso, la prontezza a fronteggiare qualsiasi situazione; ed è per questo che la nostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero».
Nelle moderne democrazie rappresentative, e in quelle europee in particolare, si parla di solidarietà e si dice che l’essenza della democrazia è rappresentata dal fatto che il benessere di ciascuno è la misura del benessere dell’intero corpo sociale di appartenenza[7].
Di conseguenza, si proclama come principio fondante dell’Ue e delle democrazie del continente quello del riconoscimento della pari dignità di tutti gli esseri umani, sulla scorta della Dichiarazione universale dei diritti umani, promulgata dall’Assemblea generale Onu nel 1948 (e dalle molteplici Convenzioni settoriali che ad essa hanno fatto seguito[8]), e nel ricordo delle parole pronunciate da Winston Churchill nel famoso «Discorso alla gioventù accademica», tenuto all’Università di Zurigo il 19 settembre 1946, che ha dato l’avvio al processo con il quale si è giunti all’attuale Ue[9].
Lo stesso principio, come sappiamo, è solennemente contemplato dalla Cedu, dal Trattato di Lisbona e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Ue (per restare in ambito europeo).
Né va omesso di sottolineare che l’effettività della tutela dei diritti fondamentali, da sempre, è considerata il presupposto della legittimità democratica del “progetto europeo” e il suo tratto caratteristico in ogni settore.
La nostra Costituzione – nella quale la persona e il rispetto della persona hanno un ruolo centrale –, per una precisa scelta, ha seguito una diversa impostazione, che si è tradotta nella solenne proclamazione, al primo comma dell’art. 1, che «l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro». In tal modo è stato creato un profondo collegamento tra democrazia e lavoro, configurandosi la questione democratica come questione del lavoro, come è stato acutamente osservato da Gustavo Zagrebelsky[10].
In base al disegno dei Costituenti, il fondamentale principio della pari dignità di tutte le persone umane poggia su imponenti colonne, rappresentate dal diritto al lavoro dignitoso e dalla tutela della salute.
A tali diritti, sia nelle Carte internazionali ed europee, sia nella nostra Costituzione, è stata data una configurazione similare, nel senso che entrambi sono stati delineati in una duplice dimensione individuale – cioè come diritti fondamentali delle singole persone –, ma anche sociale.
Così, per quel che concerne il diritto al lavoro dignitoso: a) nel primo comma dell’art. 1 della nostra Costituzione, solennemente si proclama che «l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro», nell’ottica di considerare il lavoro tutto dei singoli consociati (come risulta anche dalla combinazione con i successivi artt. 2 e 4 Cost.) non solo come il mezzo con cui mettere a frutto i propri talenti e procurarsi un reddito, ma soprattutto come il principale strumento di integrazione sociale; b) quindi il lavoro dignitoso è riconosciuto come un diritto che inerisce a ogni persona, ma allo stesso tempo è collettivo, in quanto dalla sua attuazione dipende il miglioramento del benessere dei singoli e contemporaneamente del corpo sociale in cui sono inseriti e, quindi, il futuro di entrambi; c) la medesima impostazione – sia pure in termini non del tutto coincidenti – si rinviene in molte Carte internazionali, a cominciare dall’art. 23 della Dichiarazione universale dei diritti umani, promulgata dall’Assemblea generale Onu nel 1948 e dalle molteplici Convenzioni settoriali che ad essa hanno fatto seguito; d) per tale ragione, dal Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali del 1966, si desume che il settore del lavoro non può essere lasciato al libero arbitrio del mercato, ma deve costituire oggetto di politiche pubbliche nel quadro di una più ampia programmazione di Stato sociale.
Analogamente, per quanto riguarda la tutela della salute: a) nel Preambolo della Costituzione dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) o World Health Organization (Who), entrata in vigore il 7 aprile 1948, la salute viene definita come «stato di completo benessere fisico, mentale e sociale» e non come «semplice assenza dello stato di malattia o di infermità»; b) in armonia con tale definizione, nell’art. 32 della nostra Costituzione la tutela della salute è configurata non solo come fondamentale diritto dell’individuo, ma anche come interesse della collettività. E proprio per dare migliore attuazione a questo precetto, con legge 23 dicembre 1978, n. 833, è stato istituito il nostro Servizio sanitario nazionale (operativo dal 1° luglio 1980), che è tuttora considerato uno dei migliori sistemi sanitari del mondo in termini di efficienza di spesa e accesso alle cure pubbliche per i cittadini.
La duplice valenza attribuita a entrambi i suddetti diritti – tutti e due finalizzati, in modo diverso, al benessere dell’individuo e, al contempo, della società – rende evidente come essi siano stati intesi sia dai nostri Costituenti sia dai Padri fondatori del “progetto europeo” come gli “elementi portanti” dello Stato democratico contemporaneo.
Tale configurazione è tuttora valida, a prescindere dal tipo di assetto costituzionale – centralizzato o decentralizzato – che il singolo Stato si è dato perché, in ogni caso, l’attuazione del diritto alla salute, così come quella del diritto al lavoro, devono essere conformi ai principi fondamentali di pari dignità degli individui, uguaglianza e solidarietà che regolano la partecipazione del singolo alla comunità di appartenenza, in base al principio democratico sul quale sono fondati il nostro Stato e la stessa Unione europea.
Del resto, non va dimenticato che, nella medesima ottica, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea: a) all’art. 31, par. 1, ha stabilito che: «ogni lavoratore ha diritto a condizioni di lavoro sane, sicure e dignitose»; b) all’art. 35 («Protezione della salute») ha previsto che: «ogni individuo ha il diritto di accedere alla prevenzione sanitaria e di ottenere cure mediche alle condizioni stabilite dalle legislazioni e prassi nazionali. Nella definizione e nell’attuazione di tutte le politiche ed attività dell’Unione è garantito un livello elevato di protezione della salute umana».
Ed essendo più recente, al riconoscimento di questi diritti la Carta Ue ha aggiunto anche, all’art. 37, la tutela dell’ambiente, affermando che: «un livello elevato di tutela dell’ambiente e il miglioramento della sua qualità devono essere integrati nelle politiche dell’Unione e garantiti conformemente al principio dello sviluppo sostenibile».
4. La sfida del Recovery Fund
Questo riconoscimento è conforme a quanto da tempo si sostiene in sede Onu[11] e, in particolare, nell’Oil (Organizzazione internazionale del lavoro), nel senso che per l’Europa – e, specialmente, per l’Italia – il tema in concreto più importante (anche alla luce della Costituzione italiana), collegato agli squilibri delle disuguaglianze, è quello di puntare su progressi duraturi in termini di creazione netta di lavoro dignitoso, su un’adeguata tutela della salute in un’ottica universalistica nonché sulla tutela di un ambiente salubre. Si deve, cioè, puntare al trinomio ambiente-salute-lavoro dignitoso, che è essenziale per ottenere uno sviluppo equo e sostenibile.
Questi principi – che, in realtà, da tempo sono in uno stato di “latenza” in tutta la Ue e quindi nel nostro Paese – devono ricevere piena applicazione anche nel lavoro pubblico e, nel particolare momento storico che stiamo vivendo, caratterizzato dalla pandemia da Covid-19, sono da rivitalizzare perché molti studiosi ed economisti invocano la “fiducia” come elemento determinante per sanare le profonde cicatrici economiche, sociali e psicologiche della pandemia che ci assale.
Del resto, la fiducia in se stessi, negli altri, ma soprattutto nelle pubbliche amministrazioni è un elemento determinante per la buona reputazione di uno Stato e, a sua volta, la buona reputazione ha un peso notevole anche negli scambi commerciali.
Questo risulta confermato anche dal Country RepTrak, l’annuale classifica del Reputation Institute – società Usa di advisory che studia e vende agli investitori privati una specie di rating dell’onorabilità internazionale del Paesi del mondo con il Pil più alto (oltre che delle società commerciali più affidabili).
In questa classifica, tradizionalmente, risulta che l’Italia gode di una buona “reputazione esterna”, benché emergano come elementi critici l’instabilità politica e il carico fiscale, la burocrazia e i tempi della giustizia civile, tutte questioni che chiamano in causa la pubblica amministrazione.
E questo trova riscontro anche nell’AIBE Index, l’indice che misura l’attrattività del sistema-Italia, realizzato dal Censis con l’Associazione italiana delle banche estere.
Ma quel che più colpisce gli osservatori è che l’Italia, da sempre, ha un indice molto basso di “reputazione interna”, cioè di “autostima”, anzi il nostro Paese è quello in cui si registra il maggior divario fra la reputazione interna e quella esterna.
Molti sostengono che la causa principale del suddetto sentimento negativo degli italiani sarebbe da individuare nel fatto che il nostro Stato si è costituito nella sua unità relativamente di recente: da questo deriverebbe l’assenza diffusa del senso dell’orgoglio nazionale.
Altri ritengono che, invece, sia una questione di cultura, che porta a non percepire che è necessario un “soprassalto di dignità” per comprendere che un basso senso dell’identità nazionale – che è alla base della poca autostima della nostra popolazione – lede gli interessi fondamentali dei singoli e prosciuga il futuro dei giovani, oltre a favorire comportamenti illegali quali quelli corruttivi.
Poiché è indubbio che le pubbliche amministrazioni – e, in particolare, quelle che offrono servizi essenziali come le scuole pubbliche, le università, gli uffici giudiziari e le aziende sanitarie – siano lo specchio dello Stato, è evidente che il loro corretto funzionamento ha un ruolo primario per la “reputazione” interna ed esterna del Paese.
Nell’attuale momento tutto questo ha un’importanza nevralgica, sia per affrontare la pandemia sia per la migliore gestione degli ingenti fondi Ue che arriveranno nel nostro Paese per effetto del Recovery and Resilience Facility (Rrf), il regolamento approvato con ampia maggioranza in via definitiva l’11 febbraio 2021 dal Parlamento europeo per stabilire gli obiettivi, le regole di accesso e di finanziamento che governano il Recovery Fund.
Come ha detto il Commissario Ue per l’economia, Paolo Gentiloni, si tratta di un «passo storico», una «opportunità unica da cogliere per cambiare le nostre economie per il bene di tutti i cittadini europei».
Ebbene, per affrontare questa sfida sarebbe in primo luogo opportuno ricordare che, da parte dell’Ocse, da molti anni si afferma che nel nostro Paese, il più delle volte, le riforme varate non hanno avuto nel corso del tempo l’efficacia sperata, soprattutto a causa di una non soddisfacente «elaborazione e formulazione scritta delle leggi e delle norme attuative». E che, nello stesso ordine di idee, la Cepej («Commission européenne pour l’efficacité de la justice», «Commissione europea per l’efficienza della giustizia», istituita nell’ambito del sistema del Consiglio d’Europa) nei suoi rapporti annuali ha sottolineato che l’elemento che maggiormente determina la lunghezza dei tempi processuali della nostra giustizia civile è rappresentato dalla “selva oscura” e invadente di disposizioni normative di vario livello, il cui coordinamento con le norme di fonte sovranazionale e/o internazionale risulta, fra l’altro, particolarmente complesso. È questa la vera e propria “zavorra sull’attività economica” del nostro Paese che scoraggia gli investitori esteri, genera contenzioso e crea, inevitabilmente, confusioni interpretative, oltretutto rischiando di indebolire dal suo interno lo Stato sociale democratico, con un’inutile dispersione delle energie umane e materiali.
Viene anche sottolineato che gli effetti negativi di questa “bulimia normativa” si rinvengono soprattutto nei settori di maggiore rilievo del sistema-Italia, sicché il raggiungimento dell’obiettivo della crescita del sistema – sia pure rapportata alla presente congiuntura internazionale – dipende principalmente dalla “cura” di questa patologia.
Sono affermazioni che si collegano a quanto da tempo sostengono economisti, anche stranieri, e giuristi in merito alla corruzione – in senso ampio – come primo fattore di danno per la crescita economica del Paese, aggiungendo che la principale ragione del diffondersi dell’illegalità e della corruzione è rappresentata dal “caos legislativo” che caratterizza il nostro ordinamento, nel quale, secondo alcune stime, vi è il decuplo delle leggi (intese in senso a-tecnico e ampio) degli altri Stati dell’Ue[12].
Non si può certo dire che sia un problema nuovo, visto che, già ai tempi della dinastia Flavia, Publio Cornelio Tacito stigmatizzò il problema della corruzione e del disfacimento morale della società nella famosa frase «corruptissima res publica plurimae leges» («quando lo Stato è corrotto, le leggi sono moltissime»).
Ma è chiaro che alla base anche di una buona riuscita del Recovery Fund vi è la soluzione di questo problema: razionalizzare la nostra legislazione, possibilmente attraverso dei testi unici, come si è fatto, ad esempio, per l’espropriazione di pubblica utilità e per i beni culturali.
5. Alla ricerca di un linguaggio comune tra giudici ordinari e amministrativi
Questo vale, in primo luogo, per la disciplina del lavoro pubblico e delle pubbliche amministrazioni in genere.
In questo campo, come si detto, si sono susseguite plurime riforme fatte da ottimi tecnici, ma nessuna ha avuto il tempo di sedimentare i risultati, senza contare le resistenze interne spesso legate al fenomeno della “stanchezza da riforme”.
Ne deriva che, pur essendo necessari, soprattutto in vista del Recovery Fund, alcuni interventi legislativi specialmente sul fronte della digitalizzazione, è auspicabile che non si pensi a una nuova grande riforma della pubblica amministrazione e che, piuttosto, ci si concentri sull’ottimizzazione e la motivazione del capitale umano a disposizione.
In questo percorso possono risultare utili i principi affermati – ciascuno nel suo ambito – dal giudice ordinario e dal giudice amministrativo, in anni di paziente lavoro.
Da quando, ai fini del riparto della giurisdizione, è stato introdotto il criterio dei “blocchi di materie”, superando così la tradizionale dicotomia diritti soggettivi/interessi legittimi[13], le occasioni di interferenza tra i giudici ordinari e quelli amministrativi sono sensibilmente aumentate.
Tali occasioni sono state molto frequenti nell’ambito del lavoro pubblico a partire dall’entrata in vigore del d.lgs n. 29/1993 che, “rivoluzionando” il criterio di riparto di giurisdizione nella materia, ha considerato come generale nell’ambito del rapporto di lavoro pubblico contrattualizzato la giurisdizione del giudice ordinario, considerando in questo ambito come eccezionale la sopravvivenza di quella del giudice amministrativo e, al contempo, mantenendo ferma tale ultima giurisdizione per le controversie attinenti ai rapporti di lavoro pubblico non contrattualizzati di cui all’art. 3 del decreto, ivi comprese quelle relative ai diritti patrimoniali connessi.
Questa situazione sicuramente si è rivelata come un’opportunità, che ci ha spinto a cercare di parlare un linguaggio sempre più simile tra giudici ordinari e amministrativi, nella consapevolezza della necessità di adottare come comune l’obiettivo di puntare – nei limiti propri del momento giurisdizionale – a un cambiamento dei rapporti tra il cittadino e le pubbliche amministrazioni che può essere benefico per la nostra economia – come si è detto – ma che può verificarsi solo a condizione che le amministrazioni diano esempi virtuosi e conformino nei fatti la loro attività al principio del giusto procedimento, anche al fine di contribuire al deflazionamento del contenzioso in materia di violazioni dei diritti fondamentali dei dipendenti e degli utenti, che è sempre molto abbondante, sia presso le corti europee “centrali” sia presso i giudici nazionali.
Del resto, non va dimenticato che la Corte costituzionale, nella sentenza n. 310 del 2010, ha ribadito con forza che il rispetto dei principi del giusto procedimento è intrinseco ai principi di buon andamento e d’imparzialità e, al contempo, tutela altri interessi costituzionalmente protetti, come il diritto di difesa nei confronti delle stesse amministrazioni (artt. 24 e 113 Cost.; sul principio di pubblicità, sentenza n. 104 del 2006, punto 3.2 del Considerato in diritto).
In altri termini, uniformandosi a tali principi, la p.a. potrebbe favorire il “cambiamento culturale” che è l’elemento di base per poter affrontare in modo nuovo i rapporti con la popolazione.
E se i giudici chiamati a valutarne i comportamenti – nel loro ruolo di datori di lavoro – hanno linguaggi e obiettivi comuni, è più facile che questa svolta si realizzi.
Va anche detto che, per il lavoro pubblico, questo cammino complesso ma virtuoso ancora in corso è stato ed è possibile soprattutto perché la disciplina di base sul riparto di giurisdizione è formulata in modo tale da consentire, attraverso l’interpretazione giurisprudenziale, di attribuirle un significato piuttosto preciso, tale per cui oggi i contrasti di giurisdizioni in questa materia sono poco numerosi e mediamente di agevole soluzione.
Per molti degli altri ambiti interessati dall’applicazione del criterio dei “blocchi di materie”, questo non è avvenuto principalmente per la mancanza o la scarsa chiarezza della disciplina sul riparto di giurisdizione.
Allora, prima ancora di pensare alla composizione dell’organo giurisdizionale che deve decidere sui conflitti di giurisdizione, sarebbe più utile e forse anche meno complicato puntare alla razionalizzazione della normativa di base dei vari settori, con una chiara ripartizione delle giurisdizioni in ciascuno di essi.
Questo, infatti, equivarrebbe a puntare sulla prevenzione dei conflitti e a garantire una tutela piena ed effettiva dei cittadini, evitando che si determini una crisi di cooperazione tra p.a. e cittadino che possa risolversi in un defatigante passaggio tra giudici di plessi diversi con il rischio di non riuscire ad addivenire a una soluzione positiva e con grave dispendio di risorse pubbliche e private.
Nella nota sentenza 25 febbraio 2019, n. 1321 della VI sezione del Consiglio di Stato (sulla quale vds. Cass., sez. unite, 7 luglio 2020, n. 18592) è stato mirabilmente sottolineato − con riferimento alle situazioni di alternanza tra procedimento e processo amministrativo nell’ipotesi del susseguirsi di una pluralità di giudicati amministrativi di annullamento cui non sia stata data corretta attuazione − che il sistema della giustizia amministrativa deve dimostrarsi in grado di approntare un rimedio adeguato al bisogno di tutela, rendendo concretamente tangibile l’evoluzione della giustizia amministrativa da strumento di garanzia della legalità dell’azione amministrativa a giurisdizione preordinata alla tutela di pretese sostanziali, come delineata dal nuovo codice del processo amministrativo.
Per le medesime ragioni, il giudice amministrativo, insieme con quello ordinario, potrebbero puntare a un’indicazione chiara dei criteri di riparto di giurisdizione.
Questo comune obiettivo non solo aumenterebbe la reciproca comprensione tra giudici ordinari e amministrativi, ma renderebbe più agevole l’esercizio del «diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice» (art. 47 Carta Ue e art. 6 Cedu) da parte dei cittadini, ridurrebbe i tempi processuali e renderebbe il nostro complicato ordinamento più comprensibile anche in ambito Ue nonché conforme maggiormente – rispetto all’attuale sistema che può produrre “peregrinazioni” reiterate davanti a giudici diversi che possono pure risultare prive di utilità[14] – ai principi della Costituzione e del diritto europeo, che sono alla base anche del cpa (Cons. Stato, n. 1321/2019, cit.).
Intraprendere questo cammino potrebbe essere un effetto positivo di questa terribile pandemia e potrebbe contribuire in modo significativo alla salus rei publicae.
1. Nell’indicato arco temporale, come prima grande riforma della p.a. si ricorda quella guidata dal ministro Cassese; come seconda riforma, quella guidata dal ministro Bassanini; come terza riforma rilevante, quella del ministro Brunetta e come quarta riforma quella che stiamo vivendo, avviata con l’approvazione della legge delega n. 124/2015, che prende il nome dal ministro Madia. A queste riforme vanno aggiunti numerosi ulteriori interventi legislativi, che hanno avuto il sicuro effetto di introdurre principi di riferimento e possibili idee di cambiamento. Per un interessante approfondimento sulle ragioni del mancato raggiungimento dell’obiettivo – sempre condiviso – del “cambiamento culturale” della p.a., vds. per tutti: 25 anni di riforme della PA: troppe norme, pochi traguardi, ricerca coordinata da C. Mochi Sismondi e curata da V. Piersanti, dicembre 2016, www.astrid-online.it/static/upload/fpa_/fpa_25-anni-di-riforme_19_12_16.pdf.pdf.
2. In tale rapporto si sosteneva che, per risolvere la crisi occupazionale dell’epoca nella Ue, lo strumento migliore sarebbe stato quello di rendere il lavoro “flessibile” nell’ambito di un “mercato del lavoro più libero” da pressioni sindacali e da normative a protezione dei lavoratori. In realtà, tale strategia – poco dopo modificata dalla stessa Ocse − ha soltanto portato a un grande aumento del lavoro flessibile e precario nell’ambito sia del lavoro privato sia di quello pubblico soprattutto “contrattualizzato”, le cui conseguenze non sono state di tipo espansivo, ma anzi hanno determinato molti guasti nella società e nell’economia, che a volte si ripropongono oggi nell’economia delle piattaforme digitali, visto che sono tuttora considerate un portato della globalizzazione.
3. Vds. V. Piersanti (a cura di), 25 anni di riforme della PA, op. cit.
4. Questa problematica è stata, di recente, analizzata a seguito della sentenza delle sezioni unite, n. 8236 del 28 aprile 2020, che ha stabilito che: «Spetta alla giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria la controversia relativa ad una pretesa risarcitoria fondata sulla lesione dell’affidamento del privato nell’emanazione di un provvedimento amministrativo a causa di una condotta della pubblica amministrazione che si assume difforme dai canoni di correttezza e buona fede, atteso che la responsabilità della P.A. per il danno prodotto al privato quale conseguenza della violazione dell’affidamento dal medesimo riposto nella correttezza dell’azione amministrativa sorge da un rapporto tra soggetti (la pubblica amministrazione ed il privato che con questa sia entrato in relazione) inquadrabile nella responsabilità di tipo contrattuale, secondo lo schema della responsabilità relazionale o da “contatto sociale qualificato”, inteso come fatto idoneo a produrre obbligazioni ex art. 1173 c.c., e ciò non solo nel caso in cui tale danno derivi dalla emanazione e dal successivo annullamento di un atto ampliativo illegittimo, ma anche nel caso in cui nessun provvedimento amministrativo sia stato emanato, cosicché il privato abbia riposto il proprio affidamento in un mero comportamento dell’amministrazione».
Fra i molteplici commenti si segnalano: G. Tulumello, Le Sezioni Unite e il danno da affidamento procedimentale: la “resistibile ascesa” del contatto sociale, 2020, www.giustizia-amministrativa.it/-/tulumello-le-sezioni-unite-e-il-danno-da-affidamento-procedimentale-la-resistibile-ascesa-del-contatto-sociale; V. Neri, La tutela dell’affidamento spetta sempre alla giurisdizione del giudice ordinario?, in Urb. app., n. 6/2020, pp. 794 ss.; G. Tropea, Comportamento procedimentale, lesione dell’affidamento e giurisdizione del g.o., in Giustizia insieme, 15 maggio 2020; M. Filippi, Il principio dell’affidamento nei confronti della pubblica amministrazione riflessi sul riparto tra le giurisdizioni alla luce dei nuovi orientamenti della giurisprudenza, ivi, 11 febbraio 2021.
5. Per “burocrazia difensiva” si intende la prassi secondo cui, per evitare di essere chiamati a rispondere delle proprie scelte in un quadro dominato dall’incertezza normativa, sia meglio rimanere immobili piuttosto che assumere iniziative rischiose.
Il possibile ricorso a tale prassi è stato paventato da M. Filippi, Il principio dell’affidamento, op. cit., come conseguenza dell’attribuzione all’ago della giurisdizione in materia di risarcimento del danno domandato dal destinatario di un provvedimento illegittimo, ampliativo della sua sfera giuridica, a causa dell’emanazione dell’atto favorevole (illegittimo) e del successivo (legittimo) annullamento di tale provvedimento, in sede giurisdizionale o a seguito dell’esercizio del potere di annullamento d’ufficio da parte dell’amministrazione che ha emanato l’atto (vds. Cass., sez. unite, n. 8236/2020, cit. nonché sez. unite, nn. 6594, 6595 e 6596/2011).
6. Tenuto da Pericle nell’inverno tra il 431 e il 430 a.C., in onore dei caduti ateniesi nel primo anno della guerra del Peloponneso, il discorso è riportato da Tucidide nella poderosa opera che i grammatici intitolarono «Ιστορίαι» o «Συγγραϕή». Sull’importanza della fiducia tra i consociati, vds. L. Tria, Un impegno comune per tutte le giurisdizioni: dare ai consociati fiducia nelle Pubbliche Amministrazioni, 20 maggio 2017, Giornate di studio sulla giustizia amministrativa, Castello di Modanella, Rapolano Terme/Siena, 19 e 20 maggio 2017, (in www.sipotra.it).
7. Sul punto vds. G. Vettori, I principi comuni del diritto europeo dalla CEDU al Trattato di Lisbona, in Persona e mercato, 1° dicembre 2019, www.personaemercato.it/principi-comuni-di-diritto-europeo/, nonché G. Raimondi, L’esperienza della Corte europea dei diritti dell’uomo, intervento alla tavola rotonda, Diritti fondamentali e libertà economiche: principi europei e tradizioni giuridiche nazionali, Perugia, 25 e 26 marzo 2011, ove viene posto l’accento sul diverso approccio, rispettivamente della Corte di Strasburgo e di quella di Lussemburgo, alla tecnica della proporzionalità e del bilanciamento applicate da entrambe.
8. Il contenuto del citato art, 23 è ulteriormente specificato dagli artt. 6, 7 e 8 del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali del 1966, dove è innanzitutto stabilito che le misure che gli Stati sono obbligati a prendere «per dare piena attuazione a tale diritto», dovranno comprendere «programmi di orientamento e di formazione tecnica e professionale, nonché l’elaborazione di politiche e di tecniche atte ad assicurare un costante sviluppo economico, sociale e culturale ed un pieno impiego produttivo».
Il diritto umano al lavoro trova riconoscimento anche nella Convenzione internazionale contro la discriminazione razziale, nella Convenzione internazionale contro ogni forma di discriminazione nei riguardi delle donne, nella Convenzione internazionale sui diritti dei bambini, nella Convenzione internazionale sui diritti dei lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie, nella Carta africana sui diritti dell’uomo e dei popoli e in tanti altri strumenti giuridici, internazionali e regionali-continentali.
Inoltre, per il Comitato delle Nazioni Unite per i diritti economici, sociali e culturali, il diritto al lavoro – che comprende tutte le forme legittime di lavoro, dipendente o non – è un diritto che inerisce a ogni persona ed è allo stesso tempo un diritto collettivo.
Né va dimenticato che la produzione di norme giuridiche internazionali in materia di lavoro ha il suo principale laboratorio nell’Organizzazione internazionale del lavoro, Oil, con sede a Vienna. La sua Conferenza è formata da delegazioni nazionali “tripartite”, comprendenti i rappresentanti dei governi, dei sindacati dei lavoratori, delle organizzazioni padronali. Alcuni organi interni di controllo sull’applicazione della normativa sono formati da persone indipendenti dagli Stati. Tra le molte Convenzioni Oil, si segnala la n. 22, fondamentale per la politica dell’occupazione, nella quale si fa espresso riferimento al diritto a una «occupazione piena, produttiva e liberamente scelta», prospettiva che però rimane molto lontana per milioni di esseri umani (vds., in materia: A. Papisca, Articolo 23 – Per un lavoro dignitoso, in Id., La Dichiarazione universale dei diritti umani commentata da Antonio Papisca, Castelvecchi, Roma, 2018 (https://unipd-centrodirittiumani.it/it/schede/Articolo-23-Per-un-lavoro-dignitoso/27).
9. Questo discorso è considerato come la prima tappa del percorso che portò alla firma del Trattato di Londra (oggi conosciuto come Statuto del Consiglio d’Europa), che il 5 maggio 1949 istituì il Consiglio d’Europa.
Poco dopo, il ministro degli esteri francese Robert Schuman, in collaborazione con Jean Monnet, redasse il famoso “Piano Schuman”, pubblicato il 9 maggio 1950, giorno che oggi è considerato la data di nascita dell’Unione europea.
10. G. Zagrebelsky, “Fondata sul lavoro”. La solitudine dell’articolo 1, Einaudi, Torino, 2013.
11. Vds. al riguardo: M. Zupi, Agenda di sviluppo post 2015 e l’accordo sui cambiamenti climatici, approfondimento a cura del CeSPI, in Osservatorio di politica internazionale (Approfondimenti), n. 99, 14 settembre 2014.
12. Al riguardo, la Banca mondiale ha sottolineato come in Italia un’efficace lotta alla corruzione produrrebbe un aumento del reddito superiore al 2,4% e un incremento della crescita annua delle imprese pari al 3%, e ha sottolineato che la corruzione frena gli investimenti esteri perché rappresenta una tassa del 20%. Anche per Transparency International Italia, se il nostro Paese riuscisse a migliorare gli indici di propensione alla corruzione – raggiungendo il livello standard di deviazione (2,38 punti) – potrebbe ottenere un incremento degli investimenti di oltre quattro punti, e quindi un aumento di oltre mezzo punto del Pil pro capite.
13. Vedi, per tutte: Corte cost., sentenze nn. 204/2004, 191/2006 e 140/2007.
14. Peregrinazioni che possono anche tradursi in un totale diniego di tutela giurisdizionale, come si è verificato per la famosa vicenda dei cd. “medici gettonati” (cioè svolgenti attività professionale remunerata a gettone), esaminata dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 6 del 2018, sentenza che tuttavia viene ricordata e commentata specialmente per la parte relativa all’interpretazione dell’art. 111, comma 8, Cost.