Pluralità delle giurisdizioni ed effettività delle tutele
È davvero superato il dibattito giuridico sulla questione del sistema dualistico della tutela giurisdizionale nei confronti della pubblica amministrazione?
Nel saggio Il giudice amministrativo come risorsa, di E. Scoditti e G. Montedoro, pubblicato in questo fascicolo, si pone il dubbio che sia ormai superato il dibattito fra i fautori dell’unità della giurisdizione e i sostenitori della ricchezza di un modello non monista, che avrebbe le sue ragioni nello Stato sociale pluriclasse. Sarebbero ormai chiare le ragioni della presenza del giudice amministrativo, posto a tutela, nel medesimo tempo, dell’autonomia e della legalità dell’amministrazione, sicché la stessa distinzione dei sistemi di tutela giurisdizionali, quale specchio della duplicità diritti/interessi, appare conforme al costituzionalismo contemporaneo.
È questo il contesto storico e ordinamentale che ha fatto da sfondo alle evoluzioni applicative del sindacato della Corte di cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione, ai sensi dell’art. 111, comma 8, Cost., ampliato fino al punto da implicare la tutela effettiva dei diritti e degli interessi, quindi contratto nel senso di tener sempre fuori da esso ogni doglianza attinente agli errores in iudicando o in procedendo, poi di nuovo, per il momento dubitativamente, riespanso per farvi rientrare il controllo sulle decisioni del Consiglio di Stato che violino il diritto dell’Unione europea.
Io non direi, tuttavia, che il dibattito giuridico italiano sulla questione del sistema dualistico della tutela giurisdizionale nei confronti della pubblica amministrazione possa dirsi superato. È, anzi, un dibattito di perenne attualità nel nostro ambiente giuridico, da quando quel sistema fu creato con la istituzione della IV sezione del Consiglio di Stato nel 1889 e, poi, rinforzato con la Costituzione del 1948. La nota alternativa ad esso auspica di attribuire a una giurisdizione strutturalmente (e non soltanto funzionalmente) unica la tutela nei confronti della p.a.: è quanto si provò a sostenere già in sede di Assemblea costituente da Piero Calamandrei, quanto si consiglia tuttora da studiosi del diritto amministrativo e del diritto processuale civile e quanto emerge dai continui, più o meno recenti, progetti di riforma che modificherebbero gli artt. 24, 103, 111 e 113 della Carta costituzionale.
Altrimenti si invoca di attribuire, con legge ordinaria, non più alle sezioni unite della Corte di cassazione, ma a un organo misto, oppure a un’apposita sezione della Suprema corte integrata con rappresentanti del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, il compito di decidere sui ricorsi per motivi di giurisdizione.
Può convenirsi sulla necessità di un approccio al tema che si riveli libero da preconcetti di natura culturale e ideologica, apparendo anacronistico l’argomento dell’insufficiente protezione del cittadino nei rapporti con la p.a. addebitabile al vigente riparto giudiziale. Alle impostazioni, arroccate su giudizi politici o di valore, si sono storicamente contrapposti coloro che contestano l’insufficienza del mito della unicità della giurisdizione ai fini della garanzia delle libertà, come del mantenimento della sicurezza giuridica, nonché la sua incapacità di preservare il giusto spazio alla “ragione di Stato”.
Va, tuttavia, ritenuto un fatto che, ad assetto costituzionale invariato, il mantenimento di un dualismo delle tutele costituisce un limite invalicabile per il legislatore ordinario, nel senso che l’obiettivo della assoluta unità strutturale della giurisdizione colliderebbe quanto meno con l’art. 113 Cost. È questo quanto si legge, in sostanza, nella sentenza n. 204 del 6 luglio 2004 della Corte costituzionale, circa l’essenzialità del confine fra diritti soggettivi e interessi legittimi e il radicamento delle distinte giurisdizioni, e quanto certamente non è smentito dalla successiva Corte cost., 20 novembre 2008, n. 377, ove pur si negava l’esistenza di «una soluzione costituzionalmente obbligata, spettando alla legge la scelta in ordine all’eventuale concentrazione della tutela e all’individuazione del giudice competente».
L’art. 103, primo comma, Cost. fonda, dunque, tuttora il criterio di riparto fra la giurisdizione ordinaria e quella amministrativa sulla diversità strutturale fra due differenti tipi di posizioni soggettive. Intesa peraltro la giurisdizione, in senso lato, quale luogo di tutela delle situazioni soggettive azionate, la distinzione costituzionale tra diritti soggettivi e interessi legittimi vale non a discriminare contrapposti comparti giudiziari, quanto a salvaguardare le indispensabili diversità tipologiche dei processi che vi appartengono. D’altro canto, è difficile contestare la considerazione di fondo secondo cui si è assistito negli ultimi decenni a un sostanziale svuotamento dell’art. 103 Cost. (svuotamento passato indenne al vaglio di costituzionalità in Corte cost., 6 luglio 2004, n. 204; 11 maggio 2006, n. 191; 12 marzo 2007, n. 77), di tal che il riparto tra il giudice civile e il giudice amministrativo non è ormai più fondato sulla natura della situazione giuridica dedotta, quanto sulla natura pubblica o privata della controversia, rimanendo il giudice amministrativo competente ogni qual volta venga convenuta in giudizio un’amministrazione che ha agito in quanto tale.
La stessa originaria impostazione alla base del rapporto tra il giudice civile e quello amministrativo è stata stravolta: quest’ultimo, come già si è ricordato, non si occupa più solo di interessi legittimi, e la tutela che può concedere non è esclusivamente demolitoria, potendo accordare altresì la tutela consequenziale.
C’è da chiedersi, piuttosto, quale ruolo abbia svolto e quale ruolo debba svolgere la Corte di cassazione in tale sistema.
Ora, i limiti posti al ricorso per cassazione avverso le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti dall’art. 111, comma 8, Cost. impediscono certamente di prospettare un’unità organizzativa strutturale tra i vari ordini di giudici. La Costituzione delinea la Corte di cassazione come organo regolatore dei conflitti tra giudici di diverso ordine, ma sul presupposto inalienabile dell’autonomia delle varie giurisdizioni e della rigidità delle rispettive sfere di attribuzioni; spetta ad essa, in sostanza, il compito di verificare se il giudice amministrativo o quello contabile abbiano rispettato i confini delle proprie giurisdizioni, ovvero se addirittura si tratti, a mente dell’art. 37 cpc, di ipotesi in cui l’attore sia sfornito di azione nei confronti della pubblica amministrazione.
In realtà, per certi versi, un’unità strutturale della giurisdizione è stata realizzata in via pretoria da oltre un decennio mediante il richiamo ai principi della ragionevole durata del processo e della effettività del tutela giurisdizionale, che si traggono dal vigente testo dell’art. 111 Cost.
Di tale unificazione strutturale costituisce innanzitutto espressione l’interpretazione che ha ravvisato nella soluzione data al tema della giurisdizione un autonomo capo di sentenza ai sensi dell’art. 329, comma 2, cpc, idoneo a divenire definitivo in caso di acquiescenza. Ciò in nome sia di un affermato affievolimento della centralità della giurisdizione intesa come espressione della sovranità statale, sia, appunto, del principio costituzionale della ragionevole durata del processo. È la stessa impostazione poi seguita dall’art. 9 del codice del processo amministrativo. Ed è la stessa logica che è alla base dell’orientamento giurisprudenziale, ormai consolidatosi, che nega a colui che abbia incardinato la causa dinanzi a un giudice e sia rimasto soccombente nel merito, la legittimazione a proporre appello per denunciare il difetto di giurisdizione del giudice da lui prescelto. Sono tutte soluzioni ermeneutiche che nei fatti, riducendo il rilievo del difetto di giurisdizione, aumentano le probabilità che il giudice originariamente privo di essa in base alle regole che staticamente disciplinano la suddivisione tra i comparti, acquisisca dinamicamente il potere decisorio nel corso del processo. Diviene, così, del tutto frequente, per l’insorgere delle preclusioni endoprocessuali sulla questione di giurisdizione, che materie riservate a un comparto vengano in concreto decise entro un altro comparto, con le immaginabili complicazioni che si pongono allorché la giurisdizione sopravviene innanzi a un giudice cui non compete il potere di accordare la tutela richiesta.
Così come depone per un sistema di giurisdizione unica l’interpretazione che delinea evolutivamente i limiti esterni del sindacato consentito alle sezioni unite sulle decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti in base al canone della pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo. Sicché sarebbero motivi inerenti alla giurisdizione non soltanto quelli che verificano i presupposti dell’attribuzione del potere giurisdizionale, ma anche quelli che attengono al contenuto di quel potere, onde verificare se il giudice speciale abbia erogato concretamente la tutela a lui devoluta.
Sempre nel senso della sostanziale unitarietà della giurisdizione cospira l’introduzione della translatio iudicii tra i diversi comparti giurisdizionali, da cui si fa derivare tra l’altro la salvezza degli effetti sostanziali già riconducibili alla prima iniziativa processuale.
Quando, allora, la Corte costituzionale, in nome del mantenimento dell’assetto pluralistico delle giurisdizioni, aveva appena riaffermato sonoramente la propria contrarietà a ogni interpretazione, per così dire, dinamica della espressione «motivi inerenti alla giurisdizione», tale da determinare una tendenziale assimilazione del comma 8 dell’art. 111 Cost., riferito unicamente al Consiglio di Stato e alla Corte dei conti, al ricorso in Cassazione per violazione di legge, di cui al precedente comma 7, è già riemersa la problematica della rilevanza delle ipotesi di scostamento dalla giurisprudenza della Corte di giustizia ai fini dell’accesso alla tutela giurisdizionale, ove intenda negarsi che il ricorso ex art. 111, ottavo comma, Cost. possa servire a prevenire la formazione di un giudicato incompatibile con il diritto dell’Unione.
Rimane allo stato nelle retroguardie, quasi timoroso di riaffacciarsi sulla scena, un altro interrogativo, ideologicamente simmetrico ma, ad avviso di tanti, ancor più allarmante: di fronte a un riparto di giurisdizione che ha devoluto al giudice amministrativo un’ampissima cognizione anche in materia di rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione incidenti su sfere dell’autonoma privata, di tal che giudici amministrativi e ordinari conoscono in sostanza di identiche questioni di diritto, quanto è compatibile con l’art. 3 Cost., in relazione all’art. 65 ordinamento giudiziario, l’esclusione della generale ricorribilità in Cassazione delle sentenze del Consiglio di Stato per violazione di legge?