La pretesa di giustizia del diritto: a partire da un recente saggio sul positivismo giuridico e la sua crisi
Nella sfera dell’applicazione ed osservanza il diritto è identificato in base alla fonte della sua produzione, come afferma il positivismo giuridico. La pretesa di giustizia del diritto insorge nella sfera della creazione, che riguarda non solo la legislazione ma, a date condizioni, anche la giurisdizione e l’amministrazione. La filosofia del diritto può ritrovare senso per la comunità dei pratici se è in grado di innervare nei processi di creazione del diritto, ai diversi livelli in cui essi si sviluppano, strutture regolative di carattere ideale su ciò che corrisponde a giustizia.
1. Giurisdizione e filosofia del diritto / 2. Il diritto fra giuspositivismo e argomento morale / 3. Ai confini del positivismo giuridico / 4. Sulle spalle di Kelsen / 5. Il diritto fra positivismo giuridico e giusnaturalismo / 6. Per una teoria della produzione giuridica
1. Giurisdizione e filosofia del diritto
Quale può essere oggi il contributo della filosofia del diritto per la vasta comunità dei pratici del diritto? E anche allo stesso legislatore, cosa può dire oggi la filosofia del diritto? Vi è stata un’epoca d’oro per la filosofia del diritto nella quale lo statuto epistemologico dei saperi giuridici particolari era condizionato dalle assunzioni filosofiche. Un’opera come i «Lineamenti di filosofia del diritto» di Hegel è la migliore espressione della configurazione degli istituti giuridici mediante una specifica logica filosofica. Qui non si ha una filosofia del o sul diritto, ma nel diritto. Come scriverà un esponente dell’idealismo giuridico italiano, Angelo Ermanno Cammarata, la filosofia «non può agire che ab intra»[1]. Non è un caso che la prima traduzione italiana dell’opera hegeliana si deve a un giurista positivo quale Francesco Messineo. Lo sviluppo della dogmatica giuridica quale sistema, nella sua epoca classica, è debitrice di determinati impianti filosofici. C’è stato dunque un tempo nel quale la filosofia del diritto rivestiva un ruolo centrale nell’organizzazione del sapere giuridico e dunque, sia pure in via indiretta e attraverso una serie di mediazioni, nel campo della pratica del diritto.
A quell’epoca ha poi fatto seguito la consumazione anche nel campo del sapere giuridico della vicenda che, seguendo Max Weber, possiamo definire di razionalizzazione tecnica. Il sapere si è specializzato, si sono eretti confini più marcati fra le discipline, con suddivisioni più nette anche all’interno delle stesse partizioni del sapere, e la filosofia del diritto ha acquistato la fisionomia di una tecnica separata dagli altri contesti disciplinari. A suo modo, anche la filosofia del diritto è diventata tecnica specialistica. In Italia ha contribuito in modo rilevante a questa formalizzazione di uno statuto disciplinare speciale il particolare peso della filosofia analitica del diritto, a partire dall’atto fondativo di questo movimento teorico, lo scritto di Norberto Bobbio «Scienza del diritto e analisi del linguaggio» (1950). Un ponte di collegamento fra diritto e filosofia, che non è mai venuto meno, è quello della teoria ermeneutica, che negli ultimi decenni ha acquistato particolare visibilità nel diritto costituzionale e nel diritto civile. Questo legame si comprende alla luce della centralità della sfera dell’interpretazione nell’esperienza giuridica. L’ermeneutica ha poi rappresentato, più di recente, uno dei canali attraverso i quali si è avuto un ritorno più diretto della filosofia del diritto nel campo pratico. Il riferimento è a quel vasto ed eterogeneo movimento che va sotto il nome di “neo-costituzionalismo”.
Il neo-costituzionalismo è espressione di una stagione che qualcuno ha definito, riprendendo il titolo del celebre libro di Ronald Dworkin, come l’epoca dell’impero delle corti. L’attuazione per via giurisdizionale della costituzione, cui il neo-costituzionalismo fornisce una serie di strumenti operativi, evoca una delle caratteristiche del nostro tempo, la giurisprudenzialità del diritto. Principi costituzionali e clausole generali hanno ormai larga diffusione nella pratica del diritto, aprendo le porte a un lato attivo del giudicare che pare lontano dalla passività che sembra connotare la classica operazione della sussunzione della fattispecie concreta in quella legale. Il rilievo dell’interpretazione, per la verità, non rende così passivo il giudicare per fattispecie legali, ma indubbiamente dirimere una controversia mediante principi o clausole generali significa attribuire al giudice il potere di porre il diritto del caso concreto. Si apre qui il grande interrogativo su cosa significhi dire un diritto che non viene dal potere legislativo. È un diritto che è nelle cose e che si tratta solo di scoprire o che il giudice artificialmente crea? E se di artificio si tratta, quel diritto è il risultato dei valori soggettivi di cui il giudice è portatore o può aspirare a un’oggettività? È necessario attingere agli algoritmi al fine di rendere omogenee e prevedibili (calcolabili) le decisioni dei giudici o il caso concreto ha una durezza che sfugge ad astratte geometrie?
Queste domande ci fanno comprendere come navighiamo in mare aperto e l’assenza di una stella polare è probabilmente sintomo di una criticità della versione neo-costituzionalistica della filosofia del diritto. A differenza di un tempo nel quale la filosofia costituiva dall’interno i saperi particolari mediante una concezione generale della ragione, con il neo-costituzionalismo la filosofia del diritto diventa sapere regionale perché ambisce a un’immediata funzione pratica. Un aspetto del neo-costituzionalismo, complessivamente considerato, è proprio l’ingresso della filosofia del diritto direttamente nell’agone della pratica giuridica quale dottrina che si confronta con altre dottrine. Restano però inevase le domande di cui sopra e c’è allora da chiedersi se il tempo giurisprudenziale del diritto non abbia bisogno soprattutto di una teoria che torni a fornire una concezione generale di ragione, piuttosto che uno strumento operativo di carattere regionale.
2. Il diritto fra giuspositivismo e argomento morale
È in questo contesto problematico che interviene il recente volume di Massimo La Torre, «Il diritto contro se stesso. Saggio sul positivismo giuridico e la sua crisi»[2]. Più che una riflessione sul diritto, si tratta di un viaggio nella filosofia del diritto contemporanea. Il libro di La Torre è una mappa dell’odierno pensiero giusfilosofico, ma sarebbe grandemente riduttivo definirlo una mappa ragionata, perché si tratta piuttosto dell’identificazione di una linea teorica attraverso la decostruzione dall’interno delle diverse posizioni che si contendono il campo. Il diritto contro se stesso è il diritto che, ridotto a fatto, dimentica l’aspirazione alla normatività che dovrebbe contraddistinguerlo.
Per il positivismo giuridico il diritto è un fatto, sia quale esistenza di una norma (il dover essere qui corrisponde a un essere), sia quale fonte alla cui produzione si deve quella norma. Riconosciamo il diritto in base al fatto storico mediante cui è stato posto, fatto che può essere una procedura legislativa, la sentenza di un giudice o una consuetudine. Che i criteri di produzione del diritto siano rappresentati non solo da una procedura, ma anche da un elemento sostanziale quale il rispetto dei diritti fondamentali, non sposta i termini della questione nell’ottica del positivismo giuridico (qui nella versione di positivismo cd. inclusivo, in quanto la norma di riconoscimento del sistema contempla non solo procedure ma anche valori morali), perché restano fatti l’esistenza stessa di una norma fondamentale del sistema e i processi produttivi di norme sulla base della norma fondamentale. Il diritto è identificato non per la meritevolezza morale del suo contenuto (come vorrebbe la concezione interpretativa di Dworkin), ma per il fatto storico della sua corrispondenza alla fonte costituzionale e per il fatto, in definitiva, del suo essere stato posto. La definizione di costituzionalismo come positivizzazione del diritto naturale, per menzionare la formula adoperata da Luigi Ferrajoli in «Diritto e ragione»[3], si arresta all’accertamento del fatto contingente dell’inclusione di un complesso di principi morali nella norma fondamentale, ma non assume il punto di vista non contingente del contenuto morale di quei principi quale criterio di riconoscimento del diritto[4].
Per La Torre la visione giuspositivista smarrisce la pretesa di correttezza che il diritto costitutivamente avanza in base alla sua propria natura. Il diritto pretende di essere giusto e per essere tale bisogna giustificarlo in base a «criteri materiali di correttezza universali o universalizzabili»[5]. In questi limiti l’argomento morale, che il positivismo giuridico (anche nella versione costituzionalistica di Ferrajoli) aveva espunto, ritorna nel diritto. L’aspirazione a un’oggettività dei valori è immanente all’aspirazione di giustizia del diritto, quale tuttavia condizione ideale cui tendere e non dato di realtà, perché se così fosse, aggiungiamo noi, si tornerebbe al regime del fatto (che avrebbe a suo contenuto un determinato valore), mentre qui si tratta di salvaguardare un ideale regolativo, un puro dover essere. Per riprendere Robert Alexy, «la connessione concettuale necessaria tra diritto e morale pertanto non ci garantisce che il diritto sia sempre materialmente giusto, ma solo che per essere diritto valido dovrebbe esserlo, o almeno pretenderlo»[6].
3. Ai confini del positivismo giuridico
Il saggio di Massimo La Torre, proprio perché costruisce un percorso teorico decostruendo le teorie che attraversa, non intende in modo monolitico il positivismo giuridico, ma mira a esplicitare le contraddizioni produttive che in esso si aprono. Nei suoi punti alti, il giuspositivismo conosce delle aperture che forzano i limiti della riduzione del diritto al fatto storico della sua produzione e che sono suscettibili di condurre oltre i confini di un rigido positivismo. La tradizione italiana, come rappresentata dai suoi maestri, Norberto Bobbio e Uberto Scarpelli, ne è un significativo esempio. Il Bobbio maturo di «Essere e dover essere nella scienza giuridica» (1967), uno degli scritti giusfilosofici più raffinati del Nostro secondo La Torre, ben lungi dalla definizione di scienza giuridica quale sistema chiuso e formalmente coerente dello scritto del 1950 sopra richiamato, afferma apertamente che i giudizi di valore ricorrono «in tutte le fasi della ricerca del giurista»[7]. Più nettamente per Scarpelli è l’intero edificio del positivismo giuridico che si regge su una scelta politica: avalutatività e separazione dalla morale caratterizzano i giudizi di validità all’interno del sistema giuridico, ma questo rinviene alla propria base la scelta politica e di valore «della maggiore libertà possibile di scelta contro la scelta che esclude ogni altra scelta»[8]. La separazione fra diritto e morale risponde qui alla morale (liberale) che separa il diritto dalla morale.
Un varco importante nel recinto del diritto quale fatto storico e non ragionevolezza morale lo si coglie addirittura nel più importante libro della filosofia analitica del diritto del Novecento, «Il concetto del diritto» di Herbert Hart. Coerentemente all’impianto positivistico, alla base dell’ordinamento giuridico vi è per Hart il fatto empirico che giudici e funzionari usino una determinata norma per riconoscere il diritto valido. Accettare tale norma di riconoscimento implica tuttavia un «atteggiamento critico e riflessivo»[9]. Non è necessario qui indulgere sull’introduzione, nel famoso «Postscript» a «Il concetto del diritto», della nozione di “convenzione”, la quale, riconducendo l’accettazione della norma di riconoscimento alla generale conformità ad essa, ripiega decisamente nella direzione del fatto. Bisogna invece fermarsi alla nozione di “atteggiamento critico e riflessivo” e rilevarne la problematicità, potendo tale nozione, come è stato osservato, rifluire nell’approvazione morale e dunque in considerazioni di ordine valutativo[10]. Seguendo questo abbrivio, l’uso della norma di riconoscimento del diritto valido non corrisponderebbe a un mero fatto, ma a una pratica riflessiva, la quale rinvierebbe perciò a un criterio di valutazione. L’“atteggiamento critico e riflessivo” potrebbe condurre Hart oltre Hart e schiudere le porte al giudizio di valore.
4. Sulle spalle di Kelsen
Si suole fare di Hans Kelsen uno dei punti fermi del positivismo giuridico novecentesco. In realtà, come è stato detto, la fondazione trascendentale della norma fondamentale libera Kelsen dal positivismo[11]. La grundnorm come presupposto logico-trascendentale dell’ordinamento giuridico introduce un dover essere che non diventa mai fatto perché si tratta della condizione, sempre presupposta e mai storicamente avveratasi, da cui prende avvio un ordinamento. Nelle pagine kelseniane si rinviene la distinzione fra la forma logica della costituzione, che appartiene all’ordine del modello ideale, e la costituzione positiva storicamente posta[12]. La norma fondamentale è un criterio di valore al massimo grado perché inattingibile in quanto tale e tuttavia necessaria per dare inizio a un ordinamento. Si tratta di un nucleo kantiano che sfugge al diritto come fatto storico, secondo la narrativa del positivismo, e che ancora oggi ci parla.
È pur vero che la formalizzazione radicale della ragione giuridica di cui Kelsen si fece portatore, individuando un punto in cui forma e astrazione fossero al massimo concentrate e nel quale il diritto fosse emancipato da ogni contenuto materiale, ha una precisa genealogia storica. Essa rappresentò la risposta alla temperie che caratterizzò l’inizio del Novecento, quando, venuti meno i fondamenti unitari dell’agire sociale, l’Europa cadde preda del politeismo (weberiano) dei valori e dell’irruzione di una ragione politica indipendente da vincoli normativi, di cui si fece interprete Carl Schmitt.
Sottratto a quest’origine storica, l’ideale di una norma presupposta estende il suo cono d’ombra fino a noi, perché se è vero che le norme sono fatti descrivibili e identificabili in base al fatto storico che le ha prodotte, è anche vero che la loro produzione, risalente in ultima istanza a un presupposto che nella sua purezza resta inattingibile, rinvia all’ordine del dover essere e non dell’essere. La produzione di norme sulla base di un dover essere, che arriva fino alla sublimazione in una forma puramente ideale, eccede i limiti del tradizionale positivismo perché introduce un criterio normativo o valutativo. La produzione della norma avviene sulla base non di un fatto ma di un valore. È dunque il lato dinamico di un ordinamento, quello della produzione di norme, che introduce criteri di valore, mentre il lato statico dell’ordinamento, quello cioè delle norme da applicare o osservare, resta, come vedremo nel prossimo paragrafo, nel quadro giuspositivistico del diritto da identificare in base al fatto storico della sua produzione. Siamo ancora sulle spalle di Kelsen, perché a lui dobbiamo l’idea della produzione di norme in base a un dover essere. La giurisdizione per principi costituzionali e clausole generali introduce campi inesplorati dal tradizionale normativismo, ma l’appello a un dover essere per porre la norma è l’eredità irrinunciabile del kelsenismo[13].
5. Il diritto fra positivismo giuridico e giusnaturalismo
Produrre il diritto implica un netto mutamento di prospettiva teorica rispetto all’applicare od osservare il diritto. Come tenterò di dimostrare subito, il positivismo giuridico è la chiave teorica per spiegare il fenomeno dell’applicazione del diritto, da parte del giudice o del funzionario, e dell’osservanza della norma, da parte del civis, ma non della creazione del diritto. Quest’ultima è nozione a largo spettro, che comprende non solo la legislazione naturalmente, ma anche, a certe condizioni, la giurisdizione e l’amministrazione. La giurisdizione è produzione del diritto dal punto di vista del giudicato, il quale è la norma giuridica del caso concreto. Anche il provvedimento amministrativo è accrescimento dell’ordinamento nella misura in cui una norma attribuisce all’autorità amministrativa il potere di derogare al diritto comune e di fissare il regolamento di interessi del caso concreto. La componente applicativa del diritto c’è, tuttavia, anche nella creazione della regola perché produrre il diritto comporta osservare delle norme che disciplinano il processo produttivo e l’esercizio del potere, come del resto già vide Kelsen. Quando il giudice sussume il fatto nella fattispecie legale, sta applicando e non creando diritto, anche se poi l’esito del giudizio è quello della creazione della norma del caso concreto. Applicazione e creazione si avvicendano così nell’esperienza giuridica.
Ebbene, in tutte le fasi in cui il diritto è applicato, od osservato dal cittadino, esso è riconosciuto in base alla fonte che lo ha storicamente prodotto. È un fatto quello che consente di identificare il diritto, e cioè la sua derivazione dalla procedura legislativa, dal precedente giudiziario o dalla consuetudine. Quando si tratta di seguire una regola, vale l’argomento di Joseph Raz delle “ragioni escludenti”: la norma costituisce la ragione per agire ed è osservata da chi vi è sottoposto perché, sostituendo le ragioni preesistenti alla sua venuta ad esistenza, esclude la consultazione delle ragioni ormai rimpiazzate[14]. Il positivismo giuridico resta la teoria dell’applicazione od osservanza del diritto. In tali evenienze il diritto non avanza una pretesa di giustizia, ma di autorità. La pretesa di correttezza del diritto emerge quando si tratta di creare il diritto. Se si facesse permanere la produzione giuridica nel recinto del positivismo, non si potrebbe evitare la concezione realista che vede nella creazione del diritto un esercizio di pura discrezionalità (fino all’estremo dell’arbitrio)[15].
Porre una norma legislativa presuppone bilanciare principi costituzionali, che è quello che ordinariamente accade nella giurisdizione costituzionale e anche in quella comune, allorquando si deve interpretare la legge in modo conforme a costituzione o, più di rado, si deve risolvere la controversia mediante i principi costituzionali stante la mancanza di una fattispecie legislativa. Giudicare per clausole generali comporta concretizzare sulla base delle circostanze del caso una regolazione ideale, quale ad esempio è quella della buona fede. Nel fatto illecito, per restare alle clausole generali, il danno è risarcibile se è “ingiusto” (art. 2043 cc). Disciplinare in modo amministrativo gli interessi significa aspirare alla giusta proporzione nel gioco a somma zero fra interesse pubblico e interesse privato (l’art. 100 della Costituzione parla significativamente di «giustizia nell’amministrazione»). In tutte queste evenienze si ha di mira un parametro ideale di giustezza al quale il diritto che si pone, in via generale e astratta o nel caso concreto, deve, per sua natura, tendere. La natura del diritto esige che si provveda, in sede legislativa o giurisdizionale, a un giusto bilanciamento dei principi costituzionali o che il giudice concretizzi in modo giusto una clausola generale[16]. Il giusto bilanciamento non è scritto in costituzione, non è un fatto, è una capacità morale. È il risultato di un appello a un ideale.
La ricomposizione fra diritto e morale che si verifica nel processo creativo non rinvia alle concezioni di ciò che è bene, perché queste attengono a preferenze soggettive, più o meno estese, ma esprime la capacità morale di giudicare il giusto e l’ingiusto. Il “giusto” è quello che John Rawls ha definito nel suo «Una teoria della giustizia»: è giusto ciò che verrebbe scelto nella posizione originaria dietro il velo di ignoranza circa le proprie preferenze soggettive in ordine al bene. Alexy parlerebbe di «persona costituzionale»[17]. Si tratta di una condizione ipotetica, e non realmente esistente, perché il giusto è un dover essere (mentre è una porzione di essere la preferenza soggettiva su ciò che è bene). Il «prudente apprezzamento», mediante cui il giudice deve valutare le prove in base all’art. 116 del codice di procedura civile, rinvia a tale condizione ideale.
Si obietterà: se il positivismo giuridico è la teoria dell’applicazione del diritto, allora non c’è modo di sottrarsi al diritto ingiusto perché per la sua osservanza è sufficiente che esso esista in virtù del fatto storico della sua produzione. Quando il civis che è tenuto a osservare la norma, o il giudice che deve applicarla, sollevano la questione dell’ingiustizia del diritto, sono già passati dal campo del diritto posto a quello da porre, perché eccepire l’ingiustizia della legge vuol dire sollevare una controversia su quale debba essere la giusta norma del caso concreto. Si è abbandonato il campo del diritto da identificare come fatto storico, che è il terreno del positivismo giuridico, e si è entrati nel campo del diritto da riconoscere come giusto, un terreno per il quale possiamo adoperare l’espressione “giusnaturalismo”, nel senso in cui Kant intendeva questo termine, e cioè non come ordine esistente (diritto naturale), ma come ideale regolativo (diritto di natura). Il giusnaturalismo rinvia all’idea-limite di giusto, a un punto collocato all’infinito e non a un ente presente in natura. Eccepita l’ingiustizia del diritto da osservare o applicare, un’autorità avrà il compito giurisdizionale di enunciare il diritto mediante il giusto bilanciamento dei principi costituzionali in relazione alle circostanze del caso. Un diritto che, al momento di essere enunciato dal giudice, non avanzi una pretesa di correttezza, sarebbe un diritto contro se stesso, per riprendere il titolo del volume di Massimo La Torre da cui ho preso le mosse.
La pretesa di giustizia del diritto attiene non al piano della validità, la quale riguarda il fatto empirico della conformità della norma a una fonte superiore, come predica il giuspositivismo, ma a quello del concetto di diritto. Il vizio di un articolo costituzionale che reciti «X è una Repubblica sovrana, federale e ingiusta» è, come scrive Alexy, un vizio concettuale: una costituzione commette una contraddizione performativa se il suo contenuto nega la pretesa di giustizia dopo averla sollevata nell’atto di porsi come costituzione[18]. La giustizia è la qualità del concetto di diritto[19].
Il terreno su cui positivismo giuridico e giusnaturalismo si avvicendano, e si intrecciano talvolta, è quello dell’interpretazione. Sul piano astratto si deve distinguere. Quando l’interpretazione è funzionale all’applicazione di regole, si è nel regno positivistico dei fatti. Gli enunciati interpretativi su regole ambiscono perciò alla pretesa di verità scientifica. L’interpretazione corrisponde qui a un sapere, con valenza dunque descrittiva, e, avvalendosi della dogmatica, persegue un obiettivo di esattezza (per riprendere la formula dell’art. 65 dell’ordinamento giudiziario sulle attribuzioni della Corte suprema di cassazione: assicurare «l’esatta osservanza» della legge). Quando l’attività interpretativa ha di mira i principi, si entra invece nel regno del giusnaturalismo: l’interprete persegue il giusto bilanciamento dei principi. Nella misura in cui i principi costituzionali soccorrono nell’interpretazione delle regole legislative, esattezza scientifica e giustizia sono destinate a incontrarsi e, talvolta, a intrecciarsi in modalità tali da rendere indistinguibili gli argomenti tecnici da quelli morali. Tutto questo rinvia alla necessaria complessità della formazione del giurista moderno, la cui attività trascorre, spesso senza soluzione di continuità, fra scientia juris e juris prudentia.
6. Per una teoria della produzione giuridica
Porre il diritto significa entrare nella dimensione ideale che Kelsen evocò quando premise all’ordinamento una norma che ne costituisse il presupposto logico-trascendentale. Ciò di cui oggi si sente il bisogno è una concezione generale della ragione che possa supportare i processi di creazione del diritto ai diversi livelli in cui essi si sviluppano. La pretesa di correttezza del diritto implica l’allestimento di strutture regolative di carattere ideale su ciò che corrisponde a giustizia, da innervare nelle pratiche di produzione giuridica. La teoria del diritto cede qui il passo alle teorie della pragmatica di tipo normativo e razionalista che, con la loro carica regolativa, stanno riconquistando terreno dopo la stagione della postmodernità, nella quale compito della ragione era esclusivamente quello di interpretare e storicizzare o contestualizzare. Jürgen Habermas e soprattutto Robert Brandom, su percorsi paralleli e con diverse inclinazioni (il primo più verso Kant, il secondo più verso Hegel), hanno lavorato alla definizione delle condizioni normative di produzione dei discorsi; Brandom, in particolare, lo ha fatto nella chiave inter-soggettiva della reciproca assunzione di impegni di correttezza, che si manifesta nella pratica del dare e chiedere ragioni[20]. La filosofia del diritto ritrova senso per la comunità dei pratici se, come nelle pagine della filosofia hegeliana del diritto, è in grado di costruire la spina dorsale dei discorsi di giuristi e legislatori. Di nuovo, non una filosofia del o sul diritto, ma nel diritto.
1. A.E. Cammarata, Formalismo e sapere giuridico, Giuffrè, Milano, 1963, p. 355.
2. Olschki, Firenze, 2020.
3. L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Laterza, Roma-Bari, 1989, p. 350 (anche per il costituzionalismo la logica del diritto resterebbe quella della positivizzazione in norme, «quali che siano i principi e i diritti in esse stipulati» – Id., La logica del diritto. Dieci aporie nell’opera di Hans Kelsen, Laterza, Roma-Bari, 2016, p. 190).
4. Cfr. M. La Torre, Il diritto contro se stesso, op. cit., p. 129.
5. Ivi, p. 210.
6. Ivi, p. 164. Nella filosofia del diritto contemporanea è, soprattutto, Robert Alexy che fa valere una dimensione ideale, corrispondente alla pretesa di correttezza morale che necessariamente il diritto solleva, rispetto alla dimensione reale del diritto emanato e socialmente efficace (R. Alexy, The Dual Nature of Law, in Ratio Juris, vol. XXIII, n. 2/2010, pp. 167 ss.).
7. N. Bobbio, Studi per una teoria generale del diritto, Giappichelli, Torino, 1970, p. 156.
8. U. Scarpelli, Cos’è il positivismo giuridico, Edizioni di Comunità, Milano, 1965, p. 151. È interessante notare come, lontano dal grande libro del 1965, l’ultimo Scarpelli sia approdato sul finire degli anni ottanta al diritto per principi: sulla parabola teorica di questo autore rinviamo a E. Scoditti, La filosofia del diritto del Novecento e il giuspositivismo di Uberto Scarpelli, in Democrazia e diritto, n. 1-2/2011, pp. 357 ss.
9. H.L.A. Hart, Il concetto del diritto, Einaudi, Torino, 2002, p. 69.
10. A. Catania, Riconoscimento e potere. Studi di filosofia del diritto, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1996, p. 151. «Accettare una regola che si esprime in pratiche comuni significa passare dal semplice fatto dell’esistenza di pratiche al giudizio secondo cui una condotta conforme a tali pratiche è dovuta. La superiorità della teoria kelseniana della norma fondamentale sta nel non nascondere questo passaggio dall’essere al dover essere» (R. Alexy, Concetto e validità del diritto, Einaudi, Torino, 1997, p. 127).
11. B. De Giovanni, Kelsen e Schmitt. Oltre il Novecento, Editoriale Scientifica, Napoli, 2018, pp. 70 ss.
12. H. Kelsen, La giustizia costituzionale, Giuffrè, Milano, 1981, pp. 152 ss.
13. Si tratta di un’eredità che l’esito “decisionistico” dell’ultimo Kelsen della Teoria generale delle norme (la norma è un atto di volontà) non fa venir meno.
14. J. Raz, Between Authority and Interpretation. On the Theory of Law and Practical Reason, Oxford University Press, Oxford, 2009, pp. 134 ss.
15. Significativa è la convergenza, in un Autore come Riccardo Guastini, di giuspositivismo e realismo giuridico.
16. La differenza fra osservanza e creazione del diritto richiama, entro certi limiti, la distinzione operata da Hart fra il punto di vista del civis tenuto all’osservanza del diritto, che non è anche tenuto a considerare il proprio comportamento come “giusto” o “corretto”, e quello del giudice, che deve invece condividere, in base all’atteggiamento critico e riflessivo, la norma di riconoscimento del diritto valido (H.L.A. Hart, Il concetto del diritto, op. cit., pp. 136 ss.).
17. R. Alexy, Constitutional Rights, Democracy and Representation, in Rivista di filosofia del diritto, 2015, p. 34.
18. Cfr. R. Alexy, Concetto e validità del diritto, op. cit., pp. 34 ss.
19. «(…) correctness is a matter of balancing. This shows that balancing has a role to play not only in the creation and application of law, that is, in legal practice, but also at the very basis of law. It is a part of the nature of law» (R. Alexy, The Dual Nature of Law, op. cit., p. 174).
20. La rilettura brandomiana della concezione di Dworkin della prassi interpretativa nel diritto, quale catena narrativa, nei termini del reciproco conferimento di autorità normativa fra il giudice attuale e il suo predecessore nella catena dei precedenti giudiziari – R.B. Brandom, A Hegelian Model of Legal Concept Determination. The Normative Fine Structure of the Judges’ Chain Novel, in G. Hubbs e D. Lind (a cura di), Pragmatism, Law, and Language, Routledge, New York/Londra, 2014, pp. 19 ss.), illustra come una teoria giusnaturalistica della produzione del diritto debba essere integrata da una teoria della pragmatica; per una prima riflessione in tale direzione si rinvia a E. Scoditti, Il giudice ed il dovere di indipendenza da se stesso, in Foro italiano, vol. CXLV, n. 5/2020, cc. 217 ss.