Per una concezione “non proprietaria” della giurisdizione
La pluralità delle giurisdizioni in un moderno ordinamento policentrico costituisce una ricchezza che corrisponde al pluralismo dei poteri e allo sviluppo dei diritti individuali e collettivi. Sarebbe perciò una dannosa cultura “proprietaria” della giurisdizione, quella che rivendicasse spazi di intervento a danno dell’altra e non considerasse che la pluralità delle giurisdizioni è un servizio per i cittadini e i poteri pubblici.
Nelle politiche di contrasto alla pandemia, nei piani di attuazione del Recovery Plan e nelle politiche di ricostruzione economica e sociale, ci stiamo confrontando sempre più approfonditamente con politiche di protezione e di assistenza e, quindi, con politiche che vedono i poteri pubblici come forza programmatoria e determinante e la società civile in veste di assistita. Il protagonismo pubblico verrà rafforzato dalle tre grandi transizioni che rientrano negli obiettivi del governo: quella ecologica, quella energetica e quella digitale. Esse costituiranno altrettanti campi di intervento trasformativo delle politiche pubbliche nella vita della comunità nazionale, delle imprese e dei cittadini. Le conseguenze sono prevedibili. Riemergeranno vecchi problemi che andranno finalmente risolti: ciclo dei rifiuti, destinazione dei residui nucleari, moltiplicazione delle fonti di energia pulita, mobilità. I cittadini avranno probabilmente bisogno di nuove tutele e l’intervento giurisdizionale dovrà strutturarsi non come contropotere a priori, come impedimento, ma come guida, fonte di orientamento per le autorità di governo. Ci sarà inevitabilmente più pubblico nelle nostre vite e, conseguentemente, ci sarà più giustizia amministrativa.
Potremo essere aiutati dal “crollo delle ontologie”. Da tempo è caduto il carattere ontologico della distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi. Si tratta di tecniche di tutela eguali, nei confronti di situazioni soggettive tutte meritevoli di riconoscimento. Dopo l’art. 133 cpa è crollata la seconda ontologia, quella della distinzione tra giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa. Quest’ultima, concepita all’origine come giurisdizione di eccezione, è oggi, nelle liti nelle quali sia parte la pubblica amministrazione, pieno giudice dei diritti. Non è escluso che in questo crescente favore per la giurisdizione amministrativa abbia un peso la maggiore semplicità delle procedure, la concentrazione dei tar rispetto alla diffusione degli uffici della giurisdizione ordinaria, e il beneficium principis del Tar di Roma. Questa è probabilmente la ratio; gli effetti sono noti: i diritti non ne hanno risentito e nella pandemia il digitale ha avuto effetti più positivi nella giustizia amministrativa di quanti ne abbia avuto nella giustizia ordinaria. Oggi, in definitiva, disponiamo di due giurisdizioni dei diritti e i problemi vanno affrontati in questo contesto.
Ci avviamo quindi verso una stagione nella quale emergeranno diritti sociali piuttosto che diritti individuali e un nuovo dirigismo pubblico. Il primo profilo riguarderà la giurisdizione ordinaria; l’altro, certamente più innovativo e più carico di interrogativi, riguarderà il giudice amministrativo. Riemergeranno, come già accennato, vecchi problemi; ma è prevedibile che possano porsi anche nuove questioni attinenti alla giurisdizione, nuovi potenziali o effettivi conflitti interpretativi in materia di diritti soggettivi, nuove tensioni con l’autorità politica. Si tratta di rischi probabili, ma non inevitabili e comunque governabili. La pluralità delle giurisdizioni in un moderno ordinamento policentrico costituisce una ricchezza che corrisponde al pluralismo dei poteri e allo sviluppo dei diritti individuali e collettivi. Sarebbe perciò una dannosa cultura “proprietaria” della giurisdizione, quella che rivendicasse spazi di intervento a danno dell’altra e non considerasse che la pluralità delle giurisdizioni è un servizio per i cittadini e i poteri pubblici, non campo di rivendicazione per l’una o l’altra magistratura. Prima di discutere soluzioni formali per una maggiore interlocuzione tra le due giurisdizioni, che nel recente passato hanno suscitato polemiche più ispirate dal sospetto che dalla riflessione, sarebbe utile, in vista delle novità, potenziare un dialogo tra le Corti non occasionale né rituale, ma ispirato a una migliore e più certa giustizia per il cittadino, indipendentemente dalla natura del giudice. Emergeranno probabilmente problemi di nomofilachia, che peraltro vanno risolti all’interno di ciascuna giurisdizione. In altri momenti occorrerà riflettere sullo scivolamento in corso – specie nella giurisdizione ordinaria, ma non solo – verso un diritto giurisprudenziale, senza le garanzie proprie della common law.
Un giudice amministrativo che si avvia a un ruolo più determinante nella vita del Paese non può non riflettere sul proprio statuto. Le lacune sono note: la mancanza di un codice disciplinare, l’assenza di un ufficio ispettivo, la stranezza dell’impugnabilità delle sanzioni disciplinari innanzi ad organi composti da giudici soggetti allo stesso organo di governo interno i cui provvedimenti devono essere valutati. Peraltro, se Atene piange, Sparta non ride. Il sistema di governo interno della magistratura ordinaria, per fatti oggettivi e qualche abuso soggettivo, richiede una forte ristrutturazione. Forse si può trovare il modo di comporre le diverse esigenze. Chiedo scusa se riprendo qui una proposta di qualche anno fa, che non mi sembra diventata inattuale. Si tratta di individuare una governance tendenzialmente omogenea delle diverse giurisdizioni, che non alteri le attuali relazioni istituzionali, ma eviti i paradossi, come quello della sostituzione in via di fatto della giurisdizione amministrativa alle funzioni costituzionali del Csm. Si tratterebbe della istituzione di una Corte a composizione mista, due terzi magistrati delle diverse giurisdizioni e un terzo laici con i titoli per accedere alla Corte costituzionale. Si tratterebbe di un giudice di appello per le decisioni disciplinari di tutte le magistrature e giudice per le impugnazioni nei confronti dei provvedimenti degli organi di governo interno. Questa corte potrebbe giudicare in formazione semplice per il primo grado e in formazione “Grande Chambre”, come la Corte Edu, in appello. Sarebbe necessaria l’estensione a tutte le altre magistrature della disciplina propria della magistratura ordinaria e la istituzione di un ufficio ispettivo presso il Consiglio di Stato. Il giudice amministrativo che dismette la vecchia veste concettuale di consigliere del Principe per assumere definitivamente quella di garante dei giusti diritti dei cittadini nei confronti del potere pubblico non può esimersi da una profonda riconsiderazione del proprio statuto professionale. Questa riconsiderazione, se condotta con la necessaria consapevolezza delle difficoltà che devono essere superate da tutte le parti, può innescare una salutare riflessione anche nelle altre giurisdizioni.