“Scalatore” o “spalatore”? È questo il “dilemma” che nella calura agostana ha attraversato l’universo giudiziario dopo un articolo pubblicato su La verità, nel quale la magistratura è stata ridotta – in modo semplificatorio e anche manicheo – a queste due categorie, riproducendo peraltro uno schema diffuso – altrettanto semplicisticamente – in molte altre categorie professionali, compresi i giornalisti. Uno schema piuttosto elementare quanto ingannevole, che personalmente non condivido. Tuttavia, quel piccolo tormentone estivo ha alzato il sipario su un non detto strisciante nei palazzi di giustizia, quello di un “nuovo carrierismo giudiziario” che sta “ossessionando” la magistratura 2.0 a scapito della giurisdizione, dell'indipendenza, dell’uguaglianza delle funzioni e dell'attenzione alle grandi questioni dei diritti.
Un problema antico – il carrierismo – che si ripropone ciclicamente e che oggi viene percepito dalla “base” della magistratura – in modo trasversale da tutte le correnti – anche come riflesso di un Autogoverno incapace di garantire la “prevedibilità” delle sue decisioni a causa di un’eccessiva “discrezionalità” nella scelta dei capi degli uffici, terreno fertile anche di inquinamenti politici e clientelari.
Sarebbe un errore liquidare la questione come tormentone estivo invece di avviare un’ampia riflessione su questo tema, in ogni sede, anche per evitare le strumentalizzazioni che già si affacciano in vista delle elezioni del Csm. Certo, il terreno è scivolosissimo e si rischia di buttar via il bambino con l’acqua sporca. Ma non si può mettere la polvere sotto il tappeto o affermare che il modello di giudice 2.0 sia soltanto una questione interna alla magistratura e non anche una grande questione democratica, che come tale interessa tutti i cittadini e merita quindi una discussione pubblica.
Negli anni ‘50 – quando il Csm esisteva ancora soltanto sulla carta – Piero Calamandrei scrisse pagine illuminanti sui pericoli derivanti dall’«assillo della carriera». «Assillo che diventa ossessione – spiegò – in quei periodi critici della vita del giudice in cui egli è prossimo a raggiungere l’anzianità necessaria per aspirare alla promozione. Può accadere così che il magistrato sia portato naturalmente, per assuefazione burocratica, a considerare come ottimo modo di rendere giustizia quello che meglio giova alla sua propria carriera: e poiché la promozione cui aspira dipende dal giudizio demandato ad una Commissione di magistrati di grado superiore che dovranno valutare i “titoli” dell'aspirante (consistenti per lo più nelle sentenze da lui redatte), ecco che quando si avvicina il periodo dello scrutinio egli, più che fare oscuramente il suo dovere negli uffici meno appariscenti ma più essenziali per il buon funzionamento della giustizia, è tratto a preferire le mansioni che più gli daranno occasione di fabbricarsi “titoli” idonei a metterlo in bella luce presso i suoi futuri esaminatori». Cioè a scrivere sentenze come «dissertazioni scientifiche», poiché «quel che conta per la promozione sono le sentenze dotte, non le sentenze giuste».
Uno schema che – nonostante i profondi cambiamenti intervenuti in quasi 70 anni – non sembra molto diverso da quello attuale accusato di fomentare il carrierismo attraverso il sistema delle “medagliette”. Tanto che, ora come allora, la parola d’ordine che circola in molti uffici è “abbattere la carriera”.
Nulla è cambiato, dunque, anche se tutto è cambiato?
Secondo Calamandrei, anche quando la magistratura si fosse liberata da ogni ingerenza governativa, l’indipendenza del singolo magistrato avrebbe potuto essere ugualmente minacciata «dall’umano desiderio di non mettersi in urto con chi potrà disporre della sua carriera». «Se non vi sarà più nei magistrati un conformismo politico ossequiente all’opinione del Ministro della giustizia – avvertiva – potrà esservi pur sempre un conformismo di casta ossequiente all’opinione dei superiori». Per scongiurare questo pericolo «il rimedio ideale – aggiungeva – sarebbe abolire le promozioni e riconoscere a tutti gli uffici giudiziari, di qualsiasi grado, pari dignità e uguale stipendio», liberando il magistrato dal conformismo, «figlio bastardo generato dal connubio del timore con la speranza».
Su quella strada ci si è infatti incamminati, spinti dalla cultura dell’uguaglianza delle funzioni.
E molto è cambiato: dalla nascita del Csm alle leggi “Breganze e Breganzone” degli anni ’60-’70 per l’“abbattimento della carriera”; dalla temporaneità degli incarichi direttivi alla valorizzazione delle attitudini rispetto all’anzianità senza demerito, passando per le valutazioni periodiche di professionalità, fino alla riforma della dirigenza varata dal Csm nel 2015, contrastando vittoriosamente, nel frattempo, il grossolano tentativo di restaurazione della “carriera per concorso” perseguito dalla riforma Castelli, approvata in Parlamento ma mai applicata perché modificata, sul punto, dal governo Prodi.
E tuttavia, il problema della deriva carrieristica della vita professionale del magistrato, o di una cattiva gestione dei residui di carriera, oggi sembra riproporsi con gli stessi accenti di allora.
Anche se le promozioni non sono più legate ad aumenti di stipendio, l'aspirazione al posto direttivo e semi-direttivo viene letta prevalentemente in chiave di potere o di prestigio sociale, e non invece di servizio. Una lettura favorita dalla riforma della dirigenza, che sembra ispirata più alla filosofia del cursus honorum (in cui pesano le “medagliette” accumulate nel tempo, per lo più attribuite dai capi degli uffici e dal Csm) che alle attitudini specifiche in funzione delle esigenze di Procure, Tribunali e Corti. Alla prova dei fatti, quella riforma sembra aver condizionato la vita professionale dei magistrati, orientandola più alla “scalata” che della “spalata”, e spingendo così verso una magistratura più conformista, burocratica, verticistica e corporativa.
Preoccupazioni da non sottovalutare, anche se il clima da campagna elettorale che si respira tra i magistrati in vista del voto sul Csm rischia di enfatizzarle e strumentalizzarle per strizzare l’occhio a una base insofferente, che pretende una maggiore “prevedibilità” delle decisioni sui capi degli uffici.
Forse risentono di questo clima elettorale alcune proposte lanciate e rilanciate nel dibattito estivo da esponenti delle più diverse correnti. A cominciare da quella di un ritorno al vecchio parametro dell’anzianità, per «ancorare a un criterio oggettivo» la discrezionalità del Csm, fonte principale di scelte “opinabili” se non addirittura “arbitrarie”, tali da premiare chi imposta la propria carriera in funzione della “scalata” più che della “spalata”. Oppure quella di una rotazione degli incarichi semi-direttivi, per arginare i condizionamenti clientelari e correntizi delle nomine…
Cresce la preoccupazione – per qualcuno la certezza – che troppo alti siano i rischi di un sistema elastico di valutazione rispetto, invece, ad uno rigido basato esclusivamente o prevalentemente sull’anzianità, anche se deprime l’esigenza di valorizzare la professionalità e di far funzionare al meglio il servizio attribuendo a ciascuno compiti in funzione delle attitudini e dell’esperienza acquisita.
L’anzianità viene rispolverata come argine, appunto, ad una discrezionalità incontrollabile, fonte di inquinamenti clientelari e fattore induttivo di competitività tra i magistrati.
Anche qui, per certi versi nulla di nuovo. Se ne discuteva già trent’anni fa.
Nel 1986, in un’articolata analisi sulla carriera, Pino Borrè affrontò il tema del rapporto tra anzianità e altri criteri nonché della necessità di una maggiore trasparenza e affidabilità del Csm (C’è ancora una carriera in magistratura?, in L’eresia di Magistratura democratica, raccolta di scritti di Giuseppe Borrè a cura di Livio Pepino, pubblicato ne I quaderni di Questione giustizia, 2001).
In particolare, Borrè segnalò l’esigenza di «una crescita culturale e ideale» del Csm, che deve trovare «le sue espressioni e i suoi strumenti nella sempre maggiore valorizzazione del confronto, nella disponibilità a sentire le ragioni degli altri, nell’abitudine alla coerenza e alle motivazioni rigorose, nella pubblicità e nel voto palese». Nonostante il “rinnovamento” verificatosi nei 20 anni precedenti con le leggi “Breganze e Breganzone”, era «urgente un salto di qualità». «È necessario – scriveva Borrè – che il Csm sappia essere all’altezza del compito che, a ben vedere, è forse il più significativo fra quelli che gli spettano (la scelta dei dirigenti, ndr). Occorre capire che è in gioco non solo l’immagine ma la stessa sopravvivenza del sistema dell’Autogoverno. Perché il giorno in cui si potesse dire (non per impeto polemico com’è già accaduto, ma con sicura coscienza) che c’era da avere più fiducia negli antichi strumenti di selezione generale e in una vecchia Commissione giudicatrice che non nella funzione valutativa dell’organo di Autogoverno, si tornerebbe incommensurabilmente indietro nella storia del pluralismo e dell’indipendenza della magistratura».
Siamo forse arrivati a quel momento?
Nessuno se lo augura. Ma il Csm sta camminando sul filo di un rasoio. E deve scongiurare il rischio di un ritorno al passato.
L’operazione “trasparenza” portata avanti – e pubblicizzata – in questa consiliatura evidentemente non basta. Di certo non viene percepita come un “salto di qualità”. E forse non lo è. L’accusa di “lottizzazione” è sempre più diffusa e trasversale, al di là delle strumentalizzazioni che se ne fanno. E così quella di indurre, nella sostanza, un carrierismo sfrenato.
Nasce anche da qui la nostalgia per il criterio rigido dell’anzianità come antidoto ai pericoli della discrezionalità. Nostalgia che, però, è soprattutto una denuncia (e un’autodenuncia) di incapacità a gestire la discrezionalità. Se non di vera e propria fuga dalla relativa responsabilità.
D’altra parte, il cosiddetto Testo unico sulla nuova dirigenza tradisce – nonostante le correzioni volute a suo tempo dal Quirinale – un’idea burocratica e deresponsabilizzante dell’Autogoverno nonché la fragilità di un Csm che, per recuperare credibilità, ha sostanzialmente preferito ingabbiarsi in un recinto invece che assumere la responsabilità di una discrezionalità necessaria a garantire la qualità del servizio e la tutela dei diritti. Tant’è che si è preferito mandare il messaggio di un percorso vincolato che assicura benefici di carriera a tutti, innescando aspettative che oggi si stanno rivelando una mina sul terreno dell’Autogoverno.
Come giustamente osservava Borrè, ci sarebbe da chiedersi se un sistema fondato sull’anzianità andrebbe nella direzione di favorire la crescita, tra i magistrati, di una cultura ugualitaria o non, piuttosto, della cultura opposta. «Ho forti timori – era la sua risposta – che lo sbocco, più che la smitizzazione della carriera, sarebbe la creazione di un’aristocrazia senile».
Ma ci sarebbe anche da chiedersi se non vi sia una terza categoria di magistrati oltre agli “scalatori” e agli “spalatori”, fatta da persone che, come qualcuno ha giustamente osservato nella calura estiva, «lavorano e spalano con doverosa continuità e che prendono i direttivi e i semi-direttivi come un servizio in più da rendere alla giustizia, intesa come comunità e servizio e non solo come potere».
E infine ci sarebbe da chiedersi se il Csm è disposto ad assumersi l’impegno “politico” di diffondere, favorire e tutelare questa cultura e questo modello di magistrato, a partire dalla gestione trasparente della sua discrezionalità nella scelta dei direttivi, recuperando – per dirla con Borrè – coerenza e rigore nelle motivazioni nonché responsabilità.
Questa – ben prima di pensare a passi avanti o passi indietro – dovrebbe essere l’urgente risposta al “nuovo carrierismo”: una sfida etica e culturale forte, da rilanciare nella magistratura e nell’Autogoverno. Tutte le correnti, e con esse l’Anm, dovrebbero esserne protagoniste, perché il binomio discrezionalità-responsabilità – come ha osservato Nello Rossi – non funziona «nei confronti dei singoli consiglieri ma ha invece un riflesso diretto e immediato nei confronti dei gruppi di appartenenza, che possono essere penalizzati alle successive elezioni (in termini di consensi) nel caso di nomine rivelatesi inadeguate. Perciò – è la conseguente osservazione di Rossi – i sistemi elettorali atomistici del Csm, introdotti con il proposito di ridurre il cosiddetto “strapotere dei gruppi in Consiglio”, hanno finito con l’indebolire o con il minare l’unico, vero meccanismo di responsabilità collettiva, di gruppo, di area, operante sul versante delle nomine».
Non esistono criteri a priori giusti e infallibili per individuare il miglior candidato. Sicuramente, però, il ritorno al dirigente “buon padre di famiglia” o ad un’élite di magistrati anziani, così come l’introduzione di soluzioni dettate da preconcetti ideologici, qual è la rotazione degli incarichi semi-direttivi, sarebbero un passo indietro nella storia del pluralismo e dell’indipendenza della magistratura e sancirebbero la sconfitta dell’Autogoverno e della sua credibilità.
«Difficile è camminare sul filo tagliente di un rasoio», si legge in un passo delle Upanishad, tra l’altro citato da Somerset Maugham in epigrafe a un suo famosissimo romanzo. «Così – prosegue il testo sacro – i saggi dicono che ardua è la via della salvezza». Ardua, appunto. Ma nient’affatto impossibile.
Donatella Stasio