1. Il delitto di favoreggiamento delle migrazioni illegali: brevi cenni
Una signora africana giungeva all’aeroporto di Bologna, proveniente da Casablanca, accompagnando due ragazze congolesi infraquattordicenni: ai controlli di frontiera la donna esibiva per sé e per le due minori passaporti senegalesi successivamente rivelatisi falsi.
La signora veniva pertanto tratta a giudizio innanzi al Tribunale di Bologna per violazione dell’art. 12, co.1 e 3 lett. d), d.lgs. 286/98 (d’ora in poi T.U.I.), ovvero per rispondere del delitto di favoreggiamento dell’immigrazione illegale, aggravato dall’utilizzo di servizi internazionali di trasporto e di documenti contraffatti.
Per meglio inquadrare la vicenda conviene brevemente riassumere i termini della complessa fattispecie incriminatrice.
L’art. 12, T.U.I. è la norma che sanziona le varie tipologie di favoreggiamento delle migrazioni clandestine: il favoreggiamento dell’immigrazione e dell’emigrazione illegali, il favoreggiamento della permanenza illegale e la dazione di alloggio a straniero privo di permesso di soggiorno. Mentre gli ultimi due illeciti presuppongono che l’agente agisca a scopo di lucro - segnatamente allo scopo di trarre ingiusto profitto dalla condizione di illegalità dello straniero per l’ipotesi di cui al co. 5 (favoreggiamento della permanenza), e, per la dazione di alloggio di cui al co. 5 bis, che questa avvenga a titolo oneroso al fine di trarre un ingiusto profitto - lo scopo di profitto non è elemento costitutivo dei reati di favoreggiamento dell’immigrazione e dell’emigrazione illegali, costituendo una circostanza aggravante ad effetto speciale ex art. 12, co. 3 ter, lett. b), peraltro non soggetta a bilanciamento con eventuali circostanze attenuanti, ad eccezione quelle di cui 98 e 114 c.p.
Il regime particolarmente severo che il legislatore ha previsto per il contrasto alle migrazioni illegali (rectius clandestine, secondo la rubrica dell’art. 12 in questione), si desume dal trattamento sanzionatorio. Infatti, la fattispecie base di cui all’art. 12, co. 1, sanziona la condotta di chiunque - in violazione delle disposizioni del T.U.I. - promuove, dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato, ovvero compie atti diretti a procurarne illegalmente l’ingresso, con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa di 15.000 € per ogni persona favorita. La giurisprudenza è costante nel ritenere che si tratti di reato a forma libera e a consumazione anticipata (compie atti diretti…) per cui non è necessaria la realizzazione dell’evento per la consumazione del delitto, essendo sufficiente l’idoneità e la direzione inequivoca degli atti compiuti; si noti che la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che sia sufficiente che «il soggetto attivo ponga in essere, con la propria condotta, una condizione (necessaria o no), teleologicamente connessa al potenziale ingresso illegale dello straniero, perché sia integrata la situazione di pericolo, la quale rappresenta l'oggetto giuridico della norma incriminatrice» (Cass. pen. sez. I, 22.5.2014, n. 28819, idem sent. n. 38030/2019).
Il comma 3 dell’art. 12 T.U.I. prevede una fattispecie assolutamente speculare a quella del co. 1 quanto alla struttura del precetto cui si aggiungono elementi di specializzazione quali: il numero delle persone favorite superiore a cinque, l’esposizione a pericolo per la vita o per l’incolumità della persona trasportata, la sua sottoposizione a trattamenti disumani o degradanti, la commissione del fatto da tre o più persone in concorso tra loro ovvero «utilizzando servizi internazionali di trasporto ovvero documenti contraffatti o alterati o comunque illegalmente ottenuti», e, infine, la disponibilità di armi o materie esplodenti da parte degli autori del fatto. Ebbene, al verificarsi di queste ulteriori condizioni la pena prevista è quella della reclusione da cinque a quindici anni, ferma restando la multa di 15.000 € per ogni persona favorita. Inoltre, in caso di ricorrenza di due o più delle ipotesi appena citate la pena è aumentata a mente del successivo comma 3 bis.
Va da sé che non è illegale solo l’ingresso clandestino in senso classico (quello effettuato eludendo i controlli di frontiera, attraverso impervi sentieri o nascosto nella stiva di un’imbarcazione piuttosto che nel doppio fondo di un automezzo), ma pure quello apparentemente legale, compiuto utilizzando documenti falsi, come nel fatto che ha originato la vicenda in commento.
Inoltre, occorre ricordare che la controversa questione se le ipotesi di cui al citato comma 3 fossero fattispecie autonome di reato, piuttosto che circostanze aggravanti della fattispecie base di cui al comma 1, è stata risolta dalle Sezioni unite con la sentenza n. 40982/2018 che ha affermato il principio di diritto secondo cui «le fattispecie previste nell’art. 12, co. 3, configurano circostanze aggravanti del reato di pericolo di cui al comma 1 del medesimo articolo».
Si tratta quindi di fattispecie incriminatrici gravi, la cui previsione è imposta dalla Direttiva 2002/90/CE del Consiglio del 28 novembre 2002, dove all’art. 1 rubricato Comportamenti illeciti è previsto che ciascuno Stato membro adotti sanzioni appropriate «nei confronti di chiunque intenzionalmente aiuti ( anche a scopo di lucro) una persona che non sia cittadino di uno Stato membro ad entrare o a transitare nel territorio di uno Stato membro in violazione della legislazione di detto Stato relativa al transito o al soggiorno degli stranieri». Tale disposizione obbliga gli Stati membri ad adottare sanzioni appropriate per le condotte di favoreggiamento illegale, senza previsione di circostanze aggravanti, nemmeno previste dalla Decisione quadro 2002/946/GAI relativa al rafforzamento del quadro penale per la repressione del favoreggiamento dell’ingresso, del transito e del soggiorno illegali.
Mentre, per quanto concerne gli strumenti internazionali, il Protocollo addizionale della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata per combattere il traffico di migranti via terra, via mare e via aria (ratificato e reso esecutivo con L. 146/2006) all’art. 6 rubricato Penalizzazione, al paragrafo 3 indica come vincolo per gli Stati parte l’obbligo di adottare misure legislative per conferire il carattere di circostanza aggravante a due sole ipotesi inerenti «al fatto di mettere in pericolo, o di rischiare di mettere in pericolo, la vita e l’incolumità dei migranti coinvolti» o l’esposizione a «trattamenti disumani o degradanti, incluso lo sfruttamento di tali migranti». Quindi, alcuno strumento normativo sovranazionale impone di considerare alla stregua di circostanza aggravante l’utilizzo di servizi internazionali di trasporto e di documenti contraffatti: trattasi di una scelta del legislatore nazionale, sulla cui legittimità dubita il Tribunale di Bologna, come vedremo nel prosieguo.
2. La vicenda bolognese: le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla difesa
Tornando ora al procedimento penale che ha visto coinvolta la signora congolese, a dibattimento la difesa ha sollevato quattro questioni di legittimità costituzionale inerenti principalmente la cornice edittale prevista sia per la fattispecie base che per l’aggravante speciale di cui al comma 3, lett. d) dell’art. 12 T.U.I. consistente nell’utilizzo di servizi internazionali di trasporto e di documenti contraffatti.
Innanzitutto, la difesa dubita della legittimità del trattamento sanzionatorio previsto per l’ipotesi base di cui al comma 1 dell’art. 12, nonché per la specifica aggravante contestata, con riferimento al principio di eguaglianza e ragionevolezza, ex art. 3 Cost. Infatti, mentre l’ingresso illegale nel territorio dello Stato è sanzionato penalmente con una contravvenzione (art. 10 bis, T.U.I.) punita con sola pena pecuniaria, il favoreggiamento della medesima condotta invece che essere sanzionato a titolo concorsuale, è un delitto di elevata gravità (quantomeno nelle forme aggravate), il che sarebbe incompatibile con il canone della ragionevolezza, tenendo conto che entrambi gli illeciti tutelano lo stesso bene giuridico: il controllo delle frontiere, la ordinata gestione dei flussi migratori e quindi, in definitiva, l’ordine pubblico.
In secondo luogo, la difesa dubita della legittimità, inerente sempre la proporzionalità della sanzione, dell’aumento di pena conseguente all’aggravante speciale di cui al comma 3, lett. d) dell’art. 12, con riferimento ai parametri di cui agli artt. 3; 27, co. 3, 11 e 117 Cost. e 49 § 3, Carta dei diritti fondamentali UE: la pena prevista per la fattispecie base è quintuplicata nel minimo e triplicata nel massimo, ferma restando l’elevata sanzione pecuniaria.
Altra questione riguarda invece la c.d. scriminante umanitaria di cui all’art. 12, co. 2, T.U.I. della cui legittimità si dubita - sotto il profilo del principio di eguaglianza, ragionevolezza e del rispetto della dignità umana - nella parte in cui non è prevista la sua applicazione anche ai migranti che non si trovano sul territorio dello Stato.
La difesa, infine, dubita della compatibilità degli obblighi d’incriminazione di derivazione eurounitaria del favoreggiamento dell’ingresso irregolare con alcuni parametri della Carta dei diritti fondamentali UE (i principi di proporzionalità, libertà personale, dignità umana, il diritto di chiedere asilo e il rispetto della vita privata e familiare)[1].
3. La questione respinta per manifesta infondatezza
La prima questione è considerata manifestamente infondata. Osserva il Collegio che rientra nella discrezionalità del legislatore tutelare il medesimo bene giuridico secondo una scala crescente a seconda della gravità delle condotte, senza che si violi il parametro costituzionale della ragionevolezza. Invero, con riferimento all’ingresso illegale di stranieri, è consentito attribuire maggior disvalore a condotte poste in essere da soggetti terzi rispetto a quelle dei diretti interessati, anche in considerazione della maggior vulnerabilità di questi ultimi. Peraltro, nell’ordinamento si ravvisano illeciti, sanzionati anche gravemente, di favoreggiamento di condotte da altri tenute che di per sé non costituiscono reato, come lo stesso favoreggiamento dell’immigrazione illegale prima dell’introduzione della contravvenzione di ingresso e soggiorno illegale ad opera della legge n. 94/2009, oppure il favoreggiamento della prostituzione rispetto al meretricio, ovvero l’istigazione al suicidio rispetto al tentativo di suicidio. Peraltro, ad avviso del Tribunale, la forma del delitto è dovuta alla necessità di anticipare la soglia della tutela per sanzionare anche le condotte preparatorie, obiettivo che non sarebbe stato possibile perseguire con la forma del reato contavvenzionale.
Non pare quindi corretta l’individuazione dell’art. 10 bis T.U.I. come tertium comparationis. Infine, il trattamento sanzionatorio non pare eccessivo, posto che nell’ipotesi base di cui al comma 1 dell’art. 12 il minimo della pena è pari ad un anno di reclusione, ulteriormente riducibile in caso di riconoscimento di attenuanti.
4.1 La questione accolta
Ad approdi differenti si giunge per la seconda delle questioni eccepite. Effettivamente, il trattamento sanzionatorio (da 5 a 15 anni di reclusione) previsto al ricorrere dell’aggravante speciale di cui al comma 3, lett. d), consistente nell’utilizzo di servizi internazionali di trasporto ovvero di documenti contraffatti, alterati o comunque illegalmente ottenuti, comporta l’irrogazione di una pena irragionevolmente sproporzionata, in assenza di plausibili giustificazioni. Il legislatore ha infatti posto sullo stesso piano - nella previsione delle circostanze aggravanti di cui al comma 3 - le ipotesi di esposizione a pericolo per la vita o l’incolumità fisica dello straniero, la sua sottoposizione a trattamenti disumani e degradanti, la disponibilità di armi o esplodenti con quella oggetto di contestazione, pacificamente eterogenea rispetto alle altre, sotto il profilo del disvalore della condotta. Peraltro, l’utilizzo di servizi internazionali di trasporto per fare ingresso in Italia è un mezzo di per sé pienamente lecito, anzi mette il trasportato al riparo da rischi per la sua incolumità. Mentre l’utilizzo di documenti falsi (materialmente o ideologicamente) è assoggettato ad altre sanzioni penali, sicché appare ingiustificata la previsione di una sanzione così elevata rispetto alla pena base, quintuplicata nel minimo e triplicata nel massimo.
Interessanti sono i parametri costituzionali evocati: non solo l’art. 3, ma pure l’art. 27, co. 3, per violazione del principio di proporzionalità della sanzione penale, cui conviene fare breve cenno, ancorché non esaustivo. Al proposito, il Tribunale di Bologna richiama Corte cost. 236/2016 che dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’art. 567, co. 2, c.p. (alterazione di stato civile di un neonato mediante false certificazioni nella formazione di un atto di nascita) nella parte in cui prevedeva la pena della reclusione da 5 a 15 anni, anziché la pena edittale da 3 a 10 anni di reclusione prevista dal primo comma della stessa norma (alterazione di stato civile mediante sostituzione di neonato). Ebbene, con quella sentenza la Consulta osservò che «Laddove la proporzione tra sanzione e offesa difetti manifestamente, perché alla carica offensiva insita nella condotta normativa il legislatore abbia fatto corrispondere conseguenze punitive di entità spropositata, non ne potrà che discendere una compromissione ab initio del processo rieducativo, processo al quale il reo tenderà a non prestare adesione, già solo per la percezione di subire una condanna ingiusta, del tutto svincolata dalla gravità della condotta e dal disvalore da essa espresso … [si] determina perciò una violazione congiunta degli artt. 3 e 27 Cost., essendo lesi sia il principio di proporzionalità della pena rispetto alla gravità del fatto commesso, sia quello della finalità rieducativa della pena». Così, osserva acutamente il Tribunale felsineo, si è aperta la via al controllo della legalità della pena «sotto il profilo della sproporzione rispetto al disvalore del fatto e ciò a prescindere da un tertium comparationis», a condizione che «siano individuate soluzioni già esistenti idonee a eliminare o ridurre la manifesta irragionevolezza lamentata», senza lasciare aperto alcun vuoto normativo. In effetti, gli stessi fatti riconducibili all’ipotesi aggravata (in disparte l’ipotesi della commissione del fatto da parte di tre o più persone, non oggetto di contestazione in quel giudizio) rientrerebbero nell’ipotesi base di cui all’art. 12, co. 1, T.U.I. Per quanto concerne l’utilizzo di documenti contraffatti, alterati o comunque illegalmente ottenuti, osserva il Giudice a quo che il bene giuridico tutelato coincide con quello della fattispecie base, posto che «l’immutatio veri non assurge a bene giuridico tutelato, bensì costituisce solo una modalità dell’ingresso illegittimo, che non aggiunge in concreto alcun ulteriore disvalore alla condotta». Peraltro, all’imputata è anche contestato il possesso di documenti d’identificazione falsi ex art. 497 bis c.p., aggravato dallo scopo di eseguire il delitto di favoreggiamento ai sensi dell’art. 61, n. 2, c.p. per cui, siccome secondo la giurisprudenza di legittimità (Cass. sez. I, 7.4.2011, n. 21596) l’utilizzo di documenti falsi resta assorbito nel più grave delitto di favoreggiamento dell’immigrazione illegale aggravato ai sensi del comma 3 bis in questione, «l’eventuale dichiarazione d’incostituzionalità della predetta circostanza aggravante potrebbe determinare il riespandersi della sanzione prevista dall’art. 497 bis, c.p. in concorso con quella [fattispecie] prevista dall’art. 12, co. 1, d.lgs. 286/98», così che l’eventuale maggior disvalore della condotta troverebbe adeguata e autonoma sanzione.
4.2 … e i suoi possibili ambiti di ulteriore applicazione
L’invocato controllo di legalità della pena sotto il profilo della sproporzione rispetto al disvalore del fatto, cui s’è fatto cenno, induce a riflessioni circa il suo ulteriore utilizzo verso altre fattispecie penali incriminatrici previste dal T.U.I.
Il pensiero corre alla contravvenzione di cui all’art. 10 bis (ingresso e soggiorno illegale) ed ai delitti connessi alla disciplina delle espulsioni amministrative (e dei respingimenti differiti). Pur non essendo questa la sede per un’approfondita disamina di tali questioni, conviene farne breve cenno, perché si tratta di reati sanzionati con elevate (in taluni casi elevatissime) sanzioni pecuniarie, in cui la sproporzione dell’entità della pena e il disvalore delle condotte pare evidente, oltre che inutile, se si considera che sono irrogate nei confronti di stranieri irregolari, nei cui confronti le probabilità di riscossione sono prossime allo zero. Com’è noto, l’ingresso e il soggiorno illegale dello straniero nel territorio dello Stato è sanzionato penalmente con l’ammenda da 5.000 a 10.000 euro (senza possibilità di oblazione); la violazione degli obblighi connessi alla concessione del termine per la partenza volontaria è punita con la multa da 3.000 a 18.000 euro ai sensi dell’art. 13, co. 5.2 T.U.I., al pari della contravvenzione agli obblighi disposti a titolo di misure alternative al trattenimento ex art. 14, co. 1 bis; mentre l’inottemperanza, senza giustificato motivo, all’ordine questorile di allontanamento è sanzionata con la multa da 10.000 a 20.000 ex art. 14, co. 5 ter T.U.I, che diventa da 15.000 a 30.000 euro nell’ipotesi di cui al comma 5 quater.
A prescindere qui dalle considerazioni di politica del diritto sui motivi che indussero il legislatore a prevedere questi illeciti, rileva che non pare siano mai stati portati all’attenzione della Consulta per preteso contrasto con il principio della funzione rieducativa della pena (nemmeno in occasione della sentenza n. 250/2010 relativa alla legittimità del reato d’ingresso e soggiorno illegale) forse perché, essendo fattispecie previste in funzione accessoria all’azione amministrativa di espulsione, si dà per scontato che nemmeno si ponga la questione, visto che l’eventuale rieducazione è destinata a svolgersi fuori del territorio dello Stato, esaurendosi nell’auspicato monito a non farvi rientro. La sostanziale inutilità di questi illeciti, che sovente sono disapplicati negli uffici di maggiori dimensioni, fa scivolare in secondo piano la pregnanza del controllo di legalità di queste elevate pene pecuniarie. Tali considerazioni di mero fatto, tuttavia, non escludono in radice la fondatezza della questione che si auspica possa essere proposta in altra occasione.
5. La questione ritenuta irrilevante
Per quanto concerne l’eccepita questione d’incostituzionalità della scriminante umanitaria di cui all’art. 12, co. 2, T.U.I. nella parte in cui è ritenuta applicabile solo ai migranti che si trovino sul territorio nazionale italiano, per preteso contrasto con gli artt. 2 e 3 Cost., il Tribunale ne ha rilevato il difetto di rilevanza, non risultando le finalità della condotta compiuta dall’imputata, ossia se fosse sorretta o meno da fini umanitari.
La questione merita tuttavia attenzione, sia pure in una prospettiva più ampia di quella oggetto del provvedimento in esame.
Occorre premettere che la scriminante in questione prevede che «fermo restando quanto previsto dall’art. 54 c.p., non costituiscono reato le attività di soccorso e assistenza umanitaria prestate in Italia nei confronti degli stranieri in condizione di bisogno comunque presenti nel territorio dello Stato». È una causa di giustificazione che trova la sua ratio nella valutazione del legislatore che ha ritenuto prevalente l’interesse pubblico connesso alle attività di soccorso ed assistenza degli stranieri, anche irregolari (straniero “comunque presente”), rispetto alle esigenze di ordine pubblico e di tutela delle frontiere, ma che non potrebbe trovare applicazione nelle ipotesi di cui ai commi 5 e 5bis dell’art. 12 che presuppongono, come s’è detto, lo scopo di ingiusto profitto, incompatibile ontologicamente con attività di assistenza umanitaria, al pari di tutte le ipotesi di cui ai commi 1 e 2 in cui ricorra l’aggravante di cui al comma 3 ter, lett. b) dell’art. 12, consistente dall’aver commesso il fatto allo scopo di trarre profitto, anche indiretto .
La scriminante in parola ha una portata più ampia rispetto allo stato di necessità: mentre l’art. 54 c.p. richiede l’esistenza «di un pericolo attuale di un danno grave alla persona», l’art. 12. co. 2 richiede che lo straniero versi in «condizioni di bisogno». La condotta deve concretarsi in attività di soccorso, in ambito sanitario o alimentare, e di assistenza umanitaria, quindi in una prospettiva teleologica di ampia portata, insuscettibile di definizioni aprioristiche, oggetto di valutazione caso per caso. Queste attività di soccorso e assistenza devono però essere prestate in Italia, in favore di stranieri che si trovano sul territorio nazionale, il che ne riduce l’ambito di applicabilità. Occorre dunque interrogarsi sulla ragionevolezza di questa importante limitazione qualora si versi in situazioni concretamente identiche variando esclusivamente - per fare un esempio ricorrente - la nazionalità del mezzo che ha operato il soccorso (sappiamo che la nave battente bandiera italiana è territorio dello Stato, anche se si trova in acque internazionali). Tuttavia, il fatto che la giurisprudenza abbia talora escluso la responsabilità del comandante della nave straniera che abbia effettuato operazioni di soccorso di migranti alla deriva in acque internazionali, facendo ricorso alle cause di giustificazione tipiche (oscillando tra gli artt. 51 e 54 c.p.), non esclude, di per sé, che la questione possa avere un notevole rilievo, proprio in considerazione della portata molto più “aperta” della scriminante umanitaria derivante dall’endiadi “assistenza umanitaria” in favore di “stranieri in condizioni di bisogno”: il pensiero inevitabilmente corre ai richiedenti protezione internazionale. Se noi consideriamo che la domanda di protezione può essere presentata solo nell’Unione europea, che le Direttive UE dettano precisi obblighi di informazione cui gli Stati membri sono tenuti al fine di garantire l’accesso alla procedura, che è considerato richiedente chi semplicemente manifesta la volontà di chiedere protezione, pare evidente che chi cerca di fare ingresso nel territorio dello Stato al fine di chiedere asilo, sia uno straniero in condizione di bisogno necessitante di assistenza umanitaria. Consegue che, in questi casi, la condotta adiuvante l’ingresso debba essere scriminata al fine di consentire l’esercizio di un diritto fondamentale internazionalmente, convenzionalmente e costituzionalmente protetto, indipendentemente dall’esito futuro della domanda. E non si ravvisano ragioni per riconoscere tale esimente solo qualora il potenziale richiedente asilo sia già nel territorio nazionale. Diversamente, palese sarebbe l’ingiustificata disparità di trattamento di chi aiuta il migrante salvato in acque internazionali da un natante battente bandiera italiana, rispetto a chi lo soccorre utilizzando una nave straniera. Consentire l’accesso alla procedura di protezione costituisce la quintessenza dell’assistenza umanitaria. Peraltro, l’art. 1, § 2, della Direttiva 2002/90 consente espressamente a ciascuno Stato membro «di non adottare sanzioni riguardo ai comportamenti di cui al § 1, lett. a), applicando la legislazione e le prassi nazionali nei casi in cui essi abbiano lo scopo di prestare assistenza umanitaria alla persona interessata», non v’è pertanto alcun obbligo unionale che imponga il mantenimento della riserva geografica in tema di scriminante umanitaria.
[1] Per una compiuta disamina dei numerosi profili d’illegittimità della normativa italiana ed europea in materia di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, si rinvia a S. Zirulia, Non c’è smuggling senza ingiusto profitto, in Sistema penale, 22.10.2020 reperibile sul sito www.sistemapenale.it