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Ilva e il diritto alla salute. La Corte costituzionale ci ripensa?

di Gianfranco Amendola
già procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Civitavecchia
Il contributo che pubblichiamo ragiona sulla recente decisione n. 58 del 2018, con cui la Consulta torna ad occuparsi del tema della tutela della salute e sicurezza dei lavoratori negli stabilimenti dell’Ilva di Taranto. L’autore registra qualche non irrilevante mutamento di rotta nella giurisprudenza costituzionale rispetto alla precedente sentenza n. 85 del 2013 e rimarca con forza come il diritto alla salute non può soggiacere, se non a prezzo di qualche forzatura del dettato costituzionale, a bilanciamenti con altri interessi pur costituzionalmente rilevanti (essendo il diritto alla salute l’unico diritto che, non a caso, è definito fondamentale dalla nostra Costituzione).

La sentenza Corte costituzionale n. 58 del 23 marzo 2018 (dep.), che si occupa ancora una volta della vicenda Ilva, merita, a nostro sommesso avviso, di essere segnalata in quanto, come subito evidenziato da attenta dottrina, alcuni passaggi appaiono «particolarmente significativi nell’ottica dello smantellamento della tanta declamata, quanto fittizia, contrapposizione tra le ragioni dell’economia e le ragioni del diritto, o meglio ancora, dei diritti della persona. Contrapposizione fittizia, perché già risolta dal legislatore costituente, anche se a volte abbiamo finito per trascurare o rimuovere tale dato» [1].

L’affermazione è pienamente condivisibile ma, soprattutto, evidenzia con chiarezza quello che, sempre a nostro sommesso avviso, è il dato storico più rilevante della sentenza, e cioè un inizio di ripensamento della Corte proprio a proposito dei rapporti tra diritto alla salute e diritto al lavoro.

Ci riferiamo, ovviamente, alla precedente sentenza, sempre sull’Ilva, n. 85 del 2013 [2] quando la Corte, aveva risolto il conflitto tra questi diritti parlando di «un ragionevole bilanciamento tra diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione, in particolare alla salute (art. 32 Cost.), da cui deriva il diritto all’ambiente salubre, e al lavoro (art. 4 Cost.), da cui deriva l’interesse costituzionalmente rilevante al mantenimento dei livelli occupazionali ed il dovere delle istituzioni pubbliche di spiegare ogni sforzo in tal senso», precisando, subito dopo, che «tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. La tutela deve essere sempre “sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro” (sentenza n. 264 del 2012). Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona». Occorre, invece, secondo la Corte del 2013, garantire «un continuo e vicendevole bilanciamento tra princìpi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi. La qualificazione come “primari” dei valori dell’ambiente e della salute significa pertanto che gli stessi non possono essere sacrificati ad altri interessi, ancorché costituzionalmente tutelati, non già che gli stessi siano posti alla sommità di un ordine gerarchico assoluto».

Dando così una visione riduttiva dell’art. 41 della Costituzione che, in realtà, quando si parla di salute, non privilegia alcun bilanciamento e afferma, senza ombra di dubbio, che le esigenze economiche e produttive non possono mai prevalere sul diritto alla salute.

In altri termini, come affermato nel 2012 dal gip del Tribunale di Taranto «la nostra Carta Costituzionale prevede una serie di diritti che hanno una caratteristica costante e cioè quella di una possibile comprimibilità nell’ipotesi in cui si scontrano con altri diritti ugualmente riconosciuti e tutelati (diritto di proprietà, domicilio, libertà nelle sue diverse forme, ecc.); tuttavia il diritto che non accetta contemperamenti o compressioni di sorta è il diritto alla vita e quindi alla salute. Di fronte a tale fondamentale diritto tutti gli altri devono cedere il passo, anche il diritto al lavoro. Nel caso che ci occupa ragionando diversamente si arriverebbe all’assurdo giuridico di operare delle comparazioni fra il numero di decessi accettabili in relazione al numero di posti di lavoro assicurabili: le più elementari regole di diritto e soprattutto del buon senso vietano un simile ragionamento»; aggiungendo opportunamente che «è appena il caso di evidenziare che non si potrà mai parlare di inesigibilità tecnica o economica quando è in gioco la tutela di beni fondamentali di rilevanza costituzionale, quale il diritto alla salute, cui l’art. 41 della Costituzione condiziona la libera attività economica» [3].

E, checché ne dica la Corte, dovrà pur significare qualcosa se la Costituzione qualifica la salute come «diritto fondamentale dell’individuo» (art. 32, comma 1) ma non usa questo aggettivo quando parla del «diritto al lavoro» (art. 4, comma 1) o di altri diritti pur costituzionalmente garantiti.

E allora, a nostro avviso, le argomentazioni della Corte circa “bilanciamenti”, “equilibrio”, “diritti tiranni” sono certamente accettabili se si vuole significare che, in caso di contrasto, la prevalenza del diritto alla salute comporta sempre, comunque, che l’eventuale sacrificio di altri diritti venga attentamente vagliato attraverso tutte le opzioni ipotizzabili nel caso concreto e, se non c’è altra scelta (cioè nessun bilanciamento è possibile), venga ridotto al minimo. Ma altrettanto certamente non sembra accettabile una conclusione che legittimi, come fece la sentenza del 2013, la prosecuzione da subito di una attività già accertata essere micidiale per la salute di lavoratori e cittadini [4], a fronte di prescrizioni rivolte per il futuro (entro 36 mesi) ad una azienda che già in passato le aveva eluse.

Tanto più che il gip del Tribunale di Taranto aveva scritto con chiarezza che «solo la compiuta realizzazione di tutte le misure tecniche necessarie per eliminare le situazioni di pericolo individuate dai periti chimici in uno alla attuazione di un sistema di monitoraggio in continuo delle emissioni maggiormente inquinanti (quali quelle contenenti diossine e PCB), potrebbe legittimare l’autorizzazione – previa attenta ed approfondita valutazione, da parte di tecnici nominati dall’A.G., dell’efficacia, sotto il profilo della prevenzione ambientale, delle misure eventualmente adottate – ad una ripresa della operatività dei predetti impianti» [5], stigmatizzando pochi mesi dopo che «l’esercizio dell’attività produttiva … non è stato subordinato alla preventiva, immediata e completa attuazione delle misure necessarie a far sì che per produrre acciaio non si provochi malattia e morte , come avviene tuttora» e che la tutela della salute «non può essere sospesa senza incorrere in una inammissibile violazione dei principi costituzionali di cui all’art. 32 … e 41 della Costituzione» [6].

Insomma, quando c’è in ballo la salute (e la vita), quando è certo che ogni giorno di attività porta nuovi gravissimi danni alla salute e all’ambiente, non ci può essere, tanto meno con l’avallo della Costituzione, alcun “bilanciamento” fondato sulla speranza che non oggi ma in un futuro più o meno prossimo una azienda già più volte inadempiente rispetti un percorso (non breve) imposto dalle Autorità [7].

Ed era, peraltro, prevedibile che la sentenza del 2013, aprendo il fronte equivoco dei bilanciamenti e dei compromessi per il diritto alla salute, avrebbe ben presto − e sempre per l’Ilva − riproposto il problema.

Oggi, infatti, la Corte era stata chiamata a giudicare la legittimità costituzionale del cd. decreto Ilva del 2015 (art. 3 del dl n. 92 del 2015, abrogato e riprodotto in maniera identica, come osserva la stessa Corte, dal dl 83 del 2015), il quale consente la prosecuzione dell’attività dell’Ilva nonostante il provvedimento di sequestro preventivo dell’autorità giudiziaria per reati inerenti la sicurezza dei lavoratori con una motivazione che ricalcava la sentenza del 2013: per «garantire il necessario bilanciamento tra le esigenze di continuità dell’attività produttiva, di salvaguardia dell’occupazione, della sicurezza sul luogo di lavoro, della salute e dell’ambiente salubre, nonché della finalità di giustizia, l’esercizio dell’attività di impresa degli stabilimenti di interessi strategico nazionale non è impedito dal provvedimento di sequestro ... quando lo stesso si riferisca ad ipotesi di reato inerenti alla sicurezza dei lavoratori», purchè − come puntualizza oggi la Corte v venga predisposto entro un mese un «piano ad opera della stessa parte privata colpita dal sequestro dell’autorità giudiziaria, senza alcuna forma di partecipazione di altri soggetti pubblici o privati».

Insomma, − osserva sempre la Corte − nel provvedimento del 2015 «manca del tutto la richiesta di misure immediate e tempestive atte a rimuovere prontamente la situazione di pericolo per l’incolumità dei lavoratori. Tale mancanza è tanto più grave in considerazione del fatto che durante la pendenza del termine è espressamente consentita la prosecuzione dell’attività d’impresa “senza soluzione di continuità”, sicché anche gli impianti sottoposti a sequestro preventivo possono continuare ad operare senza modifiche in attesa della predisposizione del piano e, quindi, senza che neppure il piano sia adottato...».

Appare chiaro, quindi, − conclude la Corte − «che, a differenza di quanto avvenuto nel 2012, il legislatore ha finito col privilegiare in modo eccessivo l’interesse alla prosecuzione dell’attività produttiva, trascurando del tutto le esigenze di diritti costituzionali inviolabili legati alla tutela della salute e della vita stessa (artt. 2 e 32 Cost.), cui deve ritenersi inscindibilmente connesso il diritto al lavoro in ambiente sicuro e non pericoloso (artt. 4 e 35 Cost.)».

A prima vista il ragionamento della Corte sembra valido e coerente. Anche perché non c’è alcun dubbio che il provvedimento governativo del 2015 è del tutto indeterminato e non appresta quelle cautele presenti, invece, almeno sulla carta anche se non immediate, nel provvedimento del 2012.

Ma, una volta riconosciuta la diversità dei due provvedimenti, non ci sembra che possa essere accolta la sostanza del ragionamento della Corte secondo la quale, evidentemente, l’interesse alla prosecuzione dell’attività produttiva può essere privilegiato sul diritto alla salute purché tale privilegio non sia “eccessivo” e il diritto alla salute non venga “trascurato del tutto”.

In tal modo, cioè, si afferma esattamente il contrario di quanto dispone con chiarezza l’art. 41 che non contiene e non autorizza alcun compromesso più o meno eccessivo né che il diritto alla salute possa essere trascurato moderatamente.

A questo proposito, tuttavia, si deve rilevare che, in realtà, pur non sconfessando (come era ovvio) la precedente sentenza del 2013, oggi la Corte tratta il problema in modo ben diverso, privilegiando, nella motivazione non tanto bilanciamenti e compromessi quanto la fondamentale importanza del diritto alla salute.

Essa, infatti, afferma:

«Il sacrificio di tali fondamentali valori tutelati dalla Costituzione porta a ritenere che la normativa impugnata non rispetti i limiti che la Costituzione impone all’attività d’impresa la quale, ai sensi dell’art. 41 Cost., si deve esplicare sempre in modo da non recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. Rimuovere prontamente i fattori di pericolo per la salute, l’incolumità e la vita dei lavoratori costituisce infatti condizione minima e indispensabile perché l’attività produttiva si svolga in armonia con i principi costituzionali, sempre attenti anzitutto alle esigenze basilari della persona.

In proposito questa Corte ha del resto già avuto occasione di affermare che l’art. 41 Cost. deve essere interpretato nel senso che esso “limita espressamente la tutela dell’iniziativa economica privata quando questa ponga in pericolo la ‘sicurezza’ del lavoratore” (sentenza n. 405 del 1999). Così come è costante la giurisprudenza costituzionale nel ribadire che anche le norme costituzionali di cui agli artt. 32 e 41 Cost. impongono ai datori di lavoro la massima attenzione per la protezione della salute e dell’integrità fisica dei lavoratori (sentenza n. 399 del 1996)» [8].

Peraltro, vale la pena di ricordare anche un altro lontano precedente del 1990 quando la Corte, dovendosi occupare della definizione di «migliore tecnologia disponibile» [9], che è subordinata alla condizione che essa non comporti «costi eccessivi», aveva concluso, senza alcuna esitazione, che essa «va interpretata nell’assoluto rispetto del principio fondamentale del diritto alla salute sancito dell’art. 32 della Costituzione. Conseguentemente il condizionamento al costo non eccessivo dell’uso della migliore tecnologia disponibile va riferito al raggiungimento di livelli inferiori a quelli compatibili con la tutela della salute umana» [10].

Una ultima osservazione.

A nostro sommesso avviso, se si parla di rapporti tra diritto alla salute ed altri diritti non si può non citare anche la esistenza del principio di precauzione, sancito dall’art. 174, comma 2, del Trattato di Amsterdam; il quale, «discende direttamente dal Trattato Ue e, per ciò solo, costituisce criterio interpretativo valido in Italia, a prescindere da singoli atti di recepimento delle direttive in cui esso si compendia...» [11] ed «impone che quando sussistono incertezze o un ragionevole dubbio riguardo all’esistenza o alla portata di rischi per la salute delle persone, possono essere adottate misure di protezione senza dover attendere che siano pienamente dimostrate l’effettiva esistenza e la gravità di tali rischi» [12].

Nel caso dell’Ilva, come già detto, non c’è alcuna incertezza sui gravi danni per popolazione e lavoratori.

Molti anni fa la Cassazione a sezioni unite scrisse che «il bene della salute… è assicurato all’uomo come uno ed anzi il primo dei diritti fondamentali anche nei confronti dell’Autorità pubblica, cui è negato in tal modo il potere di disporre di esso... Nessun organo di collettività neppure di quella generale e del resto neppure l’intera collettività generale con unanimità di voti potrebbe validamente disporre per qualsiasi motivo di pubblico interesse della vita o della salute di un uomo o di un gruppo minore…». (sentenza cd. “Corasaniti” n. 5172 del 6 ottobre 1979)

Vogliamo ancora parlare di “bilanciamenti”?

ALLEGATI

Il decreto di sequestro preventivo, Tribunale di Taranto (luglio 2012)

Il provvedimento di rigetto dell’istanza di revoca di sequestro, Tribunale di Taranto (novembre 2012)



[1] R. De Vito, La salute, il lavoro, i giudici, in Questione Giustizia on-line, 24 marzo 2018, http://www.questionegiustizia.it/articolo/la-salute-il-lavoro-i-giudici_24-03-2018.php.

[2] La Rivista Questione Giustizia, si era già occupata di molti dei temi trattati nel contributo di G. Amendola. Si rimanda a Questione Giustizia, n. 2/2014, ed. Franco Angeli, Milano: Obiettivo: Il diritto alla salute alla prova del caso Ilva, con contributi di: B. Deidda-A. Natale, Introduzione: il diritto alla salute alla prova del caso Ilva. Uno sguardo di insieme, S. Palmisano, Del «diritto tiranno». Epitome parziale di un’indagine su cittadini già al di sopra di ogni sospetto, A. Ciervo, Esercizi di neo-liberismo: in margine alla sentenza della Corte costituzionale sul caso Ilva, L. Masera, Dal caso Eternit al caso Ilva: nuovi scenari in ordine al ruolo dell’evidenza epidemiologica nel diritto penale, S. Barone-G. Venturi, Ilva Taranto: una sfida da vincere, G. Assennato, Il caso «Taranto» e il rapporto ambiente-salute nelle autorizzazioni ambientali, P. Bricco, Le logiche della magistratura e del diritto, le ragioni dell’impresa e del lavoro.

[3] Gip Tribunale di Taranto, decreto di sequestro preventivo 25 luglio 2012, n. 5488/10 R. Gip, est. Todisco.

[4] Cfr. in proposito dettagliata motivazione in gip Tribunale di Taranto cit. in nota 2, nonché Id., 30 novembre 2012, n. 5488/10 gip, est. Todisco (rigetto dell’istanza di revoca di sequestro proposta il 20 novembre 2012 da Ilva) dove si citano diffusamente le risultanze delle perizie effettuate nel corso dei vari procedimenti penali, nonché la relazione del 17 ottobre 2012 della Commissione parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti, la quale, approfondendo il caso Ilva, parla di «situazione di gravissima emergenza sanitaria, atteso che gli inquinanti cui la popolazione dell’intera città di Taranto è esposta producono effetti a lungo e a breve termine, con un forte impatto anche sui bambini. In sostanza, oggi e non fra venti anni, i bambini sono soggetti ad a una maggiore incidenza di malattie…».

[5] Gip Tribunale di Taranto, decreto di sequestro cit. in nota 2.

[6] Gip Tribunale di Taranto, rigetto dell’istanza di revoca di sequestro cit. in nota 3. Corsivo nostro.

[7] Oggi, nella sentenza in esame, si tenta una (doverosa) difesa di quel precedente osservando che, in quel caso, «la prosecuzione dell’attività d’impresa era condizionata all’osservanza di specifici limiti, disposti in provvedimenti amministrativi relativi all’autorizzazione integrata ambientale, e assistita dalla garanzia di una specifica disciplina di controllo e sanzionatoria». Non a caso, De Vito, op. loc. cit., osserva che gli adempimenti del 2013 si presentavano «rigorosi ed idonei», ma solo «sulla carta».

[8] Corsivo nostro.

[9] Più volte citata nella sentenza del 2013.

[10] Corte costituzionale 7-16 marzo 1990, n 127.

[11] Consiglio di Stato, sez. 4, n. 4227 del 21 agosto 2013.

[12] Consiglio di Stato Sez. 4, n. 826 dell'8 febbraio 2018.

10/04/2018
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