C’è un piccolo giallo sfuggito alle cronache sulle intercettazioni, che racconta di un clima politico ancora restio a farsi carico (per la propria parte) della trasparenza e della correttezza dell’informazione e disposto invece ad accettare il “mercato nero” della notizia con il suo carico di manipolazioni e strumentalizzazioni. Il giallo tocca un aspetto nient’affatto secondario nel bilanciamento degli interessi in gioco (privacy, diritto all’informazione, indagini) e perciò non è privo di significato politico.
Ecco i fatti: il 2 novembre scorso, quando il Consiglio dei ministri ha approvato il decreto sulle intercettazioni, il testo uscito da Palazzo Chigi non conteneva più la norma che il Ministro della giustizia Andrea Orlando aveva inserito a tutela della trasparenza dell’informazione, anche come effetto naturale della “bonifica” degli atti del pm, del giudice e della polizia giudiziaria, ripuliti del materiale superfluo ai fini delle indagini (e destinato all’archivio segreto). La norma “galeotta”, censurata a Palazzo Chigi, consentiva ai giornalisti di accedere direttamente ai provvedimenti depositati durante l’indagine e non più segreti, in particolare a quelli in materia cautelare. Una modifica certamente minuscola rispetto a quella dell’accesso a tutti gli atti depositati non più segreti, per la quale da tempo si spendono anche magistrati come Giuseppe Pignatone nonché alcuni giornalisti e avvocati, rilanciata a fine luglio da Controcanto [1]. E tuttavia una modifica importante, nel suo piccolo, per la costruzione di un’informazione più trasparente, corretta, autonoma e credibile. Un segnale politico di attenzione al senso profondo di quel bilanciamento di valori, che è, o vuole essere, premessa e scopo della riforma.
Orlando lo aveva capito. Perciò aveva deciso – sia pure sul filo di lana – di giocare quella carta proprio nella delicatissima partita sulle intercettazioni e non in un momento successivo, “forte” del risultato ottenuto con le nuove misure dirette a depurare gli atti della polizia, del pm e del giudice di tutto il sovrappiù, cioè del materiale sensibile e irrilevante destinato ad essere custodito nell’archivio riservato. Il guardasigilli aveva quindi fatto confezionare una norma aggiuntiva all’articolo 114, ultimo comma, del Codice di procedura penale, per legittimare l’interesse dei giornalisti quanto meno alla richiesta del provvedimento depositato e non più coperto dal segreto.
Poca cosa, si dirà. In realtà, si trattava di una breccia nel muro di un sistema tossico di recupero e gestione della notizia, potenzialmente foriero di rapporti opachi e sbilanciati tra il giornalista e la fonte di turno (magistrato, avvocato, polizia, funzionario) e quindi di un’informazione spesso parziale.
Ma la modifica non è passata. Dopo un andirivieni durato qualche giorno, la norma è stata espunta dal testo approvato dal Consiglio dei ministri. A Palazzo Chigi spiegano il veto con una motivazione tecnica (il provvedimento depositato è comunque emesso senza contraddittorio tra le parti), sebbene la norma sia stata sviscerata tecnicamente prima di essere proposta. In realtà, si tratta di una scelta politica, che riflette visioni politiche diverse dell’informazione e dell’esigenza di trasparenza.
Può darsi – ed è fortemente auspicabile – che a questo punto siano le Camere a muoversi, suggerendo al Governo – nel parere obbligatorio ma non vincolante che dovrà essere dato entro il 2 dicembre – di reintrodurre la modifica “galeotta”. Possibilmente in una versione large, in chiave, oltre che di trasparenza, anche di responsabilizzazione dell’informazione e, quindi, di maggiore e migliore tutela degli indagati, dei testimoni e delle vittime. Obiettivo più facile da realizzare con regole trasparenti che non con brandelli di notizie sfuggite al (finto) proibizionismo. I giornalisti, posti tutti sullo stesso piano di fronte alle carte depositate, sono infatti “costretti” a fare i conti con l’oggettività di quelle carte, oltre che con i doveri deontologici sulla pubblicazione del materiale di interesse pubblico.
Sarebbe la novità forse più significativa di tutta la riforma. Che introduce un nuovo “costume giudiziario” in materia di intercettazioni all’insegna di una maggiore responsabilizzazione dei soggetti in campo – polizia, pm, giudice e anche avvocati – a tutela della privacy. Responsabilizzazione che ben potrebbe estendersi ai media, riconoscendone a monte la funzione sociale e dunque l’interesse ad acquisire gli atti non più segreti, superando così il cosiddetto mercato nero della notizia.
Il decreto chiede al pm particolare cautela sia nella selezione degli ascolti rilevanti ai fini del processo sia nella riproduzione dei soli brani essenziali, necessari per richiedere una misura cautelare, sia, infine, nella custodia dell’archivio riservato dove finirà il materiale superfluo destinato a rimanere segreto. Il giudice al quale si chiede l’ordinanza cautelare è a sua volta responsabilizzato perché deve restituire al pm le conversazioni inutilizzabili o irrilevanti allegate alla richiesta di misura cautelare. Oppure deve valutare l’inserimento, su richiesta dell’avvocato, di conversazioni ritenute invece irrilevanti dal pm, sempre che questi non acconsenta subito alla richiesta della difesa. Pertanto, sia il pm che il giudice «sono richiamati – si legge nella relazione illustrativa del decreto – all’importanza di riportare nella richiesta e nell’ordinanza cautelare, ove necessario, soltanto i brani essenziali delle comunicazioni e conversazioni intercettate».
Questa disposizione è una sorta di bussola nella redazione degli atti contenenti notizie (anche) di interesse pubblico. E quindi, secondo il legislatore «obbliga a precise modalità di redazione anche degli atti che in qualche modo possono essere occasione per la divulgazione del materiale intercettativo». Il riferimento è alle informative di polizia giudiziaria. Che, «nel richiamare il materiale intercettativo (magari per prospettare al pm situazioni valutabili ai fini della richiesta di proroga delle operazioni di intercettazione o della richiesta di misure cautelari), devono essere informate agli stessi principi, ove intendano fare uso dei verbali di intercettazioni già formati, e comunque devono essere emendate da indebiti riferimenti testuali, in vista del deposito cautelare o del deposito degli atti a chiusura delle indagini preliminari».
Insomma, il decreto introduce una serie di cautele per una maggiore tutela della privacy, partendo dal presupposto che le intercettazioni servono al processo e che quest’enorme potere invasivo è giustificato esclusivamente dall’interesse in gioco – l’accertamento giudiziale della responsabilità – non anche da quello giornalistico a diffondere le intercettazioni che abbiano un interesse pubblico.
Tuttavia, anche l’informazione è un valore costituzionale da tutelare e il legislatore non può intralciarla (meno che mai censurarla); semmai, deve assicurarne l’esercizio in condizioni di trasparenza e correttezza. Ciò che non ha fatto in questa circostanza, lasciando i giornalisti in una situazione di potenziale subalternità rispetto alle fonti potenziali, con rischi maggiori di strumentalizzazioni proprio in virtù delle nuove misure sulla bonifica e sulla conservazione degli atti. Al contrario, riconoscere ai giornalisti la possibilità di acquisire direttamente gli atti depositati non più segreti, senza doverli “strappare” o “chiedere” a questa o quella fonte più o meno interessata a una rappresentazione parziale della realtà processuale, avrebbe significato tutelare la corretta informazione in uno snodo particolarmente delicato del processo, e al tempo stesso responsabilizzarla in funzione di una maggiore tutela della privacy.
L’omissione rende dunque un po’ meno credibile la riforma, proprio rispetto all’esigenza che l’ha ispirata, e cioè il bilanciamento degli interessi in gioco a tutela della privacy. Si è persa insomma l’occasione per dimostrare di avere a cuore, oltre alla privacy, anche l’informazione, e per riconoscere in concreto l’essenzialità di entrambe per un ordinato svolgimento della vita democratica del Paese.
Al Parlamento, ora, il compito di rimediare.
[1] D. Stasio, Intercettazioni (e non solo): la sfida dell’accesso diretto dei giornalisti agli atti depositati non più segreti, in questa Rivista on-line, 6 luglio 2017, http://questionegiustizia.it/articolo/intercettazioni_e-non-solo_la-sfida-dell-accesso-diretto-dei-giornalisti-agli-atti-depositati-non-piu-segreti_06-07-2017.php
D. Stasio, Processi e informazione. Orlando: «Prima la bonifica dei provvedimenti e solo dopo accesso aperto anche ai giornalisti», in questa Rivista on-line, 25 luglio 2017, http://questionegiustizia.it/articolo/processi-e-informazione_orlando_prima-la-bonifica-_25-07-2017.php.